È notizia recente che sei agenti della polizia penitenziaria imputati nel processo per i pestaggi avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere nell’aprile del 2020, sono stati riammessi in servizio. I sei erano sospesi con stipendio ridotto dal 2021.
PRATO: ENNESIMO SUICIDIO IN CARCERE
Qualche giorno fa, un ragazzo di 27 anni si è impiccato nella sua cella del carcere di Prato. Si tratta del 60esimo suicidio in carcere dall’inizio dell’anno.
GALLICO (RC): CONCERTO NO PONTE!
Diffondiamo:
Ci vediamo sabato 17 Agosto per un’intensa serata in cui trasmigreremo attraverso l’arte i nostri sentimenti verso un’opera di cui non abbiamo certo bisogno.
Dalle 19:00 ci divertiremo con Jam Graffiti, DJ Set, Incursioni Teatrali ed un triplo live tuttigusti più uno: il rap militante di @cyborganafem, le bizzarre fantasie di piacere di @antonio_freno_ in Duo Sfrenato e l’EBM/Industrial dei @yournoisyneighbors che ci farà scatenare 🥵
🛺 𝐒𝐄𝐑𝐕𝐈𝐙𝐈𝐎 𝐍𝐀𝐕𝐄𝐓𝐓𝐀 𝐏𝐄𝐑 𝐂𝐇𝐈 𝐏𝐑𝐎𝐕𝐈𝐄𝐍𝐄 𝐃𝐀𝐋𝐋𝐀 𝐒𝐈𝐂𝐈𝐋𝐈𝐀 per ribadire che la Fata Morgana preferisce ponti di persone (no, non vi stiamo suggerendo quello che state pensando!) a quelli di cemento e acciaio.
📌 CSOA CARTELLA | Via Quarnaro, I (RC)
Sab 17 Agosto | Open 19:00 – Concerti 21:30
TORINO: CONTRO LA RIAPERTURA DEL CPR DI CORSO BRUNELLESCHI SANZIONATA UNA SEDE DI CONFAGRICOLTURA
Di seguito condividiamo un volantino distribuito a Torino il 29 luglio, quando una sede di Confagricoltura è stata sanzionata.
IN SOLIDARIETÀ A CHI LOTTA ED È SFRUTTATO NELLE CAMPAGNE, CONTRO LA RIAPERTURA DEL CPR DI CORSO BRUNELLESCHI, PER SATHNAM, IL 29 LUGLIO UNA SEDE DI CONFAGRICOLTURA A TORINO È STATA SANZIONATA.
Il capitalismo neoliberale si nutre dello sfruttamento massiccio –seppur contingentato nel tempo dalle finestre delineate dalle necessità produttive – di un’ampia fetta della popolazione mondiale, identificata attraverso ben precise linee di oppressione grazie a trappole economiche e ricatti sociali. Tale manodopera a bassissimo costo viene di fatto riconvertita – quando superflua, ingombrante nelle zone della produzione agricola – a individuo produttivo nel business legalizzato delle prigioni di ogni tipo e delle deportazioni, funzionali – anch’esse – alla gestione dei lavoratori in termini di sfruttamento totale delle risorse.
Il ricatto del permesso di soggiorno, la clandestinizzazione forzata di una fetta sempre più ampia della popolazione migrante nonché la criminalizzazione di ogni forma di rivendicazione, dissenso o lotta sono alcuni degli strumenti di cui lo Stato si dota per tentare di far galleggiare la malconcia economia italiana, nonché europea. Anche le campagne piemontesi non sfuggono a queste lampanti dinamiche e non sono altro che uno dei tanti luoghi in cui il connubio tra datori di lavoro e organi amministrativi, prefettizi e questurini dettano i tempi della miseria a cui larga parte della popolazione migrante è costretta.
La retorica mediatica criminalizzante delle persone in viaggio senza documenti europei fornisce inoltre le basi ideologiche razziste che legittimano l’assoggettazione estrema, di alcune categorie, all’economia e alla società neo-liberale: nient’altro che la Colonia a queste latitudini.
C’è un materiale di base che struttura i dispositivi che premono sulle vite delle persone migranti: è importante palesarne le connessioni, mostrarle nude sul piatto dei consumatori avvolti nel privilegio di potersi non fare domande.
Sotto il cocente sole estivo, i braccianti che stanno raccogliendo mirtilli, pesche e mele nel distretto della frutta più grande della regione – il saluzzese- sono senza casa e spesso dormono fuori, sotto quotidiano controllo e intimidazioni delle forze dell’ordine. Ad Alba e nelle Langhe del Barolo, i braccianti vengono sgomberati, ricattati e picchiati nei campi. I prodotti d’eccellenza delle benestanti campagne piemontesi sono prodotti ovunque con lo sfruttamento di manodopera immigrata a basso costo, di persone che lavorano senza contratto o con contratti miseri, senza alloggio e trasporti garantiti dai contratti collettivi. E se comuni e regione spendono centinaia di migliaia di euro di fondi pubblici per qualche container per l’”accoglienza diffusa”, le associazioni datoriali, Confindustria e Coldiretti in primis, tacciono le proprie responsabilità. Quando a fine stagione di raccolta questa manodopera spremuta fino all’osso – sempre al limite di morire di lavoro,- diviene inutile, eccedente, traducibile in altre filiere del guadagno privato e statale, intervengono le forze dell’ordine e gli organi amministrativi che zelanti rastrellano strade, accampamenti, ghetti di fortuna, campi e con retate mirate trasferiscono i braccianti in un nuovo abisso: o nuovi ghetti e nuovi distretti agroindustriali da nord a sud o la questura, il CPR, la deportazione.
Questi dispositivi detentivi, espulsivi e torturatori fungono inoltre da perenne monito ai liberi affinché non alzino la testa, non si ribellino al gioco dei padroni o non solidarizzino con chi a queste, o altre latitudini, lotta, resiste e si ribella.
Solo la chiusura del CPR di Torino nel Marzo 2023 ha potuto, forse, regalare un briciolo di aria in più, garantendo un lasso di tempo con meno retate, con meno capienza detentiva amministrativa nel Nord Italia: con più libertà.
Ma i padroni per essere tali han bisogno di prigioni e deportazioni ed ecco che – in tempo per la fine della prossima stagione di raccolta nei campi del cuneese – riaprirà, a inizio Novembre, il CPR di Corso Brunelleschi.
Opporsi alla sua riapertura è possibile. Tracciare i nessi di senso tra lo sfruttamento nei luoghi di lavoro e il ricatto del permesso di soggiorno e della clandestinità, è un passo nella direzione di attaccare al cuore il razzismo sistemico.
La macchina dello sfruttamento, del razzismo, delle espulsioni e delle torture dentro i lager di Stato ha una lunga lista di responsabilità e complicità. I padroni dell’agricoltura, i lobbisti della filiera del cibo, le aziende, cooperative, società per azioni specializzate nel business della detenzione; le istituzioni che trattano le persone che migrano da una parte come corpi per alimentare le varie filiere del guadagno capitalista – dall’agricoltura, ai centri di detenzione e semi-detenzione, alle deportazioni-, dall’altra come un problema d’ordine pubblico, da marginalizzare nascondere e cacciare; i sindacati e le associazioni conniventi che traggono profitto dal mantenimento dello status quo.
Solidarietà a chi lotta nelle campagne, chi distrugge i CPR e chi sfugge alla violenza delle frontiere.
PDF: Le prigioni che servono ai padroni
https://nocprtorino.noblogs.org/post/2024/07/31/le-prigioni-che-servono-ai-padroni/
SUI MOTI IN KENIA E SULLA RIAPERTURA DEL CPR DI CORSO BRUNELLESCHI A TORINO
Condividiamo due approfondimenti andati in onda su Harraga, trasmissione su Radio Blackout. Il primo riguarda i moti in Kenya, il secondo si concentra sulla riapertura del CPR di Corso Brunelleschi a Torino.
Un racconto sui moti di piazza in atto in Kenya
Se il video delle fiamme che avvolgono la sede del Parlamento del Kenya a Nairobi è – di per certo – stato visto da moltx; meno sono stati i momenti in cui si è riusciti a contestualizzare quell’attacco al cuore del potere dentro una cornice di senso che racconti come ha potuto crescere una consapevolezza talmente chiara, in una larga fetta della popolazione kenyana, tale da non avere dubbi sui propri passi e sui termini delle priorità di lotta.
E’ difficile, a queste latitudini, comprendere i moti di piazza e i gesti materiali di chi, all’altezza dell’equatore attacchi il potere con letture dell’esistente alquanto differenti dalle categorie a cui siamo abituati a riferirci.
Nel tentativo di cogliere la potenza di questo momento abbiamo chiesto, a chi vive le piazze del Kenya, di raccontare ai microfoni di Harraga – trasmissione contro frontiere e CPR in onda su Radio Blackout – cosa sta succedendo.
Le fiamme che si alzano da quegli edifici e il coraggio di chi sfida i proiettili della polizia in Kenya parlano di un bisogno di distruggere sia i resti violenti della Colonia che fu, sia i presenti immanenti della neo-colonia di oggi. Non si possono leggere quei gesti e quella capacità di restare in strada dinanzi alla violenza spietata della controparte, senza parlare del lascito brutale, inoculato e lacerante del passato coloniale e – men che meno – della spietata predazione avida delle potenze neo-coloniali occidentali oggi.
Ancora una volta con le orecchie tese ad ascoltare le parole di chi – oppresso lungo la linea del colore e della classe – in un mondo asfissiante, attacca responsabili, simboli ed esecutori materiali della miseria che viene imposta a larga parte della popolazione mondiale – ai microfoni di Harraga tre vocali direttamente dal Kenya ci raccontano cosa sta succedendo.
Ascolta il podcast qui:
Sulla riapertura del CPR di corso Brunelleschi
È passato poco più di un anno da quando l’inverno torinese fu scaldato dal fuoco che portò alla chiusura del CPR di Corso Brunelleschi e ad oggi la riapertura di quel luogo di vessazioni e tortura è imminente.
Dal bando di gara relativo alla gestione e al funzionamento del centro di permanenza e rimpatrio di Torino, consultabile alla sezione amministrazione trasparente del sito della Prefettura sabauda, l’apertura sembra essere prevista per il 1° di Novembre 2024. L’importo stimato dell’appalto è di € 8.517.432,00 relativi a 24 +12 mesi, aggiudicabile, come sempre al ribasso, da quelle aziende che proporranno l’offerta tecnica più vantaggiosa. I lavori di ristrutturazione sono iniziati il 5 Febbraio 2024 e ad ora le aree ultimate o in fase di ultimazione sono 2, l’area rossa e l’area blu, per una capienza di 70 posti. Il bando prevede la possibilità di un ampliamento della capacità detentiva da 70 a 150 posti ossia per una totalità di 4 aree.
In questa puntata di Harraga, in onda su Radio Blackout, abbiamo provato a ripercorrere alcuni passaggi di quelle giornate di lotta del Febbraio 2023 che hanno scosso il capoluogo piemontese, dimezzando la capacità detentiva dei CPR del nord Italia.
Ascolta il podcast qui:
MA QUALE RIVOLTA? (OVVERO VIETATO CALPESTARE L’AIUOLA)
Riceviamo da Bologna e diffondiamo:
Premesse
Vorremmo indirizzare queste parole non solo alla rete di Rivolta Pride, con cui già ci siamo confrontat3 in diverse occasioni sia interne al percorso di costruzione del Pride sia esterne (come l’assemblea chiamata dalla CAT), ma anche a tutte le altre realtà e soggettività queer che sono parte del movimento ma fuori da questo specifico contesto o che ancora non hanno cercato e/o trovato un posto al suo interno. Vorremo quindi provare a spostare il piano della discussione al di fuori del semplice noi-contro-loro, cercando di avviare una riflessione più ampia e di coinvolgere tutte quelle persone che non si sentono rappresentate da questa “rivolta”, o che attivamente cercano di navigare e comprendere un movimento che forzatamente vuole riconoscersi in quei moti rivoltosi, invece di ammettere di essere stanco, stagnante, autoreferenziale e inadeguato rispetto ai bisogni di molt3.
La critiche che muoviamo oggi non sono rivolte a specifiche realtà e/o persone: nomi e cognomi sono stati già trattati in altre sedi e non ci teniamo a dare nuovamente la possibilità di sviare la discussione su ciò. Ribadiamo infatti che la responsabilità ricade su tutte le associazioni, collettivi e singol3 che di quella rete fanno parte, che, conniventi, non sono stat3 in grado di allontanare e/o difendersi da concezioni e comportamenti che in quel luogo non dovrebbero trovare il minimo spazio. Parliamo di connivenza perché, come abbiamo già detto altrove, i fatti sono stati denunciati in presenza di quella stessa rete; e se ci si vuol attribuire il reato di non aver partecipato interamente al percorso politico (l’obbligo di firma non ci era stato comunicato), rispondiamo che lo abbiamo fatto perché, alla luce di frizioni su tematiche politiche per noi dirimenti e immobilità organizzativa, non ritenevamo possibile un cambiamento sostanziale che partisse dall’interno di quella stessa assemblea. Al contrario, come in tant3 in questi anni abbiamo visto e vissuto sulla nostra pelle, c’è una sistematica invisibilizzazione di istanze e pratiche alternative a quelle egemoniche. Abbiamo quindi deciso di sottrarci a quel gioco politico imbrigliante e di decidere noi e per noi, dove possiamo avere davvero spazio decisionale.
La lentezza e inadeguatezza nel rispondere a quella che è la situazione materiale attuale degli spazi che attraversiamo ha nuovamente visto, come conclusione, il manifestarsi di un’ondata di violenze che hanno attraversato il corteo dal pomeriggio fino ad arrivare ai party sponsorizzati della sera. Ci interroghiamo quindi nuovamente su quel tentativo di responsabilizzarci, mentre siamo di fronte a un’assemblea che non solo rallenta i tentativi di attivazione reale di pratiche di gestione delle molestie e presa in carico collettiva di cura e autodifesa, ma tace sulle suddette violenze. Riteniamo anche che i discorsi sulla “politica dal basso” e sull’autogestione delle persone all’interno del corteo siano in questo caso vuoti e nocivi; delegare l’autodifesa, di qualsiasi tipo, senza convididere collettivamente prima degli strumenti è sintomo di una visione che non riesce ad andare oltre al proprio privilegio.
Chi siamo
La nostra rete – la Crisalide – è nata spontaneamente in seguito all’assemblea pubblica chiamata dalla CAT per il 24 giugno (“QUESTA NON E’ RIVOLTA”). Quella data ha fatto sì che un gruppo sciolto e sparso di compagn3 TFQ si mettesse in contatto, cospirasse insieme e agisse direttamente.
Siamo crisalidi perché aspiriamo e tendiamo a sfarfallare in un mondo libero da Stato, capitalismo e patriarcato.
Siamo crisalidi perché autodifes3 da strati autoprodotti e resistenti; perché autogestit3.
Siamo crisalidi perché mimetich3; la nostra sopravvivenza è garantita dall’informalità in cui operiamo e dalla multiformità dei nostri involucri, che si adattano in base al contesto.
Sui fatti del 6 luglio 2024 e la nostra incompatibilità
Come Crisalide, abbiamo cercato di trovare uno spazio per le nostre voci, all’interno della dimensione del Pride, con modalità antagoniste, conflittuali e di critica aperta, ma che non mettessero in pericolo né noi né le persone che nel corteo si muovevano. Abbiamo deciso quindi di aprire uno striscione per ogni porta attraversata, con messaggi diretti alle politiche di gentrificazione e cementificazione della città, alla speculazione sui corpi trans*, alle violenze insabbiate e allo sgombero di spazi queer autogestiti. Per ogni striscione aperto qualcunx volantinava e poco prima dell’arrivo del corteo ai Giardini Margherita abbiamo piazzato un gazebo al piazzale Jacchia, con altri volantini e un banchetto di Riduzione dei Rischi in compagnia del Lab57. Eravamo tutt3 consc3 della portata dei messaggi e di quella che sarebbe stata la loro posizione, a livello logistico. Eravamo anche preparat3 a eventuali contestazioni, ma non ci saremmo mai aspettat3 un attacco violento partito dalla testa del corteo, e di questo ci sentiamo in dovere di parlare.
All’apertura dell’ultimo striscione, che recitava “Ma quale rivolta…con chi sgombera spazi queer autogestiti”, posizionato davanti alla storica sede di Atlantide, un gruppo di persone si stacca dalla testa del corteo per raggiungere l3 due compagn3, sol3, che reggevano lo striscione. La discussione è stata inizialmente intrisa di paternalismo e nonnismo, con domande quali “Voi c’eravate quando noi eravamo dentro/quando è stata sgomberata?”. Alla fermezza dell3 compagn3, che hanno cercato di portare la discussione sul piano politico, sono seguiti, con modalità molto più aggressive, insulti personali, strattoni (volti anche a togliere lo striscione dalla presa dell3 compagn3) e riprese col cellulare ai volti. Tutto questo ha anche attirato l’attenzione di una manciata di sbirri; francamente fatichiamo a non pensare che, in seguito a un’ipotetica escalation, avrebbero fermato l3 due compagn3 dal momento che in quell’istante erano loro “l3 intrus3” e ci stupiamo, ma neanche troppo, che nessunx tra l3 aggressor3 si sia preoccupatx di ciò.
Ci domandiamo come uno striscione che denuncia la legittimazione di sindaco e sbirri all’interno del Pride possa causare un’aggressione simile verso due compagn3. Se è vero che lo striscione è stato aperto in Porta Santo Stefano anche, come detto prima, per un fattore simbolico, è altrettanto vero che Atlantide è solo uno dei tanti spazi che negli ultimi anni hanno vissuto sgomberi per mano di giunte sempre più repressive.
Rigettiamo le logiche proprietarie e autoreferenziali rispetto alle pratiche di autogestione. Le occupazioni sociali sono spazi in cui creare campi di possibilità nuovi e di rottura con l’esistente, non luoghi atti a riprodurre sbilanciamenti di potere tra chi ha avuto la possibilità di vivere determinate stagioni politiche e chi no. Negli anni, il progressivo assorbimento dell’autogestione nei perimetri legislativi ha determinato l’impoverimento generale delle esperienze politiche in città. Noi tante esperienze non abbiamo avuto la possibilità di viverle proprio per le scelte che altr3 prima di noi hanno fatto, determinando la desolazione dai tratti “partecipativi” a cui assistiamo oggi.
Ci piacerebbe anche riflettere su una domanda che ci è stata posta durante l’aggressione: “Sapete cosa vuol dire trigger?”. Sappiamo bene cosa significa. Lo sapevamo, e lo sapevate, quando abbiamo raccontato le nostre esperienze in privato all3 compagn3 e alle assemblee. Lo abbiamo vissuto durante il corteo, vedendo sfilare allegramente quelle stesse realtà e persone di cui vi avevamo parlato. Lo abbiamo vissuto quando ci avete ignorat3, quando avete auspicato un confronto ma poi avete accettato a braccia aperte la loro presenza appena la nostra è svanita. Lo abbiamo vissuto quando le compagne transfem hanno subito attacchi transmisogini e nessunx ha detto niente. Lo abbiamo vissuto quando abbiamo visto sfilare molesti e violenti nonostante li avessimo segnalati più volte, difesi strenuamente perché “fatti così” o perché (fintamente) “decostruiti”. Lo abbiamo vissuto quando abbiamo assistito all’ennesima passerella di un sindaco legittimato a partecipare dopo aver sguinzagliato sbirri contro ogni tipo di dissenso. È sempre comodo nascondersi dietro allo slogan “cura transfemminista” quando riguarda solo voi, no?
Se già prima criticavamo il Rivolta Pride a causa delle dinamiche e degli elementi interni, oggi non possiamo che notare e sottolineare l’incompatibilità dei nostri percorsi. L’aggressione e la posizione di difesa che l’assemblea ha assunto verso la stessa sono solo l’ennesimo anello nella catena delle pratiche prevaricanti ed escludenti che fermentano indiscusse al suo interno. E dato che, per quanto i fiori e l’erba siano cambiati, è ancora vietato calpestare quell’aiuola, allora ne andremo a costruire una nuova, un po’ più in là.
Di seguito il testo di un volantino diffuso durante il Rivolta Pride:
Forse sono passati troppi anni dai Moti di Stonewall.
Forse è passato troppo tempo da quando la polizia picchiava e arrestava trans* e frocie, lesbiche e drag queen, perché ritenute dalle istituzioni pericolose e offensive. C’è stato un momento in cui la nostra comunità è insorta e con rabbia ha rivendicato il suo diritto ad esistere, in maniera strana e non conforme, in maniera caotica e spaventosa.
Oggi questa storia sembra essere stata dimenticata.
Certo, la prima volta fu rivolta, ma questo capitalismo estrattivista e patriarcale ci ha messo poco a capire la pericolosità sovversiva dei nostri corpi non normati e si è mosso velocemente per blandirli e spegnerli, per raggiungere un compromesso che garantisse la sopravvivenza di entrambi.
Oggi anche i corpi diversi diventano normali.
Puoi essere gay, lesbica, trans* o quello che vuoi, il potere patriarcale ti ha concesso degli spazi in cui poter esistere senza nasconderti: in quasi ogni città italiana sorgono locali, vie e a volte perfino quartieri dedicati alle persone queer, in cui la stranezza che ci portiamo addosso può essere tranquillamente ingaggiata in un lavoro o può essere spesa per aiutare a far girare l’economia. Finalmente essere frocie è normale e in ogni dove il Pride che fu rivolta si trasforma in una grande festa. Rigorosamente a giugno (o al massimo una settimana prima/dopo) carri su carri sfilano nelle grandi città esibendo al mondo tutti i modi per essere diverse… o forse tutti i modi normali per essere diverse.
In Italia il Pride è diventato un’istituzione sponsorizzata dalle grandi multinazionali e dai palazzi del potere: a Milano vedi cantare Elodie con Elly Schlein sul carro, a Roma incontri perfino Giuseppe Conte, al Toscana Pride la polizia manganella gruppi di persone queer radicali su richiesta degli organizzatori e a Bologna… a Bologna va in scena la più ipocrita delle carnevalate.
Il Rivolta Pride si presenta come auto-organizzato dal basso, come portatore di istanze radicali e come rappresentante dell’intera comunità queer, ma chiunque abbia provato a partecipare al suo pecorso di costruzione sa che queste sono solo belle parole. Nelle assemblee sono evidenti delle gerarchie precise che decidono cosa si può dire e cosa si può fare, sono presenti associazioni che spesso usano una pretesa apoliticità per nascondere posizioni liberali e apertamente a sostegno delle forze dell’ordine, sono presenti locali che non hanno nessun interesse al di fuori della spendibilità dei nostri corpi, sono presenti persone notoriamente violente e moleste protette dai loro collettivi. Manca l’autogestione, manca l’orizzontalità, mancano l’inclusività e la trasparenza delle scelte che si prendono. Manca lo spazio per un qualsiasi confronto che metta in discussione lo status quo che si è formato in città.
Dopotutto all’interno della bolla di questa comunità sembra che a Bologna essere queer sia facile, che il sindaco sia amico, che la polizia ci protegga, che le associazioni facciano tutto il necessario e che dopotutto abbiamo guadagnato abbastanza privilegi da poterci accontentare.
Al di fuori di questa bolla però i nostri corpi continuano ad essere abusati, a non trovare casa, a perdere il lavoro. Continuano a doversi nascondere per paura, rinunciano ai momenti di socialità perchè gli unici posti in cui è okay essere/essere vestite in un certo modo ti chiedono 20/30 euro per entrare. C’è chi interrompe il percorso di affermazione di genere perchè gli ormoni costano troppo, perché sono troppo difficili da trovare o perchè la patologizzazione che i centri di transizione – chiamati anche non a caso “transifici” – portano sistematicamente avanti è umiliante e a tratti direttamente transicida.
Fuori dalla bolla di questa comunità restano abbandonate a loro stesse le persone povere, le persone arrabbiate, le persone abusate e quelle politicamente schierate contro il sistema capitalistico. Restano fuori da questa comunità perchè chi ha potere al suo interno non le vuole. Restano abbandonate a loro stesse perchè sembra che mettano in pericolo i privilegi guadagnati con anni e anni di compromessi al ribasso.
Noi non ci stiamo.
Condanniamo i compromessi accettati da altri che ci vengono imposti come inevitabili.
Sputiamo su chi, protetto da accordi istituzionali, continua a prendere parola e spazio nelle piazze marginalizzando per l’ennesima volta i corpi non conformi che già vivono il disagio della povertà e della discriminazione.
Ci dissociamo dalle retoriche svilenti di chi godendo del suo privilegio bianco e borghese rifiuta di supportare chi ha bisogno di spazio e visibilità.
Sappiamo che non c’è orgoglio in un Pride e in una bolla che protegge stupratori e molesti senza alcun tipo di autocritica, responsabilizzazione o giustizia trasformativa.
Oggi ci prendiamo il nostro spazio all’interno di un corteo che troviamo misero in quanto a contenuti e coerenza e pericoloso nel modo in cui continua a depotenziare pratiche che nascono e si sviluppano nella sovversione dello status quo.
Faremo sentire le nostri voci furiose e coltiveremo le nostre relazioni avendo cura di rispettare i nostri tempi e i nostri bisogni.
Non abbiamo fretta perchè sappiamo di star combattendo contro dinamiche secolari e ben radicate.
La comunità gay che si fonda su pratiche predatorie, le varie associazioni mitemente liberali disposte a svendere qualsiasi coerenza in cambio di uno spazio, i vari locali che lucrano sui nostri momenti di socialità privatizzandoli e rinchiudendoli in 4 mura sorvegliate da qualche guardia, tutto questo è nel nostro mirino. Si godano quest’ultima festa perchè non tollereremo ancora per molto la strumentalizzazione svilente e violenta che agiscono su di noi.
Oggi ripartiamo dal nostro territorio, il nostro corpo, per risanarlo e dargli la forza e la possibilità di essere coltivato nei prossimi giorni e nei prossimi mesi. All’inizio dell’autunno raccoglieremo i frutti del nostro lavoro e ci riprenderemo le strade e le piazze di Bologna per essere apertamente orgogliose in tutti i modi che il Rivolta Pride ha cercato di boicottare.
Guardiamoci in faccia, parliamo tra di noi e continuiamo a cospirare.
Non c’è lotta senza lotta di classe, non c’è speranza senza un’ecologia pratica dei territori e delle relazioni, non c’è movimento senza gli strumenti di cura transfemminista. Non c’è liberazione sessuale se non si contrasta la normalizzazione/assimilazione avanzante.
Contro ogni norma e ogni stereotipo rivendichiamo il nostro essere mostruos3 e ci poniamo nella tradizione di Pandora: tremate perchè siamo pront3 a scoperchiare ogni vostro vaso.
BOLOGNA: MEZZ’ORA D’ARIA [RADIO]
Diffondiamo:
Domani sabato 20 luglio alle 17:30 su Mezz’ora d’aria, sulle frequenze di Radio Citta Fujiko (FM 103.1), una nuova puntata per rompere l’isolamento del carcere, raccontare e ascoltare le lotte dei e delle prigioniere, e cercare di sostenerle da fuori.
Uno spazio a disposizione delle persone private della libertà, e di chi gli è accanto : potere scrivere per fare dediche, proporre canzoni, comunicare quello che succede dentro.
Per scrivere a Mezz’ora d’aria: Mezz’ora d’aria, presso radio città Fujiko,
Via Zanardi 369, 40131, Bologna
E-mail: mezzoradiliberta@autistici.org
https://www.autistici.org/mezzoradaria/
Dopo questa puntata, si riprenderà a fine settembre/inizio ottobre.
BOLOGNA: SUGLI STUPRI IN VIA CARRACCI 63
Riceviamo e diffondiamo:
Qualche settimana fa ci siamo svegliatx con l’ennesima notizia terrificante: una donna ha subito degli stupri all’interno di un’occupazione abitativa a Bologna. Immediatamente è stata tolta centralità al vissuto della donna ed è iniziato un susseguirsi di ulteriori violenze: strumentalizzazioni, narrazioni stigmatizzanti, invisibilizzazione, negazione dello stupro, colpevolizzazione della vittima.
Contro la retorica giornalistica, non temiamo di dire che ci posizioniamo nettamente al fianco di chi sceglie di occupare sottraendo stabili abbandonati dallo stato o dai privati a un inevitabile decadimento e ci opponiamo all’inasprimento delle pene (come il decreto sicurezza approvato nel novembre 2023 che impone fino a 7 anni di carcere per le occupazioni abitative). Per questo lo vogliamo gridare chiaramente: RIFIUTIAMO L’USO STRUMENTALE DELLA VIOLENZA DI GENERE PER ATTACCARE LE PERSONE CHE VIVONO IN CONDIZIONI DI POVERTÀ E CHE SCELGONO DI AUTODETERMINARSI ATTRAVERSO LA PRATICA DELL’OCCUPAZIONE.
Lo scenario che si è aperto è il seguente.
Da una parte i giornali hanno riportato il fatto con toni razzisti e stigmatizzanti sia rispetto alle pratiche dell’occupazione sia rispetto alla precarietà che gli occupanti vivono a causa di un sistema capitalistico e classista. Hanno negato l’autodeterminazione delle persone razzializzate non servili che esprimono la propria rabbia in modalità che sfuggono al controllo e per questo ritenute pericolose.
Dall’altra parte, la Destra non ha esitato a manipolare ancora una volta la violenza di genere: lo stupro diventa un cavallo di troia perfetto per la politica razzista e classista che non ci pensa due volte a rendere mostro chi non ha una casa e, davanti alla negazione del diritto all’abitare che il progressismo finge di concedere, decide di prendersi ciò che gli spetta.
In una logica perversa, se la donna che subisce violenza è anche una donna che subisce razzializzazione, ciò che avviene è un attacco diretto alla comunità di riferimento. Una narrazione che ben conosciamo, profondamente coloniale e fascista, in cui la donna risulta essere nulla più che uno strumento utile alla riproduzione dello stato nazione. Il nemico è sempre fuori di noi, che sia una persona povera, nera, che viva in occupazione.
La nostra lotta solidale per il diritto all’abitare – anche e soprattutto quando questa decide di oltrepassare le forme legaliste – non può però farci tacere di fronte all’ennesimo caso in cui , ancora una volta, chi costruisce politica basandola sempre sulla cultura degli uomini non è solidale con noi, donne, trans e froc3 che subiscono quotidianamente sulla loro pelle una rete complessa di violenze. Perché se si parla di diritto all’abitare, vogliamo che venga presa in considerazione la complessità che viviamo nelle nostre vite e le violenze che possiamo subire all’interno delle nostre case perché, come ben sappiamo, spesso lo stupratore ha le chiavi di casa.
Quanto successo ci pone di fronte alla contraddittorietà dei tempi in cui viviamo – anche se non vogliamo – e a come le riproduciamo profondamente, a quanto siano vive in noi.
Ciò che risulta più sconcertante e non può in alcun modo essere taciuto è che la dichiarazione che i giornali rilasciano da parte dell’avvocata di riferimento di PLAT – mai smentite – è che le violenze sono false, una vendetta per l’allontanamento della donna da parte dellx compagnx dall’occupazione per il suo uso di sostanze. Una donna di cui si ricorda solo la dipendenza da sostanze e la maternità, fattori che, se congiunti, immediatamente diventano deterrenti per creare l’immagine di una donna inattendibile e con lei le sue parole.
Allora ci chiediamo: com’è possibile che l’assunzione di sostanze basti per non credere alla donna che ha subito violenza e anzi, al posto di darle sostegno, viene colpevolizzata, ulteriormente stigmatizzata e lasciata sola? Com’è possibile che se è l’uomo violento ad averle assunte, le sostanze diventano la perfetta giustificazione? Non ci siamo ripetutx per anni nelle piazze che l’uomo violento non è malato ma è il figlio sano del patriarcato? E invece, in questa interrelazione tra violenza di genere e proibizionismo, la colpa è ancora una volta della donna.
Com’è possibile che dopo anni di lotta transfemminista venga ancora portata avanti la retorica che una donna è valida solo se è una brava madre, mentre se fa uso di sostanze viene improvvisamente meno la sua credibilità?
Per questo riteniamo l’atteggiamento del movimento coinvolto proibizionista, sessista ed estramamente violento. Ancora una volta, non solo dalla Stato e dai Giornali, ma anche dai “compagni”, vediamo agire vittimizzazione secondaria contro le nostre sorelle solo perché non sono le vittime perfette, perché rompono i piani, reagiscono a ciò che subiscono, perché non si arrendono al potere maschile e alla normalizzazione della società.
Abbiamo atteso per settimane una smentita di tali orrende dichiarazioni, un passo indietro su ogni singola parola pronunciata, ma al suo posto c’è stato solo un sordido silenzio. Al contrario, siamo state costrette a leggere un testo di lancio all’iniziativa di oggi, 18 luglio, di PLAT, un comunicato strabordante di paroloni e vuota retorica in cui, ancora una volta, non si prende parola sullo stupro e sulle dichiarazioni che negano e sminuiscono la voce della donna che ha subito gli stupri, agendo ulteriore violenza, questa volta da parte della comunità.
Quel testo è per noi solo una vetrina in cui si è voluto mostrare la propria bravura e dedizione alla causa e che, in barba a ogni analisi e pratica transfemminsita, osa appropriarsi dello slogan “Sorella io ti credo”. Ma settimane fa non ci era stato invece detto che non solo non le si credeva, ma che il suo era un tentativo di ritorsione?
Si crede alle sorelle solo quando queste risultano utili per proteggere interessi altri – che non contemplano la cura delle soggettività femminilizzate – ma che vogliono solo tutelare i “compagni” e le loro lotte.
Per questo siamo chiamat3 a dirlo di nuovo, forte e chiaro: LA RESPONSABILITÀ POLITICA DI QUESTA DINAMICA È ANCORA UNA VOLTA COLLETTIVA. Uno stupro che avviene all’interno di una comunità è qualcosa di profondamente drammatico e doloroso, non solo per la donna che ha subito le violenze, ma anche per il suo contesto di prossimità. Non banalizziamo il dolore e la fatica: anche noi abbiamo avuto vicino persone violente e sappiamo quanto sia straziante stare a contatto con ciò che lo stupro porta con sé. Ma il punto è la presa in carico collettiva che si fa davanti alle violenze.
In un gruppo politico che dovrebbe rappresentare un luogo trasformativo rispetto a certi processi si fischietta l’antico motivetto che fa da colonna sonora allo Stato: bisogna difendere la società.
Davanti a un trauma enorme che ha prodotto una frattura così significativa, con buona pace del nostro sentire rivoluzionario, si riproduce in una perenne continuità quotidiana la brutalità patriarcale.
Le narrazioni portate avanti e le azioni agite mettono in evidenza la problematicità delle strutture organizzative chiuse che millantano l’intersezionalità delle lotte, ma che in realtà settorializzano la collettività nelle loro pratiche e quando serve a salvarsi la faccia la strumentalizzano, stigmatizzando in maniera proibizionista le individualità che attraversano i loro spazi…null’altro di diverso dai metodi narrativi di Stato e media.
Salvarsi la faccia e negare le proprie responsabilità vuol dire anche considerarsi esenti dalle dinamiche del sistema patriarcale, negarne la pervasività, negare la possibilità di poterle facilmente riprodurre.
Risulta chiaro ad oggi che la violenza di genere è qualcosa di profondamente divisivo, anche all’interno dei contesti che dichiarano di contrastarla quotidianamente.
Intenti e politiche si mostrano anche nel riconoscere la possibilità che avvenga una violenza, prenderne atto e non invisibilizzarla. Dichiararsi transfemministi e rivendicarne i principi non basta! Cavalcare slogan e date non ci rende impermeabili al patriarcato. Portare avanti due campagne di mobilitazione all’anno non rimedia alle violenze agite ogni giorno. Non basta supportare alcune soggettività o vissuti, solo quando sono vicini a noi o ci sono utili, mentre in questo caso la tutela e il sostegno della persona sopravvissuta passa in secondo piano rispetto alla causa dei “compagni”.
Si sovrappongono dunque più piani di stigma che si incarnano nel genere, nel razzismo, nel classismo e nel proibizionismo.
Se da una parte sono i giornali a mettere tra parentesi l’esistenza di una donna facendo della violenza avvenuta uno strumento per colpire l’occupazione abitativa; dall’altra parte, i compagni, preoccupati nel salvarsi la faccia, negano e invisibilizzano la violenza cercando di colpire direttamente la donna, colpevolizzandola e screditandola. Si alimenta così una visione distorta della donna, la cui identità e storia vengono sballottate tra giudizi screditanti e poi buttate in strada come strumento per il comodo di tutti fuorché per sostenerla. Di nuovo, una donna che ha subito violenza e il fatto che si sappia, diventano un ostacolo per chi la vuole sotto controllo. Di nuovo, denunciare la violenza rivela la possibilità quasi certa di subirne altre.
Lo diciamo a gran voce: sorella, che tu venga definita drogata, madre snaturata, ragazza difficile o ingrata, noi ti crediamo.
Alla donna che ha subito tutto questo va la nostra più sincera vicinanza.
Cagnacce rabbiose complici e solidali
TRIESTE: MORTO UN DETENUTO
Apprendiamo della morte di un detenuto nel carcere Ernesto Mari di Trieste, dove qualche giorno fa è scoppiata una rivolta: le persone recluse hanno protestato contro le scarsissime condizioni igieniche e sanitarie della struttura, il caldo insopportabile e il sovraffollamento. Quattro detenuti sono poi stati portati in ospedale, di cui uno con un’intossicazione dovuta al fumo dei lacrimogeni.
Pochi giorni fa, un detenuto è stato trovato morto nella sua cella. I media mainstream parlano di un’ “overdose di metadone” a seguito del saccheggio dell’infermeria durante la protesta: come per le rivolte che infiammarono le carceri di tutta Italia nel 2020 durante la pandemia di COVID-19, assistiamo al solito teatrino volto ad imputare ai detenuti stessi la causa della loro morte, e finalizzato a deresponsabilizzare guardie e dirigenti, perché al carcere è evidentemente riconosciuto il diritto di uccidere!
Sempre al fianco di chi lotta
IN CARCERE NON SI MUORE, SI VIENE UCCISI!
NUOVA EDIZIONE ANARCOQUEER: FHAR “Distruggere la sessualità / Culi indiavolati”
Diffondiamo:
E’ disponibile la quinta uscita delle edizioni Anarcoqueer,
FHAR “Distruggere la sessualità / Culi indiavolati”
Dal retrocopertina:
“Distruggere la sessualità” e “Culi indiavolati” sono tra i testi più
potenti e profondi prodotti dal FHAR (Fronte Omosessuale di Azione Rivoluzionaria), entrambi usciti sul mitico numero di Recherches del marzo 1973, che creò scandalo e fu distrutto dalle autorità. I due testi esplorano il massacro che il capitalismo ha compiuto sui nostri corpi e sui nostri desideri, il livello di addomesticamento a cui li sottomette quotidianamente. Per capire cosa ostacola la liberazione dei corpi e del desiderio anche nelle persone queer, è necessario allora indagare cosa ossessiona l’immaginario omosessuale: le sue rappresentazioni, i suoi archetipi, i suoi binarismi, i suoi fantasmi, anche il fantasma di ciò
che esso sostiene di non desiderare.
72 pagine, 6 euro a singola copia,
4 euro da cinque copie in su
Collana Le Affinità Elettive
Parte del ricavato del libro sarà benefit per prigionierx e progetti queer, transfemministi, antispecisti, anarchici.
Per info e ordini: anarcoqueer@riseup.net
http://anarcoqueer.noblogs.org