SVALICO TOUR DEL CAPITANO A.C.A.B.

Riceviamo e diffondiamo:

SVALICO TOUR DEL CAPITANO A.C.A.B.

22/23/24 MARZO 2024 nelle valli: SUSA – CHIUSELLA – PELLICE

– Presentazione della Cassa Antirepressione Capitano A.C.A.B.
con BANCHETTO (libri, opuscoli, magliette, toppe, cartoline, …)

– Presentazione del libro “ASSOPIRSI” con l’autore G. Cortesi.
“Pensare a una presentazione di narrativa è complicato e affascinante. Non c’è un soggetto ma tanti soggetti, non una storia sola, ma miriadi di incroci, non un solo punto di vista, ma gli sguardi dei personaggi, dex lettorx, delle parole… “Assopirsi” è un piccolo romanzo scritto da un anarchico per altrx compagnx, che poi, casualmente/fortuitamente, è stato pubblicato dal mondo “altro”. Il protagonista è uno come noi, insonne, perchè il mondo è un incubo che si vede meglio da svegli. Da un paesello prototipo a una metropoli industriale identica a tutte le metropoli industriali, s’imbatte nel mondo attraverso le lotte, le notti, la poesia, gli incontri. Fino alla fine, che è una fine proprio da romanzo, perchè ci commuova e ci smuova ancora la passione per la vita che si affaccia alla morte.”

VENERDI’ 22 – VAL SUSA – BUSSOLENO
Caza Feu
via Walter Fontan 12a
ore 18:30 Apericena
ore 20:30 presentazioni

SABATO 23 – VAL CHIUSELLA – RUEGLIO
Libreria Sottobosco
via E. Compagno angolo Martiri della Libertà
ore 18:30 Apericena
ore 20:30 presentazioni

DOMENICA 24 – VAL PELLICE – TORRE PELLICE
Scuoletta
via Coppieri 48
Ritrovo ore 10:00 – Breve camminata fino alla borgata Bonnet.
Pranzo al sacco conviviale e presentazioni.
Rientro per le 16:00 per Gran Merenda Vegan.

ANAN YAEESH LIBERO! NO ALL’ESTRADIZIONE IN ISRAELE

Diffondiamo

Domenica 10 marzo dalle 14 alle 17
Presidio davanti al carcere di Terni

Il 29 gennaio 2024 le autorità italiane a seguito di una richiesta di estradizione avanzata dalle autorità israeliane hanno arrestato Anan Yaeesh, attualmente detenuto nel carcere di Terni. 
Anan Yaeesh, 37 anni, è un palestinese originario della città di Tulkarem, in Cisgiordania, nel corso degli anni ha condotto la propria attività politica all’interno del contesto della Seconda Intifada; ha scontato oltre 4 anni nelle carceri dell’occupazione e subito un agguato delle forze speciali israeliane nel 2006, durante il quale ha riportato gravi ferite per i colpi a lui inferti.

Anan lascia la Palestina nel 2013, diretto verso l’Europa. Si reca inizialmente in Norvegia dove viene sottoposto a degli interventi chirurgici per rimuovere i proiettili rimasti nel suo corpo per anni.

Nel 2017 raggiunge l’Italia, dove si stabilisce e dove nel 2019 ottiene un regolare titolo di soggiorno e la protezione speciale dell’Italia per i suoi trascorsi politici in Palestina. Nel 2023 si reca in Giordania, dove viene rapito dai servizi di sicurezza giordani allo scopo, con ogni probabilità, di consegnarlo a Israele.

Dopo oltre sei mesi di detenzione, a seguito della diffusione della notizia del suo arresto e il pericolo che venisse consegnato alle autorità israeliane, i servizi di sicurezza giordani si trovano nella condizione di doverlo rilasciare al fine di evitare malcontento e reazioni da parte dell’opinione pubblica.

Nel novembre del 2023 torna in Italia, a L’Aquila, dove risiede, e viene arrestato il 29 gennaio a seguito di un mandato di cattura italo-israeliano; l’arresto ha luogo a seguito del consenso da parte del governo italiano all’estradizione – è infatti sulla base delle indicazioni del Ministero della Giustizia italiano che viene portata avanti la richiesta di misura cautelare.

La decisione di procedere con l’estradizione è di enorme gravità, e alla gravità del fatto che sia presa in considerazione l’estradizione di un cittadino palestinese alle autorità israeliane (sulla base di ipotetiche azioni di resistenza, svoltesi nei territori occupati, tutelate quindi dal diritto internazionale), si aggiungono anche una serie di considerazioni dettate dall’attuale situazione politica.

In primis l’Italia consegnerebbe un palestinese alle autorità israeliane, le quali lo processerebbero in un tribunale militare. Inoltre molteplici sono stati i rapporti di organizzazioni e associazioni internazionali per i diritti umani – tra cui il consiglio ONU per i diritti umani – che riportano e denunciano le inumane condizioni di detenzione e tortura nelle carceri italiane.

In caso di estradizione, il destino di Anan sarà quello di essere condotto davanti ad una corte militare e sottoposto a trattamenti disumani, condizioni detentive impensabili, che hanno già causato negli ultimi quattro mesi la morte di nove prigionieri politici palestinesi, uccisi nelle carceri israeliane dalla tortura e dalla negligenza sanitaria.

Inoltre, con ogni probabilità, gli elementi su cui sono state formalizzate accuse ad Anan Yaeesh sono il frutto di ormai noti metodi d’investigazione e interrogatori considerati illegali in Italia e compatibili con la definizione di tortura.

Riteniamo che questo episodio rischi inoltre di rappresentare un pericoloso precedente volto a sdoganare l’estradizione e la consegna di palestinesi in Italia e in Europa dietro richiesta di Israele che, ricordiamo, porta avanti la pulizia etnica e il massacro del popolo palestinese, la colonizzazione e l’occupazione militare dei territori palestinesi.

Per la liberazione immediata di Anan Yaeesh, per far sentire la contrarietà ad un’estradizione in aperta violazione del diritto internazionale e per far sentire ad Anan Yaeesh la voce solidale di chi contrasta il genocidio del suo popolo.

Coordinamento ternano per la Palestina

MODENA: UN DESERTO CHIAMATO SICUREZZA

Siamo tuttx invitatx a questa chiacchiera sulla repressione che sta colpendo molti quartieri, sul razzismo istituzionale che esprime, sulla così detta “emergenza droga” e i vari allarmi lanciati in materia di “sicurezza”. Un’occasione per parlare del necessario legame tra le lotte anitproibizioniste e le lotte contro il carcere. 🔥🖤 Il 15 marzo al Ligera a Modena.

Più info qui: https://brughiere.noblogs.org/events/event/modena-un-deserto-chiamato-sicurezza/

“Città in cui il continuo rinforzarsi delle retoriche della legalità e del decoro si traduce negli abusi sempre più legittimati delle forze dell’ordine e nella violenza del carcere. Un tempo che rende sempre più evidente la necessità di sovvertire l’esistente e lottare.”

RESISTERE ALLA MACCHINA DELLE ESPULSIONI: SUI FATTI ALLA QUESTURA DI TORINO

Diffondiamo:

Non partiremo dalle botte, dal fatto che ci hanno strappato via un compagno, dal fatto che nei CPR torturano e che dai CPR deportano.

Non partiremo da questo perché non sarebbe il discorso di Jamal.
Pertanto non è e non sarà il nostro.

LE RIVOLTE

Un anno fa il CPR di corso Brunelleschi bruciavaBruciava e chiudeva grazie al fuoco dei ribelli. Quelle colonne di fumo che si stagliavano al cielo emanavano la forza di una rivolta, dando coraggio a chi, fuori, coglieva quel momento per immaginare una solidarietà che nelle sue possibilità riuscisse ad essere palpabile ed efficace. Che potesse superare quel tempo e quel luogo e rimanere solida nelle sue prospettive di lotta contro la detenzione amministrativa, la macchine delle espulsioni e il razzismo sistemico e sistematico.

LEGAMI E ALLEANZE

Jamal è un pezzo di questa storia, è il segno profondo che il rapporto tra un dentro e un fuori è stato auspicabile, possibile, reale. Che organizzarsi insieme è un orizzonte non solo desiderabile ma realizzabile.

In questo anno abbiamo provato a tessere i nessi di senso che legano la guerra esterna – che ha raggiunto il suo apice con il genocidio palestinese – insieme alla costruzione del nemico interno – inquadrato per lo più tra il sottoproletariato razzializzato e chi lotta. Abbiamo ribadito, sempre più convint*, che creare qui alleanze di lotta con chi subisce l’oppressione di classe e lungo la linea del colore è il nostro punto, il nostro orizzonte, la nostra strada.

TENTARE IL POSSIBILE

Jamal è un nostro compagno, un nostro amico. Ha fatto questa strada con noi e non potevamo che tentare il possibile: inceppare il suo trasferimento in un CPR, dove per 18 mesi può essere sottoposto a detenzione e violenza, può essere torturato, per poi, un giorno, arrivare alla deportazione.
Mentre sotto i nostri occhi si muovevano gli ingranaggi del razzismo di Stato, non potevamo permetterci di rimanere inermi.

La macchina delle deportazioni e della detenzione amministrativa si compone di tanti piccoli pezzi: dalle perizie medico legali delle ASL, alle imprese che costruiscono e/o gestiscono i centri di detenzione; dai rastrellamenti degli sbirri durante le retate, ai voli charter che realizzano le deportazioni.
Ognuno di questi tasselli è più vulnerabile di quanto non sembri nel suo insieme il moloch delle detenzione amministrativa.
La sorpresa e la difficoltà degli sbirri nel dover gestire lo slancio di solidarietà di fronte alla questura ne sono la conferma.

IL COPIONE DEI MEDIA

La copertura mediatica dell’accaduto ha seguito un copione decisamente rodato: una comunicazione dell’ufficio stampa della questura viene inoltrata e ripubblicata da agenzie di stampa e giornali senza la minima rielaborazione.
E così gli aggressori diventano aggrediti e i professionisti della violenza (coloro cioè che della violenza istituzionale fanno la propria professione) passano per vittime.
Spariscono i pugni in testa, le manganellate scomposte, le minacce, gli insulti. Nella narrazione univoca e standardizzata delle veline poliziesche, sparisce la radice stessa della violenza, quella dei meccanismi di potere e dei dispositivi di governance delle classi sfruttate, quotidianamente emarginate, discriminate, incarcerate, espulse. Unica vera notizia (nel senso di fatto degno di nota) in questo caso è stata la “necessità” da parte della polizia di dispiegare appieno questa violenza per portare uno “straniero” nel CPR di Milano, un posto – tra gli altri destinati alla detenzione – disumanizzante al punto da creare scandalo per la gestione delle persone recluse.
Se in questi giorni la brutalità della polizia è balzata agli onori delle cronache per alcuni casi di violenze perpetrate durante momenti di protesta, la storia di ieri può aggiungere allora un prezioso tassello alla comprensione dei meccanismi che regolano e reggono le iniquità sociali: i poliziotti non picchiano solo ai cortei, non colpiscono solo gli avversari di questo o quel governo. I poliziotti pestano tutti i giorni, per garantire a suon di botte che la società dello sfruttamento rimanga tale.

Sappiamo che su Jamal è caduta più potente la brutalità della repressione perché ha scelto di lottare, ha scelto di organizzarsi. Il colpo e i colpi di oggi però non sono niente in confronto alla rabbia che abbiamo nel cuore e all’amore che arde questa lotta e ci lega alle compagne e compagni che troviamo lungo la strada.

MANTENIAMO VIVA LA SOLIDARIETÁ!

PRESIDIO SOTTO LE MURA DEL CPR DI VIA CORELLI DI MILANO

10 MARZO 2024 ORE 15

Il fuoco dei CPR brilla ancora e il coraggio delle lotte e delle rivolte stenta a placarsi.

A Jamal e alla sua libertà
A chi si ribella e si rivolta.
Ai rivoluzionari e alle rivoluzionarie.

FUOCO ALLE GALERE
FUOCO AI CPR

NAPOLI: SORVEGLIANZA SPECIALE, SORVEGLIANZA SOCIALE

Riceviamo e diffondiamo:

Lo Stato ha individuato il nemico interno nelle frange dissidenti e nella parte più emarginata del tessuto sociale. Contro di esse viene dispiegato un apparato repressivo sempre più pervasivo, utilizzando decreti legge, pacchetti sicurezza e misure di prevenzione, con la finalità di una
carcerazione di massa.

Ne discuteremo assieme ad alcune avvocate.

Domenica 3 marzo  alle 18 a Santa Fede Liberata, in via S. Giovanni Maggiore Pignatelli 2, Napoli.

AL FIANCO DI ZAC, COMPAGNO ANARCHICO DETENUTO A TERNI IN AS2 E RAGGIUNTO DALLA MISURA DELLA SORVEGLIANZA SPECIALE

NAPOLI: ALCUNI TESTI DIFFUSI DURANTE LO SCIOPERO GENERALE DEL 23 FEBBRAIO

Riceviamo e diffondiamo alcuni testi diffusi durante lo sciopero generale del 23 febbraio

– Palestina, aiutiamoli a casa nostra.
– Contro la militarizzazione della società
– Mappa campana delle complicità dello stato italiano nel genocidio palestinese.
– Sorveglianza sociale, sorveglianza speciale

PALESTINA: AIUTIAMOLI A CASA NOSTRA

Che sia in atto un genocidio dei palestinesi da parte degli israeliani è fuori dubbio, come è fuori dubbio che questo sia iniziato molto prima del 7 ottobre (almeno dal 1948) con l’appoggio diretto degli Stati Uniti e dei governi europei.

La mobilitazione che si è generata in Europa in sostegno alla Palestina ha sicuramente avuto un ruolo importante nel far emergere un racconto differente da quello propinato dai media oltre a rendere palese la distanza tra le politiche governative e il sentire comune della gente, tuttavia non hanno potuto rallentare la macchina di morte dello stato israeliano né tanto meno intaccare le relazioni che i vari governi hanno stretto o stanno stringendo con esso.

Per quanto riguarda l’Italia, innanzitutto, è stata tra i primi paesi a riconoscere il neonato stato ebraico nel 1949 e da allora i rapporti con Israele sono stati vivificati con frequenti scambi diplomatici e affari commerciali. Ha sostenuto fin dall’inizio il diritto alla difesa di Israele, si è astenuta nella risoluzione per l’immediato cessate il fuoco, ha tenuto incontri bilaterali con Netanyahu e ha impedito l’apertura dei corridoi umanitari. Inoltre, non ha mai esitato a fornire armi, infatti la marina israeliana monta cannoni della Oto Melara (Leonardo) con i quali bombarda quotidianamente la striscia di Gaza e, attraverso l’Eni, sfrutta giacimenti di gas in acque territoriali palestinesi.

Altro ruolo fondamentale lo stanno ricoprendo i mass media di regime che attraverso una narrazione a senso unico, che vede il popolo israeliano vittima dei feroci attacchi dei “terroristi di Hamas”, tentano di creare le condizioni etiche che possano giustificare l’annientamento della popolazione palestinese.

Siamo stanchi della quotidiana conta dei morti a Gaza, della retorica dell’antisemitismo che tenta di bloccare qualsiasi forma di dissenso verso lo stato israeliano, dei benpensanti ottusi che vedono in Israele un avamposto democratico in un territorio popolato da “feroci barbari”, come siamo stanchi di ascoltare una propaganda ad uso di decerebrati che parla di bambini decapitati, stupri di massa e massacro di civili inermi israeliani.

Non siamo disposti a tollerare ulteriormente questa situazione. Coscienti della difficoltà di aiutare materialmente la popolazione di Gaza e della Cisgiordania nella loro terra, possiamo e dobbiamo intraprendere dei percorsi di lotta radicale che mettano in luce le responsabilità criminali del governo italiano, oltre che tentare di bloccare i meccanismi, basati sul mero interesse economico e strategico, che alimentano questo stato di cose.

Bloccare la macchina tecno­industriale che lavora nella produzione di strumenti civili e militari oltre che i progetti che varie università italiane portano avanti con aziende israeliane, ribaltare la narrazione dei pennivendoli di stato è possibile oltre che necessario.

Anarchici/e per la resistenza palestinese

Testo in PDF


CONTRO LA MILITARIZZAZIONE DELLA SOCIETA’

Militarizzazione significa ampliare il campo dell’azione militare, tanto in forma teorica quanto in forma concreta in un territorio e nella società, ed è quello che negli ultimi anni stiamo vivendo in forma sempre più evidente.
I recenti conflitti dall’Ucraina al genocidio che Israele sta attuando in Palestina e i conseguenti effetti in medio oriente, passando per altri conflitti accesi ma meno conosciuti e presenti nei media, hanno spinto gli Stati ad armarsi in forma sempre maggiore. Per diversi paesi occidentali in questi anni gli investimenti bellici sono cresciuti raggiungendo livelli che non si vedevano dalla fine della guerra fredda. Basti pensare che l’Italia spende mediamente 74 milioni di euro al giorno in spese militari e che queste cifre sono considerate ancora poco dagli alleati della Nato.
Questa corsa agli armamenti, non si manifesta solo attraverso la compravendita di armi e i conflitti in paesi “lontani”, ma si esercita anche nei nostri territori e nelle nostre vite, contro i nemici interni, che sono di volta in volta i derelitti più sacrificabili in nome della sicurezza: poveri, migranti, dissidenti.
Qui a Napoli è da anni che lo Stato risponde a qualsiasi problema di natura sociale aumentando la presenza di polizia e militari nelle strade, basti pensare all’operazione Strade Sicure che dal 2008 prevede una massiccia presenza di pattuglie che ormai nell’indifferenza più totale della popolazione controllano strade e quartieri della città.
Una grande salto in avanti in questo senso è stato fatto durante la pandemia da Covid-19, di nuovo nell’indifferenza della maggior parte, il governo ha disposto polizia e militari nelle strade mentre terrorizzava con una funzionale propaganda di guerra chiunque disertasse dalla linea dettata.
Un’altra forma in cui la militarizzazione dei territori si manifesta è nell’investimento in infrastrutture che hanno come scopo quello di facilitare la mobilità per le truppe e gli armamenti. Tentativo cioè di adattare la geografia della penisola allo scacchiere di guerra globale, esempio di questo ne è, fra gli altri, la costruzione del ponte sullo stretto, che come è stato appurato, dovrebbe rientare nel Trans European Transport Network TEN-T il cui scopo dichiarato è quello di creare una rete in grado di soddisfare “un piano di azione sulla mobilità militare 2.0”
La volontà dello stato di portare la disciplina di guerra ovunque ha trovato un grande laboratorio nelle scuole e nell’università. Da un lato sempre più scuole indottrinano giovani menti alla disciplina militare invitando militari a mettersi in cattedra. Dall’altro le caserme diventano sempre più luogo ideale per portare bambine e ragazze in gita. A spianare la strada a questo processo, l’uso sempre piu’ normalizzato del linhuaggio bellico nella vita quotidiana.
La questione del sapere e della ricerca universitaria funzionale alla guerra è poi un grande tema.
Infatti il doppio uso delle tecnologie e delle ricerche prodotte dalle università in ambito civile che poi vengono trasmesse all’ambito militare e viceversa è una grande questione aperta dai tempi della bomba atomica. Il fatto che le università collaborino con industrie belliche, come sempre di più sta succedendo, non solo permette una maggiore permeabilità nello scambio di ricerche fra civile e militare, ma contribuisce ad una sempre maggiore legittimazione del campo militare.
Il fatto che la militarizzazione permei la societa’ civile e la corsa agli armamenti sia sempre piu’ evidente rendono chiaro quanto uno scenario di guerra alle nostre latitudini sia sem- pre piu’ possibile.

FUORI LA GUERRA DALLE UNIVERSITA’, DALLE SCUOLE, DAI TERRITORI E DALLE NOSTRE VITE! LA GUERRA E’ OVUNQUE E CONTRO TUTTI, ESCLUSO CHI NE TRAE PROFITTO… QUINDI GUERRA ALLA GUERRA!

Testo PDF


Lo stato italiano è complice di Israele nel genocidio palestinese. La guerra che vediamo in televisione si produce qui. 


SORVEGLIANZA SOCIALE E SORVEGLIANZA SPECIALE

A dicembre il tribunale di sorveglianza di Napoli, su richiesta firmata dal questore di Napoli Maurizio Agricola, ha disposto l’applicazione della misura di sorveglianza speciale per Zac (ora prigioniero nel carcere di Terni) per due anni e sei mesi con le seguenti restrizioni: di non allontanarsi dall’abitazione senza preventivo avviso dell’autorità di sorveglianza, di non uscire prima delle 7 e non rientrare dopo le 20, di non associarsi “abitualmente” a persone condannate o preposte a misura di prevenzione o sicurezza, di non accedere a esercizi pubblici e di pubblico trattenimento, vivere onestamente rispettando le leggi, non detenere né portare armi, darsi alla ricerca di un lavoro, non partecipare a pubbliche riunioni, di portare sempre con sé la carta di permanenza, di presentarsi ogni domenica, o comunque a ogni invito, all’autorità preposta alla sorveglianza. A ciò si aggiunga una cauzione di 3000.00 euro da versare come garanzia, ma frazionabile in cinque comode rate.

La misura sarà eseguita non appena Zac uscirà dal carcere, a prescindere dall’esito del processo per 280 bis e 270 quinques, che intanto continua.

Ad oggi, la guerra contro il nemico interno si è sovrapposta irrimediabilmente a quella contro il nemico esterno, in un unico movimento per l’accumulo di predominio politico, economico e culturale che va innanzitutto a svantaggio delle popolazioni e degli oppositori.

In questo quadro l’accorpamento della magistratura antimafia e antiterrorismo (2015) ha generato una macchina strapotente che si autoalimenta con sempre nuove inchieste e mezzi a disposizione per sorvegliare sempre più persone o far credere di farlo, con l’obiettivo di instillare la paura e fare il vuoto intorno a chi viene colpito più direttamente.

Contro ogni distinzione tra colpevoli e innocenti, che è puro arbitrio dell’inquisizione democratica, sostenere le ragioni della rivolta e le identità messe sotto attacco, è una questione di autodifesa collettiva. Gli strumenti repressivi sempre più duri che vengono usati contro determinate categorie di persone sono destinati ad espandersi. L’ampliamento del regime del 41 bis, la storia recente dello strumento repressivo del 270 (associazione sovversiva), l’imputazione di Zac per 270 quinquies (autoaddestramento), il pacchetto sicurezza, il decreto Caivano, l’estensione della sorveglianza e della carcerazione a tutti i livelli, ne sono un esempio. Su questa stessa scia, i sindacati autorganizzati vengono accusati di associazione a delinquere, la lotta dei disoccupati organizzati diventa estorsione, gli scontri in strada puniti con l’aggravante camorristica, le pubblicazioni o gli striscioni censurati con l’accusa di istigazione a delinquere o apologia di terrorismo.

Anche l’estensione delle misure di prevenzione e del dispositivo della “sorveglianza speciale” – storicamente usate per punire poveri, briganti e antifascisti – è una delle tante conseguenze della fusione di apparati antimafia e antiterrorismo e della necessità di equiparare l’armamentario di guerra contro la criminalità organizzata e quello (mediatico, giuridico, linguistico) contro i dissidenti. Non è un caso che nell’odierno stato di emergenzialità permanente queste misure vengano richieste e elargite automaticamente e parallelamente all’accusa di terrorismo – come nel caso di Zac – o anche ben prima. Basta essere costretti in una delle categorie costruite, col linguaggio e col diritto, come “socialmente pericolose”, per vedere le proprie residuali “libertà”, già di per sé forme illusorie del sistema democratico, ulteriormente ristrette dalla sfilza di obblighi e divieti prescritti dalle misure di prevenzione. Questo sistema è storicamente espressione di una radicata cultura del sospetto e della tendenza, fin dalla colonizzazione del Sud Italia, a trasformare le questioni sociali, gli ideali e le lotte in problemi giudiziario-criminali.

Fino ai nostri giorni, quando l’obbligo di dimora, il domicilio coatto, il coprifuoco, il divieto di frequentare luoghi pubblici e di intrattenimento, che sono l’armamentario dispiegato dalle misure di prevenzione, sono stati oggetto di una sperimentazione di massa in tempi di guerra contro un nemico invisibile, quando il terrorista era un virus, e tutti indiscriminatamente, dovevano mettersi al riparo seguendo le regole di distanziamento sociale, umano e politico.

La morale securitaria che connota il XXI secolo e il terrorismo di Stato che opera attraverso l’apparato mediatico e giudiziario antiterroristico porteranno all’estensione su scala sempre più ampia di questi strumenti già impugnati contro gli oppositori del passato, grazie all’indeterminatezza costitutiva della norma e all’attuale momento storico. Tradendo i presupposti dello stesso (raccapricciante) diritto borghese, nato sul principio (comunque di impossibile applicazione se laddove c’è Stato non c’è libertà) che il corpo dovesse restare “libero” fino all’accertamento in sede processuale di una presunta colpevolezza (che non è già vero nel caso della carcerazione preventiva), le misure di prevenzione avvinghiano alle loro catene di carta intere categorie di persone senza alcun bisogno di processare degli atti come reati, perché a essere “rea” è già solo la personalità, l’ambiente, la condotta, l’idea. Questi dispositivi di psicopolizia, del resto, non sono volti a punire “reati”, ma a evitare che possano verificarsi, perciò impongono sequele di processi alle intenzioni, o meglio, ai pensieri potenzialmente trasformabili in atti… prima che si trasformino in atti. La sorveglianza speciale, quindi, è potenzialmente elargibile a chiunque, persino (si veda il decreto Caivano) a degli adolescenti. Un mezzo strapotente.

La criminalità organizzata di Stato che ha ipotecato le nostre vite al capitale sembra avere campo sempre più largo per reprimere il dissenso e per poter eseguire il prelievo necessario alla ristrutturazione capitalistica in corso, resa possibile dalla transizione digitale. Questa neoschiavitù, in cui ogni corpo è diventato una miniera da cui estrarre dati, è la più infame delle estorsioni.

Ma una cosa è certa. Quando pandemia, guerra e “transizione” digitale richiedono una sorveglianza sempre più estesa e la rendono possibile affiancando le catene di carta che ci legano al controllo poliziesco-giudiziario con le catene di fibra ottica che ci connettono alla rete del controllo elettronico, diventa sempre più visibile e tangibile quanto l’intera società sia ora più che mai un carcere a cielo aperto. Tra strumenti di carcerazione preventiva e luoghi di carcerazione punitiva, la distinzione, benché concreta, diventa sempre più sfumata nella testa di quanti vivono con insofferenza la proliferazione di catene multiple, e di quanti hanno come orizzonte la libertà.

La repressione poliziesco-giudiziaria selettiva contro anarchici e dissidenti, e la repressione culturale e digitale contro intere popolazioni si somigliano sempre più nei fini quanto nei mezzi, per un mondo di deradicalizzati da memoria, personalità e idee. In un mondo diviso da sempre più sbarre fisiche e digitali, chi potrà dire di non essere un sorvegliato speciale?


IL FRONTE INTERNO DELLA GUERRA

Questa società non ha più nulla da offrire se non malattie, morte, guerre.

E ottuso realismo politico, il più meschino nemico dei sogni. La vittoria del realismo contro l’utopia cercherà sempre più di far quadrare i conti in un’equazione senza scampo, di farci credere che la vita in ogni suo aspetto è totalmente sotto vigilanza, che il controllo totale può esistere a dispetto di ogni imprevisto.

Dalla fine della seconda guerra mondiale, la ghigliottina nucleare sospesa sulle nostre teste è stata un attacco senza precedenti alle possibilità di autodeterminazione di popoli e individui, perché la morte collettiva è diventata un bottone da premere. Un ricatto senza se e senza ma.

Oggi, l’intelligenza artificiale che sta per pervadere ogni infrastruttura sociale, economica e politica è una rivoluzione senza confini, se non quelli che le nostre coscienze e mani sapranno porre, perché finirà per eliminare anche la necessità ultima dell’operatore umano che preme quel dannato bottone. Al suo posto, un banale algoritmo. Quello stesso algoritmo che in un futuro prossimo si sostituirà nelle aule di tribunale al meccanismo già diabolico delle (im)perizie tecno-scientifico-industriali (un vero e proprio business) che ad oggi decide della libertà di migliaia di persone incarcerate.

È davvero questa la banalità del male, un insieme di ripetitive, automatiche e cieche procedure tecniche che attraverso software di elaborazione dei dati secondo parametri arbitrari pretendono di costruire verità inconfutabili in questa parte del mondo e massacri altrove. Se non vogliamo che in un domani non troppo remoto sia un algoritmo a decidere della vita e della libertà, è necessario attaccare il paradigma tecno-scientifico-industriale che domina tanto nella società, nelle aule di tribunale e sui campi di guerra, col suo ventaglio di mezzi (dalla videosorveglianza, alla videoconferenza, ai droni).

Più il male è banale, ancora più banale dell’impiegato burocrate, banale quanto una macchina robotica, più si cercherà di banalizzarlo: l’intelligenza artificiale, in fondo, è solo una soluzione tecnica ai problemi dell’umanità – non importa quanto questi siano il prodotto di scelte tecniche passate. E poi permetterà di curare malattie incurabili, di vincere la guerra, di costruire città più sicure e funzionali alla frenesia del nostro tempo. Non importa quanto i ritmi del lavoro e della competitività diventeranno insostenibili per gli esseri umani che non vorranno collaborare, o peggio, assimilarsi alla macchina. Non importa quanto la creazione di immagini false ma assolutamente verosimili ci renderà totalmente incapaci di informarci e irrimediabilmente diffidenti verso le nostre possibilità di comprendere qualcosa del mondo e di intervenire su di esso, azzerando ogni prospettiva che guardi al futuro e mettendoci all’angolo con la sensazione di essere caduti nella trappola di un controllo totale. È contro questo realismo che rischia di imporre una volta per tutte la più orribile delle distopie, che è fondamentale andare al sodo, selezionando le sole informazioni che contano davvero per metterci di traverso a un futuro fatto di isolamento, infelicità e ingiustizia.

L’accumulazione capitalistica di miliardi dati per far funzionare le tecnologie che servono a combattere la guerra, nel dominio di poche multinazionali che stringono accordi con le università finanziandone la ricerca, sarebbe impensabile senza i data-center localizzati che li conservano. Una guerra per il controllo delle materie prime e delle risorse che servono a realizzare le tecnologie che governeranno il futuro non può essere combattuta senza fabbriche di armi, senza le infrastrutture che servono al flusso di informazioni e uomini; senza la ridefinizione giornalistica e accademica dei nuovi nemici interni e esterni; senza il pacifico consenso del fronte interno dell’opinione pubblica all’economia di guerra che ci hanno imposto col rincaro dei generi primari (cibo e energia); e alla cultura dell’odio tra sfruttati.

Perciò, non possiamo avere paura di estendere l’idea che abbiamo della guerra. È necessario prendere atto dell’impossibilità di distinguere la guerra al nemico interno dalla guerra contro il nemico esterno, tra i tempi di guerra e i tempi di pace, così come tra produzione e ricerca tecnologica militare e civile, perché fino a che esisterà, lo Stato è e sarà sempre uno strumento di guerra: contro altri stati, contro popoli e territori colonizzati, contro la natura e gli individui in rivolta. L’accumulo e il mantenimento di potere nelle mani di pochi a danno dei più è una guerra permanente combattuta quotidianamente con tutti i mezzi necessari, dallo sfruttamento senza confini sui luoghi di lavoro alla cascata di bombe sui cieli di interi territori. Il pericolo di distruzione dei posti di lavoro legato all’intelligenza artificiale è direttamente proporzionale al pericolo di distruzione materiale della sua applicazione alle tecnologie militari. Questo stato di guerra a tutti i gradi si esprime all’interno dei confini nazionali con la riabilitazione del lavoro minorile per mezzo dell’alternanza scuola-lavoro, con la militarizzazione dei quartieri, delle scuole, del conflitto sindacale. Per quanto non sia mai esistita una scuola neutrale, la sua attuale militarizzazione le rende sempre più luogo di arruolamento forzoso, di uniformazione per accettare l’esistenza dell’uniforme, della forza armata che tiene l’umanità divisa tra oppressi e oppressori e che si oppone a ogni tentativo di liberazione.

Mentre piovono bombe dai cieli d’Israele, da questa parte del mondo siamo bombardati dalla frenesia violenta di un flusso di notizie in cui è impossibile distinguere ciò che importa. La nostra coscienza diventa muta davanti a questa difficoltà di comprensione e di immaginazione, il nostro sguardo cieco a ogni prospettiva futura. Come possiamo ripartire dall’utopia per combattere la resa a questo destino dominato dalla razionalità del meno peggio? Il realismo politico vuole intimidirci col ricatto che due o tre guerre piccole contro gruppi terroristi e Stati canaglia siano meglio di una grande guerra da cui si potrebbe anche uscire sconfitti. In parte ci sono già riusciti, paralizzando ogni movimento di solidarietà internazionalista tra oppressi che potesse ostacolare l’invio di armi e imporre dal basso il cessate il fuoco, con l’operazione mediatica che ha beceramente assimilato la resistenza ucraina alla lotta partigiana contro il nazi-fascismo.

Ma se continuiamo a sentirci “al sicuro” perché “tanto la guerra è lontana”, abbiamo fatto davvero male i conti. L’assassinio, o, ancora peggio, il suicidio di ogni etica non conforme alla logica realista di un mondo dominato da guerra e intelligenza artificiale significa la vittoria di una logica di conquista e mantenimento del potere di pochi, in fondo talmente irrazionale, da rischiare il massacro dell’intera umanità.

Come soli antidoti: disfattismo rivoluzionario e solidarietà a chi si ribella! rendendo impossibile la percezione e la realizzazione di un sistema di guerra e controllo totale.

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BOLZANO: ABBATTERE LE FRONTIERE DAL BRENNERO ALLA PALESTINA – CORTEO

Manifestazione “From Gaza to Brennero smash the borders”

3 marzo 2024, ore 14.30

Via Museo/Cassa di Risparmio (Bolzano)

Diffondiamo:

Mentre viene trasmesso in diretta televisiva l´orrore del genocidio del popolo palestinese, il prossimo 5 marzo la Corte di Cassazione si pronuncerá sulle condanne per la manifestazione contro il muro del Brennero del maggio 2016. Se saranno confermati i 130 anni complessivi inflitti in appello, per alcune decine di compagni/e si apriranno le porte del carcere.

A distanza di otto anni il senso di quella giornata é sempre piú attuale. Guerre, razzismo, frontiere, muri e filo spinato sono l´emblema del nostro presente. Dalla guerra fra NATO e Russia in Ucraina alla Gaza sotto assedio totale in cui la popolazione é alla fame, dai lager della Libia ai morti nel Mediterraneo e al Brennero, le frontiere continuano a determinare la vita o la morte di chi prova a superarle. Se a Gaza e nel resto della Palestina una parte di umanitá considerata “di scarto” é direttamente sterminata, nel resto d´Europa gli immigrati “indesiderabili” senza documenti vengono sfruttati o rinchiusi nei CPR, strutture di detenzione amministrativa, dove spesso trovano la morte.

Oggi come ieri scendiamo in piazza, certi di essere dalla parte giusta della storia, quella degli oppressi e di chi lotta per la propria libertà ed emancipazione. Con il cuore gonfio di rabbia per il genocidio in corso in Palestina, con il cuore pieno di amore per tutti i compagni che nel 2016 hanno messo in gioco la propria libertá per rompere l´indifferenza e l´apatia con cui troppo spesso vengono accettati i peggiori crimini compiuti dal potere.

Con il cuore a Gaza ed agli oltre 9000 prigionieri palestinesi vessati nelle carceri israeliane.

Chi lotta non é mai solo. Dalla Palestina all´Italia solidarietà internazionalista contro guerre e frontiere! Free all political prisoners!

freepalestinebz@inventati.org

Während der grauenvolle Völkermord am palästinensischen Volk live im Fernsehen übertragen wird, fällt das Kassationsgericht am 5. März die Urteile für die Demonstration im Mai 2016 gegen die Brenner-Mauer. Wenn die insgesamt 130 Jahre Gefängnis, die im Berufungsverfahren erhoben wurden, bestätigt werden, landen mehrere Dutzend Genoss:innen im Gefängnis.
Nach acht Jahren wird die Bedeutung dieses Tages immer aktueller. Kriege, Rassismus, Grenzen, Mauern und Stacheldraht sind emblematisch für unsere Gegenwart. Grenzen entscheiden nach wie vor über Leben und Tod derer, die versuchen, sie zu überschreiten – vom Krieg zwischen NATO und Russland in der Ukraine bis zum vollständig belagerten Gazastreifen, in dem die Bevölkerung verhungert, von den Lagern in Libyen bis zum Tod im Mittelmeer und am Brenner. Während in Gaza und im restlichen Palästina ein Teil der Menschheit, der als “Abfall” betrachtet wird, direkt ausgelöscht wird, werden in Europa “unerwünschte” Einwanderer:innen ohne Papiere ausgebeutet oder in Präventivhaftanstalten eingesperrt, wo sie allzu oft zu Tode kommen.
Heute wie gestern gehen wir auf die Straße, in der Gewissheit, dass wir auf der richtigen Seite der Geschichte stehen, auf der Seite der Unterdrückten und derjenigen, die für ihre Freiheit und Befreiung kämpfen. Mit dem Herzen voller Wut über den andauernden Genozid in Palästina, mit dem Herzen voller Liebe für all die Genossinnen und Genossen, die 2016 ihre Freiheit aufs Spiel gesetzt haben, um die Gleichgültigkeit und Apathie zu brechen, mit der allzu oft die schlimmsten Verbrechen der Machthaber:innen hingenommen werden.
Unsere Herzen sind in Gaza und bei den mehr als 9.000 palästinensischen Gefangenen, die in israelischen Gefängnissen schikaniert werden.
Wer kämpft, ist nie allein. Internationale Solidarität gegen Kriege und Grenzen, von Palästina bis nach Italien! Free all political prisoners!
freepalestinebz@inventati.org

ORA COME ALLORA

Riceviamo e diffondiamo un testo in solidarietà ai condannati/e del Brennero da Udine.

Il 7 maggio del 2016 un corteo di diverse centinaia di persone si batte per diverse ore al passo del Brennero bloccando autostrada e ferrovia per più di mezza giornata, in risposta alla proclamata intenzione del governo austriaco di costruire un muro anti-immigrati alla frontiera italo-austriaca con la complicità dell’Italia.
Lo Stato decise di processare per quella giornata in totale più di 120 compagni e compagne. La sentenza d’appello ha alla fine condannato 63 di loro a più di 125 anni di carcere. Qualora le condanne fossero confermate in Cassazione, il 5 marzo prossimo, una trentina tra compagne e compagni potrebbero finire in carcere, molti altri e altre ai domiciliari.

Erano gli anni in cui il governo italiano di centro-sinistra iniziava a pagare i signori della guerra libici e le loro milizie di assassini per il blocco e l’internamento nei lager libici di centinaia di migliaia di donne e uomini in fuga da comunità e territori devastati dal colonialismo occidentale e il Mediterraneo diventava un cimitero sempre più vasto; in cui i Balcani ridiventavano costante luogo di transito verso l’Europa, con quella che venne definita rotta balcanica; in cui, all’interno dei confini nazionali, con i “pacchetti sicurezza” Minniti e Salvini lo Stato e il capitale nostrano imprimevano un’ulteriore accelerata – all’interno di una generale continuità inaugurata già molti anni prima – alla guerra ai poveri, ai marginali, ai devianti, ai ribelli, a chi non può o non vuole piegarsi ai ricatti dello sfruttamento, del decoro, del lavoro salariato, della repressione.
Da quei giorni le cose non sono certo migliorate, anzi. Chi cerca di fare ingresso nella fortezza Europa dopo aver affrontato il deserto e i lager libici, o i campi, le deportazioni e i pestaggi delle polizie balcaniche, francesi o ungheresi viene lasciato deliberatamente affogare in mare o morire di freddo in montagna o per strada.
Il genocidio portato avanti (col fondamentale supporto degli alleati occidentali) dallo Stato sionista di Israele verso la popolazione palestinese a Gaza e in Cisgiordania, la guerra tra la Nato e la Federazione Russa in Ucraina generano profitti enormi per l’industria militare e per il comparto della ricerca al servizio dello sviluppo e del rinnovamento del sistema bellico-industriale, la quale è la prima complice e responsabile della morte, del ferimento, della tortura e dello stupro di milioni di oppressi e oppresse.

Sui fronti interni, solo per considerare il nostro, il lascito della gestione militare dell’“emergenza” Covid-19 – oltre ad un riuscito esperimento di mobilitazione generale della popolazione in un simulato scenario di guerra – è un deciso avanzamento del controllo dello Stato e delle sue polizie in ogni ambito della vita, reso possibile non solo dalla presenza fisica di sempre più sbirri e militari nelle strade, ma soprattutto dalla digitalizzazione che tritura quasi ogni anfratto della quotidianità.
Un avanzamento che prefigura e prepara – tanto nel discorso pubblico e quanto nelle realtà dei territori – a conflitti che potrebbero estendersi ben oltre le loro dimensioni attuali.
La guerra di Stato e padroni a sfruttati e sfruttate si fa ogni anno, ogni mese, sempre più aperta e brutale; basti citare l’ultimo pacchetto sicurezza del 2023, i decreti “Piantedosi”, “Cutro” e “Caivano”. Quest’ultimo nato a seguito di due fatti di violenza di genere, che però non è affatto centrale nel decreto ma funge da mera giustificazione per la repressione autoritaria dei minorenni delle periferie. Tutti questi decreti sono volti ad aumentare il carico di sfruttamento e repressione per lavoratori e studenti in lotta, occupanti di case, migranti, per chi si rivolta in carcere o nei CPR, per tutti gli esclusi e le escluse da un ordine in via di lento disfacimento e per questo sempre più aggressivo nel portare avanti i propri progetti di ristrutturazione – in senso tecnico, economico,
sociale, ed in definitiva autoritario – nel tentativo di sopravvivere al tracollo innescato dalle sue stesse incessanti attività distruttive.
Ogni giorno che passa il legame tra frontiere e guerra è sempre più lampante anche nel territorio del Friuli Venezia Giulia, “ultima tappa” della rotta attraverso i Balcani percorsa da coloro che abbandonano luoghi devastati dalle guerre presenti e passate condotte dell’Occidente nel continente asiatico per il saccheggio di materie prime e il controllo dei territori dove vengono estratte; dove il fiume Isonzo, il CPR ed il CARA di Gradisca offrono, a pochi metri di distanza uno dall’altro, un ottimo esempio dei diversi gradi di selezione delle “eccedenze umane” di cui il sistema dell’“accoglienza” è complice; dove si fanno enormi profitti con le commesse per regimi democratici e dittatoriali in guerra permanente, negli stabilimenti Leonardo di Ronchi dei Legionari, di Fincantieri e Goriziane Spa; dove ci si prepara pian piano alla guerra all’interno dei patrii confini, con ben quattro progetti di cosiddette caserme verdi, ossia il concetto di integrazione civile-militare applicato direttamente alla vita quotidiana dei territori intorno agli avamposti delle forze armate.

Ora come allora siamo dalla parte di chi, con l’azione diretta, decide di attaccare le strutture e i responsabili di questo sistema di annientamento e devastazione, anche perchè “abbattere le frontiere non può essere solo uno slogan con cui reclamare il ritorno a Schengen o una diversa politica di “accoglienza” da parte delle istituzioni e nemmeno una mera espressione di solidarietà nei confronti dei profughi. Significa battersi autonomamente – con quelli che ci stanno – per sconvolgere un ordine sociale marcio fino al midollo”.

Solidali e complici con i condannati/e per il corteo del Brennero

Udine, febbraio 2024

BOLOGNA: IN STRADA CONTRO LA SCHEDATURA GENETICA

LUNEDÌ 19 FEBBRAIO ORE 17 in PIAZZA DEL TEATRO TESTONI a Bologna.


CONTRO LA SCHEDATURA GENETICA SOLIDARIETÀ AI COMPAGNI E ALLE COMPAGNE COLPITE

In questi giorni a Bologna alcune/i compagnx sono stati raggiunti dalla disposizione di prelievo coatto del DNA, braccati sul proprio luogo di lavoro o nelle loro case, altrx compagnx rischiano di andare incontro alle medesima sorte nei prossimi giorni.

Questa operazione si inserisce nell’ambito di un’inchiesta per 270 bis (associazione con finalità di eversione dell’ordine democratico) che vede coinvolti 19 compagnx: inchiesta che prende le mosse dalla mobilitazione in solidarietà allo sciopero della fame di Alfredo Cospito, contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo.

Durante lo sciopero della fame di Alfredo, a Bologna come in tante altre città, la solidarietà è stata ampia e trasversale: non stupisce perciò questa disposizione generalizzata di prelievo coatto del DNA, che concretizza la possibilità di schedare geneticamente chiunque, anche solo per l’accusa di aver partecipato o portato solidarietà ad un presidio!

E’ interessante notare come nonostante si cerchi la corrispondenza con tracce biologiche appartenenti a un individuo di sesso maschile, rinvenute su di un accendino trovato in prossimità del luogo dove erano stati incendiati alcuni ripetitori, fatto per cui sono indagatx solo 5 persone; il prelievo del DNA sia stato disposto per tuttx lx 19 indagatx, poiché, come si legge nell’ordinanza siglata dalla GIP, si rende necessario verificare “se l’accendino rivenuto sul luogo dell’attentato incendiario sia riconducibile direttamente o indirettamente (per le donne) agli attuali indagati o agli altri soggetti appartenenti alla galassia anarco-insurrezionalista che ha rivendicato l’attentato”.

Ci troviamo di fronte a un cambio di paradigma della procedura repressiva: se prima si dovevano avere delle prove da associare a dei presunti sospettati, adesso si trovano dei sospettati predeterminati su cui cucire le prove.

Una vera e propria schedatura genetica su base ideologica, che colpisce non solo le individualità anarchiche e le loro azioni, ma anche chi ha inteso portare la propria solidarietà sostenendo, ciascuno secondo il proprio sentire e con le proprie modalità, lo sciopero della fame di Alfredo e la lotta contro il regime di tortura del 41 bis.

Ribadiamo la nostra solidarietà alle persone indagate, braccate dagli sbirri e costrette a farsi prelevare il DNA. Ribadiamo che aldilà dei fantasiosi castelli inquisitori e delle fantomatiche associazioni eversive, in quei giorni nelle strade e nelle piazze al fianco di Alfredo, a dire che il 41 bis è tortura e che il carcere uccide c’eravamo tutte e tutti…

Più forte dell’amore per la libertà c’è solo l’odio per chi ce la toglie

Compagne solidali

MILANO: NÉ PRIGIONE NÉ ESTRADIZIONE – MANIFESTAZIONE ANTIFASCISTA

Diffondiamo:

NÉ PRIGIONE NÉ ESTRADIZIONE
📢 APPELLO PER LA MANIFESTAZIONE ANTIFASCISTA
MILANO, COLONNE DI SAN LORENZO
17 FEBBRAIO, 18.30
Dopo il corteo antifascista del 13 gennaio scorso che ha visto molte persone scendere in piazza in solidarietà agli e alle arrestate e ricercati per gli attacchi contro alcuni neonazisti a Budapest durante le celebrazioni per il “Giorno dell’onore” nel febbraio 2023, scegliamo di tornare un’altra volta in strada.
Aver attraversato così numerosi le vie di Milano dimostra che siamo tanti e tante convinte che sia giusto opporsi al fascismo e che sia importante farlo in prima persona senza delegare alle istituzioni o allo stato il compito di proteggerci dalla violenza e dall’odio fascista; che vogliamo agire fuori dal teatrino mediatico che vede in contrasto maggioranza e opposizione; che sia importante continuare a lottare.
Il 29 gennaio si è svolta la prima udienza del processo a Budapest che si prevede duri almeno un altro anno. Il 13 febbraio a Milano si è svolta un’altra udienza in merito all’estradizione del compagno ai domiciliari che è stata rinviata al 28 marzo chiedendo all’Ungheria una misura di detenzione alternativa al carcere. Anche altri due compagni in Europa sono in attesa delle procedure in seguito all’esecuzione del MAE.
Mentre sulla stampa mainstream i partiti politici fanno campagna elettorale sulla pelle delle persone arrestate e ricercate per i fatti di Budapest, noi vogliamo continuare a esprimere la nostra solidarietà ai compagni e alle compagne che oggi non possono essere al nostro fianco.
Sentiamo forte l’urgenza di opporci alle politiche securitarie dell’Italia e degli altri Paesi europei che collaborano sempre più strettamente nell’ambito del controllo e della repressione. Per l’indagine di Budapest sono stati infatti spiccati 14 MAE (Mandato d’Arresto Europeo), uno strumento che velocizza e semplifica la cooperazione giudiziaria europea, ridotta a pratica amministrativa sempre più basata sulle informative di polizia e priva delle garanzie della procedura giuridica ordinaria. La semplificazione delle procedure a riguardo attuata negli ultimi anni è a senso unico: avvantaggia le richieste afflittive nel mentre rende più difficili possibili alternative alla detenzione. La Ragion di Stato sgomina le tradizionali tutele di chi è “inguaiato con la legge”.
In questo momento di crisi generalizzata in cui peggiorano le condizioni economico-sociali, la guerra infuria appena fuori i confini dell’Europa e al suo interno si rafforzano gruppi e partiti nazi-fascisti, per gli Stati diventa prioritario eliminare qualsiasi forma di dissenso e chiunque decida di lottare e ribellarsi. Per essere vittoriosi sul fronte esterno il fronte interno deve essere pacificato e perciò ogni tipo di opposizione sociale e di contrasto deve essere configurata come “nemico interno da neutralizzare”.
Lo vediamo in Italia con l’inasprimento delle pene per i picchetti e i blocchi stradali, strumenti di lotta fra i più utilizzati dai lavoratori o con l’ultimo Pacchetto Sicurezza del Governo Meloni che prevede l’introduzione di nuovi reati con pene altissime per chi si rivolta all’interno di carceri e CPR, e contemporaneamente conferisce maggiori finanziamenti e poteri alle forze di Polizia.
In Francia intanto si propone di inserire nell’elenco delle organizzazioni terroristiche alcuni gruppi antifascisti mentre in Germania già da tempo la repressione verso questi collettivi e le pratiche che portano avanti è spietata e ha visto nel recente passato la revisione del reato associativo e la sua applicazione per colpirli.
Come possiamo affrontare questa situazione? La tradizione degli oppressi contiene una vasta gamma di pratiche ancora oggi attuali e da riproporre. Nel farlo, è necessario scardinare la dicotomia fra violenza e non-violenza. L’apriori pacifista e legalitario è, come ogni assoluto, un impedimento allo sviluppo di lotte efficaci; come insegnano da oltre sessant’anni gli afroamericani, ci si batte “con ogni mezzo necessario” e, come recita un antico proverbio tedesco, “quando un grave pericolo è alle porte, le vie di mezzo conducono alla morte”.
Perciò siamo al fianco di chi viene accusato di aver aggredito dei nazisti, di aver attaccato sedi dell’estrema destra, di aver contrastato con decisione i dispositivi della Fortezza Europa.
Gli Stati rafforzano i loro legami. Noi rafforziamo i nostri.
LIBERTA’ PER TUTTI E TUTTE