RIFLESSIONI IN VISTA DELLA MANIFESTAZIONE DEL 29 OTTOBRE A SASSARI

Diffondiamo:

Contro il carcere e la società che lo rende necessario.

Il 5 maggio 2022 il compagno anarchico Alfredo Cospito è stato trasferito nel carcere di Bancali in Sardegna e rinchiuso nel regime di 41 bis. Il 6 luglio la Cassazione ha condannato nel processo “Scripta manent” Anna, Alfredo e Nicola per il reato di associazione sovversiva con finalità di terrorismo (articolo 270-bis c.p.). Inoltre, la Corte ha accolto la richiesta di riqualificare l’accusa verso Alfredo e Anna, dal reato di strage semplice al reato di strage politica (articolo 285 c.p.) – che prevede come pena l’ergastolo – in relazione ad un attentato esplosivo alla scuola allievi carabinieri di Fossano che ha provocato danni materiali alla struttura, senza conseguenze lesive.

Sempre a luglio Juan Sorroche, un altro compagno anarchico, è stato condannato in primo grado a 28 anni di reclusione per il reato di attentato con finalità di terrorismo (articolo 280 c.p.) per due ordigni, di cui uno inesploso, che danneggiarono il portone della sede della Lega Nord di Villorba (TV) nell’estate 2018.

Queste sentenze segnano un punto di svolta importante nella repressione da parte dello Stato italiano, non solo nei confronti del movimento anarchico, ma più in generale verso chiunque provi a lottare e a ribellarsi. Non è un caso che questo inasprirsi delle condanne e delle condizioni detentive per i prigionieri anarchici e le prigioniere anarchiche arrivi in un periodo di forte repressione che colpisce tutte le soggettività e gruppi che incrinano la pacificazione sociale perseguita dallo Stato.

Nello stato di emergenza perenne che ormai è diventato normalità, qualsiasi protesta verso le imposizioni dello Stato è marchiata come minaccia verso la società intera; se poi dalla protesta si passa all’azione concreta, l’accusa verso chi agisce deve essere esemplare. Ne sono un esempio i diversi tentativi di contestazione di reati associativi susseguitisi negli ultimi anni, ad esempio contro la lotta NO TAV, contro la presenza militare in Sardegna e più di recente contro i sindacati di base impegnati nella lotta dei lavoratori nel settore della logistica.

L’inasprirsi delle pene è rivolto verso tutte quelle azioni che mettono in crisi la pacificazione funzionale a Stato e capitale. Basti pensare alla riesumazione del reato di devastazione e saccheggio (che prevede fino a 15 anni di reclusione) nell’ambito di cortei, a carico degli ultras e dei reclusi/e in carceri o CPR. Oppure pensiamo all’aggravamento della pena prevista per il reato di “blocco stradale” (pratica da sempre appartenente ai più svariati ambiti di lotta) che oggi prevede sino a 12 anni di reclusione.

Sotto attacco non ci sono solo le azioni, ma anche le idee. Diversi, ad esempio, sono i musicisti che di recente si sono trovati accusati di istigazione a delinquere e vilipendio, semplicemente per il contenuto dei loro testi inneggianti all’ostilità contro le forze dell’ordine, i militari o le autorità più in generale. In ambito anarchico invece, sempre più spesso, il reato di istigazione a delinquere viene affiancato dall’aggravante di terrorismo ed utilizzato per costruire ipotesi associative. Si pensi alle pubblicazioni messe sotto accusa per aver sostenuto la necessità della violenza rivoluzionaria e per aver dato voce al contributo alla lotta che Alfredo non ha mai smesso di portare, anche da dietro le sbarre delle sezioni di alta sicurezza. Proprio per questo motivo si è visto trasferire a maggio 2022 in 41-bis a Bancali, regime che prevede il blocco pressoché totale della corrispondenza.

Evidentemente le idee di Alfredo sono scomode perché, coerentemente all’azione che nel 2012 lo ha portato in carcere – la gambizzazione dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare – spiegano con semplicità lo slancio etico che sta dietro all’agire. Questa azione riconosce chiaramente come dietro allo sfruttamento della terra e dei popoli, non ci sono solo dei nomi di multinazionali o di società per azioni ma uomini e donne che ogni giorno prendono decisioni che rendono l’esistenza sempre più invivibile alla maggior parte della popolazione mondiale.

In una società neoliberale come quella in cui viviamo è sempre più evidente che le condizioni di salute e benessere sono garantite a una ristretta fascia di popolazione, mentre per la restante parte lo sfruttamento lavorativo, l’insicurezza abitativa e relazionale, il malessere fisico e psicologico sono la quotidianità. In questo contesto il carcere si configura come un “ghetto sociale” in cui vengono rinchiuse le persone che per scelta, o semplicemente per necessità, si trovano a non rispettare le leggi dello Stato e che non posseggono le risorse economiche per pagarsi una difesa né tanto meno la copertura delle istituzioni concessa a chi ricopre posizioni di potere.

É interessante notare come più della metà delle persone recluse abbia una condanna per reati legati alla legge sugli stupefacenti o contro la proprietà (furto, rapina), che il 15% dei carcerati sia classificato come tossicodipendente e che oltre il 30% non abbia la cittadinanza italiana. La funzione riabilitativa del carcere rimane una dichiarazione della propaganda di Stato per rendere più accettabile una situazione che di riabilitativo non ha nulla. Come può essere riabilitativo un luogo dove si vive in 3 metri quadrati di cella, dove l’assistenza medica è garantita solo quando si tratta di psicofarmaci, dove si muore per mancanza di cure adeguate e per suicidio (67 i suicidi da inizio 2022)?

Se dentro come fuori dalle carceri le condizioni degli oppressi e delle oppresse sono sempre peggiori, è chiaro come per lo Stato diventi fondamentale recidere ogni potenziale legame di solidarietà. Lo vediamo nel nostro quotidiano dove, da anni, qualsiasi dimensione collettiva o comunitaria viene continuamente posta sotto attacco. Dalla precarietà e dal ricatto che caratterizzano ogni condizione lavorativa, passando al massivo ricorso della tecnologia per mediare ogni forma di comunicazione e scambio, alla soppressione pressoché totale di spazi fisici di aggregazione che non rispondono alla logica del profitto, sino alla puntuale costruzione di “nemici pubblici” contro cui, ci vien detto, ogni strumento repressivo è lecito.

L’emarginazione dell’individuo passa dunque anche dal carcere, strumento per eccellenza finalizzato ad annichilire l’individuo attraverso l’isolamento dalla sua comunità di riferimento (che sia quella affettiva, politica o altra). Al suo interno, nel corso degli anni, sono nati circuiti pensati per determinati reati, come quelli di Alta Sicurezza (AS), e il regime di carcere duro del 41bis. Quest’ultimo è stato istituito sulla scia della cosiddetta lotta alla mafia e sull’onda emotiva della strage di Capaci. Il clima di paura e il mostro da annientare sono stati la cornice che ha reso questo strumento socialmente accettabile. Isolamento totale per anni, discrezionalità totale e possibilità di rinnovare continuamente questo stato detentivo, limitazione nel tenere beni personali (come la foto di un proprio caro) in cella, divieto di
ricevere libri dall’esterno, censura della posta e così via. Queste sono solo alcune delle condizioni imposte per legge ai prigionieri e alle prigioniere in 41 bis, ma ad esse si aggiungono quelle “discrezionali”: schermatura delle finestre con pannelli di plexiglas, sezioni poste sotto terra come quella del carcere di Bancali, primi due anni in totale isolamento. L’obiettivo del regime è duplice: da un lato indurre il prigioniero a denunciare altre persone, a “collaborare” per riguadagnare un po’ di vivibilità purché si getti nelle segrete medievali qualcun altro. Dall’altro, isolare in modo totale l’individuo, spezzare ogni legame sociale sia dentro che fuori le mura, renderlo disumano e annientarlo.

Come sempre, l’applicazione di nuovi e più gravosi strumenti repressivi riguarda inizialmente chi già rientra nella classificazione di “nemico pubblico” e poi, una volta passati nell’assetto legislativo e nell’immaginario sociale, viene estesa anche ad altri. E così il 41 bis è stato esteso nel 2005 ai prigionieri/e politici delle BR-PCC Morandi, Mezzasalma, Lioce e Blefari, quest’ultima uccisa proprio dalle pesanti condizioni di questo regime. Ora, come dimostra il caso di Alfredo, tocca agli anarchici. E domani chissà.

Un altro tassello dell’annientamento del singolo e della sua possibilità di essere parte di una comunità umana è l’ergastolo ostativo, strumento con cui lo Stato condanna l’individuo a un fine pena mai, senza se e senza ma. Tra i tanti ergastolani, ricordiamo Mario Trudu, morto di carcere in Sardegna dopo una vita rinchiusa tra le sbarre. A chi è sottoposto all’ergastolo ostativo sono negati tutti i benefici, in nome di una valutazione sulla “pericolosità” del soggetto basata sul rifiuto di collaborare con lo Stato, su legami veri o presunti con la criminalità organizzata o con la lotta politica, o sulla mancata partecipazione all’opera “rieducativa”. L’isolamento, tuttavia, si configura anche quando non vengono applicati strumenti particolarmente afflittivi di cui abbiamo parlato; ci riferiamo ad esempio all’utilizzo di strumenti punitivi interni al carcere, quali l’applicazione del regime 14 bis, o le svariate condizioni di isolamento de facto.

L’ultimo tassello che vogliamo aggiungere è quello della distanza fisica. La scelta attuata con il piano carceri del 2009 di costruire le 4 nuove strutture detentive in Sardegna (Bancali, Uta, Massama, Nuchis), così come di trasferirvi numerosi prigionieri nelle sezioni speciali provenienti prevalentemente dal Sud Italia e infine il trasferimento di Alfredo, si inscrivono nel processo di atomizzazione di cui stiamo parlando. L’isolamento dei detenuti diventa ancora più ampio perché di mezzo c’è il mare che allunga le distanze con la propria comunità.

La storia della Sardegna, oltre a essere storia di conquista e colonizzazione, è anche storia di carcerazione. L’introduzione del carcere avviene nel XVIII secolo con l’avvio della cosiddetta modernità, la sua affermazione passa attraverso la definizione del banditismo come piaga sociale ed endemica della Sardegna.
Con il Regno d’Italia la Sardegna diviene il luogo in cui chiudere “gli irregolari”, cioè tutti coloro che non accettano le leggi del nuovo Stato o che, ridotti in miseria, cercano fuori dalla legge spazi di sopravvivenza.
Ancora, con la ristrutturazione del sistema penitenziario degli anni ‘70 del Novecento, essa diventa il luogo di detenzione e tortura prima per i detenuti accusati di reati di mafia poi per i prigionieri politici e ribelli. Con l’istituzione delle “carceri speciali”, ben due delle prime cinque strutture individuate a tal fine si trovano sull’isola.

D’altronde l’espandersi e l’evolversi del sistema carcerario sardo è da sempre legato a doppio filo con i momenti chiave della sua colonizzazione da parte dello Stato.
Si pensi alla strenua opposizione contro l’esportazione della proprietà privata da parte dei sabaudi nei primi dell’800, al susseguirsi degli scioperi dei minatori nei primi del Novecento, passando alle lotte contro l’imposizione delle industrie petrolchimiche nel secolo scorso, oppure contro le servitù militari.

L’ultima pagina di questa politica è stata, come già accennato, il Piano Carceri del 2009 che oltre ad aumentare notevolmente la capacità detentiva dell’isola, per la prima volta ha predisposto la costruzione di un carcere appositamente progettato per l’applicazione del 41 bis: Bancali.
In totale ad oggi ci sono 10 strutture detentive di cui 5 carceri speciali; 3 differenti 41 bis sparsi nel territorio e un quarto in costruzione.

Perché abbiamo sentito la necessità di scrivere tutto questo in vista della manifestazione di fine ottobre in solidarietà ad Alfredo e tutti i prigionieri e le prigioniere? Perché pensiamo che oggi più che mai sia necessario inserire la lotta contro il carcere all’interno della nuova cornice politica e sociale nella quale stiamo vivendo. Un mondo dove il controllo è sempre più pervasivo e dove l’isolamento del prigioniero è speculare all’isolamento di ogni individuo. Gli strumenti messi in campo sono molteplici, ma l’obiettivo sembra comune: distruggere la dimensione comunitaria dell’individuo, annichilire ogni possibilità di deviazione rispetto
all’ordine costituito.

A chi quell’ordine costituito ha messo in discussione nelle parole e nei fatti va tutta la nostra solidarietà. Con chi lotta con ogni mezzo necessario contro la disumanizzazione dell’individuo saremo al fianco.

Per Anna, Alfredo, Juan e tutte le prigioniere e i prigionieri che lottano saremo in strada il 29 Ottobre e oltre.

Fuori Alfredo dal 41 bis! Chiudere il 41 bis! Liberi tutti, libere tutte!

SCALMANATX: RIVISTA DI CRITICA RADICALE ALLE SCUOLE E ALLE PEDAGOGIE

È uscito il numero 1 di Scalmanat*: rivista di critica radicale alle scuole e alle pedagogie

Riceviamo e diffondiamo:

«Siamo fermamente convinti che la questione degli studenti non possa rimanere confinata dentro le mura scolastiche, ma debba affacciarsi all’esterno, alla ricerca di complici e rivoltosi di ogni tipo. Come farlo spetta a noi oppressi deciderlo: incontrandoci fisicamente, cospirando uno al fianco dell’altra contro i nostri nemici comuni (Stato e padroni), facendo nascere complicità, amicizie, relazioni basate sulla reciproca cura, sulla solidarietà e sullo stare insieme nella realtà vera; rifiutandoci di barattare le relazioni sociali con quelle virtuali fatte apposta per dividerci e controllarci meglio, per renderci mansuete, isolati, ognuno nel suo involucro fatto di illusioni e false promesse di benessere e felicità. Alla nostra porta bussano le guerre, la scarsità di risorse sempre più care, un pianeta devastato dal capitalismo, un futuro precario in cui saremo impossibilitati a fare qualsiasi tipo di scelta che per noi sia veramente importante e determinante. Passa il tempo, i mesi e gli eventi catastrofici corrono.  A noi la scelta: rimanere in difesa e subire passivamente le ingiustizie dei potenti, oppure unirci e attaccare chi ci vuole in catene nelle scuole, dentro e fuori i posti di lavoro e di studio».

Indice

Editoriale
Chi ha bisogno della scuola per imparare?
Un giorno come un altro: riflessioni sulla miseria del vissuto
scolastico quotidiano
Parole pericolose
Memorie di un’operaia dell’educazione
Tabula rasa, o della scuola digitale

Prezzo copia singola: 4 euro
Dalle 5 copie: 3 euro

[Purtroppo abbiamo dovuto aumentare il costo della pubblicazione a causa del numero delle pagine (il doppio rispetto al numero scorso) e al formato della rivista che – di conseguenza- abbiamo dovuto modificare]

Per info e ordini: scalmanatx@riseup.net

 

SINDEMIA: INDAGINE ESPLORATIVA DAL BASSO

Mentre tutto è tornato alla normalità del consumo come se niente fosse mai successo, mentre le carceri esplodono e nelle RSA si rimane ancora tombatə, pensiamo sia importante dire non solo che questa normalità ci fa orrore, ma che no, non è andato tutto bene, per quanto si voglia fare finta di niente.

A questo link  sindemia.noblogs.org
un progetto di indagine esplorativa dal basso, per comprendere meglio l’impatto che il covid ha avuto e sta avendo sulla vita di molte persone, e quanti e quali effetti iatrogeni, clinici, sociali e culturali, abusi e omissioni hanno prodotto e stanno producendo le misure messe in campo dallo Stato.

ASL ROMA1: ORDINANZA DI ABBATTIMENTO DI SUINI E CINGHIALI NOTIFICATA ALLA SFATTORIA DEGLI ULTIMI

Da fb: Laboratoria ecologista autogestita LEA Berta Cáceres

Per questo motivo è urgente abituarci a partecipare e organizzare mobilitazioni anche intorno alla realtà invisibilizzata dello sfruttamento animale, non solo perché questo stesso sfruttamento che facciamo fatica a vedere è una delle principali cause della crisi climatica, nonché uno dei più gravi danni alla salute umana (è ormai comprovato, ad esempio, l’impatto sulla percentuale di tumori in pianura padana causato dagli allevamenti intensivi), ma anche e soprattutto perché siamo chiamate a comprendere che la profonda interrelazione in cui anche come specie umana siamo immerse comporta che nessunə è liberə finché tutt3 non saranno liber3!

 

SCONTRI A NAPOLI

5 agosto 2022
Dalla pagina facebook del Movimento di lotta -Disoccupati “7 novembre”

ASSEDIATO IL CONSIGLIO COMUNALE

I disoccupati in piazza, in centinaia e centinaia, resistono alle provocazioni e cariche sotto al Consiglio Comunale. Manganellate e criminalizzazione non ci fermeranno.

La grave situazione che sta colpendo chi percepiva il Reddito di Cittadinanza, migliaia di famiglie, a causa del protocollo INPS e Ministero di Giustizia che ne sancisce l’assurda sospensione dell’erogazione a chi era oggetto di sentenze passate in giudicato da meno di 10 anni, insieme la necessità di avere risposte sugli impegni assunti il 6 Luglio al Tavolo Interistituzionale per la nostra vertenza sui progetti di formazione e lavoro socialmente necessario, per percettori e non percettori, quindi disoccupati di lunga durata appartenenti alle platee storiche.

Questi i motivi principali della tensione che si sta vivendo in città.

GUERRA, CRISI SANITARIA, CRISI AMBIENTALE
INFLAZIONE, CAROVITA, SFRUTTAMENTO!

Non pagheremo noi la vostra crisi!
Lavoro o non lavoro, dobbiamo campare!

Movimento di lotta -Disoccupati “7 novembre”

PIACENZA: MANIFESTAZIONE NAZIONALE


Le lotte operaie le processano perché è quello che hanno sempre fatto. La repressione non è un ‘accidente’ della società in cui viviamo ma il cardine su cui si fonda la sua pacificazione, che è interiorizzazione generalizzata delle logiche del potere tra gli oppressi.
Isolamento, repressione e carcere sono i pilastri su cui Stato e padroni fondano le loro ricchezze e il loro potere, gli strumenti elettivi con cui mantengono il loro dominio con la paura, coltivando impotenza.
Queste misure repressive che oggi colpiscono i lavoratori e le lotte della logistica, si inseriscono in un’escalation repressiva di più ampio raggio volta ad abbattere chiunque, ad ogni piano e con qualsiasi mezzo, intenda – coi fatti – mettere i bastoni tra le ruote ad un sistema predatorio che annienta sempre più ferocemente la vita di persone, territori e comunità.
Una guerra a bassa intensità affinchè il processo di accumulazione capitalista proceda senza soluzioni di continuità, che mira a spostare il limite di tolleranza degli sfruttatx, sempre un po’ più in là.
La rimozione collettiva di questa ferocia serve allo Stato per conservare saldamente il primato della violenza e far si che nulla cambi.

Contro la loro repressione, l’unica difesa è l’attacco!

LIBERX TUTTX

A SCUOLA DI SFRUTTAMENTO DIGITALE

Riceviamo e diffondiamo questa testimonianza.

Memorie di un’operaia dell’educazione

Quando chiusi definitivamente come educatrice all’interno degli istituti residenziali – un’altra storia dell’orrore che richiederebbe pagine – rivolsi la mia attenzione al mondo della scuola.

Già da qualche anno portavo avanti una personale ricerca sui media digitali, per comprendere come le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, sempre più invasive e capillari, stessero condizionando i processi di sviluppo, crescita, relazione e interazione, per considerarne quindi usi e opportunità ma anche e soprattutto effetti sulla salute e criticità.

Mi trovai a partecipare ad un progetto all’interno di una scuola in cui ebbi modo di constatare quanto iniziando a parlare di web, media e social network con le studenti e gli studenti, si arrivasse infine a parlare di vissuti, tutti quei vissuti che evidentemente non trovano spazio oltre le grandi platee digitali.

Il legittimo bisogno di condivisione e di espressione di sé venne messo in relazione ai pericoli legati alle piattaforme commerciali online iper-gamificate (1). Si ebbe modo di inquadrare criticamente la rete, l’uso dei media e tante altre cose (2, 2.1). Fu un’esperienza breve ma intensa, da replicare e moltiplicare, che raccolse molto interesse da parte di studenti e insegnanti. Mi convinsi che era qualcosa su cui poteva avere senso investire energie.

Come educatrice, venendo da altri percorsi, avevo bisogno di avere ‘crediti’ affinché le mie ‘competenze digitali’ fossero anche ‘dimostrabili’ sul mercato del lavoro, per cui cercai possibili percorsi ‘professionalizzanti’.

Mi trovai ad avere l’imbarazzo della scelta, il mercato delle formazioni online infatti si è allargato in modo esponenziale. Scelsi un corso ‘professionalizzante’ da consumare comodamente e inutilmente da casa mia, curato da un’ente accreditato che da anni si occupa di pedagogia, per diventare: “un’educatrice esperta in didattica col digitale” al prezzo di qualche centinaia di euro. Questo genere di mercato delle formazioni da’ accesso a crediti per i concorsi a scuola e/o per l’educazione continua in medicina.

“L’ECM è il processo attraverso il quale il professionista della salute si mantiene aggiornato per rispondere ai bisogni dei pazienti, alle esigenze del Servizio sanitario e al proprio sviluppo professionale. La formazione continua in medicina comprende l’acquisizione di nuove conoscenze, abilità e attitudini utili a una pratica competente ed esperta. I professionisti sanitari hanno l’obbligo deontologico di mettere in pratica le nuove conoscenze e competenze per offrire una assistenza qualitativamente utile. Prendersi, quindi, cura dei propri pazienti con competenze aggiornate, senza conflitti di interesse, in modo da poter essere un buon professionista della sanità.” (3)

Qui c’è da fare una premessa, la mia laurea educativa mi colloca tra i professionisti sanitari.

L’Educatore Professionale socio-sanitario si forma nelle Facoltà di Medicina o in corsi interfacoltà con una Laurea LSNT/02 abilitandosi nel settore delle professioni sanitarie, quindi ambiti che fanno capo alle Ausl (Aziende/unità sanitarie locali).

L’Educatore Professionale socio-pedagogico invece si forma nelle Facoltà di Scienze dell’Educazione e della Formazione con una Laurea L19 per operare in vari tipi di progetti e servizi ‘socio-educativi’, ambiti che in linea di massima fanno capo alle Asp (Aziende pubbliche di servizi alla persona).

Questo processo, sottovalutato pressoché da tuttx, ha decretato in molti ambiti la definitiva separazione, frammentazione, medicalizzazione e tecnicizzazione del lavoro educativo, per una “presa in carico” prima di tutto “sanitaria” dell’ ‘utente’, ‘tossicodipendente’, ‘psichiatrico’, ‘disabile’. Come se dipendenza, disagio, sofferenza e abilismo non siano questioni fondamentalmente sociali.

Il nostro educatore ‘sanitario’ si è trovato iscritto niente di meno che all’Albo dei Radiologi, divenuto ora “Federazione nazionale degli Ordini dei Tecnici sanitari di radiologia medica, delle professioni sanitarie tecniche, della riabilitazione e della prevenzione” (FNO TSRM PSTRP), in rappresentanza di 19 professioni sanitarie iscritte. Guardare per credere. (4)

La Legge Lorenzin (marzo 2018) ha individuato e regolamentato i nuovi ordini professionali e ha imposto agli educatori con titolo sanitario l’obbligo di iscrizione all’albo pena l’esercizio abusivo della professione, escludendo al contempo dall’élite dei “super qualificati” un esercito di lavoratori già in essere. A completare il quadro infatti la ex Legge Iori, inserita in Legge di Bilancio nel 2017, che ha scaricato sui lavoratori inquadrati come “educatore senza titolo” con meno di 50 anni o meno di 20 anni di anzianità, la gabella di doversi pagare un corso da 60 cfu da conseguire presso le università alla modica cifra di 1800 €.

L’epilogo di una deriva fortemente promossa da autoproclamate “associazioni di categoria” che hanno reso il lavoro educativo una professione definitivamente medicalizzata, soggetta a controllo, disciplina e sanzioni, destinata ad alimentare un sistema economico privatistico chiamato “ordine professionale” con il pagamento di quella che di fatto è una tassa sul lavoro.

Associazioni che si riempiono la bocca di paroloni, pubblicazioni, formazioni, studi, accreditamento, core competences, qualità, carta, dove le persone sono all’ultimo posto,  per lo più oggetto di giochi economici, politici e semantici, e le operaie e gli operai dell’educazione, del sanitario e del socio sanitario sono ridottx a pedine usa e getta in contesti al ribasso, o a lavorare come utensili all’interno di grandi realtà spersonalizzanti, sovraccaricati di mansioni e responsabilità ma senza un reale margine di autonomia e libertà operativa.

Gli educatori, gli insegnanti,  i lavoratori del sociale, del sanitario e del socio-sanitario sono diventati i principali lacchè del marketing aziendale  – lacchè: domestico o valletto in livrea che nei secoli passati precedeva o seguiva per strada il padrone o la padrona – la maggior parte della carta, della ‘progettazione’ e della rendicontazione prodotta dagli operatori sul lavoro serve infatti unicamente alle aziende per vendersi e ottimizzare i profitti sulla pelle di ‘utentx’ e lavortorx.
Si inizia a lavorare, si inizia ad imparare a raccontarsela. Che brutta fine questo ‘educatore’, che pure sembrava muovere da istanze che lo collocavano oltre i saperi unicamente tecnico-oggettivanti. E che sciocca io a credere che a scuola potesse essere ancora diverso…

Il Piano Nazionale Scuola Digitale (PNSD) è il documento di indirizzo del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca “per il lancio di una strategia complessiva di innovazione della scuola italiana e per un nuovo posizionamento del suo sistema educativo nell’era digitale.”

Obiettivo del PNSD, di valenza pluriennale, è quello di “indirizzare l’attività di tutta l’Amministrazione, e fungere da “catalizzatore” per l’impiego di più fonti di risorse a favore dell’innovazione digitale, a partire dalle risorse dei Fondi Strutturali Europei e dai fondi de La Buona Scuola.”

Non posso ripercorrere qui tutto il percorso formativo, ma posso di getto riportare le cose che mi hanno decisamente allarmata e poi tirare giù due pensieri sulle implicazioni che vi ho scorto, che scostano di molto da quei progetti/percorsi critici che immaginavo di portare a scuola. E’ stato subito evidente quanto l’intento principale di questi corsi sia addestrare insegnanti ed educatori, e con loro  studentx e famiglie, all’utilizzo acritico e passivo di ciò che viene imposto e calato dall’alto come grande innovazione.

La prima cosa a precipitarmi nel panico è stato vedere proposto con entusiasmo il sito Educazione Digitale alle insegnanti e agli insegnanti in formazione, una piattaforma digitale di “percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento” riconosciuta dal ministero dell’istruzione (5). Si tratta di alternanza scuola-lavoro, pillole di capitalismo multimediale di cui gli insegnanti diventano i nuovi infermieri somministratori. La carrellata degli sponsor è agghiacciante. Si parla di ambiente, cittadinanza, salute ed ecosostenibilità con Coca-Cola, Novartis, Federchimica e Confindustria, BPER, Leonardo, Enel, EnelX, Leroy Merlen, Melinda… ma l’elenco è lungo.

Agghiacciante allo stesso modo l’app ClassDojo (6) proposta come grande innovazione didattica, una piattaforma commerciale per “il miglioramento dei comportamenti e la gestione del gruppo classe” dove gli insegnanti possono segnalare i comportamenti negativi degli alunni e premiare quelli positivi informando in tempo reale anche le famiglie grazie ad un codice che permette di entrare sul sito e monitorare la situazione.

“Utilizzando questo sistema, dopo aver condiviso con gli studenti le regole e le finalità educative, si genera una classifica a punti che mostra i progressi degli alunni, rappresentati sullo schermo da simpatici avatar. Con un semplice gesto l’insegnante può segnalare un intervento positivo, un compito eseguito in maniera corretta, oppure un comportamento scorretto, un momento di distrazione, ecc. In questo modo, sotto forma di gioco, si effettua un monitoraggio continuo e costante dell’andamento di ogni singolo alunno e della classe intera.
 L’insegnante può inserire la lista dei comportamenti da premiare o comunque degli items da valutare e può scegliere se visualizzare o meno i punti negativi. Ad esempio si può scegliere in maniera del tutto autonoma di ritenere positivo il fatto di parlare con un tono di voce adeguato o di aiutare i compagni in classe. Esiste anche la possibilità di visionare e condividere delle schermate di sintesi riguardo l’andamento in maniera periodica.”

Questa piattaforma tra i vari optional ha una funzione che rileva il livello del ‘rumore’ in classe.
 Non credo serva aggiungere altro per trarre le proprie conclusioni in merito questa bella applicazione fatta per contenere i ‘comportamenti problema’ in classe inchiodando bambine e bambini ad uno schermo.

Si viene istruiti inoltre su come integrare la didattica a scuola con l’uso dei dispositivi personali degli studenti, con tutto quello che ne può comportare. In tale azione si legge testualmente “La scuola digitale, in collaborazione con le famiglie e gli enti locali, deve aprirsi al cosiddetto BYOD (Bring Your Own Device), ossia a politiche per cui l’utilizzo di dispositivi elettronici personali durante le attività didattiche sia possibile ed efficientemente integrato”.

BYOD è l’acronimo di Bring Your Own Device, ovvero “porta il tuo strumento a scuola”. Una didattica che incentiva l’utilizzo di dispositivi personali degli studenti, integrati con gli strumenti di base che nel piano scuola ogni istituto già di per sé dovrebbe fornire ad a ogni classe.
Si viene inoltre addestrati al registro digitale, già acquisito da tempo, con tutti gli aspetti di controllo ad esso legati, oltre che all’utilizzo di cloud e piattaforme commerciali per la creazione di contenuti digitali e classi virtuali. Tutta la suite google ma anche molte altre applicazioni nate per favorire i processi aziendali, ed ora riadattate per allestire presentazioni interattive e video accattivanti per ‘apprendimenti ‘coinvolgenti’. Insegnanti ed educatori vengono sollecitati a predisporre materiali di studio ‘smart’, che le studenti e gli studenti possano consumare anche sul bus o durante gli spostamenti.

Nella parte di un altro modulo si parla di singolarità tecnologica dandone per scontato il processo. Si anticipa il sempre più prossimo superamento della soglia in cui lo sviluppo della civiltà vedrà il processo tecnologico accelerare oltre la capacità di comprendere e prevedere degli essere umani in termini assolutamente passivi. Viene dato per scontato il capitalismo dell’innovazione tecnologica e il progresso predatorio che lo produce. Viene citato Raymond Kurzweil (7) e il suo testo “Come creare una mente, i segreti del pensiero umano”, si ribadisce che non sappiamo realmente dove la tecnologia ci porterà con questa corsa alla ricerca di essere replica delle capacità del nostro cervello. Si ricorda come la conoscenza rispetto come si sviluppano i pensieri, quindi sul funzionamento del cervello umano, aumenta esponenzialmente, al pari degli investimenti in nanotecnologie, biotecnologie e neuroscienze. Si parla di investimenti privati ma anche pubblici, come i miliardi investiti dall’Unione Europea nello “Human Brain Project” (8), un progetto scientifico nel campo dell’informatica e delle neuroscienze che mira a realizzare, entro il 2023, attraverso un supercomputer, una simulazione del funzionamento completo del cervello umano.

Si dice apertamente quanto l’intelligenza artificiale sia la nuova corsa all’oro. Si parla di memorie estese nei cloud e microchip. Fantascienza che nel 2025/2030 potrebbe essere già disponibile sul mercato. Si afferma quanto oggi non sia possibile ‘preparare i ragazzi al futuro poiché il futuro non lo si può immaginare, si dice palesemente quanto a questo processo non ci si possa opporre ma solo adattarsi. Si parla di nuove generazioni sperdute come i loro genitori e si invita a diventare flessibili alla novità.

Tecnologie che si propongono sempre più come connettore mente-conoscenza per una nuova pedagogia basata sulle evidenze, si, ma capitaliste, che dietro ad una retorica dell’inclusività, della cooperazione e della costruzione interattiva del sapere, nascondono dinamiche piu simili alla manipolazione e alla persuasione usata all’interno di certe aziende per promuovere la compliance dei lavoratori con l’ausilio di sistemi gamificati. Un’educazione decisamente comportamentista, che vede gli alunni e i loro comportamenti come qualcosa da correggere e manipolare a proprio piacere e l’individuo come qualcosa di completamente autofondato, separato dal suo contesto relazionale e ambientale.

Si va verso il “brain-based learning” un insegnamento/ apprendimento sempre più affidato alle neuroscienze e alla psicologia cognitiva per una didattica basata sul risultato, che per essere efficace si avvale di conoscenze approfondite dei processi cerebrali e cognitivi che sottostanno all‟apprendimento.

La strumentalizzazione della didattica laboratoriale e delle teorie costruttiviste (9, 9.1) sta consolidando un modello capitalista sempre più decentralizzato e multidirezionale, e una nuova pedagogia persuasiva dove insegnanti e alunni sono sollecitati e attivamente ingaggiati nel vendere se stessi e nel curarsi di sè solo in quanto produttori e oggetti di consumo. L’incrocio tra gaming ed advertising diventa l’approccio migliore in termini di monetizzazione e profitto per le compagnie del mercato digitale: trovare modi per portare le persone a ripetere determinati comportamenti fino a che questi non diventino abitudinari, desiderabili e ricercati.

Chissà perché un intero modulo è stato dedicato alla progettazione e conduzione di campagne di crowdfunding?! Insegnanti imprenditori procacciatori di fondi e studenti apprendisti manager di se stessi inventori/imprenditori di startup?

Importante in questo senso anche il modulo sul coding e sul pensiero computazionale, discipline che stanno entrando prepotentemente a scuola, fortemente promosse e finanziate, insieme tutte le materie STEM (10), per rispondere alla domanda capitalista di forza lavoro in ambito scientifico, tecnologico, ingegneristico e matematico, testimoniando la progressiva e inesorabile penetrazione di interessi commerciali e speculativi a scuola.

Intanto sfruttamento, precarizzazione, atomizzazione e isolamento sono sempre più accettati come fatti naturali mentre passa assolutamente in secondo piano quanto l’esposizione a dispositivi, smartphone, piattaforme social commerciali, chat e schermi stia invadendo sempre più spazi e tempi di vita, alterando il sonno e la veglia e condizionando i processi affettivi e cognitivi – funzioni riflessive, attenzione, memoria – di moltx, indebolendo sempre più legami e relazioni, esasperando frustrazioni e producendo risentimento senza voce il più delle volte scaricato in basso, tra pari.

Mentre i corpi oppressi sono ridotti sempre più ad oggetti e funzioni in relazione a chi detiene i maggiori privilegi sociali ed economici, e gli spazi di libertà si riducono, la rete si fa veicolo di nuove forme di dominio non solo inerenti al divario digitale e al capitalismo della sorveglianza ma anche e soprattutto relativamente a come questi dispositivi vengono implementati nella vita delle persone.

Le città – e con queste, le scuole – stanno diventando industrie di sfruttamento sempre più mediate da aziende private, interconnesse e digitalmente sorvegliate, disciplinate sempre più in senso autoritario e iper-razionale.

L’accelerazione in corso sta infatti consolidando forme sempre più specializzate di esclusione, potere e dominio: si punta sempre più sulla “sicurezza” per fomentare tutte quelle paure che possono essere strumentalizzate in funzione di consenso.

L’obbiettivo è reprimere il conflitto con l’espulsione di tutte quelle persone  che con la loro presenza ed esistenza svelano i modelli dominanti spersonalizzanti in cui siamo inseritx.

La retorica del ‘decoro’ e del ‘degrado’, la gestione sempre più violenta e razionale dello spazio urbano, la pulizia di quanto imprevisto e non-normato, sta colpendo sempre più soggettività, anche l’infanzia è nel mirino: giovani e adolescenti diventano sempre più un problema di ordine pubblico da reprimere mentre rimangono intatti quei modelli che il sistema stesso riproduce ed esalta, pesci grandi che mangiano pesci piccoli all’interno di realtà dove solo chi ha soldi e potere è preso in considerazione, e chi non accetta di essere un cavallino da corsa non è nessunx.

Una ‘sicurezza’ sempre più ‘preventiva’ volta ad asfaltare tutti gli spazi di fiducia, libertà, relazione, intersezione, prossimità, solidarietà dal basso.

Big Data e Intelligenza Artificiale sono le pietre angolari di queste trasformazioni.

L’interconnessione massiccia di banche dati permetterà sempre più di stabilire correlazioni, effettuare controlli incrociati, elaborare statistiche, rintracciare individui o amministrare luoghi, permettendo una sorta di ‘meteorologia delle masse’ rispetto abitudini, movimenti, consumi, costumi e comportamenti.

La scuola-azienda sta coadiuvando il Capitale nell’esasperare questo paradigma e questo processo, insistendo sull’ottimizzazione iper-razionale della prestazione in un contesto di alienazione esasperata, rabbia e affettività inespressa.

Neuroscienze e psichiatria sono pronte a raccogliere e i cortocircuiti di queste oppressioni e a colonizzare sempre più il quotidiano e l’individuo: la platea di ‘difetti’ e ’tare’ da curare e riparare è destinata ad aumentare proporzionalmente allo sfruttamento e all’oggettivazione che attraversano infanzia ed età adulta (11).

Non si tratta di assumere posizioni dogmatiche rispetto l’utilizzo o meno di media o tecnologie ma di evidenziare come le retoriche dell’innovazione tecnologica e l’agenda digitale a scuola siano su traiettorie che non hanno nulla a che vedere con i reali bisogni di studentx, famiglie, insegnanti ed operatori. 

Si va verso una “didattica del piccolo imprenditore di sè”, un modello che livella di fatto differenze culturali, economiche e sociali, fino a considerare il soggetto pura materia da manipolare.

 

Una ribaltamento semantico a sfondo organicista, comportamentista e interclassista, volto a dissimulare interessi antagonistici di classe e posizionamenti diversi all’interno dell’odierna società neoliberista.

Con la strumentalizzazione dell’educazione cooperativa ed inclusiva, della didattica laboratoriale e delle teorie costruttiviste il Capitale sta entrando sempre di più a scuola e a livello individuale ed estendendo il suo potere in un modo che non c’entra assolutamente nulla col ‘coinvolgere attivamente la persona nella costruzione del suo sapere’ e che sta sottraendo sempre più campo al rischio di qualsiasi relazione di fiducia, quindi di qualsiasi autonomia, sempre più affidata al dispositivo tecnico e alla sua discrezionalità binaria e iper-razionale al servizio di chi ne detiene il potere.

Il “media” in questo senso smette di “mediare” diventando vincolante per l’identità e determinante per la relazione. Una nuova tecno-ontologia come fondamento di ogni esperienza. Se la scuola e le città si fanno laboratorio, tocca capire chi è la cavia.

 


NOTE

1) Léo Favier, regia (2019)
https://www.arte.tv/it/videos/RC-017841/dopamina/

2) Ippolita (2012) “Nell’acquario di Facebook“ https://brughiere.noblogs.org/biblioteca/#TECNOLOGIEDELDOMINIO

– Ippolita (2019)  “Etica hacker e anarco-capitalismo. Scritti scelti”

– Agnese Trocchi (2019), “Internet, Mon Amour. Cronache prima del crollo di ieri“
https://brughiere.noblogs.org/biblioteca/#INTERNETMONAMOUR

3) https://ape.agenas.it/ecm/ecm.aspx

4) http://www.tsrm.org/

5) https://www.educazionedigitale.it/

6) https://www.classdojo.com/

7) https://it.wikipedia.org/wiki/Raymond_Kurzweil

8) https://it.wikipedia.org/wiki/Human_Brain_Project

9) https://it.wikipedia.org/wiki/Costruzionismo_(teoria_dell’apprendimento)

https://it.wikipedia.org/wiki/Seymour_Papert

10) https://it.wikipedia.org/wiki/STEM

11) STRAPPI. Riflessioni antipsichiatriche
https://brughiere.noblogs.org/post/2022/03/21/strappi-riflessioni-antipsichiatriche/

MILANO: PRESENTAZIONE “OMBRE DIGITALI SUL LAVORO SOCIALE”

OMBRE DIGITALI SUL LAVORO SOCIALE,
SOCIOANALISI NARRATIVA SULLE DERIVE DEL TERZO SETTORE a cura di Renato Curcio.

Mercoledì 29 giugno, COX18, via Conchetta 18 Milano

Sensibili alle foglie, 2022

ASCOLTA LA REGISTRAZIONE

L’utilizzo di piattaforme digitali per la gestione del lavoro in un settore cruciale come quello del sociale ha prodotto e sta producendo cambiamenti significativi sia per chi vi opera sia per chi ne usufruisce. Questo libro, frutto di un cantiere socioanalitico autogestito, mette in evidenza alcuni nodi decisivi per un ripensamento del Terzo settore e per aprire una discussione in merito. Le esperienze raccolte, la documentazione e le riflessioni analitiche qui proposte individuano numerose criticità. La voracità di dati e numeri, propria degli strumenti digitali di cui gli operatori sono ormai obbligati a servirsi, toglie spazio e valore alle relazioni interpersonali, caratteristica costitutiva del settore dei servizi alla persona, modificando perciò la natura stessa di questi ultimi. L’entrata in campo dell’intelligenza artificiale, con la sua arroganza organizzativa, esautora l’intelligenza relazionale e ancor più la sua linfa empatica sia nei processi di organizzazione del lavoro che nelle rendicontazioni dei loro risultati. Il “lavoro sociale a distanza”, ossimoro implementato durante il confinamento da pandemia, ha inoltre comportato per gli utenti e per gli operatori un’invasione dei propri spazi personali, vanificando talvolta l’erogazione stessa dei servizi. La formazione interamente orientata all’uso dei dispositivi tecnologici e la perdita di anonimato per gli utenti di alcuni servizi costituiscono il definitivo superamento del mito della cooperazione sociale.

Hanno partecipato attivamente al cantiere: Massimo Angelilli, Diego Baldini, Paolo Bellati, Susanna Bontempi, Francesco Mainieri, Sara Manzoli, Natalia Mendez, Luca Lusiardi, Lucia, Enrico Riboni, Lorena Rondena, Giulia Spada, Valentina Trabucchi

RENATO CURCIO, su questi temi e nell’ambito del suo lavoro di socioanalista, ha pubblicato in questa collana: La trappola etica, 2006; Respinti sulla strada, 2009; La rivolta del riso, 2014; L’egemonia digitale, 2016.

Niente da spartire

Di seguito diffondiamo un volantino distribuito ieri a Bologna:

NIENTE DA SPARTIRE

– Niente da spartire nè col machismo omofobo, transfobico, misogino e assassino di Putin, nè con la chiamata alle armi del buon padre di famiglia Draghi e dei suoi alleati Nato pronti a dividersi il mondo a costo di un bagno di sangue.

– Niente da spartire con le analisi geopolitiche, non è affar nostro scegliere sull’altare di quale stato e a quali interessi si può sacrificare la vita delle persone.

– Niente da spartire con i mercanti e produttori di armi, prestigioso comparto dell’export Made in Italy che fanno soldi a palate e non hanno cessato i loro sporchi traffici neanche un giorno in piena pandemia, attività essenziali, dicevano, mentre milioni di persone vivevano confinate nelle loro case senza deroghe a costo di sofferenze mentali e fisiche.

– Niente da spartire con l’economia della guerra su cui il capitalismo strutturalmente si regge.

– Niente da spartire con lo spettacolo della guerra. I media sciacalli vanno in cerca instancabilmente di immagini e storie tragiche da dare in pasto all’opinione pubblica al servizio della propaganda guerrafondaia dell’Occidente.

– Niente da spartire con il pietismo sulle badanti ucraine che fino a quando non sono diventate funzionali alla narrazione dei governati di casa nostra erano invisibili, democraticamente sfruttate e ricattatte col cappio al collo dei permessi di soggiorno.

– Niente da spartire con il razzismo dell’accoglienza per cui sulla linea del colore si decide chi far passare e chi far inseguire coi cani alle frontiere e far morire in mare.

– Niente da spartire con i signori del nucleare e della guerra (che sono gli stessi, fatalmente) quelli che di mestiere producono devastazione ambientale e morte.
Sono il problema e non la soluzione.

– Niente da spartire con chi ha fatto dei nostri territori una polveriera disseminando basi Nato massicciamente nel sud dell’italia e nelle isole,e reprimendo duramente chi vi si oppone. In queste periferie dell’impero, a Taranto, in Sardegna e in Sicilia le acciaierie e l’industria pesante avvelena e fa ammalare ad ogni respiro e uno dei motivi per cui non si può dismettere è la natura “strategica” della produzione per l’autarchia dell’industria bellica.

Sappiamo di vivere in un mondo che si regge sulle stragi in mare, al lavoro, nelle carceri, nelle case, nei campi di concentramento ai confini dell’Occidente in cui milioni di persone vengono usate come strumenti di pressione e merce di scambio, una guerra a bassa intensità in cui, come per la pandemia, il problema dei governanti è stabilire quante morti e quanta sofferenza è “tollerabile” dalla società civile come danno collaterale procurando di spostare il limite sempre un po’ più in là.
Sappiamo altresì che la rimozione collettiva di questa ferocia serve allo Stato per conservare saldamente il primato della violenza.

Guerra alla vostra guerra e Guerra alla vostra pace

Niente da spartire – pdf