PAROLE CHIARE (détournement di PAROLE SEMPLICI)

Diffondiamo sempre a proposito dello scandalo dell’esclusione e degli scritti usciti di recente su qualche sito di area anarchica:

Chi scrive pensa che la liberazione passi dall’individuo e non dalla brutale collettività, dall’amore per le idee, come dall’odio per qualunque forma di autorità. Agognata è la ricerca della consapevolezza del sé e delle proprie potenzialità e solo la rivolta può demolire la presunta ineluttabilità del mondo che si affronta ogni istante. È agli individui sensibili che si tenta di parlare. I ruoli, le categorie e le identificazioni esistono e vanno distrutti. Il dominio definisce qualunque ruolo per esserci in società. Ogni ruolo ha la sua oppressione e con esso si sviluppa una certa relazione sociale. Ogni clan ha il suo linguaggio, dei gesti specifici e diversi modi di fare che sono propri.

Eccola la prima questione: il tentativo di uniformare forme di versi, come se i vari ostrogoti potrebbero essere recuperati dal primo intellettuale di turno. L’omologazione rimanda ad una istituzione, non al tentativo (oggi impossibile se non si distruggono le basi della civiltà) dell’autonomia individuale; all’ordine delle cose e delle proprie insulse evidenze, non alla scommessa di rivolta anche contro noi stesse e non solo contro il dominio; alle prigioni mentali dell’individuo finito, non alla libertà di quell’individuo fatto della sua storia, dei suoi rimossi e delle proprie torture. La ricerca della libertà o è in estensione con quella di altrx o non è.

Affrontare la problematica di chi disprezza parlare di patriarcato e di violenze di genere è questione fondamentale. Date le molteplici persone di merda che frequentano gli ambienti anarchici il vittimismo a forma di esclusione è diventato attualmente lo strumento cardine per quegli uomini di merda salvati dai kompagni per essersi definiti anarchici, ma profondamente misogini, transfobici e patriarcali: piagnucolano che le compagne anarchiche neanche li degnano di uno sguardo… Poveri narcisi senza il loro specchio, come faranno ad avere un ruolo nell’ambiente sovversivo adesso?

Come faranno, adesso, ad avere la loro platea di gregari?

Il suono del lamento diventa ridondante addirittura quando le compagne non si fermano alla parola ma si vendicano nella pratica. Di solito agli anarchici boriosi piace solo la loro unione di pensiero e azione. Quando essa esce dal loro controllo si turano il naso e non dicono niente. Ormai pochissimx anarchicx difendono le azioni per quello che sono, il complottismo è entrato anche da queste parti. È stato anche fatto un giornale senza motivo per dire che loro sanno quale è l’azione anarchica e quale no. Coglione noi che eravamo rimaste all’azione diretta e al sabotaggio in tutte le forme di libertà possibili e impossibili… Meglio i sex toys che certa stampa anarchica misogina da pari, di giorno e di notte, a pari. Meglio l’ostinazione del nostro immaginario e le compagne con il coltello tra i denti che farsela con chi vuole prendere il posto dell’estrema sinistra stile notav. Meglio tentare la bellezza dell’anarchia che struggersi nella lamentela dell’esclusione dal comitato centrale degli anarchici. Scusate le battute al vetriolo di traverso, ognuna legge quello che vuole ma nessuna porgerà distinti saluti a chi maschera lo stupro con l’agghiacciante archetipo giustificatorio del desiderio maschile.

Spesso le varie questioni si affrontano con l’ottica identitaria di difesa del violentatore di turno, di chi si considera vittima di una cospirazione orchestrata dalle streghe, cioè qualunque individualità al di fuori del maschile. Ora, ciò che non si può accettare è che tale merda stia costringendo a sintomi reazionari e autoritari più che alla libertà, ad una sorta di moralità amicale che produce una avvilente sordità ai mille tentacoli del dominio patriarcale. Non si può dire violenza di genere, ogni gesto contro il patriarcato è tacciato di femminismo accademico alla Butler (qualcunx non se l’è mai cagata quella stronza democratica!!!!!!!!!!!!!!!!), nessun pensiero fuori dal manuale dei comunisti con pose anarchiche può essere detto. O si includono persone di merda e ci si comporta come loro oppure si è tacciati di esclusione, tribunale transfemminista o anarchismo duro e puro. La domanda sorge spontanea: dentro a che cosa? Dall’ansia di tenere la morale della vera idea anarchica che diventa una sorta di polizia storica e del pensiero? Dai retaggi di chi, fondamentalmente, guarda alle persone solo come individui atomizzati senza le loro storie di oppressione? Altro che codici, che ognuna parli come li pare ma che si accolli quello che esprime.

Semplice, come le parole.

È interessante a questo punto fare un parallelo con il modello omologante e stereotipato del dominio. Ogni questione, tranne quella della sua distruzione, viene recuperata dal dominio. Il dominio fagocita (quasi) tutto. Nemici della libertà, si dice oggi, traggono profitto da tutto.

Recupera il femminismo che fa l’occhiolino alla normatività, non quello radicale che sputa su ogni forma di identificazione (che belle stronze queste anarcofemministe sempre incazzate con gli abusanti e i narcisi!). Recupera la questione queer che vuole stare dentro a questo mondo, non quella caotica e antinormazione (a Berlino qualcuno le ha viste, o se non si fanno gli scontri è tutta colpa delle frocie? E poi, ancora con questo sguardo simmetrico del conflitto? Che ovaie!!!) .

Recupera l’autogestione che fa profitto e si allinea a una falsa orizzontalità con gerarchie informali, fino persino a recuperare alcune azioni allo scopo di annacquare i contenuti della radicalità. Al dominio interessa la decrescita felice perché innocua ai suoi piani di sfruttamento, non al possibile ritorno del luddismo. Infine, la parola libertà ormai è il vocabolo più banalizzato di tutti e gli anarcomunisti preferiscono partire insieme e tornare con la stessa congregazione piuttosto che organizzarsi per affinità, fiducia e partire e tornare con chi si vuole, e soprattutto si sceglie, in modo informale.

La tendenza di questa società tecnologica, la quale viene riproposta anche in ambienti cosiddetti sovversivi, è estirpare la singolarità di ognuna. Non da meno, le rivendicazioni tortuose di aver subito delle violenze da parte dei kompagni vengono denigrate perché sono pericolose: fanno saltare il tappo del non detto, dell’abitudine, del codice e della famigliola anarchica. Distruggere la famiglia e i codici rimangono alcune delle tante vie di pensare un mondo di libere e di unici.

Per questo è di distruzione di tutte le oppressioni, anche quella patriarcale che viviamo tuttx, di cui bisognerebbe anche parlare, di diserzione dai ruoli imposti biologicamente e delle categorie conseguenti che vengono appiccicate addosso, di morale introiettata dalla società, di comportamenti che gli individui tendono a riprodurre perché il mondo del dominio è uno con tutte le sue oppressioni latenti. In qualunque ambito si manifesta il potere, anche in quello anarchico ormai pieno zeppo dello spirito comunista, dove è facile scrivere di libertà e urlarlo in piazza, per poi nelle proprie mura domestiche (o negli spazi anarchici) e mentali si continua come se nulla fosse a normalizzarsi nei ruoli di potere. Anormali, sognatrici, creative e ubriachi di stelle ormai non hanno più posto nella quasi totalità degli ambienti anarchici di oggi, quando si parla di confini da sciatta penisola. Si appoggiano i piedi sulla realtà per fortificarla, non sulle nuvole per colpirla. I vetero-normativi con le bandiere rossenere dicono che il problema sia il femminismo, noi, senza nessuna bandiera da difendere, vediamo che la grossa puzza di merda che ristagna nell’anarchismo italico è il prepotente ritorno del comunismo in salsa movimentista del motto mai tramontato “condivisione o stato”.

Se i discorsi sull’oppressione non tengono conto di quanto il patriarcato, ad esempio, abbia inciso e incida ancora sulla determinazione e mantenimento di ruoli ben definiti da cui non si è fatto molto per sfuggire e che si sono reiterati per secoli, come è possibile comprendere ciò che ogni individualità subisce? E come è possibile scardinare il potere, se non si rende il peso necessario, prima di tutto, nelle relazioni quotidiane che viviamo? La critica antiautoritaria o la si fa a tutto il dominio, dalla religione al patriarcato, al capitalismo e alla tecnica, ai ruoli e alla medicalizzazione, alle istituzioni e agli autoritari, ai narcisi e alle bandierine, o diviene recuperabile da chiunque. E ci si chiede: ma come fai a definirti anarchicx se hai atteggiamenti come un qualunque coglionx autoritarix?

Senza l’empatia per le sofferenze altrui, saranno solo le parole del dominio o degli esperti a parlare.

La psicologia è dappertutto: lo è così tanto che qualcuno, per fortificare il proprio Pensiero Unico, scambia l’interrogarsi sugli aspetti emotivi e di cura come comportamenti per controllare gli individui intorno a noi. L’opinione che ne scaturisce è che, in fondo, gli esseri umani sono tutti potenzialmente onnipotenti, non possono aver paura e ansie, soprattutto in una vita ridotta a schermo per esserci, lavoro per sopravvivere e blog o giornali per fomentare le opinioni anarcomuniste. Essere solidali con chi subisce o ha subito un’oppressione vuole dire cercare di sentirla e odiarla per sovvertirla, proprio come chi ha la forza di dire ai propri affetti di aver subito una violenza. Se Adamo ed Eva hanno rappresentato l’immutabilità di una condizione per secoli, Hiroshima e Auschwitz, con le loro conseguenze, sono il mondo di oggi.

Siamo anche il frutto della società in cui viviamo, sarebbe il caso di non nascondersi più anche per chi detiene la fede anarchica (chi è più attuale oggi parla di cultura anarchica, dicendoci quali libri sono fondamentali e quali no, e al bando ogni singolarità, acculturiamoci tuttx, ma come dicono loro!!!!). Oggi alcune e alcuni anarchici sono profondamente antifemministi (che bel termine cognato proprio dai nemici della libertà), credono nell’individuo fatto e finito come fonte di progresso, ma è l’infinito che apre le porte alla libertà. C’è chi si masturba su Kropoktin, c’è chi ci ha propinato che “l’insurrezione che (s)viene” e i suoi autori erano geniali e c’è chi sogna senza limiti con “Il ladro” di Darien. Ad ognuno il suo, in ordine sparso, ma a debita distanza.

E allora è bene dirsi che, comunque vengano presentate, è di questioni personali e sociali che si parla, che il patriarcato e le relazioni che fomenta fanno parte del dominio, e che a furia di non riconoscere gli elementi latenti di oppressione, la critica al mondo e la possibilità della sua demolizione spariscono nel brusio del lamento all’esclusione del solito individuo abusante. Ma se ci pensate bene, ogni individuo può essere soggetto ad avere atteggiamenti oppressivi contro qualcuno di altrx nelle proprie relazioni. Questo modo di relazionarsi lo possiamo riconoscere per tentare di distruggerlo? Non stiamo scrivendo il riformista decostruirlo o destituirlo, ma proprio di demolirlo in noi. E che facciamo, diciamo che le individualità anarchiche vivono fuori dal mondo e che queste cose non possono capitare? Dovremmo elencare la sfilza di relazioni e di incontri occasionali fra anarchicx che si sono rilevati violenti? E l’inclusione delle sopravvissute incazzate che vogliono mettere a ferro e a fuoco il mondo o semplicemente di quelle individue che si sono sentite ascoltate dopo aver subito violenza? Continuiamo a costruire recinti contro le oppresse e le torturate?

Ma è bene anche chiedersi: quali relazioni si stanno costruendo alla luce di dare pacche sulle spalle a chi nelle proprie relazioni amicali, affettive e sessuali usa strumenti autoritari senza neanche riconoscerlo? Esiste ancora qualcosa di intimo, personale, individuale da custodire, che sia irriducibile a qualsiasi categoria che è giocoforza autoritaria?

L’odio e la rabbia provata per le prese di posizione fatte da gente che si è comportata di merda sono una delle fonti che danno senso agli io che vogliono rompere con qualunque pastoia del dominio.

PAROLE, PAROLE, PAROLE.

È una strana sensazione quella provata nel leggere testi tutti uguali, nel deserto del niente, senza emozioni, che non fanno incendiare le menti anche se pieni di parole che divengono slogan mal assemblati. Meccanicismo del cameratismo, altro che parole che osano l’impossibile. L’ossimoro con cui si è deturnato il testo che compare nel titolo è quello che vorremmo sentire nei cuori ardenti, non per dare l’idea di cosa è l’anarchia vera (fanculo gli autorevoli da ricette gastronomiche dell’ordine militante) ma per rendere omaggio a quelle individualità anarchiche (non certamente le uniche, per scardinare ogni mitopoiesi) che hanno dato il loro contributo ad un’idea di anarchia fatta di pensiero, azione e solidarietà contro tutte e tutti. Oggi quell’idea è sempre meno viva: la virtualità ha preso il posto dell’immaginazione, il mito sta uccidendo l’utopia, la realtà sembra un macigno in cui si può solo soccombere e ormai è meglio leggere Bordiga e Gramsci, piuttosto che gli individualisti anarchici.

Quando infatti si diffonde un comunicato in cui usa la parola infame per definire una compagna (metodo trito e ritrito per accusare in modo poliziesco, denigrazione forse imparata da Marx quando dava della spia russa a Bakunin), con all’interno delle minacce contro chi solidarizza con chi ha subito violenza e si mettono per iscritto delle accuse mettendo a rischio le relazioni fra anarchici già ultraparanoici (per dare dell’infame a un individuo bisogna essere sicuri, ogni piagnisteo che giustifica questo modo di comunicare è spazzatura), a che cosa siamo di fronte? Come dovremmo considerare chi mette a rischio l’incolumità delle persone che vivono una vita nell’illegalismo, se non gente con cui non avere nulla a che fare? Noi non ci permetteremmo mai di dare dell’infame senza esserne sicure al cento per cento. Almeno questo dovrebbe essere un concetto scontato; ma se non si riconosce che è inaccettabile dare l’infame a caso, come si fa a rendersi conto di tutti i dispositivi di potere e delle brutture di qualunque mondo che non si voglia liberare di ogni forma di autorità e autorevolezza? Ci si lamenta di nome e cognome su una ristampa di un’autobiografia di un’anarchica, ma non si dice che nello stesso libro c’è una lettera pesantissima di un’altra compagna che racconta di altre violenze subite in una relazione con la stessa persona. Qualunque potere va distrutto, sia quello della censura che della propaganda.

Anarcomunisti delle composizioni di classe con un occhio alla moltitudine desiderante e l’altro all’indifendibile, siete assediati dalle streghe rompigonadi! Avete presente “L’angelo sterminatore” di Buñuel?

Carx compagnx demolitx, vituperatx, offesx, incarceratx, torturatx, sofferentx continuiamo a odiare infinitamente amando senza riserve.

poche ma cattive streghe non tue compagne

P.s.: abbiamo svagato su altre questioni, siamo uscitx dai binari, abbiamo preso a mazzate ciò che ci disgusta perché sappiamo che i problemi dell’autoritarismo nell’anarchismo in questo posto di merda chiamato italia partono da lontano. Ma a noi non ci riguardano, abbiamo già scelto di non respirare neanche l’aria inquinata con certe persone e di assumerci la diserzione, ma sempre con una promessa vitale di sedizione.

Testo in PDF

INTACCANDO L’ARROGANZA DEL PRIVILEGIO

Riceviamo e diffondiamo:

Questo testo è stato inizialmente pubblicato sul n° 2 della rivista Caligine primavera-estate 2021 ed è stato pensato come una risposta all’articolo “Distinti saluti! Alcune riflessioni sul femminismo, sulle dinamiche di ammaestramento e sul tentativo di americanizzazione delle lotte” uscito sul Bollettino n. 4 della biblioteca dello Spazio Anarchico “Lunanera” di Cosenza. Decidiamo di dargli una nuova diffusione alla luce del recente dibattito scoppiato in rete perché crediamo contenga delle riflessioni ancora valide visto il contenuto espresso da alcuni testi recenti. L’articolo che segue è stato leggermente rimaneggiato rispetto alla pubblicazione originaria.


INTACCANDO L’ARROGANZA DEL PRIVILEGIO

 “Nella società borghese, è normale sparlare delle persone alle spalle,
ma mai fare critiche costruttive in faccia; allo stesso tempo,
ognuno resiste sistematicamente all’ammettere
qualsivoglia errore commesso.”

David Gilbert
Amore e lotta
Autobiografia di un rivoluzionario negli Stati Uniti

Se mi spingo a scagliare un’altra pietra contro l’ennesima espressione dell’antifemminismo che si annida in seno all’anarchismo italiano non è certo per il piacere di inoltrarmi nel ginepraio velenoso che sembra diventato ultimamente il dibattito attorno a certi argomenti, nella speranza che un giorno le pietre raccoltesi nel tempo attorno al corpo morto del patriarcato possano costituire le fondamenta di un ponderare sovversivo scevro non solo dai suoi dannosi pregiudizi sessisti, ma anche  da tutti quegli orpelli ideologici di cui è uso diffuso agghindare le sue vesti. Questi costituiscono dei veri e propri feticci attorno ai quali il pensiero gregario si raggruma rinnovando il culto alle peggiori espressioni della cultura dominante, quali sono, solo per citarne alcune delle più note e nocive, il dualismo (come separazione di teoria e pratica, mente-corpo, umano-natura, uomo-donna, etc.), il positivismo (inteso come fede nella ragione e nelle sue capacità di discernere una qualsiasi verità), il progressismo (ovvero quella visione della storia come un procedere verso un indiscusso miglioramento futuro).

Lungi da me il voler trattare così difficili e complessi argomenti in questa sede. Il mio contributo vorrebbe essere di ben più modesta portata. Né tanto meno ho intenzione di esprimermi su faccende strettamente femministe o che riguardano la reazione ad una violenza sessuale e sugli strumenti che ci si dà (o che, a piacere, si decide di non darsi) per affrontarla, né sui temi del consenso o dei modelli sessuali che determinano in qualche modo il desiderio. Sono stati già diffusi a questo proposito testi che dimostrano con abbastanza chiarezza la miseria di quella Reazione che appesta l’aria di questi tempi, così come la degna rabbia che è ormai sul costante punto di tracimare ad ogni suo nauseante sentore.

Da parte mia vorrei invece provare ad apportare qualche riflessione su di un tema particolarmente delicato eppure di estrema importanza per quell’anarchismo che prosegue interrogandosi attorno alla cornice epistemologica in cui sono inseriti i suoi tentativi di sovvertire il mondo del dominio: quello del recupero delle lotte da parte del potere, e della posizione di privilegio che è alla radice di un certo modo di concepire ed intendere quest’ultimo.

Credo di poter affermare, senza troppe precauzioni, che una delle caratteristiche di maggior forza che il sistema statale a sfondo democratico-capitalista ha saputo sapientemente sviluppare per sopravvivere è la capacità di recuperare a proprio favore quelle istanze di liberazione che di volta in volta ne mettono in discussione l’ordinamento. Questo elemento costituisce una differenza considerevole rispetto agli stati generalmente definiti autoritari o totalitari, che preferiscono censurare e reprimere duramente qualsiasi voce o gesto dissidente che si discosti dalla norma su cui essi si poggiano e che raramente sono predisposti a concedere alcunché alle insubordinazioni interne. E posso con forse ugual facilità evidenziare che ogni lotta vincente o sconfitta, non avendo raggiunto l’obiettivo del totale e inequivocabile abbattimento del potere, abbia in qualche modo contribuito a rinsaldarlo. Le istituzioni del potere infatti, mantenute intatte le proprie strutture, raccolgono quasi sempre con maggiore efficienza dei loro nemici la lezione tratta dalle peculiarità dello scontro avvenuto, riuscendo poi a utilizzarla a proprio vantaggio. Ne è un chiaro esempio l’evoluzione che costantemente attraversa gli apparati repressivi dal punto di vista giuridico, tecnologico, tattico e strategico. L’argine che gli stati hanno costruito per contrastare l’ondata ribelle degli anni ‘60 e ‘70, tanto per fare un esempio, fornisce ancora numerosi strumenti che la repressione continua ad utilizzare contro chi osa opporsi all’odierna pace sociale.

Ma non è altresì con altrettanta leggerezza che si può affermare che l’esprimersi di una istanza specifica di liberazione “rinforzi il capitalismo e la democrazia”, né in egual modo credo si possa additare le insufficienze teoriche del movimento rivoluzionario come la causa principale delle sue sconfitte. L’insufficienza dei mezzi (anche teorico-analitici) di cui ci si dota lanciandosi all’assalto del cielo si evince con difficoltà nella bolgia del conflitto, ma quasi sempre a posteriori, quando a bocce ferme si ricostruiscono i fattori che hanno stabilito l’esito dello scontro. Dal momento che i risultati di una lotta si determinano nella realtà degli elementi in gioco e la complessità della loro interazione ci impedisce di elaborare una previsione attendibile sullo sviluppo degli eventi è quantomeno presuntuoso pensare di possedere una corretta impostazione teorica che ci tiene al riparo dai rischi della sconfitta.

Storicamente parlando e semplificando all’estremo, il potere ha sempre risposto con un’attitudine repressiva alle esplosioni sociali che ciclicamente mettono in discussione una o più forme del suo operare. Accanto alla dura e cruda violenza è stata però spesso messa in campo una strategia di cooptazione che, attraverso diversi canali e livelli di mediazione, elargendo cariche, beni o privilegi, ha lo scopo di frammentare il fronte delle forze d’opposizione giocando sulle sue differenti disposizioni e condizioni interne. Le porzioni più radicali che rifiutano di adeguarsi alla ragion pratica del compromesso vengono così da principio individuate e isolate dal resto del corpo ribelle, e successivamente stroncate in maniera esemplare. Ogni sollevazione sociale produce infatti nelle circostanze dello scontro delle componenti che si spostano verso posizioni più inclini alla mediazione con le istituzioni del potere al fine di materializzare dei miglioramenti parziali, valorizzando, a seconda delle circostanze, il rapporto di forza raggiunto o altrimenti cercando di garantire la propria sopravvivenza, rinunciando di fatto alle proprie aspirazioni di liberazione totale. Ciò è avvenuto e avviene anche nel movimento anarchico (basti pensare alla Spagna del ‘36), e non c’è impianto teorico che tenga quando si entra nel vivo della violenza controinsurrezionale. Ed è fuori da ogni dubbio che queste tendenze siano utili allo Stato che le recupera per rafforzare la sua legittimità intaccata dalle lotte e indebolire i movimenti di opposizione interni; credo che possiamo facilmente convenirne.

Questa dinamica della repressione è ben riconoscibile nella storia conosciuta, dai tempi delle sommosse dei vari zek, schiavi e plebei contro i loro odiati padroni ed oppressori, passando per le rivolte millenariste e utopiste dei contadini che hanno infiammato l’Europa durante il Medioevo, ai vasti fronti proletari con aspirazioni rivoluzionarie dei secoli XVII, XVIII, XIX e della prima metà del secolo scorso, fino a quelli del contrasto ai movimenti e alla lotta armata nella storia più recente. La sproporzione delle forze in campo e l’astuzia del potere sono elementi che vanno tenuti a mente e soppesati con attenzione quando si vogliono valutare le cause di una sconfitta nei processi di liberazione, sconfitta che non si può imputare (a posteriori) con leggerezza ad una incorretta formulazione teorico-tattica, o alla recuperabilità delle rivendicazioni espresse. Si voglia, per puro amor della memoria storica e dal momento in cui l’argomento è stato di recente menzionato, ricordare ancora l’immensa mole di sforzi che gli stati hanno messo in atto solo nel periodo della contestazione degli anni ‘60 e ‘70. Negli Stati Uniti, la più grande potenza economica e militare del mondo contemporaneo, il movimento contro la guerra del Vietnam e le disuguaglianze, rapidamente evolutosi in movimento antimperialista e rivoluzionario (sintomo di un’approfondita analisi d’insieme sul funzionamento del capitalismo e dello Stato), si vide contrapporre un elevatissimo livello di violenza espresso da tutti gli apparati della repressione, che andò dalla sanguinosa repressione nelle strade e nei campus universitari di coloro che lottavano per l’autodeterminazione dei popoli, all’omicidio mirato e alla tortura delle individualità rivoluzionarie. Basti pensare agli interventi della polizia all’università di Berkeley nel ’64 (circa 800 arresti) e alla Kent State University nel ’70 (quattro morti da arma da fuoco), solo per citare due eventi famosi, o alle stragi dei gruppi militanti afroamericani, vittime di veri e propri agguati e spesso giustiziati sul posto nel corso dei raid delle forze repressive (come l’omicidio a sangue freddo di Fred Hampton, membro delle Pantere Nere, nel 1969). Le stesse tecniche contro-insurrezionali e di contro-guerriglia vennero poi usate anche in Italia e in Europa per contrastare il movimento e il diffondersi della lotta armata grazie alle collaborazioni sul campo all’interno del cosiddetto “blocco occidentale”.

È sintomatico di una qualsivoglia forma di organizzazione societaria che veda minare le fondamenta della propria legittimità aumentare l’uso della violenza per puro e semplice moto di autoconservazione, violenza che cresce in ferocia tanto più si senta messa alle strette. Essa è infatti l’espressione di persone fisiche che hanno paura quanto chiunque altro di perdere il potere che la propria posizione di privilegio gli fornisce all’interno di un determinato sistema di stratificazione sociale.

E’ in questo clima che il femminismo comincia a diffondersi nel movimento contro la guerra aiutandolo – assieme ai contributi analitici di quelle componenti sociali storicamente escluse dall’amministrazione del potere, come le persone non bianche o non eteronormate – ad ampliare il suo sguardo critico circa i rapporti all’interno della società capitalista e a spingere le sue rivendicazioni verso una più coerente e complessiva prospettiva anticapitalista e rivoluzionaria.

Credo quindi che sia alquanto semplicistico indicare il femminismo “storicamente dato” come complice del “rafforzamento della democrazia e del capitalismo” per sminuirlo, dal momento che questa istanza di liberazione oltre ad aver mobilitato un gran numero di donne nel mondo intero, ha dato un contributo fondamentale alla comprensione del funzionamento del potere nelle sue dinamiche più interiorizzate e normalizzate dagli individui che costituiscono il tessuto di una società. Né si può con tanta superficialità incolpare di questo rafforzamento le sue pratiche poiché, se è indubbiamente vero che una parte del movimento femminista ha agito e agisce in maniera riformista e giustizialista, esso ha dato espressione anche a pratiche ben più radicali, dalle azioni dirette contro negozi e aziende complici della mercificazione dei corpi delle donne, agli attacchi contro medici obiettori di coscienza e strutture sanitarie che effettuavano ricerche biotecnologiche, fino ad esperienze di lotta armata con prospettive rivoluzionarie. È perciò il recupero da parte del potere del femminismo a dover essere osteggiato, e non il femminismo in sé. Sottolineare, facendo un bilancio parziale di un movimento, soltanto il contributo che esso ha dato al rafforzamento del potere vorrebbe dire non riconoscere il valore di tutte quelle lotte che pur non avendo causato un sovvertimento del sistema di potere, hanno comunque comportato un reale miglioramento delle condizioni di vita per migliaia, spesso milioni, di individui, nonché all’arricchimento teorico e pratico del movimento rivoluzionario largamente inteso. La critica radicale anarchica osteggia ogni riformismo perché con esso si permette la perpetuazione della presente organizzazione dello sfruttamento, ma dovrebbe guardarsi dallo scadere in un idealismo elitarista e sprezzante.

Questo atteggiamento è già di per sé sintomo e ignara manifestazione del proprio intrinseco privilegio, basato su condizioni sociali come il benessere economico, la razzializzazione o il genere (e molto spesso, soprattutto quando vengono espressi giudizi tanto duri e trancianti sulle lotte altrui, di tutte queste messe assieme). Parlare di privilegio per l’anarchismo non è, come a volte si è tentato di insinuare, incentivare discorsi o atteggiamenti vittimistici o colpevolizzanti, ma un modo per chiarire il posizionamento preciso nella fitta rete dei rapporti di potere. Dalla propria posizione sociale infatti chiunque perpetua (se non agisce altrimenti) l’oppressione che il suo ruolo rappresenta all’interno di un dato ordinamento societario. Non tenerlo in considerazione porta a sviluppare una concezione assai parziale dei meccanismi di oppressione e di riproduzione del potere nelle società umane, troppo spesso individuati nelle sole istituzioni politiche ed economiche, e a fare di conseguenza una gerarchizzazione dei differenti fronti della guerra sociale. Questa attitudine è una chiara eredità di origine marxista, per la quale tra le diverse contraddizioni del divenire societario la principale a cui fare riferimento per sviluppare un processo rivoluzionario è quella di classe. Se per l’anarchismo la questione centrale è invece quella del potere, non dovremmo permettere alla comprensione delle sue molteplici espressioni di limitarsi alle sole configurazioni dello Stato e del Capitale, quanto considerarla nella sua accezione più intrinsecamente sociale che determina i rapporti quotidiani e le relazioni tra gli individui. Credo infatti che lo spargere sermoni dall’alto della propria posizione, ritenuta con arroganza essere la più coerente ed incisiva, rifletta l’autoritarismo insito in chi propende per una gerarchizzazione delle lotte, mentre un impegno a tutto campo dell’individuo nel contrasto ad ogni forma di potere sia ciò che più si avvicini ad un agire anarchico inteso come antitetico a quel “fare militante” largamente ereditato dalla cosiddetta sinistra rivoluzionaria.

L’assumere una posizione contro ogni rivendicazione parziale è sicuramente ciò che impedisce all’anarchismo di abbracciare una logica gradualista o di riforma del sistema di dominio, nonché di identificarsi completamente con movimenti quali sono quello femminista, ecologista, antispecista. Eppure essi hanno al loro interno espresso dei contenuti che assunti radicalmente comporterebbero le messa in discussione totale dell’attuale organizzazione dell’oppressione. Per questo “semplice” motivo le loro analisi sono state da tempo riconosciute come un contributo prezioso per i modelli di comprensione del funzionamento del potere nella nostra società, permettendo di abbandonare ogni retaggio che costituisca un limite per l’analisi anarchica. Le istanze di liberazione particolari dovrebbero quindi essere al centro della sensibilità anarchica, che rivendica la libera e completa espressione dell’individuo contro qualsiasi tentativo di vederlo relegare in secondo piano da una qualsivoglia priorità teorico-strategica. Esse non sono una riduzione, ma piuttosto un allargamento dello sguardo attraverso il quale si osserva e comprende il mondo. Una libera e completa espressione di sé che non deve essere confusa con quelle concezioni dell’individualismo figlie di una certa interpretazione superomista del pensiero nicciano che porta a giustificare la sopraffazione di un essere umano sull’altro e dell’essere umano sul mondo naturale in nome della sua inviolabile volontà di potenza. Concezioni queste che guarda caso furono fatte proprie dal nazismo e dal fascismo e che tanto bene si sposano con l’individualismo liberale per cui la competizione è la più alta forma di regolazione della vita. Questa maniera di concepire i rapporti tra individui ben si discosta dall’Unione degli Egoisti di cui parla Stirner (anarchicamente intesa) e dovrebbe essere rifiutata con forza da coloro che intendono riflettere su come costruire un rapportarsi vicendevole che rafforzi la lotta contro ogni potere. L’etica anarchica mette infatti al centro della sua riflessione la solidarietà tra gli oppressi attraverso il mutuo appoggio e di conseguenza dovrebbe perseguire il benessere dell’individuo che partecipa all’Unione per il vantaggio dell’Unione stessa. Indi per cui ragionare su come sovvertire le nostre relazioni è una pratica altamente rivoluzionaria perché permette di comprendere il potere come una forza che attraversa, imputridendola fin dalle radici, l’intera società e che coinvolge inevitabilmente anche i gruppi anarchici. È infatti dal riconoscimento delle diverse forme di potere che l’individuo può comprendere l’esperienza dell’oppressione che attanaglia sé stessx e i propri simili e decidere di intessere relazioni il più possibile libere nella comune volontà di secessione dalla società del dominio, oltre che di combattere anima e corpo contro questo mondo di sfruttamento e oppressione che lo incatena.

Credo che la teoria sovversiva non dovrebbe essere utilizzata per innalzarsi su di un pulpito dal quale spargere giudizi sprezzanti, così come la critica assuma una dubbia efficacia se armata di strumenti come la denigrazione o la calunnia al fine di tirare a lucido il proprio ego sovradimensionato. Teoria e critica radicale dovrebbero invece servirci per analizzare il presente e le lotte nell’ottica di rafforzare la guerra sociale, nella consapevolezza che non esiste formulazione teorico-strategica rivoluzionaria che possa condurci con certezza al trionfo e che è necessaria una costante riformulazione dei propri paradigmi per attizzare un conflitto sempre a rischio di soffocamento a causa delle dinamiche di recupero e di rigenerazione del potere. In quest’ottica sarebbe utile che un’analisi di questo tipo si sviluppasse in termini costruttivi sottolineando le proprie mancanze in quanto ad intervento sovversivo (mancanze che si continuano a registrare negli ambienti anarchici, sia a livello pratico che in quanto a comprensione del contingente storico), piuttosto che concentrarsi su quelle altrui con l’obiettivo di screditarne le posizioni in una sorta di competizione di radicalismo o, peggio, per attribuirgli la responsabilità dei propri continui fallimenti. Questi atteggiamenti e comportamenti invece di acuire il pensiero critico, a mio giudizio portano solo scoramento e disillusione. Invece di abbandonarsi ad essi sarebbe più lungimirante e utile investire le proprie energie nel contribuire a migliorare il dibattito con lo scopo di un innalzamento della qualità generale del conflitto sociale, considerando che se il potere un giorno cadrà non sarà con ogni probabilità grazie alla forza soverchiante di una “giusta” e corretta pratica o teoria radicale, ma per la somma dei singoli atti individuali di rivolta. Perciò ben venga la contaminazione e la sinergia delle lotte inserita in una comune ricerca dell’Anarchia piuttosto che qualsiasi forma di “celodurismo” e di purismo, di cui sarebbe bene cominciare a liberarsi in fretta, assieme a tutti gli altri residui di quella cultura machista militante che da troppo tempo ammorba ormai l’anarchismo.

Testo in PDF

MILANO: SULLA SENTENZA DEL CORTEO DELL’11 FEBBRAIO [OPUSCOLO]


Riceviamo e diffondiamo:

Con l’avvicinarsi della sentenza di primo grado del processo per il corteo
dell’11 febbraio 2023 al fianco di Alfredo in sciopero della fame contro il
41 bis, diversi gruppi e singoli hanno deciso di esprimere la propria
solidarietà agli imputati. Questa solidarietà ha preso la forma di cortei,
presidi, interventi, scritti e, infine, si è espressa con l’interruzione della
giudice durante la lettura della sentenza. Questo breve opuscolo nasce con
l’idea di raccogliere e diffondere gli scritti di coloro che in quelle settimane
hanno deciso di prendere posizione al fianco di tutti gli imputati e, ancora
una volta, contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo

PDF: Sulla sentenza del corteo dell’11 febbraio (Milano 2025)

NUOVO OPUSCOLO: DEPORTAZIONI. RIFLESSIONI PER ATTACCARE GLI INGRANAGGI DEL RAZZISMO DI STATO

Diffondiamo

I CPR (Centri di Permanenza per il Rimpatrio) vanno chiusi e basta, questo è quello che abbiamo imparato in questi lunghi anni di lotte e resistenze da quei campi di morte. Queste strutture sono un vero e proprio monito alle persone libere, un luogo di violenze e dolore, uno strumento di ricatto per la manodopera sfruttata.

Senza dimenticare tutto quello che avviene prima, per riempire un CPR:
retate nei quartieri, sugli autobus, nei ghetti, lungo tutta la penisola.

Nel corso dell’ultimo anno stiamo anche assistendo ad una forte accelerata delle deportazioni. Infatti, considerando il 2024 i dati parlano di un aumento complessivo del 16% rispetto all’anno precedente e il 2025 lascia chiaramente intendere che questi numeri andranno ad aumentare.


Come compagnx riteniamo necessario continuare ad opporci a tutto questo, soprattutto davanti ai nuovi assetti, che per veder crescere le deportazioni alzano il livello di violenza e razzismo in ogni angolo della società.

Ecco il perché di questo testo, nel quale si è cercato di accendere l’attenzione sulle deportazioni, considerando i diversi meccanismi ed attori che le rendono possibili e sottolineando come nel corso degli ultimi anni l’impianto normativo, che regolamenta ogni aspetto dell’esistenza dei/delle non italianx sia diventato sempre più restrittivo, sia nella possibilità di ottenere e mantenere un permesso di soggiorno, sia nella possibilità di entrare in Italia, in Europa.

Un testo, strumento e pretesto, con cui lanciare una mobilitazione contro le deportazioni che avvengono all’ordine del giorno.

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LINK AL PDF

NOTTE DI ORDINARIA VIOLENZA: AGGIORNAMENTI SUL CPR DI PALAZZO SAN GERVASIO

Riceviamo e diffondiamo:

A Palazzo San Gervasio nella notte tra venerdì 20 e sabato 21 l’elisoccorso ha raggiunto la struttura detentiva per portare in pronto soccorso reclusx che dopo aver subito pestaggi e ingerito detersivo erano in condizioni critiche di salute e venivano lasciatx agonizzare al centro della gabbia arancione dove si fa l’aria.
Dalla sera precedente quando un altro detenuto, dopo essere tornato dal pronto soccorso, è stato nuovamente male, le ambulanze non sono state chiamate e le persone tenute sotto sorveglianza in infermeria per evitare che le condizioni di salute potessero essere pubbliche. Alle chiamate delle persone recluse e di solidalx fuori, il 118 ha risposto dicendo che non si sa di cosa parla, che c’è del personale sanitario e che non si ha titolo per chiedere l’intervento.
La tensione provocata dall’ordinaria gestione delle crisi da parte di Officine Sociali, e la ricerca di invisibilizzazione di tutte le condizioni critiche è sfociata nelle proteste durate tutta la giornata del 20 giugno, a cui hanno provato a rispondere prima con gli psicofarmaci e poi con il peso dei manganelli, le botte, udite anche a telefono sono state generali, l’ingresso delle guardie in tutti i moduli ha fatto si che la tensione aumentasse.
Solo verso le due della notte del 21 le persone agonizzanti sono state portate in ospedale.
La responsabilità del personale sanitario degli ospedali regionali, che ignora la natura del lager con cui interagisce costruisce ancora una volta il sistema su cui Stato e Cooperative infliggono violenza sulle persone.
Una violenza che sfocia anche nel controllo e nelle minacce delle azioni di solidarietà portate da fuori, come pacchi trattenuti per ore solo per provocare e ricattare le persone detenute.
A palazzo ogni souvenir sparisce subito. Dentro si lotta. Ci dicono che stanno impicciati.

Officine Sociali, Guardie e Stato aguzzino
Occhi aperti nelle vostre notti di ordinaria violenza

Solidarietà con le persone recluse
Fuoco ai CPR


Puntata di Mezz’ora d’aria a cura dell’assemblea contro galere e cpr con all’interno aggiornamenti su Palazzo San Gervasio.
Qui l’archivio con le puntate precedenti.

Segnaliamo inoltre a Bologna:

Sabato 5 luglio al Lazzaretto autogestito, via Pietro Fiorini 12:
“A Palazzo San Gervasio c’è un lager di Stato”

NUOVO OPUSCOLO: CARCERE DI PIAZZA LANZA – DETENZIONE CENTRALE

Riceviamo e diffondiamo

“C. detenuta nel carcere di Piazza Lanza racconta una prassi abominevole perpetrata dai guardiani, esseri dalla quale ci asteniamo da giudizi in quanto i loro gesti non si qualificano come tali. Una volta che si viene tradotti in un altro carcere, senza alcun preavviso e senza alcuna informazione su dove si andrà a finire, i secondini ti buttano dentro la cella due sacchi della spazzatura dicendoti “preparati”. Questa prassi viene condita da frasi che paragonano le detenute a spazzatura: “un po’ di immondizia è andata via, ora vediamo quale altra immondizia arriva”.
Ma “non siamo dell’immondizia siamo delle persone umane che abbiamo sbagliato”.

Il carcere di Piazza Lanza, nel pieno cuore di Catania, dopo tanti saluti effettuati dai solidali  è stato passaggio fondamentale della mobilitazione scesa in piazza il 17 maggio contro il DL 1660.

Affinchè tuttx le persone che attraversassero quel luogo fossero consci delle violenze che ogni gabbia ripropone sui corpi dellx reclusx, sono state scritte queste pagine, che qui diffondiamo. Fondamentali, oltre ai dati raccolti, sono state gli ascolti di chi c’è stato dentro, come C. che in un’intervista radio ha raccontato le violenze che i guardiani perpetrano alle donne recluse nelle sezioni di questa prigione.

Ad oggi il carcere conta un sovraffollamento tra i più alti in Italia, le reclusx battono ed urlano dalle finestre: “siamo stanche di stare qui”. Difatti, una delle lamentele che più torna, sia dai racconti, sia dai saluti effettuati è lo totale inesistenza di attività, ed il tempo scorre lento segnando di fatto irrimediabilmente la vita di chi è reclusx.

Nella speranza che saluti e mobilitazioni continuino a toccare questo luogo disumano, diffondiamo queste pagine affinché possano essere strumento per rompere l’isolamento, e portare solidarietà e vicinanza a chi si sente solx.

AFFINCHE’ DI UNA PRIGIONI NON RESTINO CHE MACERIE

Catania, maggio 2025

PDF OPUSCOLO

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NUOVO OPUSCOLO: IL CARCERE DI BICOCCA A CATANIA È UN LUOGO DISUMANO

Riceviamo e diffondiamo:

“Un silenzio assordante, di quelli che fanno un rumore, circonda il complesso penitenziario Bicocca di Catania. Un silenzio che fa salire la rabbia e chiede vendetta. Sì perché quel silenzio è carico di odio, di ingiustizia, di isolamento e repressione. Dentro quelle mura esterne, si trovano, separati ma assieme, reclusx giovanx detenutx e detenutx in alta sicurezza, anime che condividono sotto regimi diversi la stessa tortura, quella dello Stato.”

Il carcere di Bicocca a Catania è un luogo disumano, e per la prima volta, il 13 Aprile del 2025, solidali hanno rotto l’isolamento di questo luogo.
Per farlo, in preparazione, sono state scritte queste pagine che raccontano, attraverso testimonianze e dati raccolti, la vita all’interno di quello che ai nostri occhi risultava invalicabile e disumano; queste racchiudono la sofferenza e l’unione di due luoghi, difatti il Bicocca, diviso solo da un muro di cinta, tiene insieme un carcere minorile ed un carcere ad alta sicurezza.

Prevaricazione, razzismo, violenze, somministrazioni di psicofarmaci e repressione, quello che stato e guardiani hanno scelto di collocare fuori città, a ridosso della zona industriale, dove adesso sorgono i cantieri di WeBuild, azienda costruttrisce del raddoppio ferroiviario, della riustrutturazione di aree di sigonella e non ultima azienda che si è assicurata la costruzione del ponte sullo stretto. La stessa che nel 2023 ha firmato un protocollo d’intesa con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) per favorire il reinserimento sociale e lavorativo dellx detenutx attraverso l’assunzione e la formazione. Accordo che mira a creare nuove opportunità di sfruttamento per lx reclusx, combinando il supporto professionale con lo sviluppo delle infrastrutture.

Quella volta, da alcunx solidali, è stato urlato: “torneremo”. Il motivo per la quale si diffonde questo testo è nella speranza di rendere accessibile a tuttx la rottura dell’isolamento a cui sono costrettx adultx e minori.

AFFINCHÈ DI UNA PRIGIONE NON RIMANGANO ALTRO CHE MACERIE

Catania, aprile 2025

PDF OPUSCOLO

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LE COMMEDIE DI MAGGIO. RIFLESSIONI SUL CONFLITTO SIMULATO

Riceviamo e diffondiamo queste riflessioni da alcunx studentx della Sapienza di Roma.

Le Commedie di Maggio

Riflessioni sul conflitto simulato

«Intellettuali d’oggi, idioti di domani, ridatemi il cervello che basta alle mie mani»

F. De André

L’abbaglio

Le giornate di mobilitazione andate in scena lo scorso Maggio in diverse città d’Italia, aprono un momento di riflessione importante sull’utilizzo del conflitto simulato come pratica di lotta e sul significato della sua continua riproposizione.

Per lx più informatx non è niente di nuovo, il conflitto simulato è un logoro prodotto italiano che a più riprese, da quasi 30 anni, torna nelle piazze con grande carica estetica e abbaglia le telecamere.

Spesso nel dibattito militante questo tema viene ripreso ma mai rivendicato seriamente da chi lo agisce, nascosto tra confuse giustificazioni e vittimizzazioni, ammiccamenti complici del “famo gli scontri!” o fantasmagoriche narrazioni di esplosive giornate di lotta sulle piattaforme di movimento.

Questa primavera però non è servito un naso allenato per sentire la puzza, dato che la cagata è stata chiaramente proposta a favore di telecamera se non apertamente rivendicata e sbrodolata sui giornali da uno dei “capoccia”, con tanto di giustificazioni ai «poliziotti che fanno bene il loro lavoro» contrapposto a quelli che «si fanno prendere la mano» e andrebbero bacchettati (parole tanto infami non meritano di essere analizzate oltre la loro semplice citazione). 1

Questo asservimento alla politica del compromesso e dello spettacolo, che vuole piazze disciplinate e orchestrate, non è solo una fastidiosa stortura con cui fare i conti ma un’abitudine radicata che crea mostri, spezza le gambe e soffoca la Rivolta; trascinarsi questo cadavere al seguito è una fatica che, se in tempi storici più lontani si diluiva in un conflitto sociale più alto e un apparato repressivo più debole, ad oggi, non possiamo più permetterci.

Queste righe non hanno lo scopo di indicare un modo giusto di fare la lotta, né tracciare una strada da percorrere. Al contrario, sono un invito a valutare seriamente l’abolizione della nostra normalità e la rottura degli argini militanti, per tuffarsi finalmente nell’ignoto, lì dove può nascere l’impensabile.

Conflitto simulato, perché proprio a noi?

Partecipando a giornate di lotta europee, emerge subito un dato evidente: il conflitto a volte c’è, a volte non c’è, è più intenso, meno intenso ma di certo gli unici a tenerlo sotto controllo sono gli sbirri. Non ci sono, né tantomeno potrebbero esserci, avanguardie organizzate che sovrintendono e trattano tempi e modi del conflitto di piazza.

Ma allora perché proprio a noi? Porsi questa domanda è ambizioso e circoscrivere il discorso obbliga a sorvolare discorsi importanti, come il modo in cui l’autorità ha gestito l’ordine pubblico dagli anni ‘70 ad oggi attraverso l’uso della polizia politica e il consequenziale protagonismo storico che la sinistra ha avuto nella repressione del fermento insurrezionale di quegli anni.

Consapevoli di mancare qualche pezzo di storia militante la traiettoria più immediata e utile ai fini del testo è quella che ci porta a individuare nelle “Tute bianche” la genesi, o più probabilmente il perfezionamento, di questa modalità.

Quella delle Tute bianche fu un’esperienza che nacque dall’area più morbida e riformista dei centri sociali (principalmente nel Nord – NordEst) e che ebbe, o almeno provò ad avere, la sua più importante espressione politica nelle giornate di Genova 2001.

Un perfetto inquadramento lo troviamo in un articolo di Repubblica del 14 luglio 2001, in cui un grande simpatizzante del movimento, Luigi Manconi, ex portavoce dei Verdi, elogia la capacità pacificatoria delle Tute bianche, ecco due passaggi iconici:

«…da un decennio, in Italia, non si verificano scontri di piazza paragonabili, per intensità di violenza, a quelli degli anni ’70. Ci sono, piuttosto, rappresentazioni di battaglie di strada e scontri simulati. Spesso, queste performance belliche – grazie alla raffigurazione fotografica o televisiva – sono apparse come vere. Ma, a parte rare eccezioni, si è trattato esclusivamente di rappresentazioni. Posso dirlo perché ho partecipato ad alcune di esse.»

E ancora:

«(…) L’attività delle “tute bianche” è, dunque, letteralmente, un esercizio sportivo, che depotenziа e disinnesca la violenza: perlomeno, la gran parte di essa. Certo, questo presuppone un’idea della violenza di piazza come una sorta di flusso prevedibile, indirizzabile, controllabile: ma è proprio in questi termini che viene trattata da numerosi responsabili dell’ordine pubblico e da molti leader di movimento.»

Successivamente Manconi racconta una riunione svoltasi in una prefettura del Nord-Est dove veniva contrattato con le autorità un punto, segnato da un numero civico, in cui si sarebbe poi svolto uno scontro totalmente simulato con la polizia il quale però apparve veritiero nello schermo televisivo.

Quello che poi saranno le giornate del G8 purtroppo è impossibile da raccontare ma a questo testo interessa solo un pezzo di questa storia.

Dopo roboanti minacce di guerra le Tute bianche arrivano a Genova pensando di portarsi a casa la giornata proprio nel modo profetizzato da Manconi.

La mattina di venerdì 20 luglio non manca nulla: tute, scudi di plexiglas, caschi e i leader in testa a guidare il “Gruppo di contatto”; un feroce servizio d’ordine che disarma e aggredisce i “facinorosi”; la violazione della zona rossa ben organizzata e concordata con la controparte. Insomma tutto è pronto… ma poi il conflitto arriva sul serio.

A Genova migliaia di ribelli, disinteressati allo scontro diretto con la polizia scelgono di disertare l’appuntamento mediatico e, lontano dalla trappola militare della zona rossa, rovesciano interi quartieri, sollevando al cielo l’asfalto e ciò che ci sta sopra; il fuoco non risparmia nulla e arriva fino al carcere di Marassi. Per alcune ore la libertà travolge impetuosa alcune aree della città.

La polizia, presa alla sprovvista e incapace tatticamente di far fronte a questa orda di insorti, è sotto scacco.

L’idea di uno scontro simulato, militarmente tutelato da una manciata di manifestanti organizzati, non può assolutamente soddisfare i migliaia di furiosi presenti a Genova e i primi a rendersene conto sono proprio gli sbirri, i quali non hanno più nessuna intenzione di andare avanti con la sceneggiata concordata con i rappresentanti. Gli ultimi ad accorgersene, in colpevole ritardo, è il gruppo di contatto delle Tute bianche che in via Tolemaide viene travolto da una spietata carica dei carabinieri che li costringe alla fuga.

I restanti 15 mila manifestanti, mozzati della loro testa, si alzano dalla poltrona del pubblico in cui erano stati costretti e ingaggiano una disperata battaglia nelle vie adiacenti, scontrandosi con un dispositivo poliziesco omicida che lancia blindati sulla folla, usa armi fuori ordinanza e infine, messa alle strette dalla tenacia dei manifestanti, spara, uccidendo Carlo Giuliani, 23 anni.

La reazione immediata, poi in parte ritrattata, di una buona parte della società civile, nonché dei referenti delle Tute Bianche, sarà quella di gridare agli “infiltrati” accordati con la polizia per rovinare la manifestazione e prendendo le distanze dai manifestanti come Carlo Giuliani, il quale «…non era una tuta bianca, bensì un punkabbestia, uno squatter, uno degli “utili idioti” contro i quali le tute bianche avevano cercato di mettere in guardia il movimento.» Come riportarono tutti i quotidiani il giorno dopo.

Dirà Oreste Scalzone, ex Autonomia Operaia:

«Come si fa a fare per settimane una “guerriglia mediatica” dicendo “Violeremo la zona rossa, sfonderemo”, usare simbologie ossessivamente militari, guerresche salvo poi precisare “naturalmente, tutto è metaforico, ludico, lasciateci fare, veniamo con le pistole ad acqua…” e poi, a quelli che a sfondare ci vanno con le pietre, oppure, altrettanto simbolicamente, sfondano vetrine di banche o fanno riots, andare a dire che come minimo sono dei rozzi, che non capiscono i sottintesi, non hanno humour, e hanno rovinato tutto?… Come si fa a dare dei teppisti e dei barbari a coloro che hanno lanciato pietre e sfasciato vetrine, e poi gestire tutti assieme la morte di Carlo Giuliani? Carlo chi era?»

Dopo le giornate di Genova si conclude il progetto delle Tute Bianche e rinasce, poco dopo, in quello della “Disobbedienza” il quale terminerà a sua volta nel 2004.

Una precisa area politica raccoglie le pratiche di questo progetto e le porta avanti immutate, rendendole la norma, o peggio l’abitudine, nelle piazze di tutta Italia.

«Solo una cieca ottusità può pensare di razionalizzare secondo criteri di moralità o utilità politica il gesto gratuito e passionale della distruzione, inibendo la sfrenatezza del piacere che è invece l’unica garanzia di autenticità e di senso di una rivolta.»2

Lo spettacolo

I due modi di vedere la lotta proposti negli episodi genovesi si basano sulla contrapposizione tra la “Spettacolarizzazione del rifiuto e il rifiuto della spettacolarizzazione”3 che trovano nelle “Commedie di Maggio” delle iconiche riproduzioni in miniatura.

-La spettacolarizzazione del rifiuto:

Il copione è più o meno sempre lo stesso: un gruppo di contatto, inventandosi una zona proibita da raggiungere, si lancia a peso morto sulla polizia per essere manganellato a favore di telecamera finché un Capo macho non si butta in mezzo insieme alla DIGOS e, tra urla scimmiesche e cenni di intesa, ognuno spinge indietro “i suoi”; una volta portata a casa la credibilità rivoluzionaria grazie agli scontri si conclude la pantomima sui giornali, romanzando la giornata e lamentandosi delle sorprendenti violenze della polizia e della sospensione dello Stato di diritto.

Il passo successivo e tutto contemporaneo è poi l’ossessiva esaltazione estetica delle immagini degli scontri, accompagnate da musiche di sottofondo e slogan ricondivise sui social, per il giubilo della polizia, proprio dalle stesse persone che vi hanno partecipato.

È tragicomico fermarsi un attimo a pensare che tutto questo, senza una telecamera a riprendere la scena, sarebbe completamente inutile (più di quanto già lo sia); ciò che succede in piazza, le persone presenti o l’obiettivo dichiarato, non hanno nessun valore reale, il fine ultimo è unicamente quello di raccontare sé stessi, firmare la giornata e apparire sui social, in una spirale di autocompiacimento senza fine.

Intere comunità politiche fondano le loro battaglie sulla convinzione di poter utilizzare lo strumento mediatico a proprio vantaggio, venendo poi tragicamente recuperati e fagocitati dallo spettacolo stesso o quando il nemico contrattacca davvero.

Dietro questa convinzione ci sono da un lato consapevoli opportunistx elettorali, dall’altro c’è il tentativo di qualche illusx di incasellare il gesto della rivolta come una piccola parte di un grande puzzle che ci porterà tuttx, un giorno, tramite compromessi e confronti democratici, ad una poco chiara “presa del potere” e che finisce poi, nel migliore dei casi, ad essere l’accettazione di un capitalismo un po’ più democratico, un po’ più umano (che mai sarà).

Infine fa riflettere quanto questi scontri alla giornata siano prerogativa unica di persone bianche e privilegiate; per qualcunx invece lo scontro con la controparte non è solo la totalità di un programma ma la diretta conseguenza di una postura nel mondo, nella maggior parte dei casi nemmeno voluta ma obbligata dal fatto di appartenere ad una minoranza minacciata e oppressa.

– Il rifiuto della spettacolarizzazione:

Basterebbe citare, tra i tumulti più recenti, quelli per Alfredo Cospito o per Ramy, le rivolte contro il lockdown, le eccedenze durante i cortei per la Palestina, le passeggiate rumorose dopo i femminicidi o le rivolte dentro le carceri e i CPR, dove è importante anche notare che la polizia ha tutt’altro approccio all’ordine pubblico, molto più violento e senza compromessi.

Alcuni episodi però parlano più di mille giornate e vanno riportati:

Luglio 2017, due persone fanno sesso sul balcone mentre sotto le strade di Amburgo vengono date alle fiamme dalle proteste contro il G20.

Ottobre 2019, Santiago De Chile, sono le giornate dell’Insurrezione Cilena, intorno alla carcassa di un autobus incendiato delle persone si radunano per ballare al ritmo dei colpi sul metallo, qualcuno finge di guidarlo, qualcuno suona l’arpa.

Giugno 2020, una manifestante con la maglietta “Black Lives Matter” twerka verso la polizia durante le proteste dopo la morte di George Floyd.

Non serve comunque cercare esempi in momenti di sommossa generale né tantomeno uscire dai nostri confini per rendere ancora più chiara l’idea:

Una ragazza sale sul cofano di una Tesla e ci piscia sopra durante una passeggiata rumorosa, qualcunx riscopre la sua chitarra o la gamba di un manichino come clava contro la celere, qualcun altrx gioca ad “Un, due, tre, Stella!” o improvvisa un karaoke circondatx dalla celere.

Il filo che lega tra loro queste vicende è l’interruzione della normalità a favore di un capovolgimento del significato degli oggetti e dei luoghi.

Il fine di una rivolta, che sia il calcio in bocca ad un maschio violento o i tre giorni di un rave party, è la sospensione del tempo e l’apertura di squarci nel quotidiano dentro la quale sperimentare gioiosamente avventure di libertà reale e collettiva.

Chiunque abbia provato almeno una volta la sensazione di sovversione del quotidiano conosce la bellezza di riappropriarsi di una parte di ciò che ti viene sottratto ogni giorno ma soprattutto sa perfettamente che il gesto della rivolta non ha bisogno di nessuna legittimazione o argomentazione, è giusto perché è sempre un atto d’amore spontaneo verso sé stessi e gli altri.

Ciò che ci divide dalla possibilità di vivere un gesto rivoluzionario è la difficoltà di scorgerlo quando se ne presenta l’occasione, per il semplice fatto che l’atto rivoluzionario è per definizione qualcosa che nessuno conosce ma che va inventato da zero sul momento.

Agire, bucare questo Velo di Maya, questo muro invisibile che divide noi dall’azione, richiede di coltivare una tensione al pensiero rivoluzionario capace di generare un’intuizione, un’idea; che sia quella di infrangere una vetrina o comunicare un pensiero profondo ad una persona in un momento speciale, in entrambi i casi il peso enorme dei dubbi, delle paure e delle abitudini possono facilmente oscurare il rapidissimo lampo dell’intuizione o appesantirlo fino a spegnerlo.

È desolante che proprio chi cammina al nostro fianco ed è più intimo a questi pensieri, non dia spazio a tutto questo ma anzi si adoperi attivamente per gettare acqua sul fuoco. Lx “Compagnx” che hanno appreso la militanza come un mestiere, annegatx dentro le ideologie e le strutture verticali, per lx qualx il momento di esprimere i desideri non è mai adesso ma domani, nell’avvenire rivoluzionario che loro stanno costruendo per noi.

Si finisce dunque per avere piazze in cui, invece di trovare alleatx, trovi qualcunx che, in perfetto stile “Società dello spettacolo”, mette in scena i tuoi sentimenti al posto tuo, come nel mondo di tutti i giorni; tu rimani in disparte a guardare, a consumare il prodotto e se mai ti venisse in mente di voler anche tu indossare quel casco, armare la tua ira, allora devi prima scalare la gerarchia militante o quantomeno chiedere il permesso.

Domandiamoci perché le nostre piazze, anche le più rabbiose a seguito di tragici eventi, si siano ridotte a veri e propri concerti itineranti per la città, nelle mani di qualche microfonatx che ci traghetta nella miserabile esperienza di urlare la nostra rabbia a ritmo di musica e cori esplosivi, circondatx da un cordone di polizia che ci tutela dal mondo reale.

Alcuni collettivi, nati dal furore di rivendicazioni incandescenti, si sono ridotti ad un team di organizzatori di viaggi turistici delle ricorrenza di lotta, con le istanze politiche ridotte a badge di riconoscimento e finendo poi, a volte, ad abbassarsi al ruolo di guardie quando qualcunx ha l’ardore di arrabbiarsi davvero invece di godersi il ballo di gruppo.

Non c’è da stupirsi poi se, durante i momenti di sommossa questx “Grandi compagnx” restino a braccia conserte mentre bruciano le camionette della Gendarmerie a Saint Soline o sprofondino nel divano quando esplode la rabbia per un ragazzo ucciso dai carabinieri.

È proprio questo quello che dovrebbe spaventarci di più, la messa a nudo davanti alla realtà.

La prova concreta di non saper affrontare quello che hai scimmiottato per anni, e che ti porterà, inesorabilmente, a mancare il tuo appuntamento con l’Insurrezione, a non saperla riconoscere e soprattutto a non sapere come vivertela, perché ti sei dimeticatx pure cosa desideravi.

La lotta anticapitalista non si esaurisce nella giornata di mobilitazione, nell’appuntamento col nemico, ma nella diffusione di comportamenti sovversivi, nella condivisione di spazi di libertà illegale collettivi, dove mettersi alla prova davvero in prima persona, e dove, a volte, poter anche sbagliare ma con la dignità di aver compiuto qualcosa di tuo.

Questo può accadere solo tenendo accesa la tensione verso un agire sovversivo, capire cosa significa per noi, riconoscerlo nei gesti altrui e sceglierlo tutti i giorni, dandogli spazio vitale.

Imparare a prendersi cura di se stessx e di chi ci sta vicino, decostruirsi, boicottare la linea, perché “Il conflitto non avanza linearmente, per linee di classe o soggetti affinitari, bensì si diffonde per risonanza, per cerchi di intensità, attraverso la polarizzazione dei vissuti comuni.”4

«Ai contestatori dell’Impero che insegnano alle persone a lottare per farsi concedere dei “diritti”, i nemici del totalitarismo capitalista ribattono che non ci sono diritti da elemosinare, ma la totalità della vita da conquistare. Ai primi che organizzano scontri e conflitti simbolici funzionali al mercato della rappresentazione politica, i secondi controbattono la necessità di rivolte autentiche e spontanee capaci di creare momenti di libertà immediati, effimere schegge spazio-temporali sottratte all’oppressione del dominio totalitario capitalista.» 5

Vivere nella verità

L’utilizzo del conflitto simulato, con tutte le sue aberrazioni al seguito, è figlio di un’epoca dove saper vendere la rappresentazione spettacolare di sé stessx è la chiave del successo.

La porta d’emergenza per uscire da questo teatro è quella di riconquistare una forza estetica molto più attraente, quella della verità.

Mentire su ciò che succede in piazza, esagerare nei comunicati trionfalistici tutti uguali, decuplicare i numeri delle manifestazioni, ripetere come mantra slogan fiammeggianti in piazze finte e costruite; chi pensate di prendere in giro?

A rimanere imbrigliatx in questa rete di bugie sono lx numerosx poser, opportunistx e abusers, animatorx di quelle relazioni sociali neutralizzanti che intossicano gli spazi di movimento.

A non cadere nella trappola sono invece lx migliaia di possibili giovani ribelli che a ogni spazio non concesso, ad ogni bugia, abbandonano schifatx e delusx la lotta collettiva per chiudersi nell’individualismo ed egoismo capitalista.

Invece di sacrificare energie nelle autonarrazioni teatrali è urgente tornare ad agire azione diretta, tornare a rendere le strade cornici di rivolte autentiche, capaci di attrarre almeno una parte di quella tensione che, costretta nel sottosuolo, trema sempre più forte e irrequieta. Sarà stupefacente riscoprire la potenza sovversiva del dilagare della rabbia di moltitudini furiose, per ora ancora sonnecchianti e represse.

Con la definitiva approvazione del dl Sicurezza, sotto il cielo più nero degli ultimi ottant’anni, è ora di riscoprire la nostra più feroce voglia di vivere e stare insieme, stringendosi a chi, all’ombra dello show, alleva il dubbio, si prende cura della verità e, in silenzio, affila il coltello.

Il più grande pensiero di solidarietà e affetto a Maja e Paolo in sciopero della fame per le brutali condizioni di vita nelle carceri, contro tutte le galere.

GIUGNO 2025
Teppistx, incivili, guastafeste


1 https://www.romatoday.it/politica/intervista-luca-blasi-scontri-no-decreto-sicurezza.html

2 Detour – la canaglia a Genova: https://www.rivoluzioneanarchica.it/detour-la-canaglia-a-genova-2/#/

3 Detour – la canaglia a Genova: https://www.rivoluzioneanarchica.it/detour-la-canaglia-a-genova-2/#/

4 Guy Debord. La società dello spettacolo. Parigi, 1967

5 Marcello Tarì, Il Ghiaccio era sottile – per una storia della Autonomia, Derive e Approdi, 2012, Roma

NUOVO OPUSCOLO: CHI TENE ‘O MARE – L’IMPERO MSC E GLI IMPATTI SU NAPOLI

Riceviamo e diffondiamo

Msc (Mediterranean Shipping Company) è una compagnia leader del trasporto marittimo globale che, anche se si presenta sul mercato globale o locale con nomi diversi, è tra gli attori principali che veicolano questi processi.  Parlare di Msc significa allargare lo sguardo sulle logiche estrattive, di territori e del lavoro, che la velocità della merce impone: l’ampliamento della darsena di Levante a Napoli Est, finalizzata a duplicare il volume dei traffici di container, mentre fa crescere i profitti di pochi, devasta un intero territorio e sottrae tratti di costa alla città.

La navi da crociera (di cui Msc è ancora una volta leader di mercato), sono giganti del mare che restano accesi per tutto il tempo di ormeggio in porto, sprigionando emissioni tossiche per l’ambiente e la salute, inquinando e riversando orde di turisti in una città preda delle loro smanie di consumo.  Durante la pandemia, poi, Msc, attraverso Gnv (Grandi Navi Veloci), ha compensato le perdite del traffico passeggeri affittando i suoi traghetti come “navi quarantena” per rinchiuderci migranti, accaparrandosi appalti da milioni di euro.

A comandare, come disse una volta il proprietario Gianluigi Aponte, è la merce e chi la serve. Che si tratti di armi, turisti, dispositivi tecnologici, semi-componenti o scarpe da ginnastica.  Questo opuscolo prova a ricostruire una breve storia di chi controlla i flussi, dell’impero che ha creato e dell’impatto delle sue strategie espansive sul territorio
napoletano. Nella prospettiva, tutta da costruire, di contrastarli.

PDF OPUSCOLO  : chi tene o mare

NUOVO OPUSCOLO: DALL’INTERNAZIONALISMO ALLA SOLIDARIETÀ UMANITARIA

Diffondiamo

DALL’INTERNAZIONALISMO  ALLA SOLIDARIETÀ UMANITARIA
o di come la solidarietà si è trasformata in un investimento economico neoliberista e in uno strumento di ricatto in Palestina e non solo

Questo testo nasce da un’iniziativa che si è svolta a Genova nell’ aprile 2024 e di cui porta il titolo. La discussione voleva abbozzare una breve riflessione critica sulla funzione della cooperazione allo sviluppo (ma anche degli enti caritatevoli, ONG, ecc.) come strategia ufficiale (o latente) della politica estera degli Stati imperialisti, senza la pretesa di esaustività, vista l’ampiezza della tematica.

Attraverso i contributi di un compagno del collettivo Hurriya! di Pisa e di una compagna di GPI, il testo prova a fornire alcuni spunti di riflessione e di approfondimento sulla solidarietà “umanitaria” quale fenomeno ampio, collaterale (e il più delle volte in combutta) alle politiche di predazione economica e di controllo del territorio.

Dalla quarta di copertina:

Con l’indebolimento della militanza internazionalista, il grosso della solidarietà praticata in Occidente si è progressivamente piegato ai progetti di cooperazione allo sviluppo capitalista. Si sono affermate nuove figure ibride (operatori umanitari,cooperanti “dal basso”, ecc) per cui carriera professionale e bisogno di reddito si fondono spesso con l’attivismo politico e che accettano le condizioni dei finanziatori e degli Stati (occupanti o meno) in qualsiasi tipo di intervento. La lotta contro il nemico comune per una trasformazione collettiva è stata sostituita con progetti di cooperazione economica completamente compatibile (e talvolta in sinergia) con le politiche di colonizzazione e predazione economica di Stati e Capitale. Se in Palestina la rinuncia al diritto al ritorno è una condizione necessaria per accedere agli aiuti internazionali, in Italia chi lavora nel sistema di accoglienza è costretto a collaborare al disciplinamento degli immigrati, alla società dello sfruttamento e dell’alienazione. Avere ceduto tanto terreno comporta, per chi sceglie di agire al di fuori della logica dei diritti umani che relega gli oppressi al ruolo di vittime, l’essere criminalizzato come nemico della democrazia.

pagine 26
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