CONTRIBUTI SULL’ALLUVIONE IN EMILIA ROMAGNA

Abbiamo deciso di raccogliere in questa pagina scritti e contributi sull’alluvione che ha colpito l’Emilia Romagna. Voci dai territori, esperienze e riflessioni

Sull’alluvione in Emilia Romagna
Pensieri di un compagno il giorno dopo l’alluvione
Alluvione, la mia solidarietà è selettiva
Con l’acqua alla gola

Qui le traduzioni dei testi in castigliano.
Per inviare testi e contributi: brugo@autistiche.org


SULL’ALLUVIONE IN EMILIA ROMAGNA – Brughiere

20 maggio 2023

È il tempo delle emergenze e delle catastrofi, oltre che delle narrazioni traumatiche per amministrare il disastro, magari con la sottomissione sostenibile delle masse, in particolare quelle povere e sacrificabili. Disastri che assumono sui media l’aspetto di calamità, nonostante siano drammaticamente annunciati e tragicamente frutto di questo modello di sviluppo insensato. Mentre l’Emilia Romagna viene devastata dall’alluvione, sui media si sprecano gli appelli istituzionali alla solidarietà e all’unità da parte degli stessi responsabili del danno. Una solidarietà che dalle poltrone di chi governa questa Regione suona un po’ “pelosa” per non dire sfacciatamente ipocrita. Si tratta infatti degli stessi che hanno sempre avvantaggiato palazzinari e speculatori a scapito di chi non arriva alla fine del mese. Gli stessi che hanno promosso la cementificazione selvaggia dei territori, la costruzione su aree “protette”, zone a pericolo di frana, intorno ad aree alluvionali. Gli stessi che permettono la predazione di ogni angolo di territorio con scellerati progetti di “riqualificazione” , sempre rigorosamente “green”.

Tutta la nostra solidarietà a chi, magari già in difficoltà prima, sta vivendo in queste ore ulteriore solitudine e disperazione. Non dimentichiamo chi sono i responsabili. Sosteniamoci e sosteniamo la solidarietà dal basso che si sta muovendo.


PENSIERI DI UN COMPAGNO IL GIORNO DOPO L’ALLUVIONE:

Mentre ancora i fiumi in Emilia e in Romagna sono in piena, molti paesi e città della pianura alluvionati e il fango continua a muoversi verso valle, sento l’esigenza di esprimere qualche riflessione a caldo su quello che sta succedendo nei territori in cui da qualche anno vivo. La quantità di acqua piovuta in questi giorni è senza dubbio eccezionale, eppure sappiamo da tempo, e con sempre maggiore certezza, che gli eventi atmosferici estremi sono e saranno sempre più frequenti. Ciò nonostante, toccare con mano le conseguenze di una pioggia così forte e concentrata in poche ore, è qualcosa che mi coglie impreparato, emotivamente e materialmente. Mi sono trovato a scambiare messaggi e chiamate continue per avere aggiornamenti sulla situazione che varie persone intorno a me stanno vivendo, guardando con preoccupazione verso il cielo, i versanti di colline e montagne che rilasciano detriti ad ogni acquazzone, i letti di torrenti di solito amichevoli, sempre più gonfi e minacciosi. L’estate scorsa ci si diceva questa frase, un po’ come scherzo,per sdrammatizzare, un po’ no: “è l’estate più calda che ho mai vissuto. Ma è anche la più fresca tra quelle che vivrò”. Se traspongo questo discorso pensando alla pluviometria, mi vengono i brividi. Brividi di paura, perché in gioco c’è l’incolumità e la sicurezza di persone care. E brividi di rabbia, perché so che c’è già chi si sfrega le mani pensando ai soldi che si farà con la ricostruzione. E sono gli stessi che ingrassano in un sistema in cui io e chi mi circonda ci arrabattiamo per la mera sopravvivenza materiale, quando va bene. Il simulacro della sicurezza e dell’invulnerabilità è qualcosa che voglio distruggere e lasciarmi alle spalle, ma per fare spazio ad un diverso modo di vivere, di intessere legami e fare compromessi con l’imprevedibilità dell’ambiente in cui sono immerso. Non per garantire a chi riproduce un mondo basato sul dominio di ingrassare tranquillo. E allora impedire quel cantiere, quell’allargamento dell’autostrada, quell’impianto di risalita, quella diga, diventa qualcosa di molto più urgente, perché in ballo non c’è qualcosa di futuro, di immaginario, di simbolico, di ideale. È nel presente che quei progetti agiscono la loro furia omicida. E in gioco ci sono già le nostre vite. Ora che questo mi è più chiaro, forse mi serve meno coraggio per buttare il cuore oltre l’ostacolo.


ALLUVIONE, LA MIA SOLIDARIETÀ È SELETTIVA
Articolo uscito su “Betzmotivny”, anno III, numero 10

A partire più o meno da martedì 16 maggio e sulla scia dell’emergenza alluvione che ha colpito parte della Regione Emilia-Romagna, i vertici di alcune organizzazioni politiche sedicenti antagoniste del territorio bolognese e alcuni gruppi di persone riunitesi spontaneamente hanno deciso di dar vita a delle Brigate di solidarietà aventi lo scopo di “autogestire” interventi di aiuto alle popolazioni emiliano-romagnole colpite dall’alluvione di cui si continua a parlare molto. Di come se ne parli di questa alluvione che non costituisce certo un’eccezione, una calamità inaspettata, ma che si inserisce nella catena di catastrofi prodotte dal modo di produzione che devasta le vite ed i luoghi di vita di miliardi di sfruttati e altri esseri, nonché dagli uomini e dalle donne aventi specifiche responsabilità politiche, tecniche e decisionali a livello comunale, regionale e nazionale; sulle modalità mediante le quali le maggiori testate giornalistiche ed i media di regime affrontano l’alluvione, con quali toni (piuttosto pacati) e mediante quali contenuti (volti a non mettere seriamente in discussione la società che produce queste catastrofi ed a salvare la faccia ai responsabili in carne ed ossa delle stesse), non è forse il caso di soffermarsi in questa sede.
Lungi dal giudicare negativamente le svariate persone (non importa se compagne o meno) che spontaneamente hanno deciso di darsi da fare per tentare di aiutare coi propri mezzi, anche e soprattutto individualmente piuttosto che organizzandosi informalmente con propri amici, cioè senza dar vita ad organismi di carattere parapolitico (perché effettivamente legati ad organizzazioni politiche e/o sindacali – più o meno istituzionali – preesistenti), voglio invece riflettere polemicamente su quelle organizzazioni (senza perdere tempo a riportare le loro sigle) che hanno cavalcato da subito la disponibilità di non poche persone effettivamente non colpite direttamente dall’alluvione, ad attivarsi nell’organizzazione di iniziative di solidarietà generica, se così la vogliamo chiamare.
Ed è così che su un gruppo telegram di coordinamento ed organizzazione degli aiuti legato ad una di queste organizzazioni ”antagoniste” veniva manifestata – nei giorni immediatamente successivi agli eventi più critici – l’entusiasmo dato dal fatto che svariate testate giornalistiche avevano riportato la sigla di questa stessa organizzazione facendone le lodi, che più volte erano state ripostate sui social le foto degli attivisti dell’organizzazione, assieme ad altri ”volontari”- presumo ingenuamente ignari di queste pagliacciate politiche – intenti a spalar fango nelle località colpite del comune di Castel Bolognese.
Uno schifo, insomma e, intendiamoci bene, non perché personalmente sia un apologeta delle pratiche di aiuto “disinteressato” e religiosamente rivolto a tutti gli esseri umani (ad esempio tanti alluvionati, per me non è prioritario aiutare dei borghesi a salvare i beni racchiusi nella propria villa di tre piani); uno schifo perché chi si riempie la bocca di solidarietà e mutuo aiuto non si fa scrupoli a tentare di ricavare consenso, visibilità e riconoscimento politico dalla strumentalizzazione di certe tensioni e di certe pratiche egemonizzandole e spacciandole poi per “autogestite dal basso”.
La solidarietà per me non è qualcosa di universale, insomma non è qualcosa che voglia rivolgere a chiunque, a qualsiasi essere umano in quanto tale, per lavarmi la coscienza e dimenticarmi del fatto che ogni giorno non mettendo veramente in discussione la società industriale, il capitalismo vorace di risorse, energie e metalli rari, lo sfruttamento, la gentrificazione, il consumo di suolo sfrenato a profitto di grandi e piccole imprese capitalistiche (per quanto riguarda la logistica ad esempio, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, certifica un primato assoluto per la Regione Emilia-Romagna, che nel periodo tra il 2006 e il 2021 ha occupato quasi 400 ettari nella costruzione di magazzini e poli logistici), sto alimentando e legittimando questo ciclo di catastrofi. Se la solidarietà in queste contingenze è prestare aiuti a chicchessia allora non sono solidale, allora non me ne fotte uno stracazzo di niente di attivarmi nell’aiuto, di partecipare alla costruzione di brigate ad uso e consumo di piccoli politicanti leninisti da strapazzo.
La solidarietà, l’aiuto e la vicinanza decido io a chi portarla, sulla base delle mie conoscenze, delle mie affinità, di miei legami di fiducia e amicizia, ma anche di una consapevolezza di classe. La solidarietà a cui penso è una solidarietà selettiva, non mi vergogno di sostenerlo.
Non voglio fare da manovale per le progettualità politiche di organismi politici che disprezzo e che mi fanno venire il vomito, non voglio ricavare nessun consenso dalle pratiche di aiuto e vicinanza, non voglio sfruttare la dialettica soccorritore-soccorso per “radicarmi” politicamente, per far vedere alla gente che sono capace di tappare i buchi prodotti dalla società dello Stato e Capitale. Forse sarebbe il caso di tenere a mente questo aspetto di selettività nella pratica della solidarietà, onde evitare di farsi strumentalizzare, per avere la sicurezza di autogestirsi veramente quelle pratiche di cura e aiuto evitando di trasformarle in strumento di ricatto, di spettacolarizzazione politica e umanamente, mi viene da aggiungere, in rito di redenzione.


CON L’ACQUA ALLA GOLA
Uno sguardo anarchico sull’alluvione in Romagna

PDF: Con l’acqua alla gola

La testimonianza che sto per riportare, è sicuramente limitata. Sono stata per pochi giorni in contesti paesani e ad oggi, a parte qualche racconto di alcuni solidali, non so come sia andata nelle città più grandi colpite dall’alluvione. Alcuni dei fatti che riporto mi sono stati raccontati dalla popolazione locale e non vi ho preso parte in prima persona. Non ho avuto modo di verificarli in fonti scritte che, a tal proposito, scarseggiano. Inoltre, non conoscendo la morfologia del territorio, molte delle informazioni che mi hanno dato sulla gestione delle acque in eccesso purtroppo le ho perse. Del resto, prendere appunti durante chiacchierate informali mi sembrava decisamente fuori luogo.

Sant’Agata sul Santerno, Conselice, Lugo (26 – 30 Maggio 2023)

Una decina di giorni dopo la fine della cosiddetta seconda fase dell’alluvione, sono partita per la Romagna. Ciò che mi ha spinto a raggiungere questi luoghi, sono sincera, è stato uno spontaneo spirito di solidarietà nei confronti di umani e animali. Solidarietà di classe o “selettiva1”. Certo, lo do per scontato, ma lo specifico per non creare fraintendimenti. Non sto parlando di una solidarietà genericamente intesa, rivolta a tutto il genere umano. Non posso amare chi mi sfrutta. La solidarietà la provo nei confronti dei miei simili: gli/le oppressi/e, gli/le sfruttati/e, gli/le esclusi/e. È con questi ultimi che provo ad instaurare dinamiche di mutuo-aiuto. Nel testo la parola ‘solidarietà’ va sempre intesa in questo senso.

Consapevole che in situazioni di emergenza lo Stato mette in campo i suoi dispositivi, ho scelto di recarmi presso un rifugio che ospitava in quel momento animali alluvionati, che si trova poco distante dalle zone maggiormente colpite. Ciò mi sollevava dal timore di una eventuale compromissione/collaborazione con le autorità, con la quali in quanto anarchica non volevo avere a che fare, ma che sapevo invece avrei sicuramente incontrato nelle “zone rosse”. Il mio tentativo di stare alla larga da queste zone è però fallito. Una volta giunta sul campo, ho constatato che l’emergenza animali era rientrata e non vi era grossa necessità di braccia al rifugio. Mi sono così recata nei paesi fortemente colpiti dall’alluvione, alcuni dei quali in quel momento si trovavano ad affrontare la “seconda emergenza2”.

Quell’istintivo spirito di solidarietà che mi aveva spinto a partire, ha avuto la meglio sui miei timori di compromissione. Non solo mi ha dato l’opportunità di vedere da vicino un dispositivo emergenziale operativo, ma ha anche regolato il mio agire. Questa consapevolezza l’ho raggiunta solo in un secondo momento. Inizialmente sono quindi entrata nei paesi in punta di piedi.

Cittadini senza Stato

La mia paura di compromissione con le autorità è svanita immediatamente. Entrando nei paesi ho scoperto che la Protezione Civile non era impegnata nelle case, ma aveva un ruolo meramente “di presenza”. Le forze messe in campo erano esigue se non nulle. A Sant’Agata sul Santerno, per esempio, vi erano mezzi e personale in divisa concentrati nei pressi del Comune. Questi mezzi però erano pressoché fermi ed estremamente puliti, anche a fine giornata. Per smantellare le montagne di detriti che palesemente ingombravano le strade, gli abitanti dovevano recarsi in Comune dove, tramite un modulo cartaceo, chiedevano la rimozione del materiale. Anche i mezzi dei Vigili del Fuoco erano esigui e impegnati in situazioni circoscritte. Il mondo delle associazioni umanitarie era assente, ad eccezione di qualche gruppetto (per esempio gli scout, Greenpeace). A detta di alcuni abitanti i mezzi di soccorso, nel pieno dell’alluvione, erano irreperibili o comunque incapaci di far fronte ai bisogni della maggior parte della popolazione. Questi paesi si sono trovati e si trovano tutt’ora in uno stato di completo abbandono. Riporto queste informazioni non per alzare un coro di indignazione nei confronti dello Stato o per “chiedere” un qualche intervento. La finalità dello scritto, oltre quella descrittiva della situazione che ho osservato, è quella di provare a comprendere le finalità insite al modello gestionale adottato in questa emergenza.

A Ravenna i Vigili del fuoco passavano per le strade con l’altoparlante ordinando l’evacuazione. Le persone, una volta uscite, hanno trovato le strade chiuse e dunque sono state costrette a rientrare nelle case. A Conselice le autorità hanno dato ordine di evacuare il paese, ma buona parte della popolazione si è rifiutata. Le persone sono così rimaste chiuse in casa per 12 giorni senza acqua, gas ed elettricità, a causa dell’acqua alta. Gli unici a portare cibo e beni di prima necessità sono stati i contadini che si sono organizzati con i trattori, assieme a qualche solidale con il gommone. Ciò avveniva nonostante i Vigili del Fuoco intimassero ai solidali di andarsene immediatamente per rischio biologico.

La mancata mobilitazione di forze da parte dello Stato ha creato un forte senso di sfiducia e una gran rabbia nei confronti della Protezione Civile, delle amministrazioni comunali e regionali, delle forze dell’ordine, dei soccorsi, dei giornalisti e dei politici in visita. A Sant’Agata sul Santerno, il Prefetto di Ravenna è stato rincorso dagli abitanti con i badili in mano. A Conselice (e in qualche altro paese che non ricordo) i sindaci girano per il paese scortati dai Carabinieri. A Lavezzola è accaduto che un padrone di un’importante azienda agroalimentare, si è scontrato con la Sindaca (del PD), la Protezione Civile, il Consorzio di bonifica e i Carabinieri. Il Destra Reno stava per esondare e la chiusa per far defluire l’acqua nel canale di bonifica che sfociava nel Reno – il quale aveva il livello dell’acqua molto più basso – non si apriva a causa della scarsa manutenzione. Le autorità erano accorse sul luogo, ma stavano semplicemente prendendo atto della situazione. Nel frattempo l’imprenditore si era organizzato con mezzi propri per bypassare l’acqua, sostenuto dagli abitanti del paese. La Sindaca però non era d’accordo con questo intervento, in quanto non autorizzato. Di fronte alla rabbia degli abitanti (accorsi sul luogo) e alla minaccia del padrone – che le intimava di spostarsi altrimenti l’avrebbe presa sotto – la prima cittadina non ha potuto far altro che andarsene, scortata dai Carabinieri. L’acqua così è stata bypassata.

Questo esempio, chiaramente, non è riportato per dimostrare la filantropia di un padrone. Quest’ultimo, è chiaro, aveva il suo profitto da salvaguardare. Era sicuramente l’unico ad avere la possibilità di “salvare il paese” appunto perché, in quanto padrone, proprietario di mezzi e con grandi disponibilità di denaro. Ho visto in questo episodio una contraddizione dello Stato che, nelle vesti della Sindaca, non è stato in grado – o non ha voluto – tutelare quella parte di popolazione, la borghesia, che è solito rappresentare.

Narrazione VS realtà

Prima della partenza mi sono informata per capire quali strade erano percorribili. La percezione che ho avuto leggendo vari avvertimenti era quella di una situazione simile al primo lockdown. Strade chiuse, posti di blocco, controllo dei movimenti della popolazione. Anche lungo la E45 ho visto vari cartelli che suggerivano di lasciare libere le strade per permettere ai mezzi pesanti di Protezione Civile, Vigili del Fuoco ed Esercito di circolare più liberamente. Ciò che veniva narrato, ovvero un grande traffico di mezzi pesanti delle autorità nei luoghi colpiti, si è rivelato falso. Le strade, sia quelle principali che le secondarie all’interno delle campagne, erano libere. Il traffico regolare e i mezzi pesanti in circolazione pochi. L’accesso ai paesi alluvionati era libero. Mi è capitato di trovare dei posti di blocco in entrata a Sant’Agata sul Santerno, che vietavano ai non residenti l’ingresso in paese. I Carabinieri e la Polizia Locale avevano però una certa difficoltà a fermare le persone che, con determinazione, sostenevano che dovevano circolare liberamente. Qualche solidale si faceva intimidire, oppure credeva ai Carabinieri che affermavano che in quel paese “tutto era a posto e non c’era bisogno di volontari”, così tornava indietro. La maggior parte delle persone però passava lo stesso. O a piedi, o cambiando strada, oppure inventandosi qualche scusa. Visto il gran numero di solidali accorsi, era molto difficile per le forze di polizia poter controllare tutti, nonostante in alcuni casi ci fossero due filtri per l’ingresso ai paesi.

Due parole anche sull’applicazione VolontariSOS… A quanto detto dalle autorità, solo chi era registrato a questa applicazione poteva recarsi ad aiutare la popolazione ed entrare nelle zone rosse. Questo per motivi di assicurazione in caso di incidenti, di controllo e organizzativi. In questa applicazione il volontario doveva inserire i suoi dati e prenotarsi un “turno”. Nella realtà, la maggior parte delle persone che ho incontrato non si erano affatto registrate. Alcuni erano contrari alla registrazione in sé e vedevano in questa applicazione un tentativo di controllo e tracciamento. Chi invece si era registrato, raccontava di come questa applicazione fosse totalmente fallimentare, dal momento che i “turni” risultavano tutti occupati. Nonostante ciò, queste persone si sono recate sul posto lo stesso, pensando fosse più semplice passare casa per casa a chiedere se c’era bisogno, piuttosto che affidarsi ad una piattaforma digitale.

 Si può affermare quindi che in questi paesi la circolazione dei solidali fosse abbastanza fuori controllo per le autorità. Lo stesso si può dire anche in merito alla gestione di alcuni hub di smistamento merci. A Conselice, su ordine del Comune, vi era un grande hub dedicato solo alla ricezione degli aiuti. La merce smistata doveva poi essere portata ai singoli punti di distribuzione, dove la popolazione si recava a prendere ciò di cui aveva bisogno. Nella realtà in questo hub venivano direttamente le persone a prendersi la merce che serviva e da lì partivano macchine cariche che, strada per strada, distribuivano merce a chi chiedeva. Ciò grazie al buon senso delle persone che attraversavano quel luogo e che, di comune accordo, avevano convenuto che aveva più senso distribuire direttamente, piuttosto che accumulare merce nell’hub centrale e lasciare le persone a secco, come il Comune aveva ordinato di fare.

A tal proposito va segnalato come, ad un certo punto, il Prefetto di Ravenna ha fatto pubblicamente degli appelli affinché i volontari abbandonassero le zone alluvionate, perché di intralcio alle operazioni delle autorità.

A proposito di Angeli del fango

La composizione delle persone accorse ad aiutare si è rivelata un mix interessante. Complottisti, no vax, animalisti di tutte le età, no green pass… Persone che, per un motivo o un altro, avevano da tempo maturato una coscienza critica e una pratica, non necessariamente sotto la bandiera di qualche gruppo o organizzazione. Molti infatti sono accorsi individualmente, diffidando di grandi organizzazioni accentratrici, caricandosi la macchina di quanto poteva essere utile (idropulitrice, cibo per animali, vestiti, coperte) e girando nei paesi offrendo la propria disponibilità, anziché presentarsi ai coordinamenti gestiti dalle autorità.

La retorica degli angeli del fango proposta dai media, veniva derisa dalla maggior parte delle persone e sentirne parlare non era una bandiera di vanto, piuttosto faceva innervosire. Tanti volontari erano persone alluvionate che, una volta sistemata la loro abitazione dove “l’acqua era arrivata alla gola”, si sono recati da chi aveva ancora bisogno, mettendo in pausa le proprie attività quotidiane tra cui il lavoro. Ho respirato un clima di collaborazione e amicizia, privo di pregiudizi (per esempio legati al genere) e ho incontrato persone con una sensibilità particolare. Un pomeriggio, ero con altre persone ad aiutare una famiglia che stava vivendo un forte disagio psicologico a causa dell’alluvione. Ad un certo punto qualcuno dal Comune ha ben pensato di mandare due guardie della Polizia Locale. Sono corsa fuori per vedere cosa volessero ma, prima di me, una donna era uscita e stava dicendo alle guardie di andarsene immediatamente, perché la situazione era tranquilla e loro avrebbero solo creato problemi.

Durante la giornata si alternavano momenti di lavoro duro a momenti di discussione a 360°. Un’esigenza condivisa era proprio quella di parlare insieme: del Covid, della guerra, di queste continue emergenze che sembrano non finire mai, dei responsabili di tutto questo.

Un altro aspetto importante è stata la condivisione del dolore e della sofferenza. Condivisione fortemente “richiesta” dalle persone alluvionate che, spesso, ti fermavano per la strada per scambiare due chiacchiere, per piangere, per sfogarsi. Dietro questi sfoghi, la consapevolezza che l’alluvione non è stata semplicemente una catastrofe naturale improvvisa. Ma una catastrofe provocata e non annunciata, o annunciata con grande ritardo, con dei responsabili precisi: Protezione Civile, Consorzi di bonifica, amministrazioni comunali e regionali.

Insomma questa esperienza è stata, nonostante il dramma, in termini umani un vento d’aria fresca. Forse l’umanità è ancora un rischio da correre.

Quale protocollo?

Troppo facile sarebbe sostenere che lo Stato era impreparato a questa alluvione, come anche dire che non è stato in grado di gestire la situazione a causa della mancanza di mezzi, della troppa burocrazia o dell’incompetenza. Il suo operato è frutto di un insieme di circostanze e di scelte. Sicuramente la popolazione locale e i solidali hanno dato del filo da torcere alle autorità. Il tentativo di controllare i movimenti (tramite app e posti di blocco), di evacuare intere zone, di centralizzare la distribuzione di beni, di vaccinare la maggior parte della popolazione… da come ho visto non è riuscito molto. D’altra parte, però, lo stato di abbandono di questi paesi mi ha dato da pensare. Evidentemente si tratta di una scelta voluta e ragionata. Sinceramente non riesco ad oggi a darmi delle risposte definitive. Mi vengono in mente delle ipotesi, ma ritengo sia necessario avviare un dibattito sulle modalità con le quali lo Stato affronta queste emergenze locali. Visto l’ormai prossimo collasso a cui la società industriale ci sta conducendo, queste catastrofi saranno sempre più frequenti. Forse lo Stato vuole abituare le persone al fatto che possa mancare per giorni l’acqua, l’elettricità, il gas e i beni di prima necessità? Oppure trascura completamente la popolazione di modo che quest’ultima reclami “più Stato”? O ci sono degli interessi, che non conosciamo, a sgomberare nello specifico questi territori colpiti dall’alluvione?

Credo sia urgente riflettere insieme, soprattutto con chi ha vissuto più da vicino l’alluvione. Avendo l’esperienza della pandemia, mi sono recata in questi luoghi aspettandomi di trovare un determinato dispositivo (militarizzazione, controllo degli spostamenti, impossibilità di accedere alle zone rosse), nella realtà ho trovato tutt’altro e ciò, devo dire, mi ha spiazzato. Allora, forse, diventa importante continuare a ragionare sugli stati di emergenza che ci vengono continuamente imposti, al fine di orientare il nostro agire. Per trasformare una piccola crepa nel sistema in una voragine.

un’anarchica

1 Alluvione, la mia solidarietà è selettiva, “Betzmotivny”, anno III, numero 10

2 Con questo termine intendo quella fase in cui, defluita l’acqua, arriva il momento di reperire il materiale, spalare il fango, gettare tutto ciò che è stato danneggiato ed eseguire i lavori di pulizia.

VIA FIORAVANTI E LA BOLOGNINA TORNANO A BRILLARE

“Via Fioravanti e la bolognina tornano a brillare”.

Dopo le retate dei mesi scorsi inaugurate con la visita in città del ministro Piantedosi (1), arriviamo ai detenuti sfruttati come raccoglitori di rifiuti in via Fioravanti (2).

Il lancio del clamoroso progetto di ipocrisia sociale è avvenuto ieri, sette maggio,  nella così detta “Piazza” – che piazza non è – Lucio Dalla, fiore all’occhiello e luogo simbolo del processo di gentrificazione della Bolognina, perno per il maquillage dell’amministrazione PD.

Una camionetta, un manipolo di guardie della penitenziaria e la passerella dei vari avvoltoi al seguito (3).

Si scrive “riscatto”, si legge “ricatto”, si scrive “inclusione”, si legge sfruttamento.

Il Carlino arriva a chiamarla addirittura “bonifica di via Fioravanti”, evidentemente lusingato nel vedere usati gli stessi reclusi nella raccolta dei rifiuti con lavoro non retribuito (4). Una “bonifica” che è una vera e propria guerra ai poveri e alle dissidenze, volta ad annientare qualsiasi possibilità di autodeterminazione, relazione e solidarietà dal basso, oltre che qualsivoglia forma di tensione, conflitto e messa in discussione del presente. “Bonifica” che si è tradotta nei mesi scorsi in blitz nei bar e in rastrellamenti per le strade, con decine e decine di guardie in giro per la Bolognina.

“Gli attori principali dell’evento faranno qualcosa di unico, perché la possibilità di uscire tra la gente non l’hanno tutti i giorni.”

Qualcosa di unico, si, raccogliere rifiuti e spazzatura con lavoro “volontario”, magari i resti dei giacigli di chi è stato appena rastrellato dalla polizia, per coadiuvare il processo di militarizzazione, espulsione, riscrittura, decoro, speculazione e sfruttamento, che chiamano r i q u a l i f i c a z i o n e. Con i reclusi a raccogliere i rifiuti il cerchio può dirsi compiuto.

“I direttori di diversi altri istituti hanno espresso il desiderio di inviare anch’essi i detenuti migliori alle prossime domeniche di pulizia ambientale.”

“Lavoro” – che lavoro per altro non è – naturalmente solo per i “migliori”, i piu “bravi”, come capitalismo vuole, rinforzando contemporaneamente divisioni e premialità all’interno del carcere, e permettendo ai filantropi di turno uno sfacciato green-washing sulla pelle dei più ricattabili.

Con il progetto seconda chance si apre potenzialmente ad un mercato di nuovi schiavi (5). “Aiutare risparmiando”. Terzo settore, carceri e aziende unite per sfruttare le opportunità di reinserimento dei detenuti, perché “Alla “Rocco D’Amato” c’è grande sensibilità” per i “valori”, soprattutto quelli in linea con gli interessi dei padroni.

Anche altrove non è differente (6).

E’ interessante notare la strategia di ribrendizzazione che istituzioni e carcere stanno tentando di mettere in campo in un momento in cui la questione delle galere e della loro reale funzione ha raggiunto più strati sociali.

Bisognerà pur trovare un modo affinché le persone si dimentichino dei 14 morti e delle mattanze seguite alle rivolte del 2020 (7)!

Bisognerà farla finita una volta per tutte con questa storia dei suicidi in carcere, 84 nel 2022 e 45 dall’inizio del 2023!

Qualcuno dovrà pur trovare un escamotage per alleggerire agli occhi dell’opinione pubblica la situazione estremamente critica all’interno del carcere della Dozza, dove “trattamenti inumani e degradanti” sono strutturali e all’ordine del giorno. Si dovrà pur individuare una strategia perché proteste e scioperi della fame non arrivino fuori e non si estendano dentro!

Basta parlare di carcere come strumento di governo delle diseguaglianze e del conflitto sociale!

E’ vero, in moltissimi provano “a fare la corda” (impiccarsi) o mettono in atto gesti autolesivi, ma basta parlare solo di questo! Siete ripetitivi ideologici e noiosi! Se ne occuperà la psichiatria (8).

E i reclusi gravemente malati lasciati senza cure e assistenza? L’impossibilità ad accedere al lavoro, allo studio e alle più elementari esigenze? La cronica scarsità/assenza di acqua e il cibo insalubre? Lagnanze!

Non ha importanza se tanti reclusi potrebbero uscire ma scontano pene oltre la detenzione perché i magistrati di sorveglianza sono in ferie, non ci sono, non scarcerano e non rispondono a nessuna richiesta, si tratta pur sempre di umanità di serie B!  Sono altre le priorità! Che fretta c’è?

Va bene, moltissimi reclusi non vedono mai nessuno e non hanno mai colloqui con nessuno, che pensassero a fare i bravi allora, magari chissà, un giorno potranno essere tra quei “fortunati” che avranno accesso a questi magnifici progetti di inclusione.


NOTE:

(1) https://brughiere.noblogs.org/post/2023/02/01/bologna-retata-in-bolognina/, https://brughiere.noblogs.org/post/2023/01/23/repressione-e-civilta/

(2) https://ristretti.org/bologna-domenica-appuntamento-ecologico-con-seconda-chance-e-plastic-free

(3) https://www.bolognaindiretta.it/dal-carcere-occuparsi-pulizia-ambientale-video/

(4) https://www.ilrestodelcarlino.it/bologna/cronaca/bonifica-di-via-fioravanti-cinquanta-detenuti-al-lavoro-ca92cf9f

(5) https://secondachance.net/

(6) https://headtopics.com/it/la-gran-bretagna-salvata-dai-galeotti-mancano-i-lavoratori-per-effetto-di-brexit-e-covid-il-govern-38857635 , https://espresso.repubblica.it/attualita/2022/09/05/news/stati_uniti_schiavi_carceri-364269514/

(7) https://brughiere.noblogs.org/post/2023/03/13/a-tre-anni-dalle-rivolte/

(8) https://brughiere.noblogs.org/post/2023/01/15/bologna-giornata-antipsichiatrica-morto-un-opg-se-ne-fa-un-altro/

 

A TRE ANNI DALLE RIVOLTE


Condividiamo un intervento portato sotto al carcere Sant’Anna al corteo anticarcerario del 12 marzo 2023 a Modena:

Siamo qui fuori perché crediamo che quello che succede dietro quelle mura ci riguardi tutte e tutti! Sono passati tre anni da quei giorni di marzo. Dai giorni in cui le rivolte dei detenutx hanno infiammato le carceri di tutta Italia. Dicono che sono morti di overdose, lo hanno detto dal primo giorno, ma queste sono morti di Stato e qui fuori lo sappiamo bene! Perchè anche con l’assunzione di quantitativi rischiosi ed elevati di metadone, la morte per insufficienza respiratoria non sopraggiunge subito, ci sono segnali: sonnolenza, diminuzione delle capacità vitali, si tratta di un processo non immediato, che avrebbe permesso ad eventuali soccorsi di intervenire. Ma chi interviene se chi ha la tua vita in mano è lo stesso che ti ha riempito anche di calci e manganellate? Se è proprio lui che vuole la tua morte? Quattro morti sono sopraggiunte durante e dopo i trasferimenti in altri carceri, questo conferma che non sono stati soccorsi! Il silenzio di medici e infermieri è assordante rispetto gli abusi compiuti in quei giorni e rispetto agli abusi che si perpetuano ogni giorno in tutte le carceri! Infermieri, medici, tecnici, operatori, complici di un sistema che li vede colpevoli per l’omertà con cui attraversano quelle mura. Perché al carcere è evidentemente riconosciuto il diritto di provocare  malattia, menomazione e anche di uccidere! Lo ha detto la procura di Modena: “Indagini da archiviare”

. Nessuna responsabilità! Sono morti per overdose. Nessun pestaggio. Assistenza sanitaria garantita. Tutto a posto. Vogliono mettere a tacere non solo le ragioni delle rivolte, ma tutto ciò che ne è seguito. Non possiamo permetterlo! Non dobbiamo permetterlo! Perché ne approfitteranno per stringere una morsa ancora più stretta intorno a chi vive l’oppressione carceraria! In carcere si muore, oggi come ieri, oggi piu di ieri. I suicidi sono in continuo aumento! La sindemia ha portato allo scoperto l’incompatibilità della condizione detentiva con qualsiasi concetto di salute, non solo per le ridicole condizioni igieniche, per il sovraffollamento, o per l’assistenza sanitaria inesistente, ma strutturalmente: il carcere è in sè stesso l’antitesi della salute, della prevenzione e della cura per la violenza e la deprivazione su cui si fonda. Isolamento, solitudine, sradicamento, attese e procedure alla mercé completa della discrezionalità di guardie e direzione, sono la prima fonte di deterioramento psicologico per chi subisce la reclusione. L’impossibilità di comunicare annienta e distrugge corpi e menti, generando fragilità, patologie, disturbi e malattie psico-somatiche. Il carcere non deve esistere e le persone devono uscire! Sovvertire le ingiustizie è l’unica possibilità che abbiamo per non soccombere allo schifo che ci circonda e la solidarietà è l’arma che il potere teme di più! Se il carcere è lo strumento che lo Stato ha per mantenere le diseguaglianze,  controllare il conflitto sociale e far si che nulla cambi, combatterlo è una necessità per tutte e tutti noi! Cinque detenuti hanno avuto il coraggio e la determinazione di alzare la testa e di esporsi su quanto avvenuto in quei giorni, si sono messi a rischio scegliendo la loro coscienza al silenzio! Ma più saremo, ad alzare la testa, piu qualcosa potrà cambiare.
Siamo al fianco di Alfredo in sciopero della fame da quasi 5 mesi ormai contro il regime del 41 bis. A fianco di Anna, Juan, di tutti i prigionieri anarchici e di chi lotta dentro e fuori le galere. Perché nonostante le sentenze che possono emettere i tribunali, la solidarietà attiva può trasformare la realtà più cupa e aprire varchi insospettabili nei muri dell’isolamento. Soltanto lottando possiamo rompere il filo spinato dell’omertà che avvolge queste mura affinché le rivolte, e il sacrificio di chi non c’è più non siano stati inutili!


Qualche foto del corteo. A tre anni dalle rivolte, contro il carcere, al fianco di Alfredo.

BOLOGNA 8 MARZO: SAREMO TUTTE LIBERE SOLO QUANDO TUTTE SARANNO LIBERE

Contro la guerra, contro la pace, del patriarcato, dei produttori di armi, delle stragi sul lavoro, nelle carceri, alle frontiere
Stragista è lo Stato non chi lo combatte! Alfredo, Anna, liberx tuttx
Contro le basi Nato in Sardegna e ovunque! Con le compagne in lotta
Scalinata del Pincio, Bologna.
Saremo tutte libere solo quanto tutte saranno libere. Fuoco alle galere

Di seguito un testo scritto da alcune compagne l’anno scorso, ristampato e distribuito con qualche piccolo aggiornamento legato al contesto attuale, l’8 marzo 2023 a Bologna.

NIENTE DA SPARTIRE

– Niente da spartire nè col machismo omofobo, transfobico, misogino e assassino di Putin, nè con la chiamata alle armi degli alleati Nato, pronti a dividersi il mondo a costo di un bagno di sangue.

– Niente da spartire con le analisi geopolitiche, non è affar nostro scegliere sull’altare di quale stato e a quali interessi si può sacrificare la vita delle persone.

– Niente da spartire con i mercanti e produttori di armi, prestigioso comparto dell’export Made in Italy che fanno soldi a palate e non hanno cessato i loro sporchi traffici neanche un giorno in piena pandemia, attività essenziali, dicevano, mentre milioni di persone vivevano confinate nelle loro case senza deroghe a costo di sofferenze mentali e fisiche.

– Niente da spartire con l’economia della guerra su cui il capitalismo strutturalmente si regge.

– Niente da spartire con lo spettacolo della guerra. I media sciacalli vanno in cerca instancabilmente di immagini e storie tragiche da dare in pasto all’opinione pubblica al servizio della propaganda guerrafondaia dell’Occidente.

– Niente da spartire con le retoriche del pietismo e dell’eroismo dei politicanti di turno sulla pelle delle donne ucraine,
che fino a quando non sono diventate funzionali alla narrazione dei governati di casa nostra erano invisibili, democraticamente sfruttate e ricattate col cappio al collo dei permessi di soggiorno.

– Niente da spartire con il razzismo dell’accoglienza per cui sulla linea del colore si decide chi far passare e chi far inseguire coi cani alle frontiere e far morire in mare.

– Niente da spartire con i signori del nucleare e della guerra (che sono gli stessi, fatalmente) quelli che di mestiere producono devastazione ambientale e morte. Sono il problema e non la soluzione.

– Niente da spartire con chi ha fatto dei nostri territori una polveriera disseminando basi Nato massicciamente nel sud dell’italia e nelle isole,e reprimendo duramente chi vi si oppone. In queste periferie dell’impero, a Taranto, in Sardegna e in Sicilia le acciaierie e l’industria pesante avvelena e fa ammalare ad ogni respiro e uno dei motivi per cui non si può dismettere è la natura “strategica” della produzione per l’autarchia dell’industria bellica.

– Niente da spartire col silenzio complice di tanta società “civile” di fronte ad uno Stato che pur di difendere un dispositivo di tortura, sta uccidendo un compagno nelle patrie galere.

Sappiamo di vivere in un mondo che si regge sulle stragi in mare, al lavoro, nelle carceri, nelle case, nei campi di concentramento ai confini dell’Occidente in cui milioni di persone vengono usate come strumenti di pressione e merce di scambio, una guerra a bassa intensità in cui, come per la pandemia, il problema dei governanti è stabilire quante morti e quanta sofferenza è “tollerabile” dalla società civile come danno collaterale procurando di spostare il limite sempre un po’ più in là. Sappiamo altresì che la rimozione collettiva di questa ferocia serve allo Stato per conservare saldamente il primato della violenza.

Guerra alla vostra guerra e Guerra alla vostra pace

CESENA: SOLIDARIETÀ AI COMPAGNX COLPITI DALLA REPRESSIONE PER I FATTI DEL CORTEO CONTRO IL GREEN PASS

Con colpevole ritardo condividiamo questo manifesto  in solidarietà ai compagnx colpiti dalla repressione per i fatti del corteo contro il green pass a Cesena il 13 novembre 2021, e un testo portato quel giorno.


Un testo portato da alcuni compagnx il giorno del corteo, che integra materiale proveniente da differenti contributi, in particolare condivisi su le Brughiere, scritti nati da collettivi ed individualità che si sono interrogate sui problemi quali greenpass, autotutela della salute, sfruttamento in ambito lavorativo e criticità rispetto ad una Scienza presentata come monolite perfetto o neutro. Per ricordare, a dispetto del processo di rimozione collettiva.

Torniamo in strada – Corteo a Cesena

A riprova di quest’ultima antinomia endemica, Stato e padroni non prendono in considerazione un cambiamento strutturale ma cavalcano in ogni ambito un soluzionismo tecno-scientifico che avrà solo l’effetto di rendere invisibili le contraddizioni strutturali dell’organizzazione capitalista all’interno delle città e nei luoghi dello sfruttamento di massa. La retorica militare della “guerra” al virus, trasversale a tutte le forze politiche ed economiche, rende chi per qualunque motivo non ha le carte in regola, chi non è conforme, chi si ribella ad un ulteriore strumento classista e discriminatorio, un nemico interno.
Ciò che è grave è la legittimazione di un’ulteriore estensione del potere datoriale sul corpo dei lavoratori (di fatto, già consegnato a Stato e padroni) sulle condizioni di salute e le scelte di natura sanitaria, sfere che fino a prima di questa emergenza trovavano dei limiti quanto meno formali.
Si tratta di un’ulteriore stretta autoritaria nel mondo del lavoro e più in generale nella società, un pericoloso precedente, che non riguarda esclusivamente la minoranza relativa di chi non vuole/non può vaccinarsi. Le norme messe in campo appaiono infatti più legate ad un interesse che libera i padroni da ogni responsabilità scaricandole sui singoli, che alla reale volontà di tutelare la salute delle persone che le subiscono. Essere contro la coercizione e l’obbligo vaccinale non ci impedisce di interrogarci sulla necessità di tutelarci dal contagio del virus, soprattutto per quanto riguarda chi è più esposto e vulnerabile nei luoghi di reclusione e dello sfruttamento di massa, dove le relazioni sono imposte e non volute.
E’ evidente che dove non c’è spazio per la soggettivazione e la cura reciproca, per la relazione e il consenso, si fa strada la burocrazia e la coercizione, e che a pagarne il prezzo, oggi come ieri, saranno sempre e comunque tutte quelle vite già discriminate, considerate di scarso valore o ritenute “improduttive”. Lo stesso Stato che ha sempre tutelato solo e soltanto gli interessi dei padroni, tenta oggi d’un sol colpo di pulirsi la coscienza sbandierando un’ipocrita volontà di proteggere i più fragili, quando l’eccezionalità della pandemia nel contesto capitalista ha reso evidente quanto i profitti legati alle merci siano sempre venuti prima delle persone. La diffusione globale del virus ha viaggiato infatti in business class alla stessa velocità dei numeri in borsa, non annegando sui barconi nel mediterraneo. Ma le morti contano solo se hanno effetto sui mercati, le vite valgono soltanto se è possibile metterle a profitto.
Inoltre, una riflessione critica alla scienza e alla cura nel contesto capitalista che sia realmente antiautoritaria non può sedersi sul proprio privilegio e ridursi ad un’amputazione ideologica della realtà, la trama complessa dei contesti di sfruttamento è infatti composta da molteplici oppressioni. Irrompono nel dibattito collettivo le problematicità legate alle tecnologie della comunicazione e dell’informazione, al capitalismo della sorveglianza, al mercato delle tecnologie legate alla salute, al corpo e alle relazioni in mano a grandi multinazionali, nonché l’ambiguità di una scienza mercificata e subordinata al profitto. Emerge come la tecnologia industriale si sia servita del lavoro di milioni di lavoratrici e lavoratori per creare la ricchezza della “classe dirigente” che aliena, sfrutta e tortura, mentre i corpi oppressi sono ridotti ad oggetti e funzioni in relazione a chi detiene i maggiori privilegi sociali ed economici.
Si tratta di mettere in luce le interrelazioni tra le diverse oppressioni che stanno attraversando la vita di milioni di persone in un contesto di sfruttamento sistemico, globalizzato e interconnesso. Mentre gli ambienti di vita e di lavoro diventano sempre più piccoli, ristretti e atomizzati, aumenta e si amplifica a dismisura la varietà della divisione del lavoro e dello sfruttamento. La drastica riduzione degli spazi fisici di soggettivazione ha spostato l’alienazione dei Tempi moderni di Chaplin, dalle fabbriche all’individuo.
Fa da contraltare a questo isolamento dei corpi sempre più stringente, un sistema di sfruttamento capillarizzato ed in costante crescita. In tutto questo il green pass tutela soltanto gli interessi dei soliti noti: liberi si, ma di tornare a sfruttare, mentre le disuguaglianze che hanno segnato la pandemia sin dall’inizio continueranno ad esistere e i profitti sulla pelle di chi è sfruttato non verranno mai messi in discussione. L’emergenza si è rivelata un’occasione epocale di attacco alle condizioni di vita di milioni di sfruttati ma la deriva dominante è un becero attendismo progressista, composto e democratico.
Nonostante gli ultimi due anni abbiano messo in luce tutta la ferocia che sottende al mantenimento di questo sistema di sfruttamento: le risposte sono state deboli o isolate e, addirittura, l’abdicare dei movimenti a qualsiasi confronto o conflitto circa le possibilità di autodeterminazione critica dal basso rispetto alla gestione sicuritaria ed emergenziale della pandemia ha lasciato campo libero ad iniziative reazionarie.
Liquidare tutto il malcontento diffuso soltanto come interesse borghese o fascista è riduttivo e fa solo il gioco dei padroni: questa narrazione dominante rende ancora più invisibili alcune delle oppressioni, delle diseguaglianze e delle tante contraddizioni che attraversano le strade e quelle piazze. È però vero che, in nostra assenza, le forze neofasciste sono state abili a strumentalizzare il malessere generato dall’emergenza. Dall’inizio della pandemia in troppi hanno rinunciato ad una riflessione critica che tenesse conto delle complessità legate al contesto emergenziale che si è venuto a creare. Questo ha lasciato campo libero a fratture che si sono insidiate nei gruppi, spianando la strada a sterili dicotomie (salute, cura – sorveglianza, sicurezza / si vax – no vax…) che ricalcano la propaganda di Stato e fanno solo il gioco delle destre e dei padroni mentre i tre quarti del mondo subisce le conseguenze del neoliberismo senza nè scelta nè accesso a livelli di benessere minimi.
Quindi se un discorso pro o contro la vaccinazione in astratto è un cortocircuito costruito e fasullo buono solo a coprire le falle di un sistema che inizia a fare acqua da tutte le parti e in modo evidente, è chiaro come il nemico rimanga uno Stato paternalista che ha bisogno di infantilizzare i corpi per tutelare esclusivamente i propri interessi economici.
Non sappiamo bene “che fare”, domanda antica, forse ci sono tante cose da fare, sappiamo bene però, un passo alla volta, dove tutto sta andando. Sappiamo che non vogliamo tornare alla “normalità”. Sappiamo che il vaccino non basta e non basterà, sappiamo che il green pass non tutelerà la salute di nessuno e si tradurrà soltanto in un’ulteriore strumento di controllo, sappiamo che finché si rinuncerà alla rabbia, alla critica e al conflitto, non ci sarà libertà e salute per nessuno.
Intimamente convinti che in un sistema che genera morte, malattia, disuguaglianza e alienazione come il capitalismo, una malattia non sia solo un’etichetta diagnostica ma sia frutto di interazioni e connessioni tra cultura, società, umanità e ambiente, crediamo sia necessario non smettere di interrogarci sulle contraddizioni, sui dubbi, sugli interessi, sulle oppressioni in campo legate al nuovo contesto che stiamo vivendo.

Un abbraccio complice e solidale a tuttx le compagne ed i compagni detenuti, TUTTE E TUTTI LIBERX

BOLOGNINA, 40129 ACAB

CONTRO IL CARCERE, L’ERGASTOLO OSTATIVO E IL 41-BIS, CON ALFREDO IN SCIOPERO DELLA FAME, PER LA LIBERTA DI TUTTX!

Un volantino distribuito a Bologna  alla street del 17 dicembre contro il decreto antirave “SMASH REPRESSION”

Nel decreto antirave sono state inserite misure che aggirano le indicazioni della corte costituzionale sull’ergastolo ostativo e le condizioni ostative, rendendo ancora più difficile la concessione dei benefici penitenziari per quei reclusi che non collaborano con la giustizia.

Nell’aprile 2021 la corte ha infatti dichiarato incostituzionale il tipo di regime penitenziario previsto dall’art. 4 bis che esclude dall’applicabilità dei benefici penitenziari gli autori di alcuni reati tranne in caso di collaborazione con la giustizia. Il decreto legge del governo Meloni del 31 ottobre stabilisce che non sia però la collaborazione del detenuto l’unico strumento per accedere ai benefici di legge, per usufruirne, il detenuto dovrà dimostrare di aver aderito a specifiche condizioni e obblighi, civili e di riparazione pecuniaria, o «dimostrare l’assoluta impossibilità di tali adempimenti». Queste condizioni risultano però una trappola in quanto quasi impossibili da dimostrare, per cui di fatto l’operazione non fa altro che aggirare le indicazioni di incostituzionalità, riconfermando l’ergastolo ostativo e riconsolidando le condizioni ostative.

Stato e padroni stanno difendendo un dispositivo in cui la collaborazione diventa l’unico modo per recuperare la libertà. Questo non può che riguardarci tutte e tutti. Il “fine pena mai” dell’ergastolo ostativo si traduce in una morte a vita.

Dal fenomeno della criminalità organizzata che lo Stato finge di combattere, è stato istituito ed esteso un regime penitenziario differenziato volto a costringere alla collaborazione una variegata serie di condannati eterogenei, accomunati da una presunzione di pericolosità. Una presunzione assoluta, perché non superabile da altro se non dalla collaborazione stessa che esclude il prigioniero/a “in radice”, dall’accesso ai benefici penitenziari. L’immediata equivalenza tra l’assenza di collaborazione e la presunzione inconfutabile di pericolosità sociale, non permette di tenere conto di altri fattori che potrebbero condizionare e permettere altre valutazioni.

E’ anche bene ribadire che l’ordinamento penitenziario prevede già un dispositivo per costringere alla collaborazione, il 41-bis, ed oggi siamo qui anche contro questo regime di tortura.

Il 41 bis serve per isolare completamente il detenuto dall’esterno, l’unico modo per uscirne è quello di pentirsi e collaborare. Si tratta di un regime di annientamento e tortura studiato per provocare danni fisici e mentali tramite la tecnica della deprivazione sensoriale e per indurre sofferenza allo scopo di estorcere confessioni o dichiarazioni. Una condanna alla morte politica e sociale volta a recidere ogni forma di contatto con l’esterno e ad annullare la personalità del recluso.

Le prigioni sono lo strumento che Stato e padroni usano per mantenere l’ordine attuale, fatto di sfruttati e sfruttatori. Una guerra a bassa intensità affinché il processo di accumulazione capitalista proceda senza soluzioni di continuità, che mira a spostare il limite di tolleranza delle sfruttate e degli sfruttati, sempre un po’ più in là. Quando qualcuno prova a rompere questo monopolio, restituendo un’infinitesimale parte della violenza statale, viene duramente represso come avvenuto dopo le rivolte del marzo 2020.

È lo stesso Stato che sta tombando nelle patrie galere Alfredo Cospito, compagno anarchico recluso in 41-bis dal 5 maggio 2022 con un decreto firmato dall’allora ministra della giustizia Marta Cartabia.
Alfredo è in sciopero della fame dal 20 ottobre contro il regime detentivo del 41 bis e contro l’ergastolo ostativo. Una battaglia che non intende interrompere, fino al proprio decesso.

La sua lotta riguarda tutte le detenute e i detenuti, fra i quali ricordiamo i tre militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente rinchiusi da oltre 17 anni in 41 bis (Nadia Lioce, Roberto Morandi, Marco Mezzasalma). Nel 2009 la compagna Diana Blefari, della stessa organizzazione, si tolse la vita dopo la permanenza in questo duro regime carcerario. Solo comprendendo questi regimi di isolamento come mezzo di pressione, come tortura, per estorcere il pentimento, possiamo capire il carattere politico degli scioperi della fame fino alla morte attuati da molti compagnx rivoluzionarx.

Attualmente detenuto nel carcere di Bancali, in Sardegna, Alfredo si trova recluso ininterrottamente da dieci anni nelle sezioni di Alta Sicurezza e ora in regime di 41 bis. Alfredo è sempre stato in prima linea nelle lotte, mai disposto a compromessi o ad arrendersi, attivo nella difesa dei compagni colpiti dalla repressione, in ogni angolo del mondo. Dopo l’arresto avvenuto nel 2012, nel corso del processo che ne è seguito, ha rivendicato il ferimento del dirigente di Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi, uno dei massimi responsabili del nucleare in Europa. Nel 2016 è stato coinvolto nell’operazione Scripta Manent in cui è stata riformulata la condanna per lo stesso Alfredo e per Anna Beniamino in “strage politica” – la cui unica pena prevista è l’ergastolo – cosa mai applicata nemmeno al massacro del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna o a quello del 12 dicembre 1969 di Piazza Fontana a Milano. Lo Stato italiano complice delle peggiori carneficine fasciste sta condannando per strage due anarchici per un attacco che di fatto non ha provocato né vittime né feriti.

Condividiamo con Alfredo la necessità di lottare contro una società basata sullo sfruttamento e l’annichilimento di ogni forma di vita. Sappiamo che sono tempi ideali per mettere in atto svolte autoritarie da parte dei governi, lottare contro la miseria di questo mondo ci riguarda tutte!

NO AL 41-BIS, NO ALL’ERGASTOLO OSTATIVO LIBERX TUTTX


PDF: CONTRO IL CARCERE, L’ERGASTOLO OSTATIVO E IL 41 BIS, CON ALFREDO IN SCIOPERO DELLA FAME, PER LA LIBERTÀ DI TUTTX!


SPAZIO URBANO E PSICHIATRIZZAZIONE DELLA DISSIDENZA

Diffondiamo un contributo del Collettivo antipsichiatrico Strappi, all’iniziativa MOVIMENTI TRANSFEMMINISTI E SOVVERSIONE DELLO SPAZIO URBANO

[Polizia e psichiatria: conosciamo le loro cure e i loro trattamenti]

Il proliferare di pratiche psichiatriche va di pari passo ai processi che vedono le città configurarsi sempre più come industrie di sfruttamento e controllo. Metropoli mediate da aziende private, interconnesse e digitalmente sorvegliate, disciplinate sempre più in senso autoritario e iper-razionale, centri di profitto burocratizzati, scientificamente normati e igienizzati, tra telecamere “intelligenti”, “innovazione” urbana, sofisticate architetture e panchine antidegrado. Speculazione edilizia e militarizzazione dei territori aprono la strada ad affitti impossibili, sfratti e sgomberi, oltre che a progetti di ipocrisia sociale all’insegna del greenwashing, del socialwashing, della menzogna tecnologica [la smart city] e della falsa coscienza. A colpi di riqualificazione, decoro e repressione, si esaspera l’inesorabile processo di espulsione – legittimato da culture securitarie – di tutte quelle soggettività considerate problematiche al discorso del potere e non utili al profitto. Lungo le strade in ogni città rastrellamenti quotidiani si abbattono sulle fasce più marginalizzate della società. Una “sicurezza” sempre più “preventiva” , volta ad asfaltare tutti gli spazi di fiducia, libertà, relazione, intersezione, prossimità e solidarietà dal basso.

In nome delle bandiere del decoro e del degrado, controllo e repressione identificano costantemente nuovi “mostri” su cui scaricare insicurezza e timori per fomentare tutte quelle paure che possono essere strumentalizzate in funzione di consenso: l’obbiettivo é spezzare qualsiasi possibilità di  solidarietà e impedire qualsivoglia forma di messa in discussione del presente. La retorica del “decoro” e del “degrado”, la gestione violenta e iper-razionale dello spazio urbano, la pulizia di quanto imprevisto e non-normato, non sono altro che l’esito di un potere che si appella in modo sempre maggiore a paradigmi psichiatrici e a dicotomie di stampo binario e patriarcale. Questi paradigmi si consolidano nell’articolazione del potere di pari passo all’irreggimentazione delle strutture che lo regolano, e che regolano le relazioni all’interno dei  territori e tra le persone.

Assistiamo all’uso sempre più frequente e capillare del daspo urbano per allontanare persone “sgradite”, e della manipolabilissima categoria di “pericolosità sociale” di derivazione psichiatrica e fascista per reprimere il conflitto e contenere/sedare diseguaglianze e oppressioni. Vediamo continuamente puntare il dito contro la “malamovida”, neologismo che si vuole contrapposto a “buona movida”, cioè a quella socialità che rientra perfettamente negli spazi e nei tempi del consumo. Anche l’infanzia è nel mirino: attraverso la costruzione mediatica del “bullo” e della “baby gang”, giovani e adolescenti sono continuamente trattati e rappresentati come un problema di ordine pubblico da reprimere mentre rimangono intatti quei modelli che il sistema stesso riproduce ed esalta, pesci grandi che mangiano pesci piccoli all’interno di realtà dove solo chi ha soldi e potere è preso in considerazione, e chi non accetta di essere un cavallino da corsa non è nessuno. Nel frattempo imprese e attività commerciali sono incentivate a tappezzare i marciapiedi di telecamere con la promessa di detrazioni fiscali, gli individui sono incoraggiati a sorvegliare le strade a loro volta, forti di una crescente accessibilità dell’intervento delle forze dell’ordine, cementificandone il ruolo di controllo e repressione anche all’interno dei singoli, costantemente spinti alla delazione piuttosto che alla relazione.

Lo spazio pubblico irrimediabilmente costruito a immagine dell’uomo bianco, eterosessuale e borghese richiede prestazioni sempre più abiliste e performative che seguono norme ideali di neurotipicità o aspettative sociali calate dall’alto piuttosto che concrete e reali esigenze provenienti dalle soggettività oppresse che vivono desideri e bisogni altri.

L’organizzazione algoritmica dello sfruttamento, la mercificazione esasperata di ogni aspetto della vita, sta depoliticizzando l’incontro con noi stessi, con l’altro e con l’ambiente e incoraggiando una sempre più ampia disumanizzazione delle relazioni sociali. La psichiatria è pronta a raccogliere i cortocircuiti di queste oppressioni e a colonizzare con nuovo slancio il quotidiano e l’individuo: la platea di “difetti” e “tare” da “curare” è destinata ad aumentare proporzionalmente allo sfruttamento e all’oggettivazione che attraversano sempre più infanzia ed età adulta. Lo sfruttamento, l’isolamento e il disciplinamento esasperato di ogni aspetto della vita, l’insicurezza legata al presente e al futuro, la vede infatti in prima fila nell’individuazione di nuovi “disturbi” e “terapie” per “contenere” con nuove diagnosi e nomenclature le “ansie”, legate a rabbia, paura e frustrazione in crescente aumento, da addomesticare e spiegare con specializzazioni create ad hoc.

Ma la solitudine a fronte di un contesto comunitario deprivato si riferisce anche ad una vita sociale impossibile nei “loculi” domestici cittadini.

La famiglia nucleare patriarcale come modello dominante continua a svolgere il suo ruolo di piccola istituzione totale, laboratorio quotidiano di abusi, isolamento e oppressioni sistemiche: lo spazio domestico e familiare spesso infatti esaspera dinamiche oppressive con la tendenza mattofobica a isolare una vittima, che diventa tante volte capro espiatorio di situazioni nocive, da punire proprio quando manifesta in maniera eterodossa atti di libertà ed espressione di sè che non vengono capiti o accettati. Non dimentichiamo che, così come le violenze, anche il ricorso alla psichiatria, quando avvengono i TSO,  proviene sovente da persone conviventi e spesso parenti della persona interessata, vuoi per mancanza di conoscenza, vuoi per mancata elaborazione di alternative, che il più delle volte nei nuclei famigliari sono assenti o non ricercate per l’accumularsi e incancrenirsi di processi tendenti  a circoli viziosi che si richiudono al loro interno.

Tutto questo, come soggettività con un posizionamento antiautoritario e antipsichiatrico non solo ci riguarda, ma ci chiama in causa. Le strade che vorremmo percorrere sono in direzione altra rispetto alla famiglia intesa come nucleo ciseteronormativo, nella direzione di legami e parentele inedite dove l’aspetto di interdipendenza e cura reciproca si alimentano in un circolo virtuoso.

E’ evidente quanto la fatica ad organizzare una resistenza derivi in primo luogo dall’inesorabile sottrazione di reali spazi di autodeterminazione, soggettivazione e messa in comune delle esperienze, in favore della competizione fra individualità deprivate, impegnate a sopravvivere e concorrere come monadi per rimanere a galla.

CONOSCIAMO LA FALSA SICUREZZA CHE VENDONO PSICHIATRIA E POLIZIA, CONOSCIAMO LE LORO CURE E I LORO TRATTAMENTI!

A fronte di un’oppressione che vede coinvolte sempre più soggettività, crediamo sia urgente e necessario individuare spazi dove liberare complicità, legami nuovi e solidarietà impreviste!

Collettivo antipsichiatrico STRAPPI

Link: https://antipsi.noblogs.org/post/2022/11/10/spazio-urbano-e-psichiatrizzazione-della-dissidenza/

PDF PSICHIATRIZZAZIONE DISSIDENZA

 

IL CAPITALISMO NUOCE GRAVEMENTE ALLA SALUTE: VOCI DAL PRESIDIO DEL 13 OTTOBRE A ROMA

Di seguito la puntata di Mezz’ora d’aria, trasmissione anticarceraria sulle frequenze di Radio Città Fujiko, andata in onda sabato 22 ottobre.

Voci dal presidio del 13 ottobre chiamato dall’Assemblea Antipsichiatrica a Roma per contestare il convegno dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sulla salute mentale.