“ALLARME DROGA” ED “EMERGENZA SICUREZZA” ERRICO MALATESTA ANTIPROIBIZIONISTA [1923]

In un testo del 10 agosto del 1923 Errico Malatesta su Umanità Nova (numero 181), con disarmante semplicità, snocciolava i principi base dell’antiproibizionismo.

Si poneva il problema della cocaina.

In sintesi Malatesta constatava come il grido d’allarme di esperti e scienziati contro il pericolo della cocaina si traducesse nell’ottusa richiesta continua di nuove e più severe leggi, nonostante l’esperienza avesse sempre, invariabilmente dimostrato che mai nessuna legge, per barbara che fosse, è mai valsa a estinguere fenomeni problematici, che invece malgrado le leggi e forse proprio a causa delle leggi, si estendono.

Senza nessuna banalità, evidenziava quanto il punire severamente consumatori e venditori non avrebbe fatto altro che aumentare negli speculatori l’avidità del guadagno, che sarebbe cresciuta ancora con l’inasprimento delle leggi.

Di conseguenza affermava quanto fosse inutile sperare nella legge, e proponeva, nel 1923, un altro rimedio: dichiarare l’uso ed il commercio libero, aprire “spacci” dove la sostanza fosse venduta a prezzo di costo, e poi fare riduzione del rischio, informazione, nessuno avrebbe fatto propaganda contraria, scriveva, perché nessuno avrebbe potuto guadagnare e speculare sull’uso di sostanze.

E ancora molto lucidamente non si illudeva: con questo non sarebbe sparita la possibilità di un uso dannoso della sostanza, poiché le cause sociali che creano le dipendenze non sarebbero sparite, ma in ogni modo il male sarebbe diminuito, perché nessuno avrebbe potuto guadagnare sull’uso di droga, e nessuno avrebbe potuto speculare sulla caccia agli speculatori.

Così concludeva:

“La nostra proposta o non sarà presa in considerazione, o sarà trattata da chimerica e folle. Però la gente intelligente e disinteressata potrebbe dirsi: poiché le leggi penali si sono mostrate impotenti, non sarebbe bene, almeno a titolo di esperimento, provare il metodo anarchico?”

CONTESTI DI CURA O LUOGHI DI TORTURA? UN DOSSIER SULLA FONDAZIONE STELLA MARIS

Riceviamo e diffondiamo un dossier sulla fondazione “Stella Maris”- Istituto scientifico, Ospedale specializzato e Centro di assistenza – che di fatto gestisce, in appalto da Università e Asl nella provincia di Pisa, l’assistenza e la cura dei disturbi e delle disabilità dell’infanzia e dell’adolescenza.

Una fondazione dalla fortissima impronta cattolica  in prima linea nel crescente e preoccupante fenomeno della medicalizzazione e della psichiatrizzazione dell’infanzia. Vediamo infatti le giovani generazioni sottoposte da un lato al fuoco incrociato di una catalogazione in categorie mediche che spieghino in termini “scientifici” il loro distacco dal feticcio della normalità e, dall’altro, al conseguente uso dilagante e in crescita esponenziale di psicofarmaci che attaccano e minano la salute psicofisica con effetti devastanti per la vita futura.

Non solo, nell’utimo anno il Collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud ha rotto il silenzio intorno agli abusi avvenuti nella struttura di Montalto di Fauglia: si parla di aggressioni fisiche e verbali, trattamenti degradanti quotidiani, spintoni, schiaffi, minacce e vessazioni costanti. Tra gli ospiti della struttura ricordiamo Mattia, morto nel 2018 per soffocamento in seguito al blocco della glottide dovuto alla somministrazione prolungata ed eccessiva di psicofarmaci. I continui cambi di terapia avevano comportato disfunzionalità e rischi al momento dei pasti di cui la famiglia – in lotta per la verità contro l’omertà e gli interessi che proteggono questa mega istituzione – non era mai stata informata.

Nonostante ciò la Stella Maris continua a ricevere  abbondanti finanziamenti e onorificenze dalla Regione Toscana e ad essere considerata un’eccellenza a livello nazionale. Il 20 gennaio 2022 il Comune di Pisa ha rilasciato alla Fondazione il permesso per costruire un nuovo enorme centro, in prossimità dell’Ospedale Cisanello, nella periferia pisana.

All’interno del Dossier due testi:
– “Che cos’è Stella Maris”
– “Generazioni da sedare – il ‘caso’ ADHD – Ritalin – Progetto Prisma”

Qui il testo PDF Dossier Stella Maris
Qui un opuscolo a cura del Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud sulla storia di Mattia La storia di Mattia

Qui il comunicato diffuso dalla Rete Antipsichiatrica  al presidio che si è tenuto di recente a Brescia contro la violenza che regola la vita all’interno di moltissimi centri residenziali “di cura” per persone con disabilità o fragilità psichica. Luoghi dove la contenzione fisica e farmacologica è consuetudine e dove le prepotenze sono ordinarie e strutturali: dai maltrattamenti nella struttura di Montalto di Fauglia gestita dalla Stella Maris, agli abusi all’interno delle strutture della Cooperativa Dolce di Bologna, fino agli orrori della Comunità Shalom, nel bresciano. Riteniamo sia importante non spegnere i riflettori su una violenza così estesa, capillare, non episodica, accettata e sostenuta quotidianamente dal silenzio di tanta società “civile”.

Sul sito del collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud altri riferimenti utili https://artaudpisa.noblogs.org/post/category/dossier-stella-maris/

UNA GRAVE STORIA DI VIOLENZA MEDICA AL CARCERE DI PARMA

Riceviamo e diffondiamo la storia di Sereno Quirino, detenuto da sedici anni nella casa circondariale di Parma.

Mi chiamo Luca Sereno e scrivo per denunciare il trattamento a cui è sottoposto mio padre, Sereno Quirino, detenuto da 16 anni nella casa circondariale di Parma. Negli ultimi anni, ha affrontato gravi problemi di salute, tra cui dischi intervertebrali schiacciati lungo la spina dorsale, calcificazione delle rotule della gamba destra e sinistra, 6 tumori benigni rimossi tra intestino e colon, macchie nere nei polmoni e varie altre patologie.

All’arresto, 16 anni fa, mio padre non presentava alcuno di questi problemi, ma ora è costretto a utilizzare stampelle e, in alcuni giorni, una sedia a rotelle. Durante i processi, viene trasportato in ambulanza e giunge in tribunale sdraiato su un lettino a causa dei suoi gravi problemi di salute.

Dopo molte lotte e richieste con il mio avvocato, siamo riusciti a ottenere visite più complete e specializzate per le sue patologie presso il Centro dei Dolori. Prima di queste visite, a mio padre venivano somministrati diversi medicinali, tra cui Seroquel da 200 mg (tre pastiglie al giorno, quindi 600 mg), Irika, Stinox, Contromal e molti altri. La sua cartella clinica è estremamente complessa, e anche ricordare tutti i farmaci a memoria risulta impossibile.

Questo per evidenziare la difficile situazione di salute di mio padre, che necessita di cure adeguate e di un’attenzione particolare da parte delle autorità penitenziarie. Riusciamo a farlo visitare al Centro dei Dolori, dove dopo esami specializzati per i suoi dolori, gli viene prescritto il cerotto di Fentanil. Questo cerotto rilascia il principio attivo nel corpo per tre giorni, successivamente viene cambiato. Inizia con il dosaggio da 25, poi passa a quello da 50 e infine a quello da 100. A ciò si aggiungono i suoi medicinali “di sempre”, con l’eccezione del Contromal, che viene sostituito dal Fentanil in cerotto.

Circa 3-4 mesi fa, mio padre viene sottoposto a un controllo al Centro dei Dolori. Durante questo controllo, la dottoressa, senza spiegazioni, decide di interrompere tutti i medicinali, compreso il cerotto di Fentanil, in un periodo di soli 9 giorni. Questo avviene dopo anni di assunzione regolare, e la rapida diminuzione delle dosi, senza alcun adeguato scalaggio, solleva interrogativi sulla motivazione di una scelta così drastica. È evidente che una persona che ha assunto dosi così elevate di medicinali derivati dalla morfina e oppiacei per molti anni potrebbe reagire in modo significativo a una interruzione così improvvisa e completa del trattamento. Restiamo perplessi e ci chiediamo quale possa essere il motivo dietro una decisione così radicale, specialmente considerando gli anni di somministrazione di questi farmaci. Mio padre non ha certo guarito miracolosamente da un giorno all’altro; al contrario, la sua situazione è peggiorata. È come se andaste dal medico con la febbre e, anziché prescrivervi una normale tachipirina o effettuare esami specialistici, vi privasse improvvisamente del trattamento. Questo esempio, seppur semplice, mira a illustrare la gravità della situazione. Una dottoressa ha compiuto un gesto simile, togliendo tutto senza apparente motivo. Benché conoscessimo il motivo, senza prove non possiamo dichiararlo apertamente. È evidente che si tratti di qualcosa di più, poiché anche un bambino comprenderebbe che un’azione del genere equivale a tortura.

Dopo quel giorno, mio padre ha subito un intervento per rimuovere polipi e tumori (sei in totale, tra colon e stomaco). Sorprendentemente, dopo l’operazione, non gli è stato somministrato alcun antidolorifico o sollievo. Abbiamo presentato denunce, ma le risposte sono state deludenti, come il commento della dottoressa che ha dichiarato di pensare di aver aumentato il cerotto. Questo è solo un esempio delle risposte ricevute.

Ho deciso di condividere questa storia su una pagina Facebook dedicata ai diritti dei detenuti, accompagnata da foto che documentano quanto accaduto. La trasformazione di mio padre da prima di quel tragico giorno a ora è evidente durante le videochiamate, quando lo vedo in una sedia a rotelle, senza parlare e soffrendo visibilmente. La sensazione di impotenza di fronte a questa situazione mi distrugge, e il dolore che sto vivendo è straziante. Mio padre sta morendo lentamente davanti ai miei occhi, e mi sento totalmente impotente. Dopo questo articolo pubblicato su Facebook, una ragazza dell’Associazione Yairaiha ETS, contatta la garante dei detenuti di Parma, che visita immediatamente il carcere per comprendere la situazione. Nonostante le rassicurazioni iniziali, viene promesso a mio padre un sostituto del cerotto con lo stesso principio attivo come antidolorifico. Tuttavia, questa promessa si rivela una presa in giro, poiché dopo diverse settimane, mio padre è ancora nella stessa situazione.

La garante, chiedendo aggiornamenti, riceve risposte ingannevoli, affermando che tutto è a posto. In realtà, a mio padre è stato somministrato solo uno psicofarmaco che, anziché alleviare il dolore, lo ha reso quasi catatonico. È vergognoso vedere come invece di fornire un antidolorifico di cui mio padre ha estremo bisogno, venga somministrato un farmaco che lo sta trasformando in uno stato quasi vegetativo. Fortunatamente, mio padre ha rifiutato questo psicofarmaco, dimostrando una lucidità che sembra mancare nelle decisioni della struttura penitenziaria. La situazione che mio padre sta vivendo è un chiaro caso di tortura, una pratica inaccettabile. Nonostante gli sforzi della garante dei detenuti, la presa in giro continua, e nemmeno le informazioni sui medicinali somministrati vengono fornite chiaramente.

Chiedo a chiunque legga questo testo di aiutarmi. Non sto cercando la liberazione di mio padre né sconti di pena; è responsabile delle sue azioni e deve affrontare le conseguenze. Tuttavia, non merita di essere sottoposto ad una simile tortura. Non sto chiedendo l’impossibile, solo giustizia e un trattamento umano. La sua salute è in serio pericolo, e non posso rimanere inerte, aspettando che la situazione peggiori.

Vi prego, chiunque possa aiutare, chiunque possa fare qualcosa, vi chiedo aiuto. Non so più a chi rivolgermi, mi sento impotente. Questa non è solo una questione di diritti umani, ma di umanità. Spero che la vostra solidarietà possa portare a un cambiamento positivo per mio padre.

Di Luca Sereno, ( figlio di Quirino Sereno)

BOLOGNA: MICROZAD AL PARCO DON BOSCO

Cosa ci fanno delle casette sull’albero al Parco Don Bosco? Perché c’è sempre gente, iniziative e socialità? Cosa succede a Bologna accanto alle Scuole Besta? Di seguito un piccolo racconto, sicuramente parziale e non esaustivo, dell’inedita resistenza che sta vedendo protagonista un parco e i suoi abitanti, nel contesto del cemento bolognese.

Da diversi mesi un comitato di cittadinx è riuscito a rompere il silenzio intorno al progetto di “riqualificazione” delle scuole Besta. Parliamo di oltre 18 milioni di euro per abbattere decine di alberi ad alto fusto, distruggere la fauna presente, non ristrutturare e demolire la scuola esistente, e ricostruirne una nuova accanto – “green” – asfaltando il parco. Un vero capolavoro.

Il 16 dicembre 2023 circa duecento persone tra abitanti e giovani del quartiere, collettivi e realtà ecologiste, cittadine e cittadini in lotta contro il Passante di mezzo, e un’idea di città escludente ed esclusiva, hanno attraversato il quartiere San Donato in corteo per dire no alla devastazione del Parco Don Bosco. Sono state organizzate iniziative, momenti di incontro e confronto, oltre che costanti presidi per impedire l’inibizione dell’accesso al parco.

Il 29 gennaio, quando operai e municipale si sono presentati per recintare definitivamente l’area in vista degli abbattimenti, un gruppo di cittadinx si legato agli alberi, mentre le abitanti del quartiere hanno divelto le recinzioni per impedire l’allestimento del cantiere. Da quel giorno il Parco Don Bosco è presidiato costantemente, animato da iniziative, momenti di incontro e libera socialità, colazioni, pranzi, cene, merende, bricolage, sculture in legno, casette sull’albero, tende, tessuti, trapezi, musica e discussioni!

Una situazione assolutamente inedita e singolare per le nostre latitudini, soprattutto all’interno di contesti iper-urbanizzati, una vera e propria micro ZAD in città – Zone a Defendre, Zona da difendere – inserita come un cuneo tra i palazzi della fiera e i progetti dell’amministrazione, in cui abitanti del quartiere, di età e generazioni diverse, si stanno incontrando, vincendo pregiudizi e paure, non solo per difendere un parco, ma contro un modello di sviluppo insensato che annienta la vita di individui, territori e comunità, e un’idea di città “green” come il colore dei soldi. In barba a chi avrebbe già voluto vederlo distrutto, il Parco Don Bosco oggi è più vivo che mai!

ZAD – Zone a Defendre, Zona da Difendere – è un neologismo francese che indica quelle occupazioni che hanno lo scopo di bloccare progetti dannosi e nocivi per comunità e ambienti, rendendo possibile, qui e ora, la riappropriazione collettiva da parte delle comunità dei territori che abitano, oltre le logiche del consumo e del profitto.

Qualcuno non aveva fatto i conti con una comunità ostinata!
Siamo tuttx invitatx a presidiare il Parco!

IL PARCO DON BOSCO NON SI TOCCA!

Alcunx abitanti in lotta


Testo in PDF: MICROZAD AL PARCO DON BOSCO

BOLOGNA E RESIDENZE PSICHIATRICHE: ANCORA ABUSI E MALTRATTAMENTI

Di recente l’Assemblea della Rete Antipsichiatrica ha fatto emergere gli abusi e i maltrattamenti che regolano la vita all’interno di moltissimi centri residenziali per persone con disabilità o fragilità psichica: dai maltrattamenti avvenuti nella struttura di Montalto di Fauglia gestita dalla Stella Maris, passando per gli abusi all’interno delle strutture della Cooperativa Dolce di Bologna, per arrivare agli orrori della Comunità Shalom di Brescia.

Dopo gli abusi che hanno visto coinvolta di recente la Cooperativa Dolce, di nuovo a Bologna si parla di maltrattamenti sistematici all’interno di una residenza psichiatrica: persone legate a terra con del nastro isolante, utilizzo punitivo della così detta ‘camera morbida’ su ospiti ritenuti particolarmente ‘problematici’, chiusi anche per giorni, somministrazione di farmaci in dosaggi superiori rispetto a quanto prescritto.

Questa volta si tratta di una struttura socio-assistenziale per persone con disagio psichico di Bazzano, in Valsamoggia, gestita dalla cooperativa Altius. A seguito della denuncia di un ex dipendente la struttura è stata chiusa e le persone trasferite in altre strutture.

Sono state emesse sei misure cautelari nei confronti della direttrice e di altri cinque dipendenti, indagati a vario titolo per maltrattamenti e sequestro di persona. La direttrice si trova attualmente ai domiciliari, i cinque dipendenti della struttura hanno invece ricevuto un provvedimento di divieto di avvicinamento alle persone offese.

Sappiamo che nessuna sentenza e nessun tribunale metterà fine o scalfirà questa violenza. È importante non spegnere i riflettori su una brutalità così estesa, capillare, non episodica, rompere il silenzio che sorregge questi abusi, che non sono episodi, ma più spesso la prassi che regola queste strutture.


Link:

https://assembleareteantipsichiatrica.noblogs.org/post/2023/10/02/residenze-psichiatriche-abusi-maltrattamenti-e-uccisioni/

https://www.bolognatoday.it/cronaca/maltrattamenti-sequestro-persona-struttura-sanitaria.html

https://www.lastampa.it/cronaca/2023/10/21/news/pazienti_maltrattati_nel_bolognese_venivano_legati_e_chiusi_in_un_seminterrato_ai_domiciliari_una_responsabile_e_altri_5_i-13800822/

DUEMILA EURO PER ACCEDERE AL SERVIZIO SANITARIO

I cittadini extracomunitari residenti in Italia dovranno versare un contributo di 2mila euro all’anno per iscriversi al Servizio sanitario nazionale. L’importo sarà ridotto solo per chi ha il permesso di soggiorno per motivi di studio.

Link: https://www.osservatoriorepressione.info/manovra-bilancio-migranti-dovranno-pagare-2000-euro-accedere-al-servizio-sanitario/


Aggiornamento:

In merito al contributo di duemila euro per l’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale, qui un’avvocata specifica cosa prevede il provvedimento e quali  categorie di permesso saranno coinvolte.

ANTIPSICHIATRIA: I MORTI NON SONO TUTTI UGUALI

Puntata del 10 ottobre di ri-Congiunzioni, trasmissione dedicata alla salute di, da, con e tra tutti e tutte.

Partendo da due comunicati pubblicati dalla Rete Assemblee Antipsichiatriche proviamo a riflettere sulla morte della psichiatra Barbara Capovani e sulle violenze che si sono verificate in Stella Maris, Comunità Shalom e Cooperativa Dolce.

 Link alla puntata QUI

Link ai comunicati della rete antipsichiatrica:

– In questo paese i morti non sono tutti uguali QUI

– Residenze psichiatriche: abusi, maltrattamenti, uccisioni QUI

MOUSTAFÀ FANNANE, ENNESIMA VITTIMA DEL SISTEMA CPR

 

Riceviamo e diffondiamo la vicenda di Moustafà Fannane, ennesima vittima del sistema CPR. Per noi non ci sono né ombre né dubbi, sappiamo chi è stato.

Moustafà Fannane: ennesima vittima del sistema CPR

Ovvero una morte sospetta per abuso di psicofarmaci dopo la detenzione in un Centro Per il Rimpatrio

Il 19 Dicembre 2022 a Roma è venuto a mancare Moustafà Fannane, classe 84, originario della città marocchina di Fqih Ben Salah. Ennesima morte sospetta per abuso di psicofarmaci.

Moustafà era giunto in Italia nel 2007, come molti suoi conterranei alla ricerca di un futuro migliore, e per un periodo di tempo aveva svolto una vita regolare fatta di lavoro al fine di aiutare la famiglia in Marocco in grave difficoltà economica. Descritto dai suoi conoscenti come persona gentile e educata, nel 2014 comincia ad avere delle difficoltà, perde il lavoro e l’alloggio. Come se non bastasse in questa situazione drammatica e precaria nel 2015 viene raggiunto da un decreto di espulsione, circostanza che non sarebbe mai stato in grado di affrontare dal punto di vista legale viste le condizioni in cui versava.

Nel 2019 viene trattenuto per sei mesi presso i Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) di Roma e Torino. Nell’estate 2020 nonostante la sua condizione di disagio psicologico e socio-economico verrà nuovamente condotto nel CPR. Molti residenti, nel quartiere Torpignattara a Roma dove viveva, hanno giudicato tale misura del tutto ingiusta e inappropriata nei confronti di una persona che aveva bisogno di cure e sostegno. Nell’agosto 2022 viene nuovamente arrestato e condotto nuovamente nel CPR. Verrà ritenuto idoneo a rimanere recluso. Durante questo ultimo trattenimento, in contatto con una sua conoscenza lamenterà di essere affetto da un gonfiore a carico del volto di cui non sa spiegare il motivo, circostanza notata poi da molte altre persone una volta uscito le quali sono rimaste molto sorprese dalle sue condizioni definite come qualcosa di simile a un abuso di psicofarmaci, apatia, pallore. Nella documentazione rilasciata dal centro ai legali dei familiari non risultano fogli di dimissioni, pertanto dopo 3 mesi di terapia basata sulle 25 – 50 gocce giornaliere di Diazepam, Moustafà viene rilasciato senza nessuna indicazione terapeutica o prescrizione di visita specialistica. Verrà rinvenuto in strada privo di sensi e troverà la morte nell’ospedale Vannini a sole tre settimane dal rilascio dal CPR.

Sappiamo bene che sono gli psicofarmaci lo strumento principale di gestione delle persone recluse nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio dei migranti. Antiepilettici, antipsicotici, antidepressivi e metadone: “servono per stordire donne e uomini in modo che mangino di meno, restino più tranquilli e resistano di più al sovraffollamento, nelle gabbie in cui vengono stipati. All’ente gestore gli psicofarmaci costano meno del cibo e permettono di riempire maggiormente i CPR e allungare il tempo di permanenza di ciascun migrante nella struttura, in modo da aumentare i guadagni”. Presso i CPR “non sono previste attività, le giornate sono tutte uguali; un operatore ci ha raccontato che gli psicofarmaci sono usati per stordire le persone così “mangiano di meno, fanno meno casino, rivendicano di meno i loro diritti”. La spesa per gli psicofarmaci è altissima mentre la tutela della salute all’interno dei CPR non è affidata a figure specialistiche che lavorano per il Ssn bensì da assunti da enti gestori che mirano a risparmiare”. Sui numeri: rispetto all’esterno, su una popolazione di riferimento simile, la spesa in antidepressivi, antipsicotici e antiepilettici nella struttura di via Corelli a Milano è di 160 volte più alta, al CPR di via Brunelleschi a Torino 110, a Roma 127,5, a Caltanissetta 30 e a Macomer 25. Addirittura a Roma, in cinque anni, sono state acquistate 154.500 compresse di Buscopan su un totale di 4.200 persone transitate. In media, 36 pastiglie a testa quando un ciclo ‘normale’ ne prevede al massimo 15. A Torino la spesa in Clonazepam (Rivotril) dal 2017 al 2019 è di 3.348 euro, quasi il 15% del totale (22.128 euro) mentre a Caltanissetta tra il 2021 e il 2022 sappiamo che sono state acquistate 57.040 compresse: 21.300 solo nel 2021, a fronte di 574 persone trattenute. Significa mediamente 37 a testa. Anche a Milano il Rivotril rappresenta la metà del totale della spesa in psicofarmaci con 196 scatole acquistate in soli cinque mesi.1

Questa triste vicenda dai molti punti ancora oscuri ci invita a interrogarci come sia stato possibile che una persona in difficoltà come Moustafà sia potuto essere stato soggetto a numerosi arresti e trattenimenti presso dei CPR; se le Istituzioni abbiano mai realmente provato a fare qualcosa per questa persona. Ci domandiamo anche se il rispetto e la tutela della salute dei reclusi dentro i CPR siano garantiti a partire dalle visite mediche.

Per il momento per la morte di Moustafà è stato aperto un procedimento presso la Procura di Roma. Ci auguriamo che venga fatta chiarezza sulle reali cause del decesso di Moustafà che cercava solo una vita migliore.

Da: https://artaudpisa.noblogs.org/post/2023/07/30/moustafa-fannane-ennesima-vittima-del-sistema-cpr/

https://www.osservatoriorepressione.info/ombre-dubbi-sulla-morte-moustafa-fannane/


1https://altreconomia.it/rinchiusi-e-sedati-labuso-quotidiano-di-psicofarmaci-nei-cpr-italiani/

BOLOGNINA: UN DESERTO CHIAMATO SICUREZZA

Questo testo affronta gli ultimi risvolti di un attacco iniziato da tempo al quartiere Bolognina (Bologna), un processo che, seppur nelle sue specificità, non è differente da quanto stanno subendo altre città e territori: la speculazione e la cementificazione chiamata “riqualificazione”, la strumentalizzazione “dell’emergenza droga” e “dell’allarme sicurezza”, la discriminazione della popolazione migrante, la militarizzazione della vita quotidiana, il progressivo restringimento della sanità e dei servizi. Una realtà in cui la sistematica distruzione di comunità e territori è l’esito di quella violenza istituzionale che si nutre di politiche razziste, proibizioniste e repressive, per sostenere e alimentare economie assassine e rendere più docili le classi sfruttate. Città in cui il continuo rinforzarsi delle retoriche della legalità e del decoro si traduce negli abusi sempre più legittimati delle forze dell’ordine e nella violenza del carcere. Un tempo che rende sempre più evidente la necessità di sovvertire l’esistente e lottare.


Con il patto integrato sulla sicurezza tra Prefettura e Comune di Bologna siglato durante la visita in città del ministro dell’interno Piantedosi del 21 gennaio, l’amministrazione bolognese ha inaugurato una nuova stagione repressiva per dare il colpo definitivo a quei quartieri nel mirino dei piani di “pulizia”, “riqualificazione” e messa a profitto della città, non ancora del tutto asserviti all’ideologia della sicurezza e del decoro.

Lo Stato c’è e si deve vedere” aveva detto Piantedosi; lo abbiamo visto e lo stiamo vedendo.

SPECULAZIONE ED “EMERGENZA DROGA”

La Bolognina in particolare negli ultimi mesi è stata oggetto di un feroce accanimento mediatico volto a normalizzare una militarizzazione della vita pressoché quotidiana. Con le retoriche della lotta al “degrado” e alla “droga” si stanno legittimando agli occhi dell’opinione pubblica sistematici interventi di polizia per le strade, che, a ben vedere, non hanno mai inciso e non incideranno affatto sulle “criticità” millantate, anzi, le esaspereranno ulteriormente, isolandole sempre più.

Oggetto del terrore la così detta “m-i-c-r-o-c-r-i-m-i-n-a-l-i-t-à”, una categoria in cui fasce già marginalizzate di popolazione vengono liquidate come problema di ordine pubblico.

Non spaventa il problema di un diffuso impoverimento, di un sostentamento e di una vita sempre più difficile per moltx, di un accesso alla casa sempre più proibitivo, delle barriere che deve affrontare chi è senza documenti e senza diritti di cittadinanza; non interessano realmente le problematiche legate all’uso e all’abuso di sostanze legali o illegali ecc. Ciò che interessa è soprattutto che tutto ciò non si veda, disturbi o intralci i progetti di speculazione.

Il 18 luglio si è tenuta in Bolognina una riunione della “cabina di regia” istituita col Patto sulla sicurezza, in cui, in continuità con la strategia avviata a gennaio, è stato deciso un ulteriore inasprimento dei controlli “al fine di prevenire e reprimere la vendita e il consumo di sostanze stupefacenti”. Il Sindaco ha colto l’occasione per fare la sua passerella promozionale tra i commercianti e gli abitanti della zona nel tentativo di esacerbare e strumentalizzare quelle difficoltà, pressoché endemiche, espressione di un quartiere storicamente popolare.

Dopo gli “street tutor” in centro arrivano le nuove ronde di periferia, riqualificate per l’occasione come “sentinelle di condominio”. A promuovere il fascino discreto della delazione questa volta Confabitare, associazione per la tutela della proprietà immobiliare che nel 2020, insieme ad Ape-Confedilizia Bologna, si schierò contro la proroga del blocco sfratti, e che nel 2022, in prima linea contro il “degrado”, ha firmato il protocollo di intesa col Comune di Bologna contro il “vandalismo grafico”, per la rimozione dei graffiti in città.

Dopo aver chirurgicamente fatto a pezzi comunità, sfrattato famiglie, addomesticato realtà e sgomberato spazi sociali, in un contesto di delega e atomizzazione generalizzato, l’amministrazione si appresta a colpire ancora la Bolognina in nome della “legalità” e della “lotta alla droga”, esasperando quella guerra tra poveri utile soltanto ai padroni, cavalcando con retoriche emergenziali quello scarto presente tra sicurezza reale e percepita, e incoraggiando sentimenti quali la paura e la diffidenza tra persone, per una “sicurezza” che ha sempre meno a che fare con la solidarietà e le “comunità”, parole ampiamente abusate dall’amministrazione di questa città, e sempre più con l’esercizio della disciplina e dell’ordine pubblico.

Trattare il consumo di sostanze psicotrope, legali o illegali, in termini sensazionalistici, o liquidarlo come qualcosa da “estirpare”, come avvenuto in questi giorni con le passerelle del Sindaco e la spettacolarizzazione di operazioni “antidroga” dal tempismo quantomeno sospetto – comprese di scenografici elicotteri a sorvolare il quartiere – si inserisce in una propaganda volta per lo più a promuovere speculazioni economiche e manovre politiche.

Militarizzare la bolognina, rastrellare “casa per casa” per “passare al setaccio” con squadre di polizia “le cantine dello spaccio” e riempire il quartiere di agenti in borghese, non migliorerà la vita di chi ha un utilizzo problematico di sostanze legali o illegali, o di chi già subisce discriminazioni di classe, genere, razza e cittadinanza, ne peggiorerà la condizione. Un’occasione per “ripulire” la zona e preparare il terreno a quei progetti di riqualificazione, museificazione e turistificazione pianificati da tempo dall’amministrazione, che esaspereranno ulteriormente l’accesso alla casa e alla reale vivibilità del quartiere.

RAZZISMO ISTITUZIONALE

La sovrarappresentazione della popolazione straniera nel discorso pubblico quando si parla di “allarme sicurezza” è lo specchio della violenza del razzismo istituzionale, e della paura e del pregiudizio che questo riproduce nella “società civile”, piuttosto che di una reale “emergenza sicurezza” in “correlazione con l’immigrazione”, un’equazione distorta e riduzionista.

La dinamica è la stessa subita da chi migrava dalle regioni del sud Italia.

Naturalizzare lo stato di subordinazione che molta popolazione migrante e straniera subisce in termini di sfruttamento, discriminazione, diritti, è utile soltanto a Stato e padroni che si nutrono di questo allarmismo per portare avanti le loro economie assassine.

LE RILEVAZIONI DEI SERVIZI PER LE DIPENDENZE A BOLOGNA

Volendo prendere in considerazione le statistiche e le relazioni – parziali – fornite dall’Ausl di Bologna, queste identificano due categorie di consumatori che si rivolgono ai servizi per le dipendenze (SerD): i consumatori considerati “socialmente integrati”, indicati in aumento, persone pressochè inserite nel tessuto sociale e produttivo, coinvolte in particolare dal consumo problematico di alcol e cocaina, o come policosumatori, consumatori problematici di più sostanze – legali e/o illegali – e non di una sola sostanza elettiva (anche qui con la prevalenza di alcol e cocaina), e i consumatori considerati “socialmente marginalizzati”, una fascia di popolazione indicata in cambiamento (per età media e consumo) ma non in aumento per quanto riguarda l’afferenza ai servizi. Si tratta di una categoria di consumatori costituita in gran parte da persone ai margini del tessuto sociale, fuori dal processo produttivo, con scarsa disponibilità economica e spesso con problemi legati alla legge (consumatori di sostanze assunte per via innettiva, oppioidi, cocaina e consumatori di crack, sostanza il cui utilizzo si sta allargando e che sembra sostituire nel consumo l’eroina). L’Ausl indica che per ogni persona che si rivolge ai servizi sanitari per difficoltà di questo tipo, ce ne sono almeno altre cinque che non lo fanno. Per quanto riguarda la popolazione migrante l’accesso ai servizi resta difficile e complicato, sia per la burocrazia e le norme legate ai documenti, sia per le barriere linguistiche.

LA TESTIMONIANZA DI UNA LAVORATRICE

La testimonianza di un’operatrice ci informa di come all’interno dei SerD bolognesi (Servizi per le dipendenze) sia sempre più privilegiato un approccio burocratico, medicalizzante, psichiatrizzante e contenitivo, con ampio abuso della delega agli psicofarmaci nel “trattamento”, mentre trova sempre meno spazio la relazione, l’ascolto e la possibilità di accesso a supporto sociale concreto. Emerge un problema specifico per quanto riguarda la popolazione non residente, senza documenti e senza fissa dimora, per cui i servizi sono drasticamente ridotti e di minor qualità.

Aumenta anche il numero delle così dette “doppie diagnosi”, persone con problematiche di dipendenza certificate e una concomitante valutazione psichiatrica, in carico quindi contemporaneamente ai Serd (servizi per le dipendenze) e ai Csm (Centri per la salute mentale). Questo non necessariamente si traduce in un miglioramento dell’offerta di sostegno, anzi, spesso e volentieri determina un processo di delega e “rimpallo” tra servizi che può paralizzare percorsi e possibilità, oltre che determinare un accavallamento delle figure professionali coinvolte, generando lentezze e a volte confusione nella persona. Viene inoltre segnalato come tra le persone migranti in condizioni di fragilità sia diffuso l’abuso di rivotril e crack. In generale i tempi di attesa per una “prima visita” in alcuni servizi possono essere estremamente lunghi, in particolare in quello alcologico e in quello istituito per la popolazione considerata “vulnerabile” non residente; medici e operatori non possono dedicare molto tempo a persona, un po’ per un’organizzazione socio-sanitaria assolutamente scellerata, insensata e inefficace, un po’ per la legittimazione di una cultura sempre più miope in tema di sostanze e mortificante per quanto riguarda la relazione d’aiuto, i ruoli delle “professionalità” coinvolte e la loro formazione.

TRA PROIBIZIONISMO, CRIMINALIZZAZIONE, REPRESSIONE E CARCERE

Davanti a questo quadro la risposta statale continua ad essere la criminalizzazione di intere fasce di popolazione, il progressivo depauperamento dei servizi pubblici territoriali e di prossimità, l’appalto sempre maggiore dell’assistenza a cooperative-azienda e a lavoro sfruttato, e lo speculare rinforzo di strategie e interventi di tipo securitario e carcerario, tanto che alla Dozza, carcere della città, davanti a celle bollenti come forni e un sovraffollamento che sta sfiorando il 160% della capienza consentita – oltre 800 detenuti a fronte di 500 posti previsti, quindi circa 300 persone recluse in più – dopo gli arresti sensazionali degli ultimi giorni si stanno bloccando i nuovi ingressi. Una situazione decisamente in contraddizione con i recenti tentativi di maquillage e “re-branding” volti a coprire la violenza strutturale che caratterizza l’istituto carcerario cittadino.

Nonostante i laboratori antiproibizionisti da oltre 20 anni indichino come l’unico modo per stroncare alla radice i narcotraffici sia la depenalizzazione della coltivazione di cannabis per uso personale e il commercio legale delle foglie di coca – come chiedono le popolazioni indigene sudamericane da decenni – le politiche repressive e la caccia alle streghe su categorie sociali già marginalizzate e stigmatizzate non si arresta, anzi, appunto, li arresta: gli ultimi dati indicano che circa il 35% della popolazione detenuta è in carcere per violazione della legge sulle droghe, e che oltre il 40% di chi finisce in cella in Italia fa uso di sostanze o ha problemi di dipendenza che spesso esordiscono o si cronicizzano/acutizzano proprio durante la detenzione, alla faccia del tanto declamato “recupero sociale”. Questo è accaduto grazie a leggi razziste, discriminatorie e liberticide come la Fini/Giovanardi, la Bossi/Fini, la Cirielli, le leggi sulla sicurezza volute da Minniti e Salvini. Politiche repressive il cui bersaglio non è mai stato il grande narcotraffico – un giro miliardario che allo Stato e alle sue mafie fa evidentemente comodo così – ma, come sempre, chi non ha documenti, mezzi di sostentamento, reti sociali o non è spendibile in termini di profitto.

IL TESTO UNICO DELLE LEGGI IN MATERIA DI DISCIPLINA DEGLI STUPEFACENTI

Nell’ordinamento giuridico italiano la detenzione di sostanze stupefacenti è sanzionata dal DPR n.309/1990, Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza. In particolare i due articoli rilevanti per quanto riguarda “droghe” e galera sono il 73, per il caso di detenzione ai fini di spaccio e il 75, per il caso di detenzione al fine di utilizzo personale.

L’articolo 73 recita “Chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I prevista dall’articolo 14, è punito con la reclusione da sei a venti anni e con la multa da euro 26.000 a euro 260.000”.

Questa legge continua a rappresentare la principale causa di ingresso nel sistema giudiziario italiano e di detenzione nelle patrie galere.

MANGIATE LE CAROTE RESTA SOLO IL BASTONE

Mentre sanità e servizi sprofondano inesorabilmente verso il baratro sotto gli occhi – e sulla pelle – di tutti, e le spese militari aumentano, le politiche della “tolleranza zero” si confermano strumento di governo delle diseguaglianze per il mantenimento dello status quo, una dissimulata guerra ai poveri e alle dissidenze volta ad isolare chi, per rifiuto o necessità, vive ai margini delle città, mirando a spostare questi margini, sempre un po’ più in là.

Distrutte comunità e legami, ridotti quegli ammortizzatori sociali che consentivano di scaricare parzialmente i danni prodotti dal capitalismo sulla “cosa pubblica”, accentuato lo sfruttamento, la precarizzazione e l’insicurezza lavorativa, non deve stupire il naturale determinarsi di situazioni di conflitto e attrito all’interno delle città, non riconducibili ad ambiti di compatibilità. Per neutralizzarli, esaurita la strada del welfare state, non rimane che quella repressiva. A noi, non resta che la lotta.


Link alla versione pdf del testo e alle note: UN DESERTO CHIAMATO SICUREZZA

LA RETORICA DELL’EMERGENZA PSICHIATRICA PER IL CONTROLLO SOCIALE

Da Ricongiunzioni – Radio Blackout: https://radioblackout.org/2023/05/la-retorica-dellemergenza-psichiatrica-per-il-controllo-sociale/

Non è un caso se di psichiatria si parla sempre più spesso. Dagli abusi di psicofarmaci in carcere nei cpr[1][2] alle retoriche neomanicomiali che accompagnano la triste conta degli operatori e delle operatrici (più spesso) uccise dai pazienti, come è successo a Pisa lo scorso 24 Aprile. Una conta ben lontana, comunque, dall’eguagliare le morti di psichiatria nelle carceri, nei reparti ospedalieri, nelle comunità, per strada durante un TSO, per gli effetti collaterali a lungo termine dei farmaci. Eppure, di emergenza psichiatrica si parla sempre solo per dire che ci sono un sacco di matti pericolosi in giro e non per ricordare che la psichiatria può uccidere; e neanche questo è un caso. Non lo è perché la psichiatria è sempre stata, in maniera più o meno attiva a seconda dei periodi storici, schierata in una guerra alla povertà, alla disobbedienza e a tutto ciò che è altro e che eccede la norma. Senza citare i casi di oppositori politici finiti in manicomio, pratica diffusa in tanti paesi del mondo ancora ad oggi, basti pensare che durante il fascismo una donna poteva finire in manicomio perché “libertina, indocile, irosa, smorfiosa o madre snaturata”, oppure che nell’america schiavista la “drapetomania”  diagnosticava il desiderio di scappare dalle piantagioni degli schiavi. Casi storici estremi che tradiscono la più subdola compenetrazione quotidiana del controllo sociale e della psichiatria, una pseudoscienza nata dalla separazione tutta occidentale tra ragione e sragione. Ci sono stati, certo, dei brevi periodi in cui i movimenti sociali sono riusciti ad impadronirsi di un’autonomia nella progettazione della cura delle sofferenze sociali distanziandosi dal paradigma biomedico per dare vita ad un’antropologia pratica o ad una sorta di ecologia umana, che ribaltando il meccanismo di delega medico-paziente restituisse la responsabilità della cura alla comunità e al territorio. Il movimento di deistituzionalizzazione in italia è un esito di queste tensioni, ed è importante riconoscerlo altrimenti succede di leggere che i manicomi sono stati chiusi “grazie allo sviluppo della psicofarmacologia che permetteva di curare i pazienti a casa”[3]. No, non è andata così, la chiusura dei manicomi è il frutto di una lotta con tanti morti dentro ai manicomi e con qualche psichiatra (specie quelli a cui piaceva legare le persone ai termosifoni) gambizzato. E sono stati altri psichiatri a tematizzare la lotta di classe nel loro lavoro, ribadendo che se la guerra che avviene ogni giorno in psichiatria viene invisibilizzata, se non si esercita con consapevolezza politica, ogni atto di cura e contenzione diventa un atto di guerra contro una classe marginalizzata.

Quando questa consapevolezza politica si perde, i discorsi e le pratiche della psichiatria diventano sempre più vicini e simili a strumenti e istituzioni più esplicitamente punitivi e repressivi. La “cura” si mischia con la galera. I reparti, le residenze private e le comunità diventano più simili a carceri, e le carceri vengono inondate di farmaci. Quest’ultime si riversano negli ospedali pieni di detenuti ricoverati, che si aggiungono a chi viene internato perché in famiglia o in quartiere da fastidio. Gli psichiatri diventano così dispensatori di farmaci preoccupati della mera gestione dei sintomi e responsabili della custodia dei loro pazienti. I percorsi esistenziali che si incontrano nelle galere e in psichiatria sono gli stessi, in una traspirazione di destini facilitata dalle porte scorrevoli che separano il sistema penale da quello psichiatrico. Questo lo si intuisce per esempio da un dato su tutti: in tutti i paesi industrializzati il numero di persone con problematiche psichiatriche in carcere aumenta vertiginosamente mentre si riduce quello delle persone prese in carico dai servizi territoriali. La psichiatria è tornata oggi ad essere uno strumento di marginalizzazione, in senso diametralmente opposto alla riforma ispirata da Basaglia che non è mai stata implementata se non in qualche sparuta provincia. I manicomi fioriscono sotto mutate spoglie. Nel 78 c’erano 90.000 persone internate e ne contiamo quasi 70.000 oggi tra SPDC comunità, case di cura eccetera, senza contare l’enorme mole di miseria umana psichiatrizzata in carcere. (Questo dovrebbe fungere da monito a tutti coloro che pensano che lo stato possa riformare la psichiatria).

Perché oggi si torna a parlare di riforma della psichiatria e si mette in dubbio la chiusura dei manicomi? Tramite la presunta “emergenza psichiatria” diverse parti sociali (governo, associazioni di categoria, direttori sanitari) convergono nel chiedere in breve: più posti nelle REMS, sezioni di carcere speciali per imputabili in aggiunta alla rete di ATSM (Articolazioni di Tutela della Salute Mentale), TSO più snelli. Qualcuno si avventura a chiedere, cogliendo l’occasione, più operatori nei servizi territoriali. Ma non sembra essere questo l’aspetto che interessa ad un governo che assume solo polizia. Il punto è avere più posti letto per i folli rei e per i rei folli. Come se un letto potesse curare qualcuno.

L’utilizzo per fini repressivi dell’emergenza psichiatria non è nuovo. Già Salvini nel 2018 dichiarava che era in atto una “esplosione di aggressioni” da parte di “pazienti psichiatrici” e che da quando i manicomi sono stati chiusi c’è stato un «abbandono dei malati lasciati in carico alle famiglie». Questo genere di retorica neomanicomiale o panpenalista è interessata all’utilizzo della psichiatria nel governo della popolazione tramite la marginalizzazione di alcuni suoi componenti. Le carceri sono sempre state un avamposto di questa sperimentazione, come è già stato scritto e detto[4][5] e infatti i primi a parlare di emergenza psichiatrica sono stati i sindacati di polizia, le prefetture e il DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria).

In secondo luogo, più contenzione è meno cura è la ricetta perfetta per ingrassare il privato. La spesa pubblica e privata nell’ambito della salute mentale viene assorbita soprattutto dalla residenzialità. I soldi girano intorno ai ricoveri, nei posti letto in case di cura lontane dalla comunità, e nei farmaci, che all’isolamento fisico aggiungono la sedazione farmacologica. Si ripropone in questo modo lo stesso circolo vizioso che porta all’esplosione dei profitti privati nell’ambito sanitario e assistenziale. Più la follia viene contenuta e più la gente sta male, e più la gente sta male più bisogno c’è di contenzione e custodia, contenzione materiale ad ingrassare i portafogli di investimenti delle multinazionali della sanità privata, della infinità di cooperative del terzo settore in buona e cattiva fede che gestiscono comunità ormai diventate colonie penali, e non ultima dell’industria dei farmaci. Le visite degli informatori delle case farmaceutiche sono quotidiane in gran parte dei reparti psichiatrici. Farmaci long-acting sempre più sganciati dalla relazione terapeutica, con un rischio di cronicizzazione altissimo che spesso finiscono per ricacciare ancora più a fondo le persone nella voragine esistenziale da cui provano a uscire: solitudine e miseria.

Per ultima potremmo ipotizzare una terza ragione meno vincolata ad interessi materiali del diffondersi della preoccupazione per l’emergenza psichiatrica? Questa origina forse dalla contemporanea più generale tendenza ad “alienare” tutto ciò che esula dalla consueta e quieta amministrazione della vita sociale. Una malinconica pulsione a reprimere e mortificare ciò che è vivo, e in quanto vivo intrinsecamente rivolto al nuovo, anche oltre la cultura e le abitudini dominanti. Allora in un mondo in cui la sofferenza psichica diventa sempre più spesso strumento di espressione di una condizione politica, e insieme ricerca di un progetto di vita che scardini l’ordine esistente, ecco che ci si attrezza e reprimerla questa tensione, identificando, emergenza dopo emergenza, l’ennesimo nemico pubblico…Emergenza anarchici, emergenza orsi, emergenza matti. Nel mondo che diventa emergenza nessuno è salvo, le categorie dell’esclusione si avvicinano sempre di più.


[1] https://altreconomia.it/rinchiusi-e-sedati-labuso-quotidiano-di-psicofarmaci-nei-cpr-italiani/

[2] https://radioblackout.org/2023/01/chimica-e-rivolta-al-casal-del-marmo-di-roma/

[3] https://www.quotidiano.net/cronaca/legge-basaglia-psichiatri-omicidio-barbara-capovani-39ee9864

[4] https://www.osservatoriorepressione.info/carcere-psichiatria-strumenti-controllo/

[5] https://radioblackout.org/podcast/carceri-invisibili-del-20-09-22/