BOLOGNA: IN CARCERE NON SI MUORE, SI VIENE UCCISX

Di ieri la notizia di una detenuta trovata morta alla Dozza mentre in carcere si svolgeva l’ipocrita passerella del Cardinale Zuppi. Si parla di gas inalato, ma sarebbero in corso accertamenti per capire se si sia trattato di suicidio o meno.

Mentre si continuano ad investire sempre più soldi nella costruzione di nuove galere e nell’assunzione di nuovi agenti penitenziari, non interessano le condizioni di chi si trova reclusx e quotidianamente subisce l’orrore del carcere, tra celle sovraffollate, cibi scaduti e soprusi, come non interessano le difficoltà di una vita libera ‘fuori’ fatta di precarietà, sfruttamento, discriminazioni, solitudine, impoverimento di beni materiali e reti sociali. Difficoltà che si moltiplicano esponenzialmente nell’impatto con una quotidianità come quella dietro le sbarre.

La caccia alle streghe che vediamo dispiegata per le strade dei nostri quartieri, sempre più militarizzati, conferma la funzione primaria del carcere come strumento di governo e gestione delle diseguaglianze e del conflitto sociale: una guerra a bassa intensità affinché il processo di accumulazione capitalista proceda senza soluzioni di continuità, che mira a spostare il limite di tolleranza delle sfruttate e degli sfruttati, sempre un po’ più in là.

Per noi una sola cosa è certa, un’altra donna è morta per mano dello Stato.

AGGIORNAMENTI SU ALFREDO COSPITO

La Cassazione ha dichiarato inammissibile l’istanza presentata dai difensori dell’anarchico Alfredo Cospito, detenuto in regime di 41 bis, contro la decisione del tribunale di Sorveglianza di Roma che per il 23 ottobre aveva confermato il carcere duro per Alfredo, attualmente detenuto a Sassari.

Nel corso dell’udienza del 19 marzo, il procuratore generale della Cassazione si era espresso per il “no” al ricorso presentato dall’avvocato Flavio Rossi Albertini.

AGGIORNAMENTI SUI FATTI DI MALPENSA

Diffondiamo:

Mercoledì 20 Marzo si è venuti a conoscenza dell’imminente deportazione di Jamal, compagno torinese trattenuto nel CPR di Gradisca d’Isonzo. Appena ricevuta la notizia alcuni compagni e compagne si sono mossi verso l’aeroporto di Milano Malpensa dove i solidali sono riusciti ad accedere alle piste e mettersi davanti all’aereo della Royal Air Maroc diretto a Casablanca, bloccandolo e ritardando la partenza del volo. Si è scoperto in seguito che Jamal era stato portato all’aeroporto di Bologna e da lì deportato in Marocco. Sull’aereo bloccato a Malpensa era comunque presente una persona la cui espulsione è stata probabilmente impedita grazie al blocco dell’aereo e al successivo rifiuto del pilota di eseguire la deportazione.
I compagn sono stat trattenut fino a tarda serata; una compagna è stata poi rilasciata con la denuncia di interruzione di pubblico servizio, gli altri si trovano invece in carcere in attesa della convalida di arresto e sono accusati di resistenza a pubblico ufficiale, interruzione di pubblico servizio e attentato alla sicurezza dei trasporti.
Di fronte alla violenza sistemica della macchina di gestione ed espulsione di persone senza documenti europei, questi momenti di coraggio e determinazione ci ricordano che non è tutto inevitabile e che inceppare il meccanismo è possibile. Se l’obiettivo statale è la normalizzazione delle pratiche di espulsione, l’isolamento e il silenziamento delle proteste e delle rivolte che infiammano i centri di detenzione dal canto nostro non lasceremo solo chi si oppone a ciò  dentro come fuori.

Bloccare le deportazioni è possibile, scendere sulle piste degli aeroporti ancora di più!
Peppe, Josto, Miriam, Elena liberi
Libertà per tutti e tutte!

Per scrivere ai compagni:
Giuseppe Cannizzo
C.C di Busto Arsizio
via Cassano Magnago 102
Busto Arsizio (VA) 21052

Josto Jaris Marino
C.C di Busto Arsizio
via Cassano Magnago 102
Busto Arsizio (VA) 21052

Per scrivere alle compagne:
Elena Micarelli,
C. C. Francesco di Cataldo (San Vittore)
piazza Gaetano Filangieri 2
Milano 20123

Miriam Samite
C. C. Francesco di Cataldo (San Vittore)
piazza Gaetano Filangieri 2
Milano 20123

ANAN YAEESH LIBERO! NO ALL’ESTRADIZIONE IN ISRAELE

Diffondiamo

Domenica 10 marzo dalle 14 alle 17
Presidio davanti al carcere di Terni

Il 29 gennaio 2024 le autorità italiane a seguito di una richiesta di estradizione avanzata dalle autorità israeliane hanno arrestato Anan Yaeesh, attualmente detenuto nel carcere di Terni. 
Anan Yaeesh, 37 anni, è un palestinese originario della città di Tulkarem, in Cisgiordania, nel corso degli anni ha condotto la propria attività politica all’interno del contesto della Seconda Intifada; ha scontato oltre 4 anni nelle carceri dell’occupazione e subito un agguato delle forze speciali israeliane nel 2006, durante il quale ha riportato gravi ferite per i colpi a lui inferti.

Anan lascia la Palestina nel 2013, diretto verso l’Europa. Si reca inizialmente in Norvegia dove viene sottoposto a degli interventi chirurgici per rimuovere i proiettili rimasti nel suo corpo per anni.

Nel 2017 raggiunge l’Italia, dove si stabilisce e dove nel 2019 ottiene un regolare titolo di soggiorno e la protezione speciale dell’Italia per i suoi trascorsi politici in Palestina. Nel 2023 si reca in Giordania, dove viene rapito dai servizi di sicurezza giordani allo scopo, con ogni probabilità, di consegnarlo a Israele.

Dopo oltre sei mesi di detenzione, a seguito della diffusione della notizia del suo arresto e il pericolo che venisse consegnato alle autorità israeliane, i servizi di sicurezza giordani si trovano nella condizione di doverlo rilasciare al fine di evitare malcontento e reazioni da parte dell’opinione pubblica.

Nel novembre del 2023 torna in Italia, a L’Aquila, dove risiede, e viene arrestato il 29 gennaio a seguito di un mandato di cattura italo-israeliano; l’arresto ha luogo a seguito del consenso da parte del governo italiano all’estradizione – è infatti sulla base delle indicazioni del Ministero della Giustizia italiano che viene portata avanti la richiesta di misura cautelare.

La decisione di procedere con l’estradizione è di enorme gravità, e alla gravità del fatto che sia presa in considerazione l’estradizione di un cittadino palestinese alle autorità israeliane (sulla base di ipotetiche azioni di resistenza, svoltesi nei territori occupati, tutelate quindi dal diritto internazionale), si aggiungono anche una serie di considerazioni dettate dall’attuale situazione politica.

In primis l’Italia consegnerebbe un palestinese alle autorità israeliane, le quali lo processerebbero in un tribunale militare. Inoltre molteplici sono stati i rapporti di organizzazioni e associazioni internazionali per i diritti umani – tra cui il consiglio ONU per i diritti umani – che riportano e denunciano le inumane condizioni di detenzione e tortura nelle carceri italiane.

In caso di estradizione, il destino di Anan sarà quello di essere condotto davanti ad una corte militare e sottoposto a trattamenti disumani, condizioni detentive impensabili, che hanno già causato negli ultimi quattro mesi la morte di nove prigionieri politici palestinesi, uccisi nelle carceri israeliane dalla tortura e dalla negligenza sanitaria.

Inoltre, con ogni probabilità, gli elementi su cui sono state formalizzate accuse ad Anan Yaeesh sono il frutto di ormai noti metodi d’investigazione e interrogatori considerati illegali in Italia e compatibili con la definizione di tortura.

Riteniamo che questo episodio rischi inoltre di rappresentare un pericoloso precedente volto a sdoganare l’estradizione e la consegna di palestinesi in Italia e in Europa dietro richiesta di Israele che, ricordiamo, porta avanti la pulizia etnica e il massacro del popolo palestinese, la colonizzazione e l’occupazione militare dei territori palestinesi.

Per la liberazione immediata di Anan Yaeesh, per far sentire la contrarietà ad un’estradizione in aperta violazione del diritto internazionale e per far sentire ad Anan Yaeesh la voce solidale di chi contrasta il genocidio del suo popolo.

Coordinamento ternano per la Palestina

MODENA: UN DESERTO CHIAMATO SICUREZZA

Siamo tuttx invitatx a questa chiacchiera sulla repressione che sta colpendo molti quartieri, sul razzismo istituzionale che esprime, sulla così detta “emergenza droga” e i vari allarmi lanciati in materia di “sicurezza”. Un’occasione per parlare del necessario legame tra le lotte anitproibizioniste e le lotte contro il carcere. 🔥🖤 Il 15 marzo al Ligera a Modena.

Più info qui: https://brughiere.noblogs.org/events/event/modena-un-deserto-chiamato-sicurezza/

“Città in cui il continuo rinforzarsi delle retoriche della legalità e del decoro si traduce negli abusi sempre più legittimati delle forze dell’ordine e nella violenza del carcere. Un tempo che rende sempre più evidente la necessità di sovvertire l’esistente e lottare.”

VOCI DALLA VORAGINE DEL 41BIS

Senza nessuna fiducia nello Stato, nella legalità e nella democrazia, men che meno in un qualunque Dio, riceviamo e pubblichiamo questa dolorosa testimonianza dalla voragine del 41bis.

Sappiamo che le donne subiscono spesso il carcere anche quando il carcere non lo vivono direttamente sulla propria pelle. Donne, madri, mogli, sorelle, cui spesso è scaricato il lavoro di cura della famiglia, dei figli, oltre che il compito di sostenere fratelli, compagnx, mariti e padri detenuti, con lo sfinimento che implicano le visite, il pregiudizio della società, della famiglia, dei vicini, le lunghe attese, i controlli e le ispezioni corporali, gli interminabili viaggi di andata e ritorno, le spese sistematiche ed elevate, la perdita della propria vita privata, le ripercussioni sul proprio lavoro, dei propri sogni e progetti.

I pronunciamenti marziali dei tanti politici e campioni della legalità che esortano una guerra santa alla mafia, difendono proprio la stessa democratica barbarie che la necessita e produce.

IL 41BIS È TORTURA!

Di seguito il testo:

“Sono la moglie di un detenuto ristretto dal 2008. Quando mio marito è stato arrestato, non immaginavo l’abisso che si celava dietro le mura del 41 bis, un universo di isolamento estremo e sofferenza umana. La mia fiducia nella giustizia è stata scossa quando ho visto mio marito tornare dalla detenzione con ematomi alla testa e lividi in faccia. Nel 41 bis, il peso della punizione sembra superare ogni limite umano.[…]”

“Sono la moglie di Pasquale Condello, un uomo detenuto dal 2008 nel regime del 41 bis. La mia storia inizia quando ero una giovane appena diplomata e incontrai per la prima volta Pasquale, nel 1982. All’epoca, lui aveva trent’anni, leggermente più grande di me. Nonostante provenissi da una famiglia tranquilla con genitori commercianti, la mia vita prese una svolta quando decisi di fidanzarmi con lui. Pasquale aveva solo due anni di pena definitivi da scontare, e speravamo che potesse mettere da parte il suo passato e lavorare con suo fratello nel settore dei sanitari e delle ceramiche. Purtroppo, le brutte sorprese non tardarono ad arrivare. Appena sposati, mentre aspettavo la nostra prima figlia, Pasquale venne arrestato per scontare gli anni di pena rimasti. Ma la tragedia colpì ancora più duramente quando scoppiò la guerra di mafia a Reggio Calabria, da quel momento, la mia vita è stata segnata dalla sofferenza”. (Nell’ottobre del 1985, scoppia un’autobomba a Villa S. Giovanni nei riguardi di Antonino Imerti; qualche giorno dopo venne ucciso Paolo De Stefano e il 13 gennaio 1986 uccisero il fratello di Pasquale, anche se lui era estraneo agli eventi). “La guerra portò solo morte e distruzione, e Pasquale era in carcere, lontano dagli eventi ma comunque coinvolto indirettamente. Nel 1991, finalmente, la guerra ebbe fine, ma i segni indelebili rimasero nella nostra città. Molte madri, mogli e fratelli erano stati uccisi, e nessuno potrà più riabbracciare i propri cari. Le guerre portano solo distruzione e morte, e non vi sono motivazioni valide per scatenarle, specialmente per interessi economici. Spesso piangevo al pensiero che mio figlio maschio potesse un giorno essere ucciso o finire coinvolto in organizzazioni criminali. Ho cresciuto i miei tre figli da sola, con l’aiuto della mia famiglia, ringraziando Dio per il loro sostegno. Oggi, dopo tanti anni, la situazione non è migliorata. Pasquale è ancora in isolamento in regime di 41 bis, mentre io e i nostri figli viviamo nell’incertezza e nella paura per il suo futuro. La speranza è che possa ricevere le cure di cui ha bisogno e che possiamo riunirci come famiglia, nonostante le avversità che ci separano. Nel 2008, dopo una lunga latitanza, mio marito è stato arrestato e portato nel carcere di Parma dove, ci raccontò, di aver subito torture. Nonostante la sofferenza di non poterlo abbracciare, riuscivamo a vederlo dietro un vetro una volta al mese.

Anche i nostri nipotini erano felici di vederlo, ma quando Pasquale iniziò ad avere problemi psichiatrici, decidemmo di non portarli più in visita, per rispetto nei suoi confronti. Nel 2012, Pasquale fu ricoverato per ematomi alla testa, e noi venimmo a saperlo casualmente, poiché non fummo informati dalla direzione del carcere”. ( Inizialmente detenuto nel carcere di Parma, precisamente nell’area riservata nota come “super 41 bis”, Pasquale manifestò allucinazioni e lamentò di ricevere scosse elettromagnetiche. In seguito una testimonianza ci svelò dettagli sulla sua cella, descritta come notevolmente diversa, con un aspetto più simile alla “cella liscia/nuda). “La sua salute mentale peggiorava, e ciò ci riempiva di preoccupazione. La situazione era diventata insostenibile, ma non potevamo abbandonarlo. La nostra famiglia continuava a sperare in un cambiamento, nella possibilità di riunirci e di vederlo guarire. Non abbiamo potuto vederlo, non ci è stato permesso, solo l’avvocato è potuto andare quando era ricoverato in ospedale. Dopo 9 anni di detenzione a Parma, è stato trasferito nel carcere di Novara. Eravamo speranzosi che fosse meglio per lui, che ci fossero meno torture, ma il primo colloquio è stato devastante. Abbiamo visto che delirava, diceva cose senza senso, vedeva e sentiva persone estranee alla sua situazione carceraria. Abbiamo capito che stava male, i test hanno confermato che era affetto da disturbi psichiatrici. La situazione è peggiorata durante il lockdown: non siamo potuti andare in visita, abbiamo potuto solo telefonare al carcere qui a Reggio Calabria”. (Durante la pandemia, i familiari si dirigevano al carcere di Reggio Calabria e dovevano presentare la documentazione necessaria, poiché non era possibile ricevere telefonate normali a causa del regime 41 bis). “Ad un certo punto, ha smesso di voler parlare, ha rifiutato colloqui con noi, con l’avvocato, persino con i medici che volevamo mandare per visite”. ( Da febbraio 2021 Condello, che si trova nel carcere di Novara, rifiuta ogni incontro con i figli, la moglie, i legali ed i medici ). “Non sappiamo nulla di lui, non lo vediamo, non riceviamo notizie. Immagino come possa essere in questo periodo, ma la sua condizione mi tormenta. Non so se si cura, se si fa la barba, se ha i capelli lunghi o come si veste. Non mi manda più indumenti da anni, non so in che condizioni possa essere, e questo è un grande dolore per me. Quando andavamo a vederlo in carcere e facevamo i colloqui con i miei figli, eravamo contenti perché almeno lo vedevamo e, quando stava bene, anche colloquiava con loro, dando consigli e parole che ci facevano stare bene. Ora non lo vediamo più, non abbiamo più notizie. Non riesco a descrivere questo dolore che mi pesa nel cuore. Cerco di vivere la mia vita normalmente, lavoro come insegnante e cerco di mettere da parte questo dolore, ma nel mio cuore c’è sempre questo chiodo che mi fa male, soprattutto pensando ai miei figli che soffrono tanto. La nostra speranza è di vederlo agli arresti domiciliari, anche se sappiamo che è difficile per il suo nome pesante. Vogliamo che venga curato, che sia messo in una struttura dove possa ricevere le cure di cui ha bisogno, perché vogliamo tornare a vivere come una famiglia normale, a poter fare colloqui e parlare con lui tranquillamente. Non possiamo abbandonare un malato nelle carceri, non è giusto, non è corretto in uno Stato democratico. Viviamo nell’angoscia di ricevere una brutta notizia da un momento all’altro e non possiamo permetterci di aspettare ancora tanto senza notizie. Vivere con questa incertezza è un incubo per me e per i miei figli. Cerco di mettere da parte questi pensieri durante la giornata, ma la sera, quando vado a letto, mi sembra di impazzire. Mio marito rifiuta tutto, non sappiamo come aiutarlo, ci sentiamo impotenti. Cerchiamo di prenderlo, ma sembra sfuggirci da tutte le parti. La sua vita è chiusa dentro quella cella, e non sappiamo più cosa fare. Anche se non sappiamo come, mio marito rifiuta completamente il mondo fuori e non legge neanche la corrispondenza che riceve. I miei nipotini, specialmente i gemellini, mi chiedono spesso del nonno Pasquale, chiedendo perché non lo vedono mai. Vorrebbero tanto conoscerlo e gli prometto che prima o poi lo vedranno, ma la situazione è difficile da spiegare ai bambini. Queste sofferenze si aggiungono a tutte le altre che già viviamo. Ultimamente, una delle mie figlie si è sposata e ha avuto un’altra nipotina. Mio marito non lo sa, e non abbiamo idea se abbia ricevuto le lettere che gli abbiamo mandato per informarlo.

Anche mio figlio si è sposato quest’anno, ma non sappiamo se abbia avuto modo di ricevere la notizia. Nonostante tutto, la vita deve andare avanti, e cerchiamo di trovare conforto nelle piccole cose. La mia fede in Dio è ciò che mi dà la forza di andare avanti, insieme al sostegno della mia famiglia e al lavoro. Non riesco a immaginare quanto mio marito stia soffrendo, e vorrei tanto poterlo sentire e vedere che sta bene. La sua salute e il suo benessere sono sempre nelle nostre menti, e non vediamo l’ora di poterlo riabbracciare. Per ora, ci aggrappiamo alla speranza di vederlo trasferito in una struttura adeguata, dove possa ricevere le cure di cui ha bisogno. Questo è il nostro desiderio più grande, anche se sappiamo che il percorso sarà lungo e difficile. Ma continueremo a lottare per lui e a sperare che un giorno possa tornare a casa, dove merita di essere. Il mio grande dilemma è che mio marito, pur avendo subito torture in passato, rifiuta assolutamente qualsiasi cura in carcere. Non ha fiducia nei medici, né nelle carceri, né nelle medicine che gli vengono somministrate. La nostra speranza come famiglia è che possa essere trasferito in una struttura adeguata, mantenendo eventualmente il regime 41 bis. Attualmente, il carcere non è un ambiente adatto per la sua malattia e ci aggrappiamo alla speranza che possa ricevere le cure di cui ha bisogno. Sono orgogliosa di come ho cresciuto i miei figli. Nonostante le difficoltà e il coinvolgimento passato del padre in situazioni criminali, sono tutti impegnati nel loro lavoro e hanno costruito una vita onesta. Anche se uno dei miei figli è stato arrestato in passato, ritengo che non abbia meritato quelle accuse. La legalità è un valore fondamentale per me, insegnare ai miei alunni il significato di questo concetto è parte integrante del mio lavoro. Quando vedo ragazzi disinteressati allo studio, cerco sempre di far loro capire l’importanza dell’istruzione. Lo studio non solo apre la mente e le opportunità di lavoro, ma può anche proteggerli da scelte sbagliate che potrebbero compromettere il loro futuro. Ho reso la promozione della legalità e dell’istruzione un impegno costante nella mia vita e nel mio lavoro di educatrice. Spero che chiunque abbia il potere di fare qualcosa per aiutare i malati nelle carceri rifletta sulla gravità della situazione e si adoperi per fare la propria parte nell’assistenza a coloro che ne hanno bisogno”.

(Nel 2022, l’associazione Yairaiha, impegnata nella difesa dei diritti dei detenuti, aveva evidenziato la grave condizione psichiatrica trascurata di Condello. L’appello rappresentava un vigoroso richiamo alla giustizia, non solo per la trasparenza, ma anche per assicurare il diritto alla salute, persino nel contesto del regime 41 bis. L’ex boss dell’ndrangheta Pasquale Condello, noto come ‘U Supremu, ha ricevuto una dura condanna di 4 ergastoli e 22 anni di reclusione. La sua discesa negli abissi inizia a Parma, tra allucinazioni e lamentele di scosse elettromagnetiche. Una spirale di malattie mentali lo avvolge, trasportandolo in un regno di sofferenza inimmaginabile. La sua famiglia è intrappolata in un limbo di angoscia per il suo destino, senza notizie da oltre tre anni. A causa delle sue patologie, Condello rifiuta le cure indispensabili, creando un’ombra sulla sua già difficile strada. La data del fine pena, è previsto il 31/12/9999 distante 7975 anni, 797 secoli da oggi, si presenta come una condanna senza prospettive, una pena di morte mascherata dallo Stato. Un verdetto privo di futuro diventa una forma di tortura, creando una trama di sofferenza che abbraccia non solo lui ma anche coloro che gli sono vicini ).

Luna Casarotti, Associazione Yairaiha ETS


Lo sportello di supporto psicologico per i familiari dei detenuti, da cui prende le mosse anche questa rubrica, va allargandosi progressivamente. Non solo vi partecipano i familiari delle persone uccise dal carcere, ma anche i familiari dei detenuti che vivono un calvario all’interno del sistema penitenziario a causa di patologie non conciliabili con la detenzione, mancanza di cure fisiche e psicologiche. Vi sono inoltre ex detenuti che hanno vissuto l’oscurità delle celle e che condividono la propria storia. Tutti sono benvenuti a partecipare, ogni contributo è importante. Le riunioni si svolgono ogni venerdì dalle 17:45 alle 20:00. Il link per accedere alla riunione settimanale viene pubblicato qualche giorno prima dell’incontro sul gruppo Telegram “Morire di carcere” e su quello Whatsapp “Sportello di supporto psicologico per i familiari dei detenuti” . Adesioni e lettere possono essere inviati all’indirizzo e-mail dell’associazione Yairahia Ets (yairaiha@gmail.com).

TESTO PDF – Condello Pasquale

ROMA: IL CORTEO PER ILARIA E LE ALTRX ANTIFA BLOCCATO PER ORE E CARICATO

Diffondiamo:

“Dall’Ungheria alla Palestina Free Them All: al fianco di Gabri, Ilaria, Tobias e i/le compagn* sotto processo, detenut*, ricarcat* “

Il corteo in solidarietà a Ilaria e a tuttx i/le prigionierx è stato bloccato per circa due ore nei pressi dell’ambasciata dell’Ungheria e poi attaccato con una pesante carica per impedire ai compagnx di raggiungere il corteo per la Palestina. Alle 17.30 il corteo è riuscito a ripartire.

LIBERTÀ PER TUTTX LE ANTIFA!

UNA GRAVE STORIA DI VIOLENZA MEDICA AL CARCERE DI PARMA

Riceviamo e diffondiamo la storia di Sereno Quirino, detenuto da sedici anni nella casa circondariale di Parma.

Mi chiamo Luca Sereno e scrivo per denunciare il trattamento a cui è sottoposto mio padre, Sereno Quirino, detenuto da 16 anni nella casa circondariale di Parma. Negli ultimi anni, ha affrontato gravi problemi di salute, tra cui dischi intervertebrali schiacciati lungo la spina dorsale, calcificazione delle rotule della gamba destra e sinistra, 6 tumori benigni rimossi tra intestino e colon, macchie nere nei polmoni e varie altre patologie.

All’arresto, 16 anni fa, mio padre non presentava alcuno di questi problemi, ma ora è costretto a utilizzare stampelle e, in alcuni giorni, una sedia a rotelle. Durante i processi, viene trasportato in ambulanza e giunge in tribunale sdraiato su un lettino a causa dei suoi gravi problemi di salute.

Dopo molte lotte e richieste con il mio avvocato, siamo riusciti a ottenere visite più complete e specializzate per le sue patologie presso il Centro dei Dolori. Prima di queste visite, a mio padre venivano somministrati diversi medicinali, tra cui Seroquel da 200 mg (tre pastiglie al giorno, quindi 600 mg), Irika, Stinox, Contromal e molti altri. La sua cartella clinica è estremamente complessa, e anche ricordare tutti i farmaci a memoria risulta impossibile.

Questo per evidenziare la difficile situazione di salute di mio padre, che necessita di cure adeguate e di un’attenzione particolare da parte delle autorità penitenziarie. Riusciamo a farlo visitare al Centro dei Dolori, dove dopo esami specializzati per i suoi dolori, gli viene prescritto il cerotto di Fentanil. Questo cerotto rilascia il principio attivo nel corpo per tre giorni, successivamente viene cambiato. Inizia con il dosaggio da 25, poi passa a quello da 50 e infine a quello da 100. A ciò si aggiungono i suoi medicinali “di sempre”, con l’eccezione del Contromal, che viene sostituito dal Fentanil in cerotto.

Circa 3-4 mesi fa, mio padre viene sottoposto a un controllo al Centro dei Dolori. Durante questo controllo, la dottoressa, senza spiegazioni, decide di interrompere tutti i medicinali, compreso il cerotto di Fentanil, in un periodo di soli 9 giorni. Questo avviene dopo anni di assunzione regolare, e la rapida diminuzione delle dosi, senza alcun adeguato scalaggio, solleva interrogativi sulla motivazione di una scelta così drastica. È evidente che una persona che ha assunto dosi così elevate di medicinali derivati dalla morfina e oppiacei per molti anni potrebbe reagire in modo significativo a una interruzione così improvvisa e completa del trattamento. Restiamo perplessi e ci chiediamo quale possa essere il motivo dietro una decisione così radicale, specialmente considerando gli anni di somministrazione di questi farmaci. Mio padre non ha certo guarito miracolosamente da un giorno all’altro; al contrario, la sua situazione è peggiorata. È come se andaste dal medico con la febbre e, anziché prescrivervi una normale tachipirina o effettuare esami specialistici, vi privasse improvvisamente del trattamento. Questo esempio, seppur semplice, mira a illustrare la gravità della situazione. Una dottoressa ha compiuto un gesto simile, togliendo tutto senza apparente motivo. Benché conoscessimo il motivo, senza prove non possiamo dichiararlo apertamente. È evidente che si tratti di qualcosa di più, poiché anche un bambino comprenderebbe che un’azione del genere equivale a tortura.

Dopo quel giorno, mio padre ha subito un intervento per rimuovere polipi e tumori (sei in totale, tra colon e stomaco). Sorprendentemente, dopo l’operazione, non gli è stato somministrato alcun antidolorifico o sollievo. Abbiamo presentato denunce, ma le risposte sono state deludenti, come il commento della dottoressa che ha dichiarato di pensare di aver aumentato il cerotto. Questo è solo un esempio delle risposte ricevute.

Ho deciso di condividere questa storia su una pagina Facebook dedicata ai diritti dei detenuti, accompagnata da foto che documentano quanto accaduto. La trasformazione di mio padre da prima di quel tragico giorno a ora è evidente durante le videochiamate, quando lo vedo in una sedia a rotelle, senza parlare e soffrendo visibilmente. La sensazione di impotenza di fronte a questa situazione mi distrugge, e il dolore che sto vivendo è straziante. Mio padre sta morendo lentamente davanti ai miei occhi, e mi sento totalmente impotente. Dopo questo articolo pubblicato su Facebook, una ragazza dell’Associazione Yairaiha ETS, contatta la garante dei detenuti di Parma, che visita immediatamente il carcere per comprendere la situazione. Nonostante le rassicurazioni iniziali, viene promesso a mio padre un sostituto del cerotto con lo stesso principio attivo come antidolorifico. Tuttavia, questa promessa si rivela una presa in giro, poiché dopo diverse settimane, mio padre è ancora nella stessa situazione.

La garante, chiedendo aggiornamenti, riceve risposte ingannevoli, affermando che tutto è a posto. In realtà, a mio padre è stato somministrato solo uno psicofarmaco che, anziché alleviare il dolore, lo ha reso quasi catatonico. È vergognoso vedere come invece di fornire un antidolorifico di cui mio padre ha estremo bisogno, venga somministrato un farmaco che lo sta trasformando in uno stato quasi vegetativo. Fortunatamente, mio padre ha rifiutato questo psicofarmaco, dimostrando una lucidità che sembra mancare nelle decisioni della struttura penitenziaria. La situazione che mio padre sta vivendo è un chiaro caso di tortura, una pratica inaccettabile. Nonostante gli sforzi della garante dei detenuti, la presa in giro continua, e nemmeno le informazioni sui medicinali somministrati vengono fornite chiaramente.

Chiedo a chiunque legga questo testo di aiutarmi. Non sto cercando la liberazione di mio padre né sconti di pena; è responsabile delle sue azioni e deve affrontare le conseguenze. Tuttavia, non merita di essere sottoposto ad una simile tortura. Non sto chiedendo l’impossibile, solo giustizia e un trattamento umano. La sua salute è in serio pericolo, e non posso rimanere inerte, aspettando che la situazione peggiori.

Vi prego, chiunque possa aiutare, chiunque possa fare qualcosa, vi chiedo aiuto. Non so più a chi rivolgermi, mi sento impotente. Questa non è solo una questione di diritti umani, ma di umanità. Spero che la vostra solidarietà possa portare a un cambiamento positivo per mio padre.

Di Luca Sereno, ( figlio di Quirino Sereno)

BOLOGNA: IN SOLIDARIETÀ A JUAN

Diffondiamo:

Oggi 26 gennaio si è tenuta l’udienza in Cassazione per il nostro compagno anarchico Juan, in carcere dal 2019 per un attacco contro la sede della Lega di Villorba, condannato in appello a 14 anni e sette mesi. A Bologna sono stati appesi due striscioni, uno in Piazza dell’Unità, uno in zona universitaria, dove sono stati distribuiti e affissi anche volantini in solidarietà.
Non sappiamo chi ha colpito la sede trevigiana della Lega quel giorno ma abbiamo ben chiaro che le vere stragi sono da un’altra parte.

Solidalirietà a Juan! Contro il razzismo genocida di Stato e Lega Nord! Contro il massacro del popolo palestinese! Solidarietà a tuttx lx antifascistx e rivoltosx internazionalistx in Ungheria, in Europa, nel mondo! Contro le frontiere! Solidarietà allx anarchichx imputatx nel processo del Brennero!

 

COMUNICATO DI STECCO RIGUARDO ALL’IMPOSIZIONE DELLA VIDEOCONFERENZA + UNA DICHIARAZIONE CHE AVREBBE VOLUTO LEGGERE IL 19 GENNAIO AL TRIBUNALE DI TRIESTE

Riceviamo e diffondiamo un comunicato di Stecco relativo all’imposizione della videoconferenza al processo del 19 gennaio a Trieste e una dichiarazione di solidarietà al prigioniero rivoluzionario George Ibrahim Abdallah che ad aprile sarà processato sempre a Trieste.

Ieri, 17 gennaio, mi è stata notificata dalla matricola del carcere di Sanremo la decisione del DAP del 16 gennaio, di impormi la videoconferenza presso il Tribunale di Trieste per i due processi che avrei dovuto avere in presenza i giorni 19 gennaio e 1 febbraio. Il giudice che ha avvallato questa decisione è la dottoressa Valentina Guercini.
Il motivo è semplice, e per noi anarchici ormai noto, cioè di essere classificato come un anarchico insurrezionalista, e quindi per ragioni di sicurezza è stata revocata la precedente traduzione disposta dalla stessa giudice.
Non ripeterò i motivi per cui sono totalmente contro questo tipo di imposizione, in tanti e tante compagne nel tempo ci si è espressi a riguardo, sia sulla impossibilità di difendersi decentemente e guardare in faccia i propri inquisitori, ma soprattutto – cosa più importante – è trasformare questi momenti repressivi in momenti di lotta, di far trasudare anche nelle loro aule lo spirito che ci pulsa dentro, di opposizione, di conflitto, di dignità politica ed umana, di presa di parola.
E visto che proprio per queste occasioni, avevo preparato un testo di solidarietà internazionalista, spendo qualche parola su questa situazione di censura e depoliticizzazione del processo. Cosa che non riguarda me, ma tutti i compagni e compagne, tutti i detenuti e detenute in generale.
Sappiamo bene cosa sta avvenendo nel mondo della giurisprudenza e della giustizia borghese con l’introduzione della tecnologia, conosciamo i responsabili materiali che permettono tutto questo, la cui videoconferenza è per certi versi già antiquata, il futuro è molto più raccapricciante con l’introduzione dell’intelligenza artificiale. Basta leggere giornali e riviste del settore per farsi un’idea del dibattito in corso a riguardo.
Visto che per questi processi non ho ancora potuto vedere di persona la mia avvocatessa di fiducia di Trieste, sarò costretto a partecipare alla videoconferenza per interloquire con lei per alcune questioni tecniche. Fatto questo dichiarerò quello che penso e accuserò la giudicedi questa sua decisione impostale dal DAP, in poche semplici parole, e me ne andrò.
Per essere chiaro questo avverrà in questi due processi al Tribunale di Trieste.
Il 10 gennaio invece mi era stata imposta la videoconferenza dal giudice Marco Tamburino di Trento, con delle scuse più sottili. Vedremo se in futuro mi farà presenziare al processo per l’operazione “Senza nome” come da me richiesto tramite avvocato.

18/01/2024
Carcere di Sanremo
Luca Dolce detto Stecco


Di seguito il testo di solidarietà con il prigioniero palestinese Georges Ibrahim Abdallah:

A causa del confine, che nella percezione dei più del nostro Paese può essere solo di tipo nazionale e linguistico, sono tenuta a dichiarare e dimostrare la mia identità. Chi sono, a chi appartengo, perché scrivo in sloveno o parlo in tedesco. In queste affermazioni c’è un cono di guerra in cui si aggirano fantasmi che rispondono al nome di fedeltà e tradimento, possesso e territorio, mio e tuo. Oltrepassare il confine qui non è un gesto naturale, è un atto politico.

Così scrive l’austriaca Maja Haderlap nel suo romanzo L’angelo dell’oblio, nel descrivere il vissuto della minoranza slovena nella Carinzia austriaca durante la Seconda Guerra Mondiale. Storie di genti che convissero e condivisero fatiche, culture, sfruttamento e violenza.. Da troppo tempo qualcuno mette su carta una linea tratteggiata, che nella realtà si concretizza in uomini e donne armati e in uniforme, tecnologie del controllo, documenti, filo spinato, burocrazia, giudici, propaganda e scribacchini privi di cuore.
Passare quella linea politica era un atto politico, come oggi.
La mia famiglia, di origine istriane da parte di padre e di madre, nel dopoguerra ha dovuto varcare quei confini decisi dai trattati tra lo Stato italiano e quello jugoslavo con la mediazione degli alleati vincitori. Confini i cui cippi, nei decenni, son stati spostati un po’ più in qua, un po’ più in là, a scapito di chi lì ci viveva. Han lasciato tutto, le loro case, le loro reti da pescatori, le loro colline con i peri e i perseghi dove da piccoli andavano a mangiare i loro frutti, che con nostalgia ancora ricordano.
Confini, varchi, zona A, zona B, campi profughi, fame, povertà, pregiudizi, violenza.
Eliseé Reclus descriveva il suo concetto di esule in modo diametralmente opposto a quello che oggi i politici, gli storici, i conservatori nazionalisti vogliono fare: assimilare come concetto patriottico.
L’esule per lui è quella persona che a causa di forze esterne alla propria volontà, è costretto a lasciare la propria terra natia. Ma il ricordo, la memoria, non sono legati allo straccio che si appende nelle caserme o negli uffici pubblici. Bensì ai propri ricordi, ai profumi e frutti della propria terra, ai giochi d’infanzia, al paesaggio che fin da piccoli ci circonda, ai piccoli e grandi avvenimenti della vita, anche negativi. A chi si vuole bene e che t’ha cresciuto, alle storie che t’ han raccontato. Oggi questa parola suona solo come ricordo di divisioni, di odio, di prepotenza, di memoria selezionata, perché essa è intrecciata con una realtà che nasconde ed offusca la vera fonte del dramma dell’esodo istriano-dalmata. Cioè che chi pagò ancora una volta le scelte sconsiderate e nefaste del regime fascista che difendeva i privilegi della borghesia, della vecchia nobiltà e del clero, erano solo e sempre gli ultimi, le escluse, indipendentemente da che parte del conflitto si trovavano.
Dinamiche molto simili successero dopo, in modi differenti, durante il regime titino con i suoi campi come Goli Otok, o nella nuova Repubblica Democratica Italiana.
La Giornata del Ricordo, del 10 febbraio, che si celebrerà tra pochi giorni, sarà ancora il momento della retorica nazionalista, dove le cause che portarono a certi avvenimenti, vengono ancora negate e revisionate per necessità di potere.
Ci si è abituati bene in questi anni ed a queste latitudini con un poco di pace e di abbondanza nel far finta che tutto va per il meglio. Ci si dimentica della recente guerra fratricida jugoslava, dove le bombe della NATO cadevano sulle genti nostre sorelle, con cui da tempo si convive e ci si mescola parole, usanze, vicissitudini.
Si è più vicini di quanto non si creda.
Oggi si dà per scontato che quel confine orientale sia veramente “aperto”, che esso sia un ricordo del passato.
Esso non è aperto per chi scappa da altre violenze, guerre, fame, o semplicemente parte per cambiare vita. Poco importa. Si danno per scontate cose che non lo sono, come l’aver il documento giusto, la fedina penale immacolata, il colore della pelle adatto. Le guardie alle garitte ti lasciano passare solo se hai certi requisiti, ma oggi il confine, non è lì dove c’è concretamente la frontiera, ma ovunque.
Poi succede un avvenimento che si percepisce come lontano, la TV mostra luoghi che sembrano di un’altra epoca, ma ormai ci si è assuefatti a vedere immagini di città bombardate, a gente che estrae i propri morti dalle macerie, alle file di profughi.
Il 7 ottobre 2023 la Resistenza Palestinese attacca Israele. La macchina dello Stato si mette in moto. I telegiornali giustificano la chiusura di quello che la gente non avrebbe più immaginato, cioè i confini di Schengen. Si spargono parole d’odio ed usurate: terrorismo, sicurezza, chiusure, allarme.
Chissà che qualche europeo adagiato nel benessere si risvegli dal proprio sonno e comprenda che queste barriere hanno degli scopi precisi per il mantenimento della divisione dell’umanità in nazioni e classi. Esse sono aperte solo quando chi governa ne ha la necessità e gli vien concesso. Ancora una volta la macchina patriottica macina e schiaccia, innalza il mito della “difesa” della Nazione.
Ogni giorno le immagini della guerra contro le persone palestinesi ci vien sbattuta in faccia con tutta la sua violenza, con il conteggio dei morti, con la retorica cinica e guerrafondaia di chi ha il potere. Dove anche l’Italia con le sue navi da guerra, con le sue basi NATO-USA in Sicilia a Sigonella, con le sue fabbriche di armi e nei suoi laboratori ed università continua inesorabilmente a creare marchingegni di morte tramite la mano d’opera e l’ingegno di chi ha ormai la propria coscienza coperta da un elmetto. L’Italia continua dalla fine della seconda guerra mondiale a supportare il suo blocco imperialista, mentre ancora una volta un’intera comunità viene massacrata, affamata, perseguitata senza fine.
Spendo povere parole da questa cella, in questo carcere dove il confine italo-francese si fa sentire. Dove molte persone sono rimaste impigliate nei fili del controllo della frontiera. Dove la gente muore nella Roja, per i proiettili della gendarmérie, o nei freddi sentieri di montagna. Mentre qualche mese fa il ministro dell’interno Piantedosi proclamava l’apertura di nuovi lager, e nelle radio i discorsi dei politici e dei giornalisti erano perfettamente in sintonia con la vecchia propaganda nazista e fascista. Non vi han fatto rabbrividire le decisioni di utilizzare delle tecniche antropometriche per capire se una persona è maggiorenne o no?
Un giorno all’aria un uomo afghano mi ha chiesto come stava il mio cuore? Lui che non ha nessuno, che non ha niente, si è preoccupato per me, in un giorno in cui i miei pensieri volavano verso qualche mio affetto che non c’è più. Mi ha parlato di chi a Trieste in piazza Libertà, anni fa, gli ha dato un po’ di cibo, un qualcosa con cui scaldarsi. Ha dovuto per anni camminare fino a qui, superare le frontiere e sbirri vari, sentirne il peso degli stivali. Lui che nonostante tutto canta del cielo della sua terra, che è anche il mio, il nostro stesso cielo stellato. Basta così poco a volte per sentirsi fraterni pensavo, mentre ascoltavo la sua nenia.
Scrivo questi pensieri perché al Tribunale di Trieste il 19 gennaio avrò un’udienza per un processo.
Nello stesso luogo i giudici strafanici della storia (nel dialetto triestino strafanici significa anche di uomo malandato, inservibile, da gettare tra i ferrivecchi), con il cuore da burocrati intriso di grigie leggi, tra qualche mese, in aprile, porteranno a processo il prigioniero rivoluzionario palestinese Georges Ibrahim Abdallah per giudicarlo della sua storia, della sua resistenza, della sua dignità di uomo in lotta, rinchiuso da decenni nelle carceri francesi.
Io mi metto al suo fianco, perché ho fatta mia l’idea della solidarietà rivoluzionaria ed internazionalista. Dove la lotta di emancipazione deve scavalcare ogni frontiera, patria, religione, cultura.
Perseguendo nella profondità della propria coscienza, la necessità di una lotta senza respiro contro le forze che ci opprimono e che mai potranno mettere in silenzio le idee di libertà ed emancipazione.
Saluto qui i miei compagni e compagne coimputate con cui il 1 maggio 2021 decidemmo di scendere in piazza al di fuori delle autorizzazioni di questura, per rompere un poco la cappa del controllo e della paura.
Facciamo sentire anche qui la giusta resistenza ed ostilità contro chi ci trascina nell’odio e nell’oblio della guerra fratricida tra sfruttati e sfruttate. Troviamo i modi più consoni per rilanciare il grido di “guerra alla guerra”.
Facciamo nostri gli atti di resistenza che arrivano dai disertori, dalle donne contro la guerra, gli antimilitaristi e antimilitariste della Bielorussia, Russia, Ucraina, di chi in Palestina decide di combattere ed opporsi alla guerra sionista, con obiettivi di emancipazione e libertà.
La nostra patria è il mondo intero!
Per una Palestina libera da Stati, frontiere, per una vita senza autorità!
Libertà per Georges Ibrahim Abdallah!

08/01/2024
Carcere di Sanremo
Luca Dolce detto Stecco