Lugano: Molino rioccupato, aggiornamenti

A 7 mesi dallo sgombero del Molino e’stato riOccupato nella giornata di ieri da compa che si sono barricati all’interno mentre all’esterno alcune centinaia di solidali sosteneva l’occupazione.
In serata polizia in antisommossa ha attaccato il presidio esterno arrestando due compa che al momento sono stat* trasferit* nel carcere di Lugano.
In serata ci sono stati scontri con gli sbirri che hanno sparato lacrimogeni, spray al peperoncino, manganellate e proiettili di gomma. Alcune persone ferite. Il presidio si e’ protratto nella notte.
Alle 4.50 di mattina squadre speciali, polizia cantonale e comunale, pompieri insieme ai servizi di sicurezza privata hanno circondato e fatto irruzione nello stabile. Portando in centrale le persone che erano dentro. Due compa sono riusciti a raggiungere il tetto.

Al momento una compagna resiste ancora sul tetto e rimmarra’finche tutt vengano rilasciat.

Un presidio solidale rimane in sostegno di fronte al Molino e alla centrale di polizia dove si stanno svolgendo interrogatori e perquisizioni alle persone fermate.

Per ulteriori informazioni
Canale telegram @Controinforma-ti

La solidarieta’e’la nostra arma. Usiamola!!!

Aggiornamenti giovedì mattina

“Credevano che simulasse”

Antonio Raddi, 28 anni, morto il 30 dicembre 2019 alle Vallette di Torino per un’infezione polmonare dopo aver perso 25 chili nell’indifferenza dei suoi aguzzini.

Cominciò ad affermare di avere problemi ad alimentarsi ad agosto ma “credevano simulasse”. Il suo compagno di cella racconta che non era più in grado di mangiare e bere quando il 13 dicembre iniziò a “vomitare sangue e defecare, e svenire”. Era entrato in carcere il 28 aprile 2019 con il peso di circa 80 chili: a novembre erano diventati 50. Chi ne certificò l’estremo stato di denutrizione sottolineò di non avere “mai visto niente del genere in 40 anni”.

Nonostante le diverse segnalazioni la direzione del carcere riferiva di non individuare particolari criticità rispetto allo stato di salute del detenuto.

Il 20 novembre, il medico del carcere rispondeva all’ennesima lettera indicando che la perdita di peso fosse voluta: “Una modalità strumentale per ottenere benefici secondari”.

Il 4 dicembre Antonio si presenta al Garante sulla sedia a rotelle. “Implora di intervenire, ha le stesse sembianze di Stefano Cucchi”, verrà scritto, con la richiesta di “una opportuna e urgente rivalutazione clinica con conseguenti provvedimenti del caso”.

Il 10 dicembre il direttore ancora rassicurava sulle sue condizioni: “Il soggetto è ampiamente monitorato”.

Solo tre giorni dopo il ricovero,  il coma e la morte.

Tra qualche giorno verrà discussa la richiesta dei familiari del giovane di non archiviare l’inchiesta. Il pm che ha chiesto l’archiviazione arriva ad indicare il detenuto come “non collaborativo” per giustificare e sollevare da qualsiasi responsabilità lo staff medico e le guardie.

Sanitari complici delle torture in carcere!
Finchè esisteranno quelle mura non ci sarà mai giustizia


Antonio Raddi morto per incuria nel carcere Vallette di Torino. La Procura vuole archiviare

https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2021/12/27/carceri-muore-dopo-aver-perso-25-kg-inchiesta-a-torino_c9fd38b9-33ba-4dd9-bb69-cccc3b5c0c42.html

http://www.ristretti.org/index.php?option=com_content&view=article&id=92345:torino-deperito-in-carcere-e-morto-unaltra-inchiesta-sulle-vallette&catid=220:le-notizie-di-ristretti&Itemid=1

BASTA MORTE NEI REPARTI PSICHIATRICI!! ABOLIAMO LA CONTENZIONE!

Volantino distribuito davanti all’ospedale San Camillo di Roma, a seguito dell’ennesima morte di TSO.


BASTA MORTE NEI REPARTI PSICHIATRICI!!
ABOLIAMO LA CONTENZIONE!!

Abdel Latif, ragazzo tunisino di 26 anni. Era arrivato in Italia tramite una delle tante navi che cercano di approdare, fortunate per non essere state respinte. L’ “accoglienza” che gli è stata riservata, a lui come a tanti/e altre, è stata quella di essere rinchiuso in un CPR, un centro di detenzione per migranti nel quale vieni portato per un reato terribile: non avere il documento “giusto”.
Abdel rimane nel CPR svariati giorni; a un certo punto, da quanto appreso dai giornali, gli viene diagnosticato un disturbo psichiatrico (di cui non aveva mai avuto segni in Tunisia) e gli vengono dati dei farmaci. Dopo pochi giorni la “cura” pare vada rafforzata e Abdel viene trasferito al reparto di psichiatria prima del Grassi di Ostia, poi al San Camillo.
Qui viene tenuto legato al letto per 3 giorni, dal 26 al 28 novembre giorno in cui muore.
Le autorità mediche parlano di arresto cardiaco, non facendo alcun riferimento né ai farmaci somministrati né al fatto che fosse stato contenuto per almeno 72 ore.
Questa storia ci riporta a due verità purtroppo già note: nei reparti psichiatrici italiani si continua a morire di contenzione meccanica, sia in regime di degenza che durante le procedure di TSO. IL CPR è un luogo di detenzione e come tale si fonda sulla violenza e sulla sopraffazione.
La morte di Abdel non è una storia isolata, molti/e hanno subito la sua stessa sorte. Citiamo solo gli ultimi di cui siamo a conoscenza: Guglielmo Antonio Grassi morto nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Livorno; Elena Casetto, arsa viva perché legata… sempre in un reparto psichiatrico.
Ma la l’elenco sarebbe lungo nonostante di molte persone non si conoscano neanche i nomi.
Contenzione meccanica e farmacologica sono pratiche diffuse anche nei CPR, nelle carcere, nelle strutture che ospitano persone anziane e/o non autosufficienti, negli ospedali. In nessun caso la carenza di personale può giustificare il ricorso a pratiche coercitive. La logica dei “motivi di sicurezza”, dello “stato di necessità” o delle “persone aggressive”, a cui sovente si fa appello nei reparti, deve essere respinta poiché fondata sul pregiudizio ancora diffuso della potenziale pericolosità della “pazzia”. Molti ritengono, per atteggiamento culturale o per formazione, che sia giustificabile sottoporre persone diagnosticate come “malate mentali” a mezzi coercitivi, che sia nell’ordine delle cose e corrisponda al loro stesso interesse (!), rimuovendo dal loro orizzonte il valore imprescindibile della libertà della persona. Tanto più rilevante quanto più attinente alle libertà minime, elementari e naturali, come quella di movimento.
Oltre al ricorso alla contenzione meccanica e farmacologica, continua ancora oggi a prevalere nei servizi psichiatrici un atteggiamento custodialistico e l’impiego sistematico di pratiche e dispositivi manicomiali: obbligo di cura, porte chiuse, grate alle finestre, sequestro dei beni personali, limitazione e controllo delle telefonate e di altre relazioni e abitudini. Lo stato di pandemia ha inoltre rafforzato l’isolamento e la distanza tra chi è tenuto rinchiuso/a e chi non lo è, accrescendo le violenze perpetrate all’interno di quelle mura (siano esse del carcere, del CPR, dei reparti di psichiatria).
Ribadiamo la necessità di eliminare, senza alcuna eccezione, la contenzione meccanica nelle istituzioni sanitarie, assistenziali e penitenziarie italiane.
Continueremo a lottare con forza contro ogni dispositivo manicomiale e coercitivo (obbligo di cura, trattamento sanitario obbligatorio, uso dell’elettroshock, contenzione meccanica, farmacologica e ambientale, ecc.) e per il superamento e l’abolizione di ogni pratica lesiva della libertà personale.
Continueremo a lottare contro i respingimenti, i rimpatri, le espulsioni, le frontiere, per la libera circolazione di tutte le persone.

PER UN MONDO SENZA FRONTIERE, SENZA PSICHIATRIA, SENZA COERCIZIONI

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Carcere di Torino: sezione psichiatrica Il Sestante

“Ho visitato la sezione psichiatrica del carcere di Torino: spero che ciò che ho visto non si ripeta mai più”

Link al testo completo qui
di Susanna Marietti, Coordinatrice associazione Antigone

[..]

Al Sestante si trovano circa venti celle, dieci su ogni lato del corridoio. In ciascuna è reclusa una singola persona detenuta. La cella è piccola, sporca, quasi completamente vuota. Al centro vi è un letto in metallo scrostato e attaccato al pavimento con i chiodi. Sopra è buttato un materasso fetido, a volte con qualche coperta e a volte no. Qualcuno, ma non tutti, ha un piccolo cuscino di gommapiuma. Non vi è una sedia né un tavolino. Solo un piccolo cilindro che sembra di pietra dove ci si può sedere in posizione scomodissima. L’intera giornata viene trascorsa chiusi là dentro, senza nulla da fare e nessuno con cui parlare. Unico altro arredo, un orrendo bagno alla turca posizionato vicino alle sbarre, di fronte agli occhi di chiunque passi per il corridoio.

Noi ci siamo passati. Abbiamo dovuto insistere un po’ affinché ci aprissero il cancello della sezione. Ci siamo passati, per quel corridoio, e abbiamo guardato dentro ciascuna di quelle stanze detentive. Ognuna teneva dentro un essere umano. Ma certamente trattato in maniera contraria a quel senso di umanità che la nostra Costituzione chiede alle pene legittime. Alcuni erano solo dei mucchietti di stracci buttati immobili sulla branda. In una cella vi era un uomo sdraiato al buio sul pavimento. Nessuno lo tirava su di là. In un’altra vi era un ragazzo che stava in piedi con la faccia a pochi centimetri dal muro. Non si è girato al nostro passaggio. Teneva i palmi delle mani rivolti verso l’altro, all’altezza delle spalle. Parlava verso quella parete, ogni tanto si girava verso il letto, poi tornava a rivolgere la faccia al muro e parole a chissà che cosa. Barcollava e aveva gli occhi a mezz’asta. Nessuno ci faceva caso.

Qualcuno si è avvicinato alle sbarre al nostro passaggio. Un uomo mi ha chiesto se potevo fare in modo che la turca della sua cella venisse aggiustata. Erano quattro giorni che non scaricava le sue feci, mi ha spiegato. L’ho detto al poliziotto del reparto.

Un altro uomo era al buio. Si è sporto dalle sbarre e mi ha detto che avrebbe voluto un po’ di luce. Il poliziotto che era con me, un po’ imbarazzato, gli ha detto di accenderla con l’interruttore interno, che sicuramente avrebbe funzionato. Ma lui ha detto di no, mancava proprio la lampadina. Mi sono fermata per capire chi avesse ragione. Effettivamente la luce non si accendeva. Non so da quanti giorni quel signore fosse al buio dalle quattro e mezza di pomeriggio fino all’alba del giorno dopo.

Un giovane uomo si teneva a stento in piedi sulle gambe. Aveva un filo di bava che gli colava sulla blusa. Gli occhi semichiusi, come se stesse per addormentarsi in piedi da un momento all’altro. Ha tentato di pronunciare qualche parola rivolto a me che mi ero fermata lì davanti. Faceva fatica ad articolare i suoni. Ha balbettato la parola ‘avvocato’. Gli ho chiesto se avesse avuto modo di parlare con il suo legale. Si è chinato e da un mucchietto di carte per terra ha preso un foglietto con un numero di telefono. L’ho copiato sul mio quaderno e gli ho detto che l’avrei avvisato che si trovava lì. Mi è stato spiegato che l’uomo era a Torino per un periodo di 30 giorni di osservazione psichiatrica, mandato lì da un altro istituto. Non so cosa si possa osservare e diagnosticare in un uomo imbottito di farmaci fino al punto da non riuscire a parlare e a reggersi in piedi.

Nell’ultima cella prima dell’uscita c’era un ragazzino. Avrà avuto 25 anni. Gli ho chiesto come andasse. Le lacrime hanno cominciato a scendergli dagli occhi. Mi ha detto che non capiva perché fosse lì, che gli mancava sua madre e che aveva tanta paura tutte le notti. Mi ha pregato di farlo trasferire. Gli ho spiegato che non avevo alcun potere in questo senso, ma mi sono fatta dare il numero di telefono della mamma, che lui sapeva a memoria.

Gli operatori mi hanno spiegato che erano in attesa che si liberasse un posto in una Rems, le residenze a vocazione sanitaria per l’esecuzione delle misure di sicurezza psichiatriche. Il ragazzo non avrebbe dovuto trovarsi lì, non c’era titolo per la sua detenzione. Sono uscita e ho chiamato la madre. Era contenta che almeno qualcuno avesse visto suo figlio. Lei non ci era riuscita, nessuno le aveva detto dove lo avessero portato. Adesso si apprestava a recarsi a Torino.

[…]

Legami con i prigionieri condannati per violenze sessiste: tracce di riflessione e azione

Legami con i prigionieri condannati per violenze sessiste: tracce di riflessione e azione

Pubblicato su hurriya
Traduzione da
: Paris Luttes

I membri della «Assemblée contre les Centres de Rétention Administrative (CRA) » (Assemblea contro i Centri di Detenzione Amministrativa (CRA)) a volte entrano in contatto con dei prigionieri accusati o condannati per violenze sessuali e sessiste. Se in genere partiamo piuttosto dal presupposto di interagire con le persone nel CRA in quanto persone che subiscono il razzismo di Stato e la reclusione, senza distinguere i loro percorsi di provenienza, che fare una volta che scopriamo che quella persona ha commesso uno stupro o menava la sua compagna? Proviamo qui a proporre qualche spunto.

L’assemblea dell’Île-de-France contro i centri di detenzione esiste da tre anni e può capitare che dobbiamo confrontarci con situazioni complicate nell’intessere legami con le persone detenute all’interno del CRA. Alcuni detenuti con cui eravamo in contatto erano stati condannati per violenze sessiste e sessuali (moleste, violenze coniugali, aggressioni sessuali, stupri). Nella maggior parte dei casi l’abbiamo scoperto perché è stata la persona stessa a dircelo (in generale in seguito al trasferimento al CRA dopo la fine della detenzione in carcere), o perché ce l’ha detto la sua compagna. Nel marzo 2021, a seguito dell’incendio al CRA di Mesnil-Amelot, 7 persone sono state portate di fronte al tribunale di Meaux: durante le campagne anti-repressione che abbiamo tentato di portare avanti, abbiamo messo mano sui loro faldoni giudiziari e abbiamo scoperto molti di loro erano stati condannati per violenze sessiste.
Abbiamo fatto quindi molte discussioni sul tipo di supporto che avevamo voglia di dare loro: anche se eravamo tutt* d’accordo a continuare l’attività minima contro la repressione per esprimere loro la nostra solidarietà dopo la rivolta avvenuta a gennaio, non c’era però consenso sul fatto di supportarli oltre questo (ovvero mantenendo con loro una corrispondenza, andandoci a parlare, mandando loro dei vaglia). Avevano davvero voglia di fare queste cose? Se in genere partiamo piuttosto dal presupposto di interagire con le persone nel CRA in quanto persone che subiscono il razzismo di Stato e la reclusione, senza distinguere i loro percorsi di provenienza, che fare una volta che scopriamo che quella persona ha commesso uno stupro o menava la sua compagna? Nel caso dei prigionieri dell’incendio, eravamo venut* a conoscenza di questi fatti tramite i faldoni giudiziari: volevamo davvero basarci sul casellario giudiziale delle persone, ovvero un prodotto della polizia e della giustizia che rifiutiamo, per costruire la nostra azione politica?

Varie riflessioni hanno attraversato l’assemblea e, alla fine, abbiamo deciso di organizzare una discussione specifica sull’argomento: l’idea era quella di fare un passo indietro, di andarci a cercare altre risorse, di vedere cosa avevano fatto prima di noi altre persone o collettivi. Nel preparare la discussione, non abbiamo trovato quasi nessuna risorsa pratica in francese. C’erano dei testi teorici sul femminismo anti-carcerario che potevano darci degli spunti: tra di noi eravamo in generale d’accordo sul fatto di essere contro il carcere, sul fatto che la prigione non è una risposta efficace o desiderabile contro le violenze sessiste, sul fatto che le persone razzizzate vengono sovra-rappresentate tra i prigionieri sessisti quando, allo stesso tempo, uno stupratore è diventato Ministro dell’Interno e alcuni discorsi femministi vengono strumentalizzati dallo Stato a fini razzisti e repressivi … Ma pur essendo d’accordo sulla teoria, non avevamo risposte per le situazioni concrete con cui dovevamo confrontarci. Abbiamo comunque letto varie cose e discusso a lungo, e anche se non abbiamo trovato la soluzione magica, ci siamo dett* che avevamo voglia di condividere le nostre riflessioni con questo testo.

Qualche riferimento teorico ma poche risorse pratiche

Innanzitutto, abbiamo discusso un po’ di femminismo anti-carcerario e di qualche elemento su cui eravamo d’accordo.

– Siamo contro tutte le forme di reclusione e siamo solidali con le persone prigioniere in cella e nel CRA: non chiediamo di sapere perché ci sono finite. Nel caso del CRA, è più facile perché le persone vengono rinchiuse letteralmente per il solo motivo di non possedere il giusto pezzo di carta; ma essere contro i CRA senza essere contro le prigioni implica un posizionamento moralista e umanitario (il buon prigioniero migrante che non ha fatto niente a differenza del prigionieri cattivo e colpevole) che non ci appartiene. Inoltre, il passaggio dalla prigione al CRA e viceversa è sempre più frequente: non ha alcun senso, quindi, limitare le nostre lotte ai centri di detenzione, perché i due luoghi costituiscono un continuum della stessa politica razzista e repressiva.

– Alcuni discorsi femministi vengono strumentalizzati dallo Stato per mettere in campo politiche razziste e carcerarie: le donne vengono rese soggetti deboli da difendere e i colpevoli sono sempre i poveri, le persone non bianche che rappresentano di fatto la maggioranza della popolazione detenuta. Siamo contro le politiche che affermano che aumentare il numero degli sbirri e dei posti in carcere possa essere d’aiuto nella “lotta contro il sessismo”. Sappiamo che queste politiche non prenderanno mai di mira gli uomini cisgenere bianchi ricchi, che però beneficiano anch’essi del patriarcato.

– La prigione non ci salverà dal patriarcato nel senso che denunciare/intraprendere un processo/mettere in carcere uno stupratore o un marito violento non costituisce in genere una risposta soddisfacente quando si è vittim* di stupro o violenze coniugali. Non si tratta di giustizia riparativa: la vittima viene in genere esposta a un processo penale che può amplificare il trauma e i suoi bisogni (psicologici, materiali, emotivi, ecc.) non sono mai al centro del procedimento. Non si tratta di giustizia trasformativa: i numeri mostrano che il tasso di recidiva dopo la pena in carcere è enorme e il fatto di individuare un colpevole individuale (“tu sei uno stupratore”) permette al resto della società di non affrontare mai le cause strutturali e sistemiche delle violenze sessuali. Infine, se la detenzione in carcere può consentire di allontanare temporaneamente un uomo violento da sua moglie e, quindi, di dare a lei una parvenza di sicurezza, nei fatti la situazione delle persone vittime di violenza coniugale è spesso più complessa (questo spiega anche perché molte donne non sporgono denuncia): la donna si ritrova spesso a doversi occupare della famiglia da sola, oltre a dover inviare denaro al marito in carcere, ecc. Abbiamo incontrato spesso delle donne che continuavano a svolgere una qualche forma di lavoro (quotidiano, invisibilizzato e non remunerato) per il proprio marito detenuto per violenza domestica (andare a colloquio, mandargli dei vaglia o procurargli dei vestiti, per esempio).

Un primo spunto di riflessione per uscire dall’impasse: creare più legami con le donne vicine ai prigionieri

Nella maggior parte dei casi, è il prigioniero a raccontarci che, prima di finire al CRA, aveva scontato un periodo in carcere per violenze sessiste o sessuali. Ci siamo dett* che uno spunto di riflessione potrebbe essere quello di andare a cercare il punto di vista delle donne e di partire da lì nella nostra azione. Dobbiamo sforzarci di più a creare un legame con le persone vicine ai prigionieri: visto che spesso queste continuano a sostenere il loro compagno detenuti, organizzarsi con loro significa fare un lavoro politico vero e proprio.
In effetti, ci rendiamo conto che nelle lotte anticarcerarie, si tiene poco conto del patriarcato. Le lotte delle donne vengono invisibilizzate: sia dentro quando sono prigioniere, sia fuori in quanto vicine ai prigionieri. Spesso le ascoltiamo in quanto testimoni della prigionia dei loro cari, o come messaggere, ma non come persone colpite in prima persona dal – o in lotta contro il – carcere. C’è la tendenza a occuparci più di quello che succede dentro la prigione che dei suoi effetti su chi sta fuori. Questo ha a che fare anche con delle forme di romanticizzazione della rivolta, sotto forma, per esempio, di rivolta dentro al carcere, incendio, prigionieri che salgono sul tetto o in sciopero della fame; e molto meno spesso intesa come una resistenza quotidiana, quella delle donne che vanno a colloquio, che si occupano dell’avvocato, che svolgono il lavoro di cura, che si battono contro l’amministrazione penitenziaria per ottenere i colloqui, ecc. Conoscere meglio queste pratiche di resistenza ci permetterebbe forse di escogitare nuove prospettive di lotta. Se cambiamo la prospettiva, se smettiamo di partire sistematicamente dagli uomini prigionieri per partire invece dalle loro persone care, questo non farà certo sparire il fatto che alcuni di loro hanno commesso delle violenze sessiste, ma può farci considerare le donne (che siano vittime di violenza o no) come attrici della lotta, in una posizione che ridà loro il potere, la capacità di agire e di decidere. Tentare di creare più legami con le donne fuori dal carcere significa anche costruire una solidarietà femminista anticarceraria che non dipende dagli uomini reclusi.

La necessità di rendere più visibili i percorsi e le lotte delle donne prigioniere

È chiaramente più facile a dirsi che a farsi: abbiamo già provato ad avvicinarci a chi è vicino alle persone detenute ed è sempre stato più o meno un fallimento. Tutto è reso ancora più difficile dal fatto che le persone restano recluse nel CRA “solo” 3 mesi: è spesso complesso creare un legame di lungo periodo, sia con loro che con l* loro car*, rispetto ai casi di pene lunghe. Ci siamo comunque dett* che poteva essere uno spunto di risposta interessante alle domande che ci facevamo rispetto ai prigionieri accusati di violenze sessiste e sessuali; e questo ha dato l’avvio a ulteriori discussioni e questionamenti sulle nostre pratiche di lotta.

Innanzitutto, ci siamo dett* che avevamo la tendenza a dare più attenzione ai prigionieri che alle prigioniere. Facendo questo, abbiamo spesso contribuito a riprodurre l’invisibilizzazione che colpisce le detenute e le loro lotte. Ovviamente ci sono più uomini che donne nei CRA, ma il CRA di Mesnil-Amelot è comunque la più grande sezione femminile di tutta la Francia. Uno dei motivi per cui abbiamo dato più spesso spazio ai prigionieri che alle prigioniere sta nel fatto che le rivolte degli uomini vengono più velocemente considerate come tali, perché utilizzano delle modalità d’azione considerate più radicali (come spiegato sopra).

Questa idea secondo la quale le donne sarebbero “naturalmente” meno radicali deve essere messa in discussione. In primo luogo, abbiamo visto varie volte le detenute organizzare delle rivolte in modo più o meno collettivo, per esempio contro le espulsioni o contro le condizioni di detenzione. In alcuni casi, le donne si sono organizzate insieme agli uomini contro le espulsioni, assicurando delle reti di solidarietà all’esterno e sostenendo all’interno un confronto serrato con gli sbirri. Inoltre, se le lotte e le forme di resistenza messe in campo dalle donne possono apparire a volte meno radicali o meno collettive rispetto a quelle degli uomini, è anche perché le condizioni di detenzione di donne e uomini non sono le stesse: di conseguenza, il contesto in cui si esprime la loro resistenza è diverso. Le persone recluse nelle sezioni femminili sono sempre meno numerose (raramente più di 20-30 persone), sono più isolate rispetto ai detenuti maschi, e hanno maggiori difficoltà a comunicare tra di loro a causa di origini nazionali molto diverse. È quindi molto più complicato per loro organizzarsi collettivamente. L’opposizione feroce al controllo che gli sbirri esercitano sull’accesso ai medicinali o ai beni di prima necessità (per esempio ai tamponi o agli assorbenti) costituisce un esempio potente di una resistenza a cui bisogna prestare maggiore attenzione, se vogliamo capire come si è espressa la lotta di alcune prigioniere con cui siamo stat* in contatto.
È necessario anche dire che abbiamo spesso avuto più difficoltà a creare dei legami di fiducia con le donne rispetto agli uomini: in molti casi, i contatti che avevamo tramite chiamate telefoniche non creavano delle condizioni adeguate perché le detenute si sentissero in confidenza di parlare della situazione all’interno. Per questo motivo, abbiamo semplicemente meno informazioni su quello che succede nella loro sezione, e quindi conosciamo meno le loro lotte e le loro resistenze che possono assumere delle forme diverse rispetto a quelle degli uomini. Su questo c’è ancora molto lavoro da fare …

Abbiamo notato anche che tendiamo spesso a considerare d’ufficio le donne come persone in condizioni di vulnerabilità, e quindi a percepirle come soggetti meno politici degli uomini: ci siamo ritrovat* più facilmente a fare lavoro di cura e umanitario con loro rispetto a quanto lo facevamo con gli uomini. Questa differenza rispecchia la divisione genderizzata del lavoro che riproduciamo spesso nell’assemblea: gli uomini dell’assemblea vengono generalmente considerati dai prigionieri come interlocutori legittimi per discutere di mobilitazioni e rivolte, mentre alle donne dell’assemblea vengono formulate delle richieste impegnative di cura. Ma non sono solo i prigionieri a creare questa situazione: gli uomini dell’assemblea (come avviene un po’ in tutti gli spazi militanti) hanno la tendenza ad accaparrarsi i compiti visti come più prestigiosi e a delegare alle donne quelli associati al lavoro di cura. Cambiare questo aspetto richiede una partecipazione attiva dei maschi cis dell’assemblea per rimettere in discussione queste abitudini. Questo cambiamento necessita di una riflessione sui nostri atteggiamenti al telefono o durante i colloqui, su come ci dividiamo i contatti con i prigionieri e più in generale sulla distribuzione dei compiti nell’assemblea.

In conclusione, alcuni spunti per l’azione:

Per concludere, alcuni spunti di riflessione ancora da sbrogliare:

– Riflettere sul ruolo dei maschi dell’assemblea rispetto alle detenute: i maschi devono essere più coinvolti nello stabilire un contatto con le donne prigioniere, e allo stesso tempo fare attenzione al fatto che le prigioniere potrebbero non avere voglia di parlare o incontrare dei maschi, soprattutto se hanno subito violenze sessiste e sessuali in precedenza, ecc. Fare dei gruppi di contatto misti potrebbe essere una prima soluzione.

– Che fare quando ci ritroviamo di fronte a dei detenuti che sappiamo essere stati condannati per violenze sessuali o sessiste o che sono violenti con l* loro car*? Abbiamo discusso molto di questo: alcun* pensano che il loro casellario non dovrebbe interessarci dal momento che subiscono comunque l’istituzione carceraria; altr* pensano che bisognerebbe interrompere i contatti e non perdere tempo con gli stupratori (privilegiando per esempio il contatto con le donne); altr* ancora che non hanno una posizione netta su questo tema. Uno spunto possibile per uscire da questa impasse potrebbe essere quello di non cercare una soluzione magica ma di riflettere su cosa fare caso per caso. Interrompere i contatti con un prigioniero stupratore o mantenerli dipende innanzitutto dalle energie che hanno le persone in assemblea che sono in contatto con lui: in ogni caso, la loro decisione deve essere rispettata. È importante comunque far circolare l’informazione affinché l* altr* compagn* siano al corrente e possano prendere liberamente una decisione. Soprattutto, è fondamentale creare degli spazi all’interno dell’assemblea dove collettivizzare la gestione dei contatti con l’interno e discutere di questo genere di problematiche. Non lasciare l* compagn* sol* a gestirle è forse la cosa più importante.

Questo testo non è che un primo tentativo di riflessione sul tema delle violenze sessiste e sessuali di cui purtroppo si parla troppo poco nei nostri ambienti militanti. Anche se questo testo si basa in alcuni punti su analisi teoriche, vuole essere innanzitutto un punto di partenza per rispondere a delle questioni che ci poniamo spesso nel quotidiano della lotta contro i CRA. Propone più domande che risposte, ma offre comunque, secondo noi, qualche spunto interessante che deve ancora essere testato. Questo testo è soprattutto un invito a continuare il dibattito e la riflessione. Quindi non esitate a farlo circolare e a interagire scrivendoci in privato (per esempio a: anticra at riseup.net) o tramite altri testi pubblici.

Abbasso i CRA !

Op “Prometeo” Beppe ai domiciliari – Appello benefit per spese legali

Beppe, nonostante l’assoluzione, è rimasto in carcere, poiché condannato in primo grado a 5 anni con l’accusa di aver posizionato nel 2016 una tanica di benzina ad un postamat di Genova. Dal gennaio 2021, dopo vari trasferimenti dal sapore punitivo (sia per lui che per Natascia e Robert), Beppe è stato trasferito nel carcere di Bologna, nella sezione AS3. In seguito all’assoluzione per l’op. Prometeo è stato “declassificato” e trasferito, sempre alla Dozza, nella sezione universitaria. Da lì ha fatto subito istanza per i domiciliari, velocemente rigettata dalla corte d’appello di Genova con le seguenti motivazioni che il compagno chiede di condividere:

[…] osserva che a sostegno della presente istanza è stata addotta la mera considerazione del trascorrere del tempo;
le ragioni che hanno determinato il Giudice di primo grado a disporre le misure in atto non sono venute meno; il reato commesso è molto grave, l’imputato è gravato da un precedente penale non rilevante in astratto ma significativo in relazione al reato contestatogli; nemmeno gli arresti domiciliari, pur in luogo lontano da quello di commissione del reato e tantomeno le altre misure meno afflittive, potrebbero garantire un adeguato controllo a fronte del concreto rischio di reiterazione della condotta illecita, potendo l’imputato rientrare in contatto con soggetti dediti a condotte di ribellione e distruzione o comunque attivarsi personalmente con tale finalità; nessun rilievo può avere il tempo decorso dall’inizio della limitazione della libertà personale, perché insignificante per la valutazione della pericolosità, come irrilevante è la vicenda relativa alla contestazione del reato di cui all’art. 280 c.p., conclusasi allo stato con sentenza di assoluzione; è prossima la celebrazione del giudizio di secondo grado (già fissato da questo Presidente, per il quale dovrà essere emesso decreto di citazione a giudizio).
A seguito del suo trasferimento dall’AS al polo universitario, dopo due anni e mezzo di rimbalzi burocratici tra carcere e istituzioni sanitarie – nonostante le condizioni critiche che gravavano sulla sua salute – ha finalmente ricevuto l’operazione per la quale ha portato avanti scioperi della fame e dell’aria.
Mercoledì 10 novembre si è tenuta l’udienza d’appello ed è stata presentata una nuova istanza di domiciliari, questa volta accolta. Oggi, 13 novembre, Beppe uscirà dal carcere per essere trasferito agli arresti domiciliari con tutte le restrizioni in Sicilia.

Approfittiamo di questo aggiornamento per invitare caldamente tutte e tutti a contribuire alle spese ancora in corso!

Per sostenere le spese dell’ Op Prometeo si può fare riferimento ad entrambi gli IBAN (indicandolo nella causale), mentre per il processo di Genova che vede imputato solo Beppe, va fatto riferimento al secondo IBAN riportato di seguito:

– Postepay evolution
intestata a Vanessa Ferrara
n° 5333 1710 9103 5440
IBAN: IT89U3608105138251086351095
(BIC/SWIFT): PPAYITR1XXX

– Postepay evolution
intestata a Ilaria Benedetta Pasini
n° 5333 1710 8931 9699
IBAN: IT43K3608105138213368613377

A FIANCO DI BEPPE E DI TUTTI I PRIGIONIERI E LE PRIGIONIERE ANARCHICHE!

Operazione “Sibilla”, è l’azion l’ideal!

Un contributo solidale

Decine e decine di perquisizioni a Genova, Carrara, Pisa, Cremona, Bergamo, Roma, Perugia, Viterbo, Lecce, Taranto, Cosenza e Cagliari. Le indagini svolte dai carabinieri del ROS, su ordine della Procura di Perugia, si sono concentrate sul giornale Vetriolo e sui siti di contro-informazione roundrobin.info e malacoda.noblogs.

Il reato principale che viene contestato è istigazione a delinquere e istigazione a delinquere aggravata dalle finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico.

Oltre alle decine di perquisizioni in tutta la penisola, 6 le misure cautelari: Alfredo, già detenuto nel carcere di Terni, 4 compagnx con obbligo di dimora e firme, uno ai domiciliari con braccialetto elettronico.

In un momento in cui la ristrutturazione del Capitale è ad una svolta autoritaria senza precedenti e si specializzano nuove forme di sfruttamento e dominio, lo Stato intende chiarire e segnare preventivamente un confine da non oltrepassare per intimidire e scoraggiare chi intende sfidare l’attendismo dilagante e lottare.

I padroni evidentemente temono che la vivacità a sperimentare qualcosa di più rivoluzionario possa diventare sempre più una necessità per moltx.

“Seguite il vostro istinto, la vostra rabbia, non date troppo retta ai compagni/e coscienziosi. Buttatevi nella mischia, male che vada avrete vissuto una vita con qualche rischio e sofferenza in più ma anche piena di pensieri felici, piaceri e soddisfazioni. Contribuendo magari a cambiare le cose, e perché no… a fare la differenza. Come diceva un vecchio canto anarchico, “È l’azion l’ideal”. 
”

Alfredo Cospito dal carcere di Terni

Contro Stato e Capitale, contro chi sfrutta e opprime, dalla parte di chi si ribella!

Problemi gerarchici nei gruppi antiautoritari

… E come affrontarli.

Anche nei gruppi che si dichiarano essere antiautoritari ci sono relazioni di potere, non è abbastanza abolire le gerarchie, le posizioni di potere nei gruppi non si sviluppano spontaneamente, ma sono il risultato di anni di condizionamento e costruzione sociale. La lotta contro il potere è una pratica quotidiana, di coscienza e di cura da parte di tutt*… in un collettivo auto-organizzato siamo tutt* responsabili per situazioni e relazioni di potere, di conseguenza possiamo agire per cambiarle, ma questo richiede lo sforzo di tutt* senza eccezione (and the conflicts will come). La motivazione per (il desiderio di) contrastare le relazioni di potere devono essere condivise da tutt*, ma ovviamente non siamo tutt* uguali di fronte al potere. Il potere ha genere, classe, razza, abilità.

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