ACCANIMENTO SU UN DETENUTO NEL CENTRO CLINICO DI MILANO OPERA

Riceviamo e diffondiamo la testimonianza di una persona familiare di un detenuto, Gerardo Schettino, tra il 2018 e il 2023 in regime di 41 bis nella galera dell’Aquila, rimasto PARALIZZATO nel 2021 dopo la somministrazione del vaccino Astrazeneca, da dicembre 2023 declassificato ma tuttora rinchiuso e sottoposto ad accanimento nel famigerato “centro clinico” del carcere di Milano opera.

DIAMOCI DA FARE PER DARE VISIBILITÀ A QUESTA SITUAZIONE! LA MALASANITÀ IN CARCERE È TORTURA!

Assemblea permanente
contro il carcere e la repressione
del Friuli e di Trieste
liberetutti@autistiche.org

Associazione “Senza sbarre”
c.p.129, 34121 Trieste

ARGENTINA: SUL MASSACRO DI BARRACAS

Riceviamo e diffondiamo. Da scaricare, distribuire e stampare.

**QUESTO TESTO CONTIENE VIOLENZA FISICA ESPLICITA E LESBODIO\FOBIA*

Fonte: https://lazarzamora.cl/?p=12429

È stato lo scorso 5 Maggio alle 23:30 a Barracas ( Argentina ) l’assassino lesbicida e aggressore, Justo Fernando Barrientos di 67 anni, compie un esecuzione lesbo odiante contro le sue vicine:
Pamela Cobbas e Mercedes Roxana Figueroa, coppia che condivideva la stanza con Andrea Amarante y Sofía Castro Riglos altra coppia di lesbiche che stava vivendo temporaneamente con loro nel hotel/dormitorio di Barracas. Quella notte l’aggressore, apre la porta della stanza, butta combustibile, e lancia dentro un esplosivo artigianale mentre dormivano, dando fuoco e provocando un grande incendio.

Dopo l’attacco le donne sono state ospitalizzate. Pamela e Mercedes sono morte nelle ore successive all’attacco. Andrea è morta domenica. Sofía è fuori pericolo di vita -resta ospedalizzata con bruciature sul viso e le mani. Secondo i medici risponde bene alle cure.

UCCISE PERCHÈ LESBICHE

Secondo le dichiarazioni dei vicini: Pamela 52 anni, vendeva cosmetici e dolci, viveva apertamente il suo lesbismo, visibilizzando sui social  la lotta le lotte delle dissidenze sessuali. Viveva con Roxana Mercedes anche lei 52 anni, e entrambe “se la cavavano come potevano vendendo cosette”.

Andrea, la terza a morire aveva 43 anni, era sopravvissuta al massacro nel locale República di Cromañón ( concerto del gruppo Callejeros nel quale un incendio aveva ucciso 194 persone e fatto 1400 feriti nel 2004). La “Coordinadora Cromañón” ha denunciato che Andrea non aveva mai potuto beneficiare del “Programma per le vittime di Cromañón” ne di nessun aiuto dopo il massacro. Evidenziano anche che Andrea aveva vissuto in strada una parte della sua vita, vivendo povertà e precarizzazione, cosa che inevitabilmente l’asposta alla violenza.

Il femminicida, secondo i vicini, esprimeva apertamente la sua rabbia ” perchè erano lesbiche”. Altre volte, aveva già agito violenza su un uomo in quanto gay, che aveva finito per andarsene del dormitorio. Nella stessa maniera il lesbicida le aveva già aggredite verbalmente in precedenza, con isulti lesbodianti, grassodianti\fobici, e minacce di morte.

(…)

Sofía, oggi è l’unica sopravvissuta al massacro brutale e lesbodiante in Barracas e ha bisogno del massimo aiuto possibile per poter guarire, ricostruirsi e trovare un nuovo posto dove vivere. Se volete supportare infondo trovate i dati per i bonifici.

Le organizzazioni e\o attiviste della diversità sessuale e di genere di Puelmapu sostengono che ci sono varie angoli e intersezioni in questo orribile e brutale crimine e triplo lesbicidio. Per nominarne qualcuna, la classe, la povertà, la precarizzazione  nel quale si trovano i corpi esclusi dal sistema e dai loro familiari. Il silenzio e la banalizzazione di questo tema nei mezzi di comunicazione ( questo caso come quello del massacro in Palestina dovrebbero essere un putiferio ed uno scandalo mondiale) oltre che essere la conseguenza del rinforzarsi dei discorsi di odio grazie al governo di Javier Milei, conservatore, ultraneoliberale e odiatore delle diversità. Nel corso della sua presidenza è salito del 10% il numero di crimini di odio contro le donne, dissidenti sessuali e di genere, rispetto all’anno precedente.

Lo stato ha storicamente denigrato e scartato i corpi che non riproducono l’eterosessualità, sia progressiste o fascista come è il caso del governo argentino, che concentra i suoi obbiettivi nel rinfozare il capitalismo esterno, l’eterosessualità obbligatoria e l’eteronorma, mettendo a rischio le donne e tutte le persone lgbtiqa+.

A prima vista si nota come il conservatori e il fondamentalismi religiosi tornano ad apparire, dopo anni di lotta e resistenza dei gruppi marginalizzati, come nel caso dei corpi lesbici, delle donne e della dissidenza sessuale. In questo caso il corpo lesbico resta completamente invisibilizzato e categorizzato nella scala più bassa della società per via dei discorsi patriarcali macisti e retrogradi, qualificando come “inrazionali”, malatx,(…).

Collettività, individalità e organizzazioni argentine hanno manifestato in differenti territori per dare visibilità al massacro, denunciando la complicità dello stato con la violenza patriarcale. In altre parti del mondo come: Bolivia e $ile stanno organizzando incontri e manifestazioni per denunciare l’orrendo attacco. Chiamiamo ad agire in tutti i territori e con differenti forme.

Abbiamo bisogno di dire che le lesbiche e lesbichx esistono, che dietro ogni vita ci sono dei sogni, figlx, progetti, amori, tristezza. È necessario mantenerci organizzate, organizzare la nostra autodifesa, esprimersi, appoggiarsi, incontrarci e ritualizzare tanto la morte come la vita, condividere possibilità di sussistenza, coordinandoci contro la precarizzazione delle nostre vite senza mendicare allo sato.

E continuare a prendere parola per quelle, quellx e quelli che non ci sono più.

Per solidarizzare economicamente con Sofía.
Alias transferencia: ACIVIL.NIUNA.MENOS
Asunto: lesbianas.
CBU: 1910027855002701341732
Numero de CC 191027013417/3
Da fuori dal paese:  paypal pcortesntref.edu.ar.
PER ULTERIORI INFORMAZIONI @presenteslatam instagram

Ascolta anche l’approfondimento radio: https://www.ondarossa.info/redazionali/2024/06/triplo-lesbicidio-e-sopravvissuta

BOLOGNA: SU RESISTENZA E REPRESSIONE AL PARCO DON BOSCO

Con un po’ di ritardo ma ancora attuali, riceviamo e diffondiamo queste riflessioni su resistenza e repressione al Parco Don Bosco.

Commento acido al video https://kolektiva.media/w/wYBrSUUKwcG7Fiod7rc5xa

La messa in sicurezza dei cantieri secondo le giunte di sinistra attraverso l’intervento di squadroni di speciali “sostituti tecnici” i quali strizzando le palle e tirando per le tette lavorano strenuamente quali difensori dell’ordine pubblico nonostante le fastidiose interruzioni del servizio da parte dell’inaudita violenza di pericolose frange antagoniste, la stessa “melassa” (o come viene identificata la galassia anarcoide) che pur girando disarmata ancora osa abitare / vivere / ripensare i quartieri dal basso, intromettendosi così in questioni lobbistiche, e ciò addirittura spaziando, come si faceva per le grandi opere, dalla stesura minuziosa di controperizie fino a ingiuriose minacce vandaliche. Per ovviare a questo senso di solidarietà tra generazioni non arrese ed al travalicare della precarietà dell’autogestione tanto da minare la tranquilla mafia degli appalti “metropolitanizzati”, va da sé che a chi protesta contro l’estensione di simili cantieri inutili e non voluti si dovranno accollare esarcerbanti minchiate penali che fungano da deterrente, non tanto delle sollevazioni ecologiste e lotte affini e storicamente intrecciate, ma, in primis, per continuare a disinnescare la coscienza critica dei lettori/elettori, o di quel che resterebbe della cosiddetta “massa popolare” secondo spazi e tempi di pianificazione economica che la vorrebbe silente, passiva, ..conforme. Invece, la comunità di quartiere – e non solo – che si è spontaneamente ritrovata a presidiare il Parco Don Bosco da gennaio, giorno e notte, lasciando qualche traccia più definita dei propri intenti come Comitato Besta, ha da offrire molto di più degli investitori stessi:

e proprio perché va dritta ai nostri cuori – oltre che abbracciando gli ultimi polmoni verdi rimasti – diviene l’ennesima esperienza non vendibile da abbattere senza badare a spese, onde evitare che riesca ad espandere la propria radicalità.

Non cambierà forse la percezione ormai normativizzata dunque, quella alla quale pur quando si riesca ad informarsi sul proprio contesto di vita e sulle prospettive rimaste, non rimangono appigli interpretativi ..se non il finire a recepire le vicende soltanto per il capovolgimento infame che ne fanno le pagine di giornale. Tuttavia, qualche ripresa degli accadimenti in certe situazioni di “scontro” secondo una prospettiva non mediata dagli interessi locali, la si ha da diffondere pure noi..! In questo caso, dall’estrapolato non retribuito si può osservare lo strattonamento di compagnx per tirarlx giù dagli alberi senza mezzi termini, appena arrivati gli esperti del manganello con gli operai, nonché lo sfilamento in altezza delle loro corde tramite motoseghe, il resto del tempo azionate tutti’intorno e nondimeno sotto i punti di imbragatura e appoggio dex compagnx…

[warning, disclaimer, wtf : la professionalità delle truppe da cantiere è tutta merito dell’attenta supervisione nei pestaggi di Marotta e delle promesse di un sindaco che quando ancora fingeva di volere essere conciliante con gli ultimi scorci di lotte ancora aperte già lavorava per conservare la linea del superamento a destra, la decennale politica delle ruspe in salsa bolognese. Ecco perché ci scappa della triste ironia: solo una supercazzola su simili muffe amministrative potrebbe rendere retta(l)mente la descrizione storica di cotanto impegno consiliare]. Ci si augura che certe scene possano smuovere qualcosa dentro.. eppure non dovrebbe essere così necessario documentare, tantomeno dover comprovare le distorsioni operate delle autorità nei confronti della nostra realtà quotidiana, per capire come si svolgono determinati processi urbanistici.

Ma per quanto servi e mandanti cerchino di trasformare molteplici approcci alla resistenza in “tentati delitti” pur di togliere presa all’autodeterminazione collettiva.. si può ancora scegliere da che parte stare.

#lovepeacefuckpolice (cit)

BOLOGNA: VIOLENZA POLIZIESCA IN QUESTURA

A seguito di un fermo di polizia, una giovane di Extinction Rebellion è stata tradotta in questura, e lì è stata fatta spogliare e costretta a fare dei piegamenti, completamente nuda, in un bagno fetido col pavimento ricoperto di sporcizia. Inoltre, sarebbe stato messo a verbale il suo rifiuto di farsi assistere da un avvocato durante la perquisizione, ma secondo la giovane tale domanda non le sarebbe mai stata rivolta. Gli altri attivisti, fermati dopo aver appeso su palazzo d’accursio uno striscione contro il G7, sono rimasti in stato di fermo per 7 ore senza cibo né acqua, infine sono stati rilasciati all’una di notte con denunce come “delitto tentato” o “violenza privata”.

Secondo gli sbirri “è prassi”, “una prassi che avrebbero dovuto applicare a tutti ma che, per gentilezza, sarebbe stata applicata a una sola persona”.

La conosciamo bene la loro prassi fatta di abusi, torture e umiliazioni nelle questure, nelle caserme, nelle celle delle carceri, per le strade. Quella prassi che fa morire persone a forza di botte e colpi di manganello.

Oggi come sempre
Sappiamo chi è STATO

BOLOGNA: VOI DECORO, NOI DE CORE

Aggiornamenti sul processo per alcune scritte comparse sui muri della città durante il corteo dello sgombero dell’occupazione di Via Zago 1, nel maggio 2022. Tre compagnx assolti dall’accusa di minacce.

Giorno 5 luglio si è tenuta l’udienza del processo di primo grado che vede coinvolti 3 compagnx accusati di imbrattamento e minacce private nei confronti del sindaco Matteo Lepore. Quest’ultimo si era costituito parte civile nel processo, chiedendo un risarcimento di 25.000 euro per il danno morale, 10.000 euro di provvisionale nonché di subordinare la sospensione condizionale al pagamento.

Il giudice ha invece assolto lx tre compagnx dall’accusa di minacce “perché il fatto non costituisce reato”, ma li ha condannati al pagamento di una multa di 600 euro a testa per imbrattamento, con la concessione della sospensione condizionale della pena subordinata al ripristino e alla ripulitura dei luoghi o al pagamento delle spese per la stessa ripulitura.

Lepore nel cofano… A quanto vogliamo!

Più forte dell’amore della libertà
C’è solo l’odio per chi ce la toglie

SOLIDARIETÀ DI FRONTE ALLA REPRESSIONE DELLE LOTTE CONTRO I CRA E SOSTEGNO A TUTTE LE PERSONE IMPRIGIONATE

Nell’ambito di un’inchiesta sulle lotte contro la costruzione di centri di detenzione amministrativa (CRA), mercoledì 29 maggio una compagna italiana è stata perquisita e messa sotto custodia dalla polizia. All’uscita dal tribunale, è stata informata che era soggetta a un ordine di rimpatrio (OQTF) per “minaccia all’ordine pubblico” e a un divieto di viaggiare sul territorio francese per 2 anni (ICTF), e che la prefettura chiedeva il suo immediato collocamento in detenzione amministrativa. È stata portata direttamente al centro di detenzione di Mesnil-Amelot, nonostante il giudice istruttore avesse escluso la custodia cautelare.

Durante la detenzione, è stata prima condotta davanti al giudice di pace (JLD), che ha convalidato il suo collocamento nel CRA. L’appello, che ha avuto luogo pochi giorni dopo, ha confermato questa decisione. Infine, è stata rilasciata dal tribunale amministrativo, che ha annullato il suo foglio di via dopo dieci giorni di permanenza nel CRA.

Queste misure sono la continuazione della repressione politica delle lotte contro i CRA, una repressione che è diventata sempre più dura negli ultimi mesi: controlli di identità, arresti durante i presidi di solidarietà, processi, divieti di visita ai CRA. A questo si aggiunge una copertura mediatica montata da giornalisti di estrema destra, e ora assistiamo all’apertura di un’inchiesta, a pratiche di sorveglianza e alla detenzione amministrativa. La prefettura e il Ministero degli Interni non si fermano davanti a nulla, arrivando persino a scavalcare l’indagine giudiziaria in corso per rinchiudere la nostra compagna, nonostante fosse stata rilasciata dopo il fermo di polizia.

Questa pratica di “doppia pena” (giustizia penale + amministrativa) da parte della prefettura è ben nota e riflette le testimonianze delle persone del CRA. Non appena vengono rilasciate dal carcere o anche dalla custodia della polizia, e senza essere prevenute, vengono direttamente rinchiuse nel CRA per ordine della prefettura e, se la procedura va a buon fine, espulse. Questa è l’ossessione di Darmanin, il ministro degli interni francese, e della sua ultima legge, che conferma il naufragio securitario e razzista in corso costruendo la figura dello “straniero delinquente”. Rinchiudere della nostra compagna nel CRA è un buon esempio di una delle principali linee guida della legge di Darmanin: rendere più facile la revoca del permesso di soggiorno, l’emissione di OQTF, la detenzione e l’espulsione di persone con la motivazione vaga, completamente arbitraria e altamente politica della “minaccia all’ordine pubblico”.

Ma non si tratta di una tendenza completamente nuova. Questa motivazione viene usata sistematicamente contro alcuni gruppi di persone europee o con documenti europei. Il semplice fermo di polizia per motivi banali come oltraggio e resistenza può rientrare in questi quadri giuridici vaghi, anche senza che si arrivi a una condanna. I centri di detenzione sono pieni di cittadinx rumenx e bulgarx che ogni settimana vengono deportati nei loro paesi d’origine. La cosiddetta libertà di circolazione nell’area Schengen esiste solo se hai i soldi, se sei abbastanza biancx e se non dai fastidio agli sbirri e a quelli che vengono protetti dagli sbirri.

Negli ultimi anni, la detenzione amministrativa è diventata anche uno strumento di repressione contro gli e le militanti stranierx, europex e non. Ecco alcuni esempi: nel 2016, tre compagne italiane sono state arrestate durante una manifestazione a Calais e messi nel CRA; stessa storia nel 2019, per due compagni italiani arrestati durante presidio fuori dal CRA di Vincennes, ai quali sarà vietato l’ingresso in Francia per 2 anni; qualche mese dopo, un altro compagno italiano è stato rinchiuso nel centro di detenzione di Vincennes per un mese, nell’ambito del movimento dei Gilets Jaunes; più recentemente, nel maggio 2023, una compagna tedesca è stato rinchiusa nel centro di detenzione di Mesnil-Amelot dopo essere stata arrestata durante la manifestazione del Primo Maggio; nel giugno 2023, cinque compagnx antifascistx sono statx anch’essx rinchiusx nel centro di detenzione di Mesnil-Amelot e di Vincennes, usciranno anche loro con dei divieti di accesso al territorio francese (qui un approfondimento).

Dall’inizio delle mobilitazioni per la Palestina e contro il genocidio sionista, questa pratica sembra essere diventata ancora più comune. Nell’ottobre 2023, l’attivista palestinese Mariam Abu Daqqa è stata arrestata a Marsiglia, rinchiusa nel CRA ed espulsa con divieto di ingresso, sempre per “disturbo dell’ordine pubblico”. Molte altre persone sono state arrestate durante le prime settimane del movimento e rinchiuse nel CRA (qui un comunicato al riguardo).

Se lo Stato francese, e in particolare il governo Macron, si è distinto per questo tipo di misure repressive, non è certo il solo in Europa. Per fare un esempio recente: nel maggio di quest’anno, dei e delle compagnx hanno tentato di occupare l’università di Atene, in Grecia, in solidarietà con la resistenza dei palestinesi e contro lo sterminio della popolazione di Gaza. Delle 26 persone arrestate, le 9 che non avevano documenti greci sono state messe nel centro di detenzione di Amygdaleza, dove sono rimaste per una decina di giorni prima di uscire con un foglio di via. Una dinamica simile è in atto in Italia, dove oltre ai centri di detenzione, lo Stato sta ricorrendo anche alle prigioni : da diversi mesi sono detenuti con l’accusa di terrorismo 3 palestinesi per il loro sostegno alla resistenza, uno dei quali è stato inizialmente minacciato di estradizione verso le prigioni israeliane.

Questo elenco è tutt’altro che esaustivo: possiamo solo immaginare quantx militanti stranierx, con o senza documenti, con ile quali non avevamo alcun legame, sono statx repressx ed espulsx dalla Francia (e dagli altri paesi europei) a causa delle lotte che conducevano…

In questo contesto repressivo, c’è una specificità nel caso della compagna italiana arrestata a Parigi : la detenzione amministrativa accompagna un’indagine, ancora in corso, che vuole colpire la lotta contro i CRA e chi collabora alla macchina della detenzione e dell’espulsione. Non possiamo che essere solidali con lei e con tutte le persone rinchiuse nei centri di detenzione, con tutte le persone colpite dal razzismo di Stato e con tutte e tutti coloro che, in vari modi, lottano e attaccano il funzionamento di una vera e propria industria dell’ingabbiamento e dell’espulsione.

Che brucino i centri di detenzione e le prigioni !

(qui la versione originale del testo )

ULTIMA UDIENZA E SENTENZA DEL PROCESSO CONTRO ZAC [11 LUGLIO]

L’11 luglio si terrà l’ultima udienza del processo contro Zac per 280bis (atto di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi) e 270quinques (autoaddestramento). Dalle ore 9.30 avranno luogo prima la requisitoria del pubblico ministero e poi le arringhe degli avvocati. Dopodiché la corte si riunirà in camera di consiglio ed emetterà la sentenza.

Zac è accusato di un attacco al Consolato greco di Napoli avvenuto il 4 marzo 2021, che l’accusa ha ricondotto alla matrice anarchica e inserito nella campagna di solidarietà a Dimitri Koufontinas, prigioniero greco che nel 2021 era entrato in sciopero della fame per molti mesi, rischiando la morte, per contestare la riforma penitenziaria in atto in quel periodo che implicava un netto peggioramento delle condizioni di carcerazione. Nel corso delle udienze si è manifestata tutta l’inconsistenza dell’impalcatura accusatoria, rendendo evidente la natura puramente politica di questo processo, che si basa più sulla personalità dell’imputato che sui fatti contestati. Tant’è che Zac è rimasto sottoposto alle misure cautelari ed “eletto” (senza candidarsi!) alla sorveglianza speciale.

La richiesta di quest’ulteriore misura da parte della questura, prontamente accettata dal tribunale di sorveglianza, conferma l’accanimento politico contro il compagno. A noi appare evidente che in questo caso, come per altre operazioni di repressione del dissenso politico, si è trattato di un modo per ottenere un qualche risultato al di là dell’esito del processo. In generale, è diventato uno strumento sempre più diffuso come mezzo di prevenzione e di controllo sociale.

Insomma, dato che il vero collante dell’accozzaglia di ipotesi investigative e burocrazia poliziesca portati in sede processuale è l’appartenenza del compagno al movimento anarchico, possiamo dire che ciò che viene messo sotto accusa è una determinata identità politica e che il vero obiettivo è la criminalizzazione di tutte le lotte contro il sistema carcerario e la solidarietà ai detenuti in lotta. Non è un caso che la presunta pericolosità di Zac e il suo arresto siano stati motivati dal contesto della mobilitazione contro il 41 bis e in solidarietà ad Alfredo Cospito in sciopero della fame, con l’obiettivo di prevenire possibili coinvolgimenti in una eventuale “escalation” della lotta. Questa operazione si inserisce in una strategia repressiva più ampia che con le stesse caratteristiche ha colpito numerosi compagni e compagne nell’ultimo anno.

Non riconosciamo nessuna forma di distinzione tra colpevolezza e innocenza, che è puro arbitrio di una logica processuale mai neutrale e pieno riflesso dei valori dominanti in un sistema di guerra globale, massacro di popoli e incarcerazione di oppressi e dissidenti. Ciò che invece ci rivendichiamo sono gli ideali, le pratiche, l’identità politica del compagno accusato in cui ci riconosciamo pienamente. Crediamo sia importante rafforzare la solidarietà in un momento di intensificazione della repressione, che nell’attuale contesto di guerra colpisce in maniera sempre più estesa. Per questo invitiamo a una presenza massiccia all’ultima udienza per rendere palese che se l’obiettivo era quello di isolare il compagno non ci sono riusciti e che non c’è rassegnazione tra chi sostiene la lotta contro ogni forma di oppressione.

Anarchice e anarchici

Link PDF: Zac-ultima-udienza-1

AL FIANCO DI JUAN. PER TANTI E TANTI MOTIVI

Diffondiamo

I nostri compagni non li scordiamo mai, Juan libero, abbasso la POLGAI!”

Il 16 luglio prossimo, alle ore 9,30 presso il tribunale di Brescia, inizierà un ennesimo processo contro il nostro amico e compagno Juan Sorroche. L’azione di cui è accusato è un attacco esplosivo avvenuto nel 2015 nella stessa città contro la POLGAI, una struttura in cui si addestrano le polizie di vari Paesi alle tecniche di antisommossa e controguerriglia.

Quando i dispensatori di terrore di Stato si vedono restituire una piccola parte della loro violenza, polizia politica e magistratura lavorano senza sosta per trovare i responsabili di un tale affronto – nessuno osi costrastare il monopolio borghese e statale della violenza! –, al punto che è la terza volta che Juan viene indagato per la stessa azione.

Qual è la massima espressione del monopolio statate della violenza? La guerra. E mentre i diversi complessi scientifico-militar-industriali ci stanno trascinando verso la terza guerra mondiale – di cui il genocidio in corso a Gaza è il capitolo più emblematico e brutale –, le retrovie di questa mobilitazione totale devono rimanere pacificate. Per questo la stretta repressiva verso ogni pratica di lotta non simbolica (pensiamo al drastico aumento di pene per i blocchi stradali e per le azioni di contrasto ai cantieri delle Grandi Opere). Per questo le manganellate contro gli studenti o le rappresaglie padronali-giudiziarie contro i facchini. Per questo le precettazioni in caso di sciopero. Per questo le continue inchieste contro compagne e compagni. Per questo il 41 bis applicato ad Alfredo Cospito. Per questo l’attacco alle idee e alle pubblicazioni anarchiche.

In tempi di guerra finiscono le pantomime garantiste. Lo Stato mostra il suo grugno e il suo maglio. I confini tra fronte esterno e fronte interno si fanno sempre più sfumati; l’immigrato in lotta si confonde con l’antagonista, le sollevazioni nelle periferie incalzano i movimenti antimilitaristi nel ventre della bestia, alle contestazioni nei campus universitari corrispondono le resistenze nei territori colpiti dalla furia estrattivista del capitale.

Ecco un esempio di questi intrecci globali: nella stessa sezione speciale del carcere di Terni dove da anni si trova Juan (e per diversi mesi anche Zac), dal gennaio scorso è rinchiuso il prigioniero palestinese Anan Yaeesh.

Benché la resistenza condotta da Anan nei territori palestinesi sia legittima persino secondo la carta straccia del Diritto internazionale; benché sia noto a tutti che nelle carceri israeliane si pratica sistematicamente la tortura contro i prigionieri palestinesi, il ministro della Giustizia italiano ha accolto la richiesta di estradizione di Anan da parte dello Stato d’Israele, mentre la resistenza armata contro il colonialismo sionista – oggi apertamente genocida – per i giudici italiani diventa “terrorismo”, la stessa accusa con cui si trovano in carcere anche i palestinesi Ali e Mansour, la stessa accusa mossa a Juan per l’azione contro la POLGAI. Ricordiamo allora che questa struttura è attiva a Brescia dal 1974 (anno della strage di Piazza della Loggia) e che nei suoi locali si addestra anche la polizia israeliana. E ricordiamo che in provincia di Brescia (Ghedi) si trova uno snodo fondamentale di quell’imperialismo occidentale attivamente complice della strage senza fine del popolo palestinese: una base NATO in cui sono stipate bombe nucleari in grado di disintegrare popolazioni intere. Il cerchio si chiude.

È importante essere al fianco di Juan contro questo nuovo tentativo di seppellirlo in carcere. Non solo per solidarietà nei confronti di un compagno che ha sempre dato un contributo generoso alle lotte. Ma anche come occasione per rilanciare le iniziative contro il terrorismo di Stato, contro il genocidio in Palestina, contro la guerra globale, la sua economia, la sua logistica, contro la repressione e per la fine del 41 bis. La solidarietà con Juan – e con gli altri compagni e compagne in galera – è per noi parte della mobilitazione da costruire per il futuro processo contro Anan, Ali, Mansour.

Per un’Intifada mondiale delle oppresse e degli oppressi. Per trasformare la guerra dei padroni in guerra ai padroni.

Come abbiamo urlato a Brescia durante i cortei per i cinquant’anni dalla strage di Stato di Piazza della Loggia, “i nostri compagni non li scordiamo mai, Juan Libero, abbasso la POLGAI!”.

compagne e compagni

I TENTACOLI DELLA DETENZIONE TRA GUERRE E COLONIALISMI. NOTE DA UN SUD, TRA SCILLA E CARIDDI

Diffondiamo da Sicilia Noborder:

“Il nemico è potenzialmente chiunque”

Sabato 18 maggio, in occasione del corteo a Villa San Giovanni contro il progetto di costruzione del ponte sullo Stretto, sono apparsi degli striscioni in sostegno alla resistenza del popolo palestinese; in solidarietà ad un gruppo di compagnx in detenzione amministrativa in Grecia, inflitta a seguito dell’occupazione dell’Università di Atene in sostegno alla lotta di liberazione palestinese; ed infine, uno che chiama in causa le responsabilità di ‘Medihospes’, gestrice dell’hotspot di Messina, nelle colonie penali che il governo italiano ha iniziato a costruire in Albania. È infatti impossibile scollegare tra loro detenzione, invasione militare e costruzione di infrastrutture e ‘grandi opere’. 

Come siano intrinsecamente collegati tali dispositivi e collaborino tra loro nell’espansione delle ‘frontiere del capitale’ risulta evidente dal manifestarsi dei più ovvi interessi economici che si malcelano dietro azioni repressive e d’invasione. Infatti, esternalizzazione delle frontiere, localizzazione forzata di persone e presenza di presidi militari a diverse latitudini non sono altro che la manifestazione più materiale dell’alito cancerogeno di sua maestà il capitalismo, cui metastasi sono anche lo Stato e il braccio armato da questo costituito al fine di mantenerne in forze il potere esecutivo. 

Le politiche di morte e colonialismo che il progetto ponte prospetta e rappresenta non riguardano soltanto i territori dello Stretto. Non ci si può, infatti, soffermare solo sulla realizzazione del manufatto, ma bisogna anche tenere bene a mente le prospettive di guerra attraverso le quali si giustifica la costruzione dello stesso (“interesse militare”). Risulta sempre più evidente che l’estrazione di valore ad ogni costo non desideri incontrare opposizioni; arrogandosi la detenzione del ‘vero’ e del ‘giusto’, la loro tecnica vuole imporre un nuovo modo di concepirsi, un nuovo modo di viversi e di pensarsi. Tutti volti alla totale sottomissione a quello che viene definito come ‘interesse pubblico’, che è in realtà la chiara visione di chi concepisce lo spazio come qualcosa da conquistare e le persone come macchine o scarti di cui disporre a propria volontà. Basti pensare a tutta la scia di sangue che le società che oggi costituiscono ‘WeBuild’, hanno sparso e continuano a spargere da decenni dall’Africa all’America Latina. Dove le mega-opere, di carattere prevalentemente idro-elettrico, delle quali la società vanta la costruzione nel suo curriculum, hanno dapprima  cacciato, volenti o nolenti, persone che da generazioni abitavano quei luoghi; e, immediatamente dalla messa in opera di queste infrastrutture, compromesso l’habitat rendendolo inabitabile ad ogni sorta di essere vivente. 

Cantierizzazioni, cemento a tutto spiano, contaminazione delle acque, deviazione dei flussi idrici e ogni altra sorta di devastazione sono stati tutti garantiti e protetti dal fucile di eserciti, polizie e contractors; e da emendamenti e leggi dei governi di quelle nazioni che svendevano terre e persone a questo mostro vorace. Allo stesso modo, manganellate, lacrimogeni e processi fanno da macete nei sentieri impervi della conquista targata TAV o TAC; come anche centri di detenzione, colonie penali e motovedette fungono da ripulisti e messa a guadagno di persone altrimenti nemiche del loro ‘status quo’, dei loro confini, delle loro barriere. A guardarci bene il modello che si replica è sempre lo stesso, un concatemento d’azioni sull’esistente e sulle esistenze tutto volto al guadagno, che nel suo porsi in atto produce e riproduce repressione, morte e devastazione apparentemente irreversibile. 

Non ci si poteva certo immaginare che esistesse legge prodotta da un qualunque Stato in difesa degli espropriati; ad essere tutelato, infatti, è sempre l’espropriante. Ma questo la gente lo sa, nonostante ancora la mano tremolante mendichi talvolta tutela da parte del proprio boia, molte esistenze si ribellano, si rivoltano. Lo dimostrano le strade delle città nel mondo, lo dimostrano le colonne di fumo nero che si ergono dai centri di permanenza per il rimpatrio, lo dimostrano le università occupate, le rivolte nelle galere, le frontiere violate, lo dimostra ogni sguardo incendiario, ogni nuova affinità insorgente.  

Vecchi e nuovi orizzonti detentivi #1 I Cpr e la Palestina

Colonialismo e guerre diffuse sono il trait d’union di un presente mortifero che ci vogliono imporre dalla Palestina allo Stretto, passando per la Grecia e l’Albania. E chiunque voglia opporsi o anche solo dissenta a queste guerre esterne, chiunque metta in discussione la stabilità degli Stati in guerra e delle loro frontiere, diventa immediatamente un nemico interno da reprimere e criminalizzare. Sempre più diffuse e comuni sono infatti misure cautelari e di incarcerazione che erogano a cuor leggero i PM della nostra ‘cara’ repubblica italiana. Ed è in questo scenario che la detenzione amministrativa sta diventando uno strumento man mano più centrale di repressione, flessibile, immediato, veloce. Rivelando così, anche nella “democratica” Europa, la funzione che ha sempre avuto, sin dalla sua comparsa come strumento del dominio coloniale oltre un secolo fa. Strumento repressivo e genocida infatti, la detenzione amministrativa lo è sempre stata, sin da quando a essere confinate erano le popolazioni ancestrali degli odierni Stati Uniti, i contadini insorti contro il dominio coloniale spagnolo a Cuba, il popolo Herero sterminato dai coloni tedeschi nell’odierna Namibia. Questo elenco insanguinato potrebbe continuare.

Riportando lo sguardo al nostro presente, alcuni episodi di questi ultimi mesi indicano la direzione, in Italia e in tutto l’Occidente, dentro e fuori l’Unione Europea. A ottobre, pochi giorni dopo il sette, Mariam Abu Daqqa, storica leader del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, è stata fermata dalle forze di polizia a Marsiglia dove si trovava per una conferenza. Le è stata notificato un decreto d’espulsione dal territorio francese, in quanto considerata soggetto pericoloso capace di causare “gravi problemi di ordine pubblico” ed è stata così rinchiusa in un CRA e poi deportata in Egitto. Sulla stessa linea, in Italia, a Febbraio, Seif Bensouibat è stato licenziato dal liceo di Roma dove insegnava. Dopo aver espresso in chat di colleghi il suo sostegno alla resistenza del popolo palestinese, la sua abitazione è stata perquisita dagli agenti della DIGOS, atto giustificato con il pretesto del sospetto di “terrorismo”. Qualche giorno fa, poi, dopo aver organizzato un presidio insieme ad altrx fuori dall’istituto superiore che lo aveva licenziato, Seif è stato raggiunto da un provvedimento di espulsione a seguito della revoca dello status di rifugiato ed è stato così tradotto nel CPR di Ponte Galeria a Roma (da cui per ora è stato rilasciato). Negli stessi giorni della detenzione di Seif, ad Atene l’Università di Economia, occupata in sostegno alla resistenza del popolo palestinese, è stata sgomberata e 28 persone sono state arrestate. Tra lx arrestatx nove, di cittadinanza europea, sono state recluse in regime di detenzione amministrativa nel centro di Amygdaleza, uno dei più letali della Grecia, con la minaccia di deportazione. Qualche mese fa, poi, la macchina della deportazione ha colpito Jamal, un compagno di Torino che da tempo si organizza contro frontiere e galere. 

Nonostante evidenti differenze sulla linea del colore, la detenzione sta però chiaramente espandendo la sua funzione di soffocamento del dissenso nell’attuale congiuntura di guerra, consolidandosi come uno strumento di repressione interna adattabile e pronto all’uso, mentre il dissenso viene sempre più connotato come terrorismo (come nel caso del sanzionamento della sede di Palermo della Leonardo spa qualificato come atto terroristico). 

D’altronde il dispositivo della detenzione amministrativa trova parte delle sue origini storiche nella catastrofe della costituzione dello stato d’Israele, dove viene sistematicamente usata per tentare di disinnescare la resistenza palestinese. 

In Italia, soprattutto al Sud, i CPR hanno sempre asservito il compito di reprimere chi, soprattutto nelle campagne, si organizza e si oppone allo sfruttamento dell’agro-industria; inoltre, da anni contribuiscono alla repressione di chi si mobilita nei diversi settori della logistica contro quelle forme di schiavitù salariata che, data per scontata dai datori di lavoro, varia di intensità in base al gradiente del colore della pelle della persona sfruttata. I Cpr facilitano anche la speculazione che divora i centri storici delle città siciliane, come a Catania e Palermo. Qui, la turistificazione che incontra la lotta al degrado usa le retate e la conseguente detenzione amministrativa per eliminare dallo spazio urbano chi, razzializzatx, si ostina ad esercitare attività di sussistenza informali, sempre più criminalizzate.

La colonia, terra di frontiera, di saccheggio e gerarchizzazione feroce delle vite, è interamente attraversata da caserme, presidi militari e luoghi di detenzione. La Sicilia, per esempio, svolge le funzioni di una vera e propria piattaforma penale, dove l’industria carceraria e più in generale di detenzione prolifera ininterrottamente; solo nell’isola, infatti, vi sono 23 istituti detentivi e 2 CPR (più il CPRI di Pozzallo), 5 hotspots. Crediamo che tanto nelle sue funzioni di “controllo sociale”, quanto in quelle più espressamente deportative, il CPR mira a punire chi con le proprie azioni e il proprio corpo “indesiderato” mette in crisi la sovranità dello Stato, delle sue leggi, delle sue frontiere e delle sue guerre. D’altronde in questi quasi trent’anni di detenzione in Italia, i CPR sono stati attraversati particolarmente da quelle soggettività che più di tutte rappresentano un’eccedenza rispetto all’ordine ed al decoro della società ‘civile’ (spacciatori, criminali, sex workers, senza tetto, rumorosi, clandestini, e via dicendo). Merce perfetta per il mercato punitivo. Un sistema, quello dei CPR, che funziona in perfetta sintonia con quello delle carceri. In particolare in questi giorni, un pensiero non può che andare a tutte le persone rinchiuse nelle patrie galere perché palestinesi (come Ali, Anan e Mansour, rinchiusi con l’accusa di associazione terroristica e deportabili in Israele) o perché accusate di scafismo, ed in particolare a Maysoon Majidi, una donna curdo-iraniana che ha preso parte alle rivolte delle donne in Iran e che ora si trova nel carcere di Castrovillari, dove ha iniziato uno sciopero della fame, ed a Marjan Jamali, donna iraniana rinchiusa nel carcere di Reggio Calabria con le stesse accuse.

Vecchi e nuovi orizzonti detentivi #2 Il Cpr in Albania

Da 25 anni, però, “criminali” ed “eccedenti” distruggono e devastano i centri di detenzione in tutta Europa, e il loro coraggio è la principale forza che ne mette in discussione l’esistenza. E così, in questi giorni, dal centro di Amygadelza 8 compagnx sono uscite, ma la nona è ancora rinchiusa lì dentro, in sciopero della fame assieme alle persone razzializzate che da giorni hanno dato vita ad una serie di proteste. Così è proprio da lì dentro che ci suggeriscono una modalità possibile di opposizione e rivolta a questo sistema detentivo così intrinsicamente coloniale. 

A gennaio la rivolta al Cpr di Trapani non solo ha distrutto il 90% della struttura, ma, a seguito dei trasferimenti negli altri Cpr d’Italia, ha innescato una nuova serie di rivolte a Caltanissetta, a Roma (dopo la morte di Ousmane Sylla) e a Gradisca. Incendi, rivolte, fughe. I centri di detenzione in Italia oggi operano a capienza drasticamente ridotta (si parla di 50% dei posti resi inagibili), oppure chiudono, come successo a Torino, grazie al coraggio di chi li dentro vi è stato recluso. 

Ed è in questo contesto, che si staglia all’orizzonte la costruzione di nuovi Cpr in Albania. Il piano prevede un hotspot al porto di Shengjin, piccola città in via di turistificazione sulla costa, cinto da mura di quattro metri “per non far vedere cosa succede all’interno” e con tanto di ufficio di Frontex annesso; un centro di prima accoglienza e un Cpr a Gjader, nell’entroterra del paese, nell’area di un ex base militare. Qui sarebbe anche previsto un carcere da 20 posti, per chi oserà ribellarsi. Il tutto sotto la giurisdizione italiana. Italiane sono anche le imprese che stanno guadagnando dalla costruzione di questi centri. I lavori per i prefabbricati di Gjader sono stati affidati alla Ri Group di Lecce, azienda edile che da decenni sparge in giro per il mondo compound e altre strutture per diversi eserciti europei.

Come sempre, lo Stato è protagonista di questa azione tentacolare, imponendo la propria sovranità su un territorio oltre confine; complice delle atrocità commesse da quei secondini, che sono gli enti gestori, aziende senza scrupolo dedite all’accumulo di denaro al costo della vita delle persone. Ad assisterli ci sarà personale di polizia e militare italiano, a differenza di altri lager, come quelli libici, in cui lo Stato italiano ha deciso di versare milioni di euro, in Albania anche i manganelli canteranno l’inno di Mameli. Medihospes, cooperativa di assistenza sociale e sanitaria con sede a Roma, che gestisce l’Hotspot di Messina (oltre a centri d’accoglienza, RSA e altri servizi dell’economia della cura), avrebbe vinto il bando per la gestione del CPR in Albania. Gli “”operatori” di Medihospes saranno inviati per imprigionare uomini e donne nelle moderne colonie penali d’Italia. Giurisdizione italiana, sbirri italiani. Ci finiranno le persone provenienti dai cosiddetti paesi sicuri, la cui lista è appena stata allargata: Albania, Algeria, Costa d’Avorio, Camerun, Egitto, Gambia, Ghana, Marocco, Nigeria, Senegal, Tunisia, Bangladesh e altri paesi dell’area balcanica. Più che paesi sicuri, ci sembrano i paesi di origine di nutrite comunità presenti sul suolo italiano, criminalizzate e spesso refrattarie a farsi assorbire in logiche integrazioniste. 

L’esternalizzazione della frontiera europea è in atto da decenni: i muri spinati attorno a Ceuta e Melilla, l’esportazione di biometria e tecnologie di sorveglianza, la cooperazione con le guardie costiere libiche e tunisine, i tentativi di installare avamposti stabili di Frontex nei paesi africani. Le ragioni dell’esternalizzazione sono sicuramente molteplici: tenere lontane le persone dalla ricca Europa, ridurre le loro “tutele legali”, ma allo stesso tempo disciplinare i cosiddetti “paesi terzi” sotto il giogo neocoloniale dei piani di sviluppo, o di un possibile ingresso nell’Unione Europea. Questo è il caso dell’Albania, ma anche quello della Tunisia e, più di recente, dell’Egitto, o quello che si sta cercando di imporre a diversi paesi africani con il nuovo Piano Mattei. Continuare a imporre i tentacoli coloniali della decadente europa, cercare di fermare, in una maniera che non potrà che essere fallimentare, la voglia delle persone di venire a riprendersi ricchezza in quel continente che da secoli impone sulle vite loro e delle loro genealogie sfruttamento, distruzione e asservimento. È questo l’infame ma disperato tentativo italiano e occidentale.

Crediamo, infatti, che alla base di questi più recenti sviluppi (dagli accordi tra Regno Unito e Rwanda fino a quello tra Italia e Albania) ci sia soprattutto la volontà da parte di chi governa di spezzare le catene della rivolta e della solidarietà che si sono date in questi venti e passa anni tra il dentro e il fuori, che rende sempre più difficile tenere aperti i Cpr sul suolo “sovrano”. A maggior ragione in un momento in cui le strade delle città si riempiono di cortei determinati a condannare l’invasione genocida condotta dallo Stato d’Israele ai danni del popolo palestinese. Cortei, ma anche altri momenti di aperta contestazione, che vedono una sempre più nutrita partecipazione di persone arabe, di seconda generazione, figlie di migranti e magari anche persone che hanno in prima persona conosciuto le barbarie della detenzione amministrativa. Nelle piazze, nelle occupazioni, finanche in semplici discussioni ci si rende sempre più conto del ruolo coloniale dello Stato, lo si fa sempre di più attraverso gli occhi, le parole e le azioni di chi quelle frontiere assassine le ha sfidate e continua a farlo ognigiorno.

Esternalizzare non solo l’apparato poliziesco militare che cerca di impedire il movimento, ma anche i centri di detenzione e deportazione per coloro che in qualche modo sono riuscitx a varcarle le frontiere dell’Europa, è dunque un ulteriore tentativo di indebolire la forza della solidarietà, un tentativo di isolare ancora di più le persone recluse, un tentativo la cui efficacia è ancora tutta da dimostrare. Come se le persone albanesi non esistano, non si opporranno a questa invasione militare pacificata sulla loro terra, non mostrano e non mostreranno solidarietà con le persone recluse (che potrebbero essere loro connazionali, tra l’altro) e contro l’Europa fortezza. Come se queste reti non siano già qua, tra Albania e Italia.

Credono di rompere un tessuto di rapporti tra persone che co-spirano, ossia respirano insieme immaginando mondi con una potenza di cui la realtà burocratica di Stati, nazioni, partiti ha paura. Vedranno rafforzarsi connessioni tra dentro e fuori, tra più sponde del Mediterraneo. 

Orizzonti di guerra

Il ponte sullo Stretto, come anche la costruzione del CPR in Albania, rappresentano la stessa logica d’invasione e repressione che caratterizza sin dagli albori della ‘modernità’ coloniale il pivot di ogni nazione. Conquista di corpi e territori ed estrazione di profitto: nelle galere e CPR, con l’industria detentiva; nei territori martoriati da trivelle e seppelliti dal cemento; nella terra devastata da pale eoliche e pannelli solari; nei non-luoghi della produzione; nelle città e nelle coste dove il turismo distrugge la biosfera ed espelle glx abitanti. La guerra totale che ci stanno imponendo si alimenta con quanto si lascia avvenire in questa nazione: le industrie belliche italiane fanno profitto sul genocidio in Palestina, sui massacri in Sud sudan e nelle altre guerre che i media nascondono; la marina militare italiana interviene in Yemen; il ponte sullo stretto viene salutato dalla Nato che potrebbe così meglio collegare le sue basi militari; la ricerca pubblica finanzia l’affinamento degli strumenti di morte di Frontex e Israele. 

Le ossessive attenzioni nel contrastare le voci di dissenso che si fanno sempre più presenti in giro per il suolo nazionale confermano che la repressione può colpire chiunque e che le distinzioni sono anche distraenti, dannose. Siamo tuttx chiamatx a difenderci dall’esistenza dei confini. Lx compagnx europee che sono state rinchiuse in un CPR greco sono ora marchiate come pericolose sul database SIS di schengen, proprio come avviene per le persone non europee che vengono trovate a varcare o rivarcare i confini esterni e interni dell’Europa. Chi esprime contrarietà alla guerra può ritrovarsi deportatx. Non possiamo dunque considerare l’esistenza di una linea di demarcazione chiara, una netta separazione tra ‘zone di guerra’ e ‘zone di pace’; non possiamo considerare che esistano luoghi veramente esenti dall’agire repressivo di Stato e capitale. Questo, se anche mai sia stato vero, oggi lo è meno che mai. Le formule della repressione vengono apprese da altri Stati ed a sua volta importati all’interno del confine giurisdizionale di altri Stati ancora, questo lo conferma l’apprendistato che il mondo Occidentale fa nell’osservare le formule detentive e coercitive messe in opera dallo Stato sionista, tra le altre cose. 

Imprigionare i e le palestinesi, chi si oppone al genocidio e supporta la resistenza è un tentativo di reprimere la forza della solidarietà tra gli oppressi. Esternalizzare, alla stessa maniera, è un tentativo di rompere le maglie della solidarietà tra gli oppressi. Ma come già abbiamo avuto modo di scrivere, questo tentativo di cristallizzare le resistenze, di frammentarle e disseminarle trova la conferma della sua tendenziale inefficenza nei continui momenti di vicinanza e solidarietà allx prigionierx in ogni luogo del mondo. Ogni incarcerazione accresce la determinazione nell’affrontare questa macchina repressiva, che deporta ed uccide. 

A questo scenario di guerra dobbiamo continuare ad opporci, a noi il compito di mobilitarci contro tutti i padroni nei nostri territori, a partire dai CPR e chi li gestisce, qui e altrove. Le nemiche di questo regno della definizione gerarchica sono ovunque, i nemici del loro pallido sopravvivere si annidano anch’essi ovunque. La ruggine si è già insinuata negli ingranaggi della loro macchina di tortura.

Lottare al fianco del popolo palestinese è lottare anche per la nostra stessa liberazione! 

“Coloro che, quand’anche la libertà fosse interamente persa e bandita da questo mondo, se la figurano e la sentono nel proprio spirito, e l’assaporano e che la servitù disgusta, per quanto bene la s’acconci”– E. La Boétie

Approfondimenti:

– Sul progetto del Ponte: https://nopassaran.noblogs.org/2024/05/cemento-mori/

– Sulle detenzioni in chiave anti-palestinese: https://radioblackout.org/2024/05/prigionieri-per-reati-dopinione/

– Su altri usi della detenzione amministrativa in UE: https://lavampa.noblogs.org/post/2024/05/25/breve-aggiornamento-dalla-grecia-e-riflessioni-a-margine/

– Su altri usi della detenzione amministrativa in Francia: https://www.monitor-italia.it/prevenire-e-punire-altri-usi-della-detenzione-amministrativa/

– Sui Cpr in Albania: https://radioblackout.org/2024/02/arriva-il-via-libera-per-i-cpr-italiani-in-albania/

https://nocprtorino.noblogs.org/post/2024/04/30/podcast-da-harraga-accordo-italia-albania-fra-stratificazione-coloniale-e-devozione/

–  Comunicato della compagna in sciopero della fame nel CPR in Grecia: https://www.rivoluzioneanarchica.it/grecia-sciopero-della-fame-per-la-palestina-nel-centro-di-detenzione-di-amygdaleza/