PERCHÈ CI SCUSIAMO CONTINUAMENTE PARLANDO DI AZIONI E PRATICHE “NONVIOLENTE”, QUANDO È LO STATO CHE ESERCITA LA VIOLENZA IN FORMA SISTEMATICA SU DI NOI?

Traduciamo e diffondiamo (da Bella Praxis)

Perché ci scusiamo continuamente parlando di azioni e pratiche “non-violente”, quando è lo Stato che esercita la violenza in forma sistematica su di noi?

Da qualche tempo a questa parte, la ripetizione da parte dei mass-media di termini come “terrorismo” o “violenti” è riuscita a farci mettere al centro del dibattito l’uso della (non)violenza. Come se dovessimo dissociarci da qualcosa che praticamente non esiste, e quando si manifesta, lo fa a livelli bassissimi e in forma quasi aneddotica.

In questo modo, contribuiamo a generare un discorso contro l’autodifesa, dando per scontata l’idea secondo cui tutte le violenze sono uguali e cadendo in semplicismi del tipo “se rispondi, sei come loro” o “se rispondi, passi dalla parte del torto”, senza analizzare da dove viene quella violenza né verso dove è diretta.

Perché, cos’è la violenza? Senza dubbio, è un concetto difficile da definire. Potremmo dire che è ciò che non rientra dentro il socialmente accettato o dentro il “senso comune” (il quale cambia secondo i luoghi e i tempi). Gettare vernice lavabile su un vetro è violenza? Che il diritto alla casa sia una mera illusione per la maggior parte della popolazione è violenza?

Il controllo e la pacificazione della società crescono ogni giorno di più. Ci trasforma in persone incapaci di agire da sole di fronte a qualsiasi tipo di conflitto, lasciando in mani altrui le nostre vite.

Per questo, crediamo che quando la violenza viene esercitata sistematicamente dall’alto verso il basso, l’autodifesa non solo è legittima, ma è anche una responsabilità collettiva, perché non rispondere alle loro violenze significa permetterle, ignorarle e perpetuare l’oppressione sui più deboli.

Così, potremmo dire che, molte volte, decidere di rispondere o meno è una questione legata al privilegio che dipende dal livello di violenza che si subisce. Siamo consapevoli, d’altra parte, che il livello di coinvolgimento e di risposta, così come la situazione e le condizioni di ogni persona, sono diversi e non devono essere sottovalutati.

Un’altra questione sarebbe il dibattito su quando l’autodifesa può esserci utile o meno a livello strategico, tenendo conto di tutte le sue conseguenze. Ma quello che qui vogliamo affrontare è l’opzione di poter proporre l’autodifesa come strumento legittimo, nonostante non sia una cosa bella o facile da fare per nessuno e comporti giocare d’azzardo con la repressione, o possa non essere vista di buon occhio dalla maggior parte della società.

Sembra che il mantra del “non serve a niente” vada di moda. Sarebbe assurdo ignorare come la risposta attiva sia stata decisiva nel corso della storia in termini di cambiamenti e conquiste sociali. I potenti cedono solo quando vedono vacillare i loro privilegi; senza una vera pressione, il potere rimane statico. Perlomeno, forse è giunto il momento di essere solidali con coloro che “stanno al gioco” e di smettere di puntare il dito e criminalizzare lx nostrx compagnx.

Yesenia Zamudio ha riassunto bene queste idee: “Chi vuole rompere, che rompa, chi vuole bruciare, che bruci, e chi non vuole, deve stare fuori dai piedi”. In un mondo ingiusto e diseguale, dove la pace non esiste, saranno sempre le stesse persone a subire questa violenza?

MESSINA: CORTEO CONTRO IL DDL 1660

Condividiamo il testo di un volantino diffuso in occasione dei cortei contro il DDL Sicurezza che nell’ultimo mese hanno attraversato diverse città della Sicilia:

Con l’aumentare dei conflitti bellici nel mondo, lo stato italiano si appresta a blindare la pace sociale con un decreto sicurezza firmato dal ministro della giustizia Nordio, da quello dell’interno Piantedosi e, significativamente, anche dal ministro della difesa Crosetto. Ancora una volta si mostra il legame indissolubile fra la violenza portata avanti dagli stati contro il nemico esterno e quella contro chi vive all’interno dei confini; in un periodo di mobilitazione totale, ad ogni atto di insubordinazione deve corrispondere una punizione esemplare, come già visto durante la “guerra” al covid. Il ddl 1660 in discussione in parlamento, fra le tante altre cose, istituisce il reato di “terrorismo della parola” contro ogni voce fuori dal coro, colpisce sia gli scioperi e i picchetti, che le proteste contro le grandi opere come il ponte sullo stretto, aumenta le pene per chi occupa immobili e introduce il reato di “rivolta in istituto penitenziario”. Quando la gabbia si stringe le ipocrisie e le finzioni democratiche vengono meno. Abbiamo visto come nella storia le lotte per la liberazione dai soprusi e dallo sfruttamento si sono sempre scontrate con la legge. Cosa dovrebbero fare i detenuti e le detenute che giornalmente affrontano la barbarie del carcere e del CPR? Cosa dovrebbe fare chi non ha una casa o chi è sfruttato? Cosa dovrebbe fare chi non vuole essere carne da cannone nei prossimi conflitti per gli interessi dei padroni? Cosa dovrebbe fare chi non vuole sottomettersi ed accettare questo mondo così come è? Ogni spiraglio di libertà fin qui conquistato è arrivato grazie al mettersi in gioco degli oppressi e delle oppresse in lotta. Accettare il restringimento del campo delle possibilità oggi significa preparare il terreno a un’ulteriore stretta domani. Rinunciamo alla nostra dignità ritornando ordinatamente nei ranghi della legge e dell’ordine, o ritroviamo in noi stessi e negli altri il coraggio di ribellarci? Lottiamo contro il tentativo di confinare le nostre vite in uno spazio sempre più angusto e ridiamo forza ai nostri sogni di un mondo radicalmente altro!

I FASCI IN QUARTIERE CI STANNO GIÀ: SONO QUELLI IN DIVISA

Condividiamo il testo di un volantino diffuso a Bologna il 26 settembre in  occasione del raduno “stop degrado”, promosso da un’accozzaglia fascio-leghista.

L’appuntamento che oggi, giovedì 26 settembre, la destra si è data in Piazza dell’Unità non nasce dal nulla. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un aumento continuo delle politiche di repressione e di controllo anche e soprattutto in questa parte della città, in stretta connessione con i processi di gentrificazione e turistificazione che hanno attraversato anche questo quartiere.
A farne le spese più degli altri sono come sempre le persone che non hanno la pelle bianca, chi non ha soldi, chi non vuole farsi cacciare da ‘sto quartiere sempre più in mano a ricchi e guardie. Identificazioni, fermi, intimidazioni, retate, perquisizioni, presidi fissi di polizia e carabinieri, arresti (e tutto quello di cui non veniamo a conoscenza) sono ormai pane quotidiano in Bolognina.
A questo si sono aggiunte le ronde patriottiche dei fasci, app che permettono di comunicare direttamente alla questura atteggiamenti sospetti, scritte anti degrado e quant’altro. Questo clima di tensione e di razzismo, a suon di manganelli e di prime pagine del resto del carlino, ha dato agibilità politica a questa accozzaglia di gente che si ritroverà oggi in quella piazza. Già in passato Bologna ha vissuto chiamate fatte dai fascisti. Solitamente si trovavano in piazza Galvani, forse per visibilità, forse per essere più protetti dalle via del centro. Altre volte si spingevano nei quartieri popolari per campagna elettorale e propaganda.
Oggi invece, uniti a commercianti e speculatori sotto lo slogan di stop al degrado, si permettono di lanciare un presidio in Piazza dell’Unità, ma soltanto dopo aver fatto fare il lavoro sporco di gestione al PD. Combattere le sfilate della destra in quartiere significa anche, soprattutto, organizzarsi e lottare contro l’occupazione quotidiana della Bolognina, quella dei fascisti in divisa.

Gli unici stranieri: fasci e sbirri nei quartieri!

IL VOSTRO PROGRESSO, LA NOSTRA COLONIZZAZIONE. NOTE DA SUD, TRA SCILLA E CARIDDI

Da Stretto LibertariA, diffondiamo questo testo in vista del corteo No Ponte del 10 agosto a Messina.

Il mese scorso, le commissioni Giustizia e Affari costituzionali della Camera hanno approvato un emendamento al pacchetto sicurezza che intende inasprire le pene per chi protesta contro le grandi opere infrastrutturali, come il ponte sullo Stretto o la TAV (tra le tante in corso di realizzazione o di progettazione).

L’emendamento, proposto da un deputato leghista e sottoscritto anche dagli altri partiti di maggioranza, intende colpire chi protesta in modo “minaccioso o violento” contro la costruzione di una grande opera pubblica o di un’infrastruttura strategica, rischiando oltre 25 anni di carcere. Si introduce poi una nuova aggravante del reato di resistenza a pubblico ufficiale: le pene aumentano “se la violenza o la minaccia è commessa nel corso di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero con armi; o da persona travisata; o da più persone riunite; o con scritto anonimo o in modo simbolico”.

Come se non bastasse, lo Stato potrà anticipare le spese legali agli “ufficiali o agenti di pubblica sicurezza indagati o imputati per fatti inerenti al servizio”, dunque accusati di violenza nei confronti dei manifestanti; addirittura raddoppiano il budget che passa da 5000 a 10000 euro per ciascuna fase del procedimento processuale. In totale, per la difesa degli sbirri violenti vengono stanziati 860mila euro l’anno, a partire dal 2024.

In una spirale di forsennato giustizialismo e legalismo nel nome del “progresso”, la scure della repressione si abbatte sulle individualità in lotta per sottrarre alle sporche mani di Stato e capitale tutti quei territori, come anche quello ‘libidico’, presi costantemente di mira da interessi di speculazione e mero guadagno economico.

Mentre la Sicilia è in piena emergenza idrica e interi quartieri della città di Messina si ritrovano senza più acqua nelle case – è notizia recente che in questo contesto, come sempre avviene nei momenti emergenziali, la rete idrica di Messina e provincia è stata privatizzata – continuano spietati i piani di dominio e distruzione del vivente, che intendono sacrificare corpi, comunità e territori sull’altare del progresso. Così in nome di questo presunto sviluppo si giustificano enormi appropriazioni indebite delle nostre esistenze tutte: il loro progresso è solo un ricatto, la loro visione di “migliore”, intrisa di un ‘do ut des’ spietato ed unicamente a nostre spese, non propina mai sviluppo se non in cambio del nostro esistere, dell’essere al mondo. Così che il fetido avanzare delle frontiere del capitale necessita dell’innervatura linfatica affinché questo corpo, formato da diversi organi, possa crescere e crescere, senza mai badare alla distruzione del suo passare.

Di certo non si considera la costruzione delle infrastrutture del capitale mai priva di compromessi e devastazione, ma i contorni si fanno ancora più cupi quando un mega progetto infrastrutturale, come quello del ponte sullo Stretto, finisce con il diventare il ‘pivot’ di ogni altro progetto, assorbendo in sé ogni piano pregresso e futuro circa quel determinato territorio. In poche parole, un ricatto bello e buono. Così che mentre si aspetta l’ufficiale iniziare di trivellazioni, espropri e furti vari, insomma della cantierizzazione totale, i detrattori del nostro presente e futuro hanno gia portato qui tutte le loro macchine di morte, che si infiltrano nel nostro humus vitale come talpe.

Ci chiediamo allora quale progresso possa essere quello che ha trasformato la Sicilia in una terra di petrolichimici, basi e poligoni militari, raffinerie, galere ed emigrazione forzata. Un “progresso” che vende posti di lavoro in cambio di veleni e malattie, radiazioni elettromagnetiche e militari per le strade. Supposti sviluppi arrivati in Sicilia promettendo futuri radianti e dignità a colpi di lavoro: lo abbiamo già visto, ad esempio, con il polo petrolchimico nel siracusano, una zona ormai compromessa da esalazioni e corrosione degli spazi. Case vennero abattute per fare largo a questi mostri, lavoro venne promesso; ed infine, crescita economica a dismisura per tutti e tutte. Quello che si è ottenuto è povertà, monopolio dell’indotto lavorativo della zona, malattia ed aria cancerogena. Dov’è finito il futuro radioso? Quale riscontro con la realtà avevano le promesse vuote di signori della politica e del business? Quelle torri che esalano fumo nero simboleggiano, tronfie e prepotenti, l’inganno del progresso e della delega che ha trasformato in mera gestione amministrativa lo stesso processo vitale. Rappresentano le grinfie del luminoso oblio entro la quale ci vorrebbero costringere. Rappresentano anche quello stesso inganno che si sta profilando per le persone dello Stretto.

Il progetto del ponte sullo Stretto, nella retorica dei detrattori della vita, sarebbe funzionale ad accelerare i processi di turistificazione, fonte a loro volta di lavoro precario e sottopagato per chi in questi territori ci vive e non viene in vacanza. La solita storiella che eguaglia turismo e ricchezza diffusa per gli abitanti di un luogo non è altro che l’ennesima menzogna malcelante un futuro (immediato) di estrazione forzata e devastazione diffusa, in cambio di sole briciole (come se poi un qualunque supposto guadagno potesse essere bastevole per la posta in gioco).
Se dunque da una parte la Sicilia viene venduta come una vetrina per turisti, una sorta di paradiso terrestre dove trascorrere le ferie, andare al mare e degustare il buon cibo locale; dall’altra parte si concretizza come una tra le frontiere che continua a uccidere quotidianamente, trasformando il Mediterraneo in un cimitero per chi non ha avuto il privilegio dei “requisiti” giusti per attraversarlo. Ricco, bianco e occidentale?! Allora benvenuto; se sei povero, migrante e non bianco, invece, la deportazione verso il CPR o carcere più vicino diventa come un percorso naturale, una sorte quasi scontata.

Strumenti, quelli detentivi, di messa a profitto di quei corpi “altri” da cui immunizzarsi! Solo su quest’isola ci sono ventitre istituiti detentivicinque hotspotsdue CPR (più il CPRI di Pozzallo), che rendono la Sicilia una vera e propria colonia penale. Quindici tra basi e installazioni militari USA, due (quelle ufficiali) basi NATO, tre raffinerie.
Uno scenario devastante, un territorio violato e violentato nel nome del profitto e dell’estrazione di risorse. Terre evidentemente da rendere inabitabili, da spopolare e mettere a servizio di loschi affari; come la costituzione di poligoni di tiro, dove fare il “giochetto” della guerra, stesso giochetto che garantisce morte e conquista altrove (e neanche troppo altrove); estrazione di energia rinnovabile, nuove strutture del capitale, al servizio sempre della sola produzione e, dunque, della schiavitù umana; costituzione di hub logistici, stesso piano entro cui si inscrive la costruzione del ponte sullo Stretto; e a rischio di ripetizione, il proliferare dei luoghi di detenzione, della localizzazione forzata delle persone, muri che sono argini per la gioia umana.

Ed arriviamo alla Calabria, costellata di cattedrali nel deserto e opere incompiute.

Mentre la nostra sfera del desiderio, ricca dello Stretto indispensabile, va letteralmente in fumo insieme ai nostri boschi secolari, le nostre sorgenti sono secche e le falde ormai prosciugate, le cattedrali nel deserto continuano a configurarsi come l’unica possibilità per i nostri territori, monumenti a scempio delle nostre vite sacrificate sull’altare di un presunto sviluppo di cui non sentiamo alcun bisogno, approccio coloniale dello stato italiano garantito dall’avallo colluso della classe politica regionale e locale e dal malaffare ‘ndranghetista. Opere pubbliche se completate lasciate marcire nel degrado, oppure a malapena cominciate e poi abortite, benché finanziate con grande sperpero di pubblico denaro. Uno sfacciato spreco di risorse economiche che avrebbero dovuto essere impiegate altrove. E così non smettiamo di essere terra di incessante emigrazione e di mancata accoglienza, di servizi e trasporti pubblici assenti.

Ma non siamo più negli anni in cui, in nome del progresso e dello sviluppo di questo stato nazione, che continua a trattarci come colonia da sfruttare e da cui estrarre valore fino alla nuda vita, dobbiamo continuare a barattare il pane con la morte, una Calabria terra di lavoro avvelenato come nell’ex polo chimico Montedison della Pertusola a Crotone, città edificata con i rifiuti tossici e i veleni industriali impastati nei materiali di costruzione di case e strade. Terra di promesse e pacchetti fantasma: il V Centro Siderurgico nella Piana di Gioia Tauro, la Liquichimica di Saline Jonica, impianti morti prima di essere nati, terra di espropri e scempi ambientali, di bonifiche mai effettuate, di discariche private più o meno autorizzate ma sempre supertossiche, di torrenti che straripano e interi territori che franano, di utilizzo delle ‘ndrine per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi, interrati in grotte e fiumi o nelle “navi dei veleni”, carrette del mare stipate di fusti di scorie nucleari, affondate a decine lungo le nostre coste, di dighe costate centinaia di miliardi, come la diga sul Metramo mai collegata alla rete di distribuzione né per uso potabile né per uso irriguo a servizio della Piana di Gioia Tauro,  mentre città e campagne bruciano di sete o bruciano letteralmente negli incendi annualmente programmati all’arrivo del solleone e il deserto continua ad avanzare.

Si esortano le famiglie all’uso consapevole dell’acqua per evitare gli sprechi, ma non si mette in atto alcun intervento per evitare le enormi perdite di acquedotti vecchi ridotti a colabrodo. Così si invoca a gran voce l’arrivo di piogge in piena estate, le uniche che possono salvarci dal morire disidratati. Anzi Sorical ci consiglia di utilizzare per tanti usi l’acqua già usata. Si grida alla siccità ed al pericolo della desertificazione, ma si continuano a tagliare boschi per piantare pale eoliche e costruire le strade solo per il transito dei megatir necessari ai cantieri. Sull’altare della transizione verde lo stato italiano e le grandi multinazionali dell’energia stanno facendo grossi affari e chiunque proverà ad opporsi verrà duramente perseguitato grazie all’ultimo decreto sicurezza. E così su montagne e colline ancora incontaminate e al largo delle nostre coste ioniche svetteranno gigantesche pale eoliche e  i campi agricoli si stanno riempendo di pannelli fotovoltaici. Il Marchesato crotonese, le Preserre catanzaresi e vibonesi, la Locride sono i territori in cui avanza l’aggressione incontrollata dei nuovi megaimpianti eolici: 440 impianti attivi e 157 progetti in corso.

Ma la stessa nuova sfrenata corsa alla produzione di energia green non riesce a staccarsi dalla modalità di lasciarsi dietro delle cattedrali nel deserto. Gli impianti green divorano il nostro territorio, ma troppo spesso sono impianti fantasma: pale eoliche pronte all’uso mai messe in funzione, come le mostruose torri eoliche del crotonese, a centinaia sparpagliate per chilometri ma ne girano pochissime; o interi tetti di scuole ricoperti di pannelli fotovoltaici mai collegati alla rete di distribuzione. Ad Antonimina alle porte dell’Aspromonte, la torre eolica di 150 metri nella magnifica località del monte Trepizzi non ha mai preso a funzionare. In questo assalto ammantato di green si inserisce anche il progetto del rigassificatore alle spalle del porto di Gioia Tauro e proliferano impianti proposti come assolutamente innovativi, come la criminale idea di una centrale idroelettrica di pompaggio dell’acqua del mare che la multinazionale Edison chiede di piazzare poco distante da Scilla in piena zona di protezione speciale della Costa Viola. Appalti milionari per progetti ambiziosi e di interesse nazionale, grazie alle facilitazioni procedurali garantite dal pacchetto energia del Governo Meloni, che pensa alla nostra regione come un hub energetico tutto proiettato all’esportazione dell’energia elettrica prodotta (ne esportiamo già i 2 terzi di quella che produciamo grazie anche alle 4 centrali a turbogas già in funzione). Si continuano a progettare opere prima di aver fatto gli studi adeguati; così poi si trova cobalto radioattivo scavando gallerie, come è stato per l’arteria stradale Sibari- Sila o per l’aviosuperficie di Scalea, costruita sul letto di un fiume ad elevata pericolosità e limitrofa ad una zona di protezione speciale, per di più interessata a fenomeni di erosione.

Come puoi tu, calabrese o siciliano, credere che il Ponte sullo Stretto non rientri in questa logica illogica di (non)costruzione e pura devastazione? Come puoi tu credere più alle parole di un nessuno proveniente da altrove, che ai tuoi occhi e ai disagi che vive la tua gente? E non è lampante dunque che quest’ultima trovata dello spacchettamento del progetto definitivo in fasi costruttive non produrrebbe altro che una nuova annunciata devastante incompiuta di uno sviluppo di cui non abbiamo alcun bisogno?

Sappiamo bene verso dove volgere questi sguardi, sappiamo bene chi e quali strutture ci costringono in queste catene. Sappiamo bene che firma porta la militarizzazione sfrenata ed il profitto sul sangue, sappiamo bene anche chi sono i complici, colpevoli tanto quanto gli ideatori di questi foschi intenti. Leonardo S.p.a. capolista delle fabbriche di morte, paziente zero dell’economia targata bombe e bombardamenti, droni e software di spionaggio utili alla repressione di popolazioni in rivolta. RFI, complice del monopolio armato di capitalisti e statisti firma accordi di precedenza a tutto campo della mobilità militare, immaginando sempre di più la propria infrastruttura a misura bellica. WeBuild, incaricata del riadattamento del manto autostradale per renderlo idoneo al passaggio di mezzi, anche pesanti, militari. Stretto S.p.a., della serie “duri a morire”, ripresenta il tombale volto di Ciucci a rassicurare tutte e tutti circa la cura del territorio di cui è capace una società che, sotto il nome Salini-Impregilio, si è macchiata di crimini orribili durante la realizzazione di mega infrastrutture idro-elettriche in paesi dell’Africa e del Sud-America. Medihospes, società gestrice del hotspot di Messina, vince gli appalti per la gestione dei futuri CPR italiani nei confini albanesi, a braccia aperte brama e produce profitto sull’accoglienza e la CARCERAZIONE dei migranti.

Tutti tentacoli del capitalismo che dirigono ogni loro sforzo e azione verso l’aridificazione della Terra e degli spiriti di chi la abita con la sfacciata connivenza di Stati e governi, con la spietata tutela di sbirri, eserciti e procure che sempre meno lesinano nel premere grilletti, far scoccare manganellate, saturare l’aria di gas lacrimogeni ed infliggere condanne liberticide che si configurano come vere e proprie torture.

Lo Stato italiano tortura, lo fa attraverso il braccio armato dei suoi sgherri; lo fa finanziando lager in LibiaCPR in Albania, con ogni esternalizzazione delle frontiere e la complicità di Frontex o altre cooperative intrallazzate nella c.d. “accoglienza”. La morsa repressiva non smette di stringersi, si adopera con nuovi strumenti legislativi ed esecutivi, innervando le città di occhi elettronici e dotando di sempre più strumenti offensivi gli operatori di polizia. Quanto più aumenta il potenziale di conflitto determinato dalla pressione oppresoria dello Stato, tanto più aumenta il pericolo per il loro monopolio della violenza, tanto più per noi è un segno che le gambe del Leviatano adesso tremano. Più la bestia affila gli artigli più significa che si sente sotto attacco; tanto più si avvicinano le ‘notti bellissime’ tanto più si inasprirà il conflitto interno ad opera delle istituzioni contro i vagabondi di pensieri erranti, di logiche e pensieri ‘altri’, completamente stranieri, completamente indefinibili e, dunque, liberi.

Un pensiero non può che essere allora rivolto a chiunque lotta contro le galere; a chiunque continui a bruciare quei centri di detenzione e rimpatrio; a tutte quelle persone che quotidianamente sfidano la fissità dei confini; a chiunque resista e combatta questa macchina fagocitante e distruttiva. Ad ogni compagna e compagno con lo sguardo incendiario che non permetterà mai a nessuno di occultarlo ne tantomeno di spegnerlo. Ad ogni insurrezione, personale o collettiva che sia; ad ogni diserzione, e che queste si moltiplichino infrangendosi contro il loro regno del cieco asservimento.

Col cuore in gola diciamo che a questa menzogna del progresso e dello sviluppo non ci crediamo; e che, all’ennesimo progetto coloniale, continueremo ad opporci con ogni mezzo necessario.

SABATO 10 AGOSTO CORTEO NO PONTE, MESSINA, ORE 18:30 P.ZZA CAIROLI.

GIOCHI OLIMPICI. LA PAROLA ALLA «DELEGAZIONE INATTESA»

Diffondiamo la traduzione della rivendicazione integrale (uscita sul blog «Reporterre») dei sabotaggi all’Alta Velocità in occasione dell’inaugurazione dei Giochi Olimpici a Parigi. Nel giorno dell’inaugurazione dell’evento, infatti, diversi attacchi coordinati hanno mandato completamente in tilt la circolazione dell’Alta Velocità (TGV), mentre tra domenica e lunedì scorso sono state registrate azioni di sabotaggio ai cavi della fibra ottica.

La chiamano festa? Noi ci vediamo una celebrazione del nazionalismo, una gigantesca messa in scena dell’assoggettamento delle popolazioni da parte degli Stati. Dietro un’atmosfera giocosa e conviviale, i Giochi Olimpici offrono un campo di sperimentazione per la gestione poliziesca delle folle e il controllo generalizzato dei nostri movimenti.

Come ogni grande evento sportivo, le Olimpiadi sono ogni volta anche l’occasione per venerare i valori che fondano il mondo del potere e del denaro, della competizione generalizzata, del rendimento a tutti i costi, del sacrificio per l’interesse e la gloria nazionale.

L’ingiunzione di identificarsi con una comunità immaginaria e di sostenere il proprio presunto campo di appartenenza non è meno nefasta dell’incentivo permanente a vedere la propria salvezza nella buona salute della propria economia nazionale e nel potere del proprio esercito nazionale.

Oggi c’è bisogno di dosi sempre maggiori di malafede e di negazione per non riuscire a vedere tutto l’orrore che la società dei consumi e la ricerca del cosiddetto “benessere occidentale” generano. La Francia vorrebbe fare di questa grande messa la vetrina delle sue eccellenze. Essa potrà cullare d’illusioni sul suo ruolo virtuoso solo chi ha deciso di mettersi i paraocchi, e che vi si adatta. Madiamo loro il nostro più profondo disprezzo. L’influenza della Francia passa attraverso la produzione di armi, il cui volume di vendite la colloca come il secondo esportatore al mondo. Lo Stato è orgoglioso del suo complesso militare industriale e del suo arsenale “made in France”. Diffondere i mezzi del terrore, della morte e della devastazione in tutto il mondo per garantire la prosperità? Cocoricooo!

Senza offesa per gli ingenui che ancora credono alle favole democratiche, lo Stato francese usa la sua panoplia repressiva anche per affrontare la propria popolazione. Per sedare le rivolte dopo l’omicidio di Nahel da parte della polizia nel giugno 2023 o di recente per cercare di fermare la rivolta anticoloniale a Kanaky. Finché esisterà, lo Stato non smetterà mai di usarla per combattere coloro che sfidano la sua autorità.

Le attività delle imprese francesi nel mondo rendono sempre più manifeste le devastazioni sociali e ambientali che il sistema capitalista produce. Quelle necessarie a riprodurre l’attuale organizzazione sociale, e quelle inerenti al progresso scientifico e tecnologico. Progresso che percepisce la catena di catastrofi passate, presenti e future solo come un’opportunità per un balzo in avanti.

Total continua a saccheggiare e a spogliare nuove terre in cerca di petrolio e di gas di scisto (Africa orientale, Argentina, ecc.). Sotto la copertura della sua nuova etichetta verde, l’industria nucleare e l’esportazione delle conoscenze francesi in questo settore ci garantiscono, a più o meno breve termine, un pianeta irradiato, quindi letteralmente inabitabile. Nient’altro che un’altra crisi da gestire per i promotori dell’atomo. Loro che non possono fare a meno della cooperazione con lo Stato russo attraverso il colosso Rosatom e del sostegno del suo esercito per reprimere la rivolta nel 2022 in Kazakistan, importante paese fornitori di uranio. Questo materiale che alimenta i cinquantotto reattori francesi.

E allora qual è il costo umano, sociale e ambientale che garantisce a qualche privilegiato di spostarsi velocemente e lontano in TGV? Infinitamente troppo alto. La ferrovia non è d’altronde un’infrastruttura banale. È sempre stato un mezzo per la colonizzazione di nuovi territori, un passo preliminare per la loro devastazione e un percorso ben tracciato per l’estensione del capitalismo e del controllo statale. Il cantiere della linea denominata Tren Maya in Messico, al quale collaborano Alstom e NGE, ne è un buon esempio.

E le batterie elettriche indispensabili alla pretesa “transizione energetica”? Parlatene, ad esempio, con i lavoratori della miniera di Bou-azeer e con gli abitanti delle oasi di questa regione marocchina che stanno subendo le conseguenze della corsa all’ora del XXI secolo. Renault vi estrae i minerali necessari a fornire una coscienza pulita agli ecologisti delle metropoli a scapito delle vite sacrificate. Parlatene con i “popoli delle foreste” dell’isola di Halmahera, nel nord-est dell’Indonesia, con gli Hongana Manyawa che disperano di veder distrutta la foresta in cui vivono sull’altare della “transizione ecologica”. Lo Stato francese, attraverso la società Ermet, partecipa alla devastazione delle terre finora risparmiate. Allo stesso modo, non molla la Nuova Caledonia per continuare a strapparle il prezioso nichel.

Ci fermeremo qui nell’impossibile inventario delle attività mortali e predatorie proprie di ogni Stato e di ogni economia capitalista. Del resto, ciò non aiuterebbe a rompere con una vita insipida e deprimente, con una vita di sfruttamento, e a fronteggiare la violenza di Stati e leader religiosi, capifamiglia e pattuglie di polizia, patrioti e milizie padronali, così come quella di azionisti, imprenditori, ingegneri, progettisti e architetti della devastazione in corso. Per gran fortuna, l’arroganza del potere continua a scontrarsi con la rabbia degli oppressi/e ribelli. Di sommosse in insurrezione, durante le manifestazioni offensive, attraverso le lotte quotidiane e le resistenze sotterranee.

Che dunque oggi risuonino, attraverso il sabotaggio delle linee TGV che collegano Parigi ai quattro angoli della Francia, il grido “donna, vita, libertà” dall’Iran, le lotte degli amazzonici, i “fotti la Francia” che provengono dall’Oceania, il desiderio di libertà che giunge dal Levante e dal Sudan, le battaglie che continuano dietro i muri delle prigioni e l’insubordinazione dei disertori del mondo intero.

A coloro che rimproverano a questi atti di rovinare il soggiorno dei turisti e di perturbare le partenze per le vacanze, rispondiamo che è ancora così poco. Così poco se paragonato a quell’evento al quale desideriamo partecipare e che auspichiamo con tutto il cuore: il crollo di un mondo basato sullo sfruttamento e sul dominio. Allora sì che avremo qualcosa da festeggiare.

Una delegazione inattesa

NUOVA EDIZIONE ANARCOQUEER: FHAR “Distruggere la sessualità / Culi indiavolati”

Diffondiamo:

E’ disponibile la quinta uscita delle edizioni Anarcoqueer,
FHAR “Distruggere la sessualità / Culi indiavolati”

Dal retrocopertina:

“Distruggere la sessualità” e “Culi indiavolati” sono tra i testi più
potenti e profondi prodotti dal FHAR (Fronte Omosessuale di Azione Rivoluzionaria), entrambi usciti sul mitico numero di Recherches del marzo 1973, che creò scandalo e fu distrutto dalle autorità. I due testi esplorano il massacro che il capitalismo ha compiuto sui nostri corpi e sui nostri desideri, il livello di addomesticamento a cui li sottomette quotidianamente. Per capire cosa ostacola la liberazione dei corpi e del desiderio anche nelle persone queer, è necessario allora indagare cosa ossessiona l’immaginario omosessuale: le sue rappresentazioni, i suoi archetipi, i suoi binarismi, i suoi fantasmi, anche il fantasma di ciò
che esso sostiene di non desiderare.

72 pagine, 6 euro a singola copia,
4 euro da cinque copie in su
Collana Le Affinità Elettive

Parte del ricavato del libro sarà benefit per prigionierx e progetti queer, transfemministi, antispecisti, anarchici.

Per info e ordini: anarcoqueer@riseup.net
http://anarcoqueer.noblogs.org⁩

BOLOGNA: LA SOLIDARIETÀ È LA NOSTRA ARMA

Riceviamo e diffondiamo:

A seguito delle misure cautelari per 3 compagne/i, indagate/i per i fatti verificatisi a Bologna lo scorso inverno all’interno della campagna in solidarietà ad Alfredo contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo, il 26 maggio abbiamo chiamato un momento di confronto.
A partire dalla presentazione della rivista Lahar, abbiamo cercato di coinvolgere quanti, negli ultimi tempi in questa città, si sono spesi in percorsi di lotta e resistenza, convinte/i che la repressione che colpisce le/gli anarchiche/i debba essere letta, ora più che mai, nel contesto di guerra e ristrutturazione generale che caratterizza il nostro presente.
Quello che segue è il contributo al dibattito di una nostra compagna che abbiamo voluto condividere perchè nella sua semplicità ci è sembrato puntuale e prezioso.

Ciao a tutte e tutti,
colgo l’occasione di questa interessante e spero partecipata iniziativa per portare due riflessioni. Ve le faccio arrivare in forma scritta non potendo esserci fisicamente.
Credo che momenti di discussione e confronto come questi siano preziosi: nella società del tutto-subito, tutto-virtuale le occasioni di dibattito faccia a faccia sono importanti baluardi da preservare e curare. Nessuna prospettiva di lotta e resistenza può prescindere dal ragionamento, dal confronto. Probabilmente le persone che oggi si trovano a discutere sono molto diverse tra loro e hanno percorso strade di lotta differenti nei metodi e nei contenuti. Ci sarà chi l’anno scorso ha partecipato attivamente alla mobilitazione a fianco di Alfredo contro 41 bis ed ergastolo ostativo, ci saranno le vecchie cariatidi anarchiche del Tribolo, le compagne di Napoli, chi porta avanti la lotta in difesa del Parco Don Bosco, i giovani palestinesi e chissà chi altro. E in effetti l’interrogativo puntuale racchiuso nella chiamata di questa iniziativa è: cosa c’entrano l’una con l’altra tutte queste esperienze? Questi vissuti di lotta anche distanti tra loro per certi aspetti spazio-temporali?
Io vedo due risposte a questa domanda, come due facce della stessa medaglia. La repressione, da un lato; la solidarietà dall’altro. A furia di usarli i termini perdono il loro significato, proviamo a ridarglielo. Repressione non è un sinonimo di depressione, non vuol dire che unx compagnx ha perso la motivazione nella lotta che portava avanti e ha mollato il colpo: è tanto la violenza concreta di chi porta una divisa (botte, taser e cariche) quanto il frutto di un’accurata scelta da parte di organi di polizia e magistratura di mettere fuorigioco –spesso preventivamente- individui o gruppi che portano avanti delle lotte; l’aspetto preventivo è assolutamente centrale, soprattutto quando a livello sociale ribollono malcontento e consapevolezza in mezzo a fiumi di indifferenza ed egoismo. È lì che lo Stato ha paura e interviene per confinare la libertà di coloro che potrebbero creare dei collanti sociali tra frustrazione-indignazione-lotta, mettere in evidenza con la teoria e la pratica dei nessi causali e la potenza dell’azione dal basso collettiva o individuale come strategia di resistenza e attacco. E lo fa quando si verificano delle condizioni sociali che potrebbero risvegliare le coscienze delle masse dal loro torpore (epidemie, guerre, gisto per citare due esempi). Non a caso è ciò che in questi mesi sta avvenendo in modo subdolo ma lampante, ora che gli stati occidentali si stanno adoperando nel genocidio del popolo palestinese: consentire che a Gaza avvenga lo sterminio di una popolazione passa anche attraverso la messa a tacere delle voci dissenzienti e delle azioni di lotta a fianco della resistenza palestinese nei paesi occidentali, dalle strade, ai porti alle università. Passa tanto dalle collaborazioni di aziende e università occidentali con lo stato sionista, tanto quanto dalla messa fuorigioco delle componenti sociali non irrigimentabili, chi per coscienza politica, chi per condizioni socio-economiche, chi per per provenienza (come è stato per Ali, Anan e Mansour). La guerra non è un episodio, ma una fase storica e in questa fase ci siamo immersi fino alla gola, anche se gli spari e le bombe non cadono sulle nostre teste. L’anno scorso in tanti e tante abbiamo portato avanti una lunga e determinata mobilitazione a fianco del compagno anarchico Alfredo Cospito, detenuto in regime di 41bis. Alfredo e il regime in cui l’hanno voluto seppellire sono l’esempio lampante della volontà e della possibilità dello Stato di usare la repressione come bavaglio. Ciò che ha sempre spaventato sbirri, magistrati e giudici di Alfredo è la forza delle sue idee. Meglio tombarlo vivo affinché esse restino tra quattro spesse mura, soprattutto ora che potrebbero trovare tante orecchie in ascolto e tanti cuori capaci di comprenderne la forza rivoluzionaria, a fronte del massacro di migliaia di civili per mano degli stati in guerra.
Ecco cosa c’entrano le nostre esperienze.
Ed ecco perché la solidarietà è l’altra faccia della medaglia, l’altro aspetto che ci unisce, anche se non ci conosciamo o frequentiamo strade di lotta apparentemente distanti. Lottare è avere una nobilissima ragione di vita. È rifiutare la rassegnazione di una vita che ci vorrebbe grigi dentro e fuori, frustrati e stanchi, arrabbiati e incapaci di amare profondamente la vita. Invece lottare per una ragione, per un’idea pur utopica che sia, è qualcosa di impagabile. E non essendo la lotta un’opinione, ma un fatto, spesso molto concreto, porta con sé delle conseguenze che talvolta ci allontanano dai nostri affetti, dai nostri compagni e compagne. Se è vero che la lotta paga, è anche vero che ogni tanto te la fanno pagare! E la solidarietà è quel motore che ci tiene insieme. E che fa sì che anche se non conosciamo Alì, Mansour e Anan, possiamo sentirne il cuore battere, così come quello di Alfredo, Anna, Juan, Stecco, Nasci e di tutte le nostre compagne e compagni privati della libertà.
Chiudo riprendendo una frase lapidaria con cui Luigi, un ragazzo di Palermo in carcere con l’accusa di aver lanciato una molotov contro la sede di Leonardo (fabbrica di morte), ha chiuso una sua lettera: non facciamoci distrarre dalla repressione. E aggiungo: se ora non lottiamo contro questo sistema mondiale di guerra ne andrà della libertà di tutti e tutte.
La solidarietà è la nostra arma, suonerà un po’ retrò, ma d’altronde faccio parte delle vecchie cariatidi anarchiche bolognesi!
Un abbraccio e buona discussione. Elena

NUOVA PUBBLICAZIONE: VIRGILIA D’ANDREA, STORIA DI UN’ANARCHICA

Riceviamo e diffondiamo:

“La propaganda della rivolta e l’apologia dei rivoltosi non sostituisce l’azione; ma sappiamo che essa la propizia.”

È uscito: “Virgilia D’Andrea: storia di un’anarchica – Siamo una fiamma di questo fuoco della rivolta secolare”. Pagine 258, Tremende Edizioni.

Anarchica, poetessa e insegnante, nel 1918 Virgilia D’Andrea prende le redini del periodico «Guerra di Classe», quando Armando Borghi viene confinato ad Isernia, per poi essere arrestata due anni dopo con l’accusa di cospirazione contro lo Stato, incitamento all’insurrezione, istigazione a delinquere e apologia di reato. Una volta uscita dal carcere riprende immediatamente la propria attività politica dando alle stampe Non sono vinta, chiaro monito a chi aveva pensato di spezzare la sua volontà di lotta, mentre nel 1922 pubblica il suo primo libro di poesie, Tormento, e viene nuovamente denunciata il 13 marzo del 1923 per vilipendio e istigazione all’odio di classe.
Nel 1922, quando il potere viene consegnato a Mussolini, si trova costretta ad emigrare prima in Germania e poi, nel 1924, a Parigi, dove fonda e dirige la rivista «Veglia». Nel 1928 approda a New York e da qui si dedica alla vicenda di Sacco e Vanzetti, andandoli a trovare anche in carcere. Non ha mai smesso, come molti esuli italo-americani, di nutrire il desiderio di sconfiggere il fascismo: già nel 1925 dà alle stampe L’ora di Maramaldo, in cui da un lato affronta il pericolo della nascente dittatura, dall’altro appoggia l’azione di quanti iniziavano, a repentaglio della loro vita e della loro libertà, ad opporsi al fascismo.
Poco prima di morire dà alla luce, nel 1933, Torce nella Notte, testimonianza della sua attività propagandistica in cui esalta l’azione individuale dei vari Schirru, Sante Pollastro, Di Giovanni e Scarfò come atto d’attacco contro la proprietà ed il privilegio.

Abbiamo deciso di dare alle stampe questa biografia che ha il merito di aver portato luce sulla figura di Virgilia. Riprendiamo cose passate e lontane perché così passate e lontane non sono. Perché chi siamo e cosa vogliamo resta inciso immutabile nella storia.

Dalla quarta di copertina:

Virgilia si schiera contro le distinzioni involute dei moralisti e dei timidi, accanato a Lucetti e Schirru, accanto a Sacco e Vanzetti, a Sbardellotto. prende parte alle agitazioni a favore di Castagna e Bonomini o ai cortei per la liberazione di Sante Pollastro. Scrive per “L’Adunata dei Refrattari”. Sedendosi dalla parte di Severino Di Giovanni e degli Scarfò non si limita più alla giustificazione dell’atto individuale, come una conseguenza automatica di difesa contro l’ordine costituito, ma ora lo esalta quale sacrosanto diritto di attacco, di offensiva, contro la proprietà ed il privilegio. Dalle pagine di “Umanità Nova” si posiziona circa l’attentato al Diana: “Uno schianto formidabile: […] La voce della dinamite era stata possente: l’aristocratico e ricco teatro del Diana ne era rimasto tutto insanguinato”.

Per ordini : 1 copia euro 7, da 4 copie euro 4,50.
tremendedizioni@canaglie.org⁩

BOLOGNA: MEZZ’ORA D’ARIA [RADIO]

Diffondiamo:

Di seguito la puntata di Mezz’ora d’aria, trasmissione per un mondo libero da tutte le gabbie sulle frequenze di Radio Citta Fujiko (FM 103.1), andata in onda sabato 11 maggio alle 17:30. Si tratta della prima di una serie di puntate per rompere l’isolamento del carcere e cercare di superare le mura che ci dividono tra dentro e fuori. Uno spazio a disposizione delle persone private della libertà, e di chi gli è accanto.

Per scrivere a Mezz’ora d’aria:
Via Zanardi 369, 40131, Bologna
E-mail: mezzoradiliberta@autistici.org

https://www.autistici.org/mezzoradaria/