MESSINA: RESOCONTO DAL PRESIDIO DEL 2 NOVEMBRE E DICHIARAZIONE DI CLAUDIO CONTRO LA SORVEGLIANZA SPECIALE

Messina: striscione in solidarietà ad Alfredo in sciopero della fame e contro il 41-bis

Da Stretto Libertaria

Il 2 novembre 2022 si è tenuta a Messina l’udienza per la richiesta di sorveglianza speciale nei confronti di Claudio e Dario. Per tutta la mattina davanti al tribunale si è riunito un presidio di solidali, che ha visto una variegata partecipazione di compagne, amici, singoli e collettivi che hanno attraversato le lotte sociali degli ultimi anni e che nell’ambito delle indagini e delle intercettazioni sono finiti anch’essi sotto la lente repressiva dello stato. Durante la mattinata si sono alternati diversi interventi che, oltre a Claudio e Dario, hanno espresso solidarietà anche ai compagni anarchici in carcere, in particolare Alfredo, Anna e Juan. Il giudice, avallando il parere avverso della pm, ha rigettato la richiesta di svolgere l’udienza a porte aperte, adducendo come motivazione ragioni d’ordine pubblico. L’udienza si è aperta con il deposito da parte della procura di una informativa integrativa dell’indagine a carico di Claudio e Dario, che andrebbe ad infittire le accuse a loro carico. Alla richiesta di rinvio ad altra data presentata dall’avvocato difensore, e che avrebbe permesso di visionare il nuovo incartamento, il giudice ha però risposto che il dibattimento si sarebbe dovuto tenere comunque in giornata, concedendo soltanto un rinvio ad horas. Prima della requisitoria della pm, Claudio, presente in aula, ha tentato di leggere una sua dichiarazione, di cui però ha potuto riportare esclusivamente la parte finale, dove esprime solidarietà ai compagni anarchici in carcere. La sentenza sarà notificata entro 90 giorni. Terminata l’udienza Claudio, raggiunti i suoi compagni e le sue compagne in piazza, ha potuto dare lettura integrale della sua dichiarazione.

RIFLESSIONI 

Cosa succede quando al tentativo dello Stato di isolare, distorcere, criminalizzare un’etica che sostiene e guida un agire chiaro, gli individui destinatari dell’azione repressiva (e in senso allargato le relazioni che si portano appresso) schivano la paura indotta, portando in luce ciò che nei giorni del quotidiano delle nostre vite costrette rimane al buio dell’alienazione – ma è lì, ancora vivo? Succede quello che abbiamo vissuto ieri, nella piazza di fronte il tribunale di Messina: non una routine, non una presenza al minimo, ma il massimo possibile nel momento della generosità e del sentirsi parte che si sono espressi e hanno parlato al di là della contingenza della richiesta di sorveglianza speciale; sotto accusa non erano solo Dario e Claudio, ma insieme e attraverso loro, come sempre accade (in questo momento lo viviamo con una gravità e un senso di urgenza cui sappiamo di dover rispondere) tutta una storia, lunga, di esperienze di lotta di un territorio. Della ricchezza di quel contesto si è stati partecipi: e nello stringerci intorno ai nostri compagni, nell’esprimere solidarietà ad Alfredo, Anna, Juan, ai detenuti tutti, nel parlare in piazza di 41bis iniziando a riappropriarci delle parole e di una storia taciute, lasciate troppo a lungo nelle mani del potere, abbiamo per qualche ora dato un senso altro a un luogo nemico; ché la solidarietà ha il peso, tutta la materialità della presenza, tanto da accorciare distanze e riavvicinare percorsi che negli anni si sono separati. Era un condensato di umanità in relazione eccentrico, ricco, plurale, a manifestarsi, il senso di un ergersi della fierezza quando sotto attacco è il procedere – con fatica e modi diversi – in direzione ostinata e contraria, col pensiero e nelle azioni. Questa consapevolezza, la sensibilità e il calore umani, la convinzione in se stessi di ciò che si è, si vuole essere, il tentativo di somigliarvi e di costruire una vita che più ci somigli, e che riusciamo a vivere a sprazzi, per brevi momenti anche in un presidio, sono il precipitato di percorsi singolari e comuni che si intrecciano, che suonano di armonie e dissonanze. E che hanno al contempo la voce di sussurro delle parole d’affetto dei propri cari e l’urlo a squarciagola dei compagni nell’ora della lotta.



DICHIARAZIONE DI CLAUDIO CONTRO LA SORVEGLIANZA SPECIALE

Il provvedimento di richiesta della sorveglianza speciale nei miei confronti era pronto – con tutti gli incartamenti prodotti da questore, ros e pubblico ministero – dal mese di luglio. Mi è stato però consegnato di tutta fretta l’ultimo giorno utile prima che venisse invalidato. Aspettavo una notifica per un processo, quindi quando ho realizzato di cosa si trattasse ho avuto un momento di spiazzamento. Protrattosi – nonostante la nitidezza con cui mi si chiarificava interiormente ciò che per me è più importante, più urgente, più vitale – fino a qualche giorno fa, dal momento che il giorno della consegna mi era stata data solo la prima pagina del verbale che mi riguardava. (Dalla quale avevo potuto appurare che sono stati di recente archiviati due procedimenti nei miei confronti «in ordine al reato di cui all’art. 270bis c.p.», per la «non idoneità del materiale investigativo raccolto a sostenere l’accusa in giudizio». E poi che «le indagini svolte hanno in primo luogo ricostruito l’esistenza e l’operatività sul territorio provinciale di una compagine ispirata, quantomeno nei suoi esponenti principali, a modelli e concetti dell’anarchismo federativista»). La restante parte del dossier ho potuto consultarla soltanto diversi giorni dopo, quando il mio avvocato è riuscito a ritirarlo. Dopo un riepilogo dei miei carichi pendenti e del mio casellario giudiziario, su cui tornerò in seguito, vi si può leggere la relazione con cui il PM, «visto il D. Lgs n.159 del 6.09.2011, chiede che il tribunale voglia applicare a Risitano Claudio la misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, per una durata di anni due». Il codice a cui si fa riferimento è il codice antimafia – la natura della mia “pericolosità” essendo stata appurata dal ROS (lo stesso reparto al vertice del quale, per limitarmi a uno solo degli innumerevoli esempi possibili, si è trovato il generale Subranni, colui che escluse la pista mafiosa all’epoca dell’omicidio di Peppino Impastato) nel corso di indagini durante le quali sono state spiate le mie telefonate e pedinati i miei movimenti per “scoprire” ciò che sarei stato e sono disposto a riconoscere in qualunque momento e in qualunque condizione (dalla veglia raziocinante agli stati non ordinari di coscienza): «gli elementi informativi acquisiti e le conversazioni registrate nell’ambito del procedimento consentivano di documentare che il proposto frequenti gli ambienti dell’anarchismo, palesando reiteratamente (vds. vicende giudiziarie) condotte idiosincratiche nei confronti di qualsiasi forma di autorità e di espressione del potere statale». Visto che le inchieste specifiche si sono rivelate dei buchi nell’acqua clamorosi, si chiede vengano considerate le mie vicissitudini penali e le mie condotte complessive.

Su questo vorrei essere il più chiaro possibile: nessuno potrà mai estorcermi professioni di fede nei confronti della legalità. (È stato legale, nel paese in cui vivo e sono nato, deportare gli ebrei e illegale offrire loro ospitalità; se oggi si sostituisce ‘clandestino’ ad ebreo, ci si rende conto che c’è ben poco da esultare per la “costituzione più bella del mondo”.)

Nessuno, a maggior ragione mentre i venti di guerra infuriano ferendo a morte la parte più vulnerabile dell’umanità e i manager di Leonardo- Finmeccanica diventano multimiliardari grazie alla produzione e alla vendita di armi letali, potrà mai convincermi della legittimità etica del monopolio della violenza in mano allo Stato;

nessuno potrà convincermi, qualora decidessero di distruggere ulteriormente la città in cui abito dando inizio ai cantieri per la costruzione del ponte sullo stretto e inviando l’esercito a presidiarli come si fa con le opere strategiche, che è giusto dissentire, sì, ma solo nell’alveo delle procedure consentite dall’ordinamento. Non firmerò petizioni con le quali mi impegno in nome della democrazia a capitolare di fronte al prevalere nella realtà materiale degli interessi più oligarchici.

Nessuno, se non annichilendomi, potrà far smettere di risuonare nella mia interiorità, nei miei sogni e in mezzo agli scogli del (non) vissuto quotidiano, l’eco delle lotte dei contadini insorti agli albori della modernità. Il grido profetico di Thomas Müntzer, omnia sunt communia, ha avuto bisogno per essere sconfitto di tutta la violenza delle enclosures, del rogo delle streghe, dello sterminio degli indios; ma la sua eco ha attraversato i secoli, animato i momenti insurrezionali, e ora – tanto più sconfitto quanto più urgente – prorompe evocando per la specie umana un irrimandabile cambio di rotta.

Il capitale rinnova permanentemente l’accumulazione originaria e l’estrazione di plusvalore colonizzando l’immaginario e imponendo la sua legge fin dentro i corpi: ma una febbre di rigetto scuote tutto ciò che nell’umano eccede la dimensione della macchina, irriducibile alla misura di un algoritmo.

Dentro questo scenario, nessuno – neppure servendosi in modo strumentale e distorto della nozione di terrorismo – potrà mai inchiodare con le spalle al muro la mia coscienza di quanto profondamente diverse siano le pratiche, le tensioni e le idee di cui sono accusato da quelle portate avanti nell’ultimo secolo dalla mafia, con l’appoggio costante di vertici istituzionali operanti in parlamento, all’interno delle procure, a capo dei servizi segreti, dell’arma dei carabinieri e della polizia di stato. (Se si guarda alla strage di Portella della Ginestra e agli attentati del 1992, se si pensa ai morti lasciati sul selciato dalla polizia agli ordini di Scelba nel corso di scioperi e manifestazioni, o ai contadini e sindacalisti stroncati dalla lupara della mafia su mandato dei latifondisti per avere occupato le terre e per aver osato alzare la testa, è possibile ricostruire – dati accertati in sede storica alla mano – una sequenza impressionante di depistaggi orditi dall’alto e una sostanziale fattiva collaborazione tra sicari esperti d’armi, boss dell’economia e vertici dell’apparato statale).

Se è la mia condotta complessiva ad essere pericolosa (ma per chi? Davvero chi è stritolato dal caro-vita, o rifletta sulle condizioni in cui lavora e abita, può sentirsi – se non al culmine di una manipolazione stregonesca – minacciato dalle azioni e dagli ideali degli anarchici?), risponderò su un terreno complessivo.

E vorrei cominciare riportando le parole pronunciate in corte d’assise da Alfredo Maria Bonanno, nel corso di un’udienza processuale tenutasi nel 1999: «Ora perché – prima di chiudere lasciatemi dire due cose – mi sono chiesto perché gli anarchici, perché il 12 dicembre la bomba a Piazza Fontana, perché l’assassinio di Pinelli, che significa?

In fondo io non sono tanto stupido da non rendermi conto che gli anarchici nella realtà sociale italiana e internazionale oggi che cosa costituiscono? Meno che il nulla, forse più un fantasma che una realtà, un’idea che non è capace di svilupparsi in uno sviluppo quantitativo, un’utopia – sembrerebbe…

Invece io penso che gli anarchici siano molto pericolosi, signor presidente, perché rappresentano a livello di coscienza il desiderio che ognuno di noi ha di una vita diversa, di una vita libera, senza la tristezza che quotidianamente ognuno di noi sperimenta, una vita più bella – appassionatamente più bella. E per questo non hanno paura di dire che sono nemici dello Stato: gli anarchici sono nemici dello Stato. Certo, da soli non possono avere quella pericolosità che la scelta di tanto nemico meriterebbe, però ci sono degli alleati incredibilmente potenti degli anarchici, e si nascondono fra la gente, fra la gente comune, fra la gente che ha bisogno di trasformare la propria vita, la propria situazione. E basta un piccolo cenno, una piccola cosa imprevedibile che potrebbe succedere…

Non sono i partiti, non sono le grandi ideologie repressive, non sono i grandi progetti di conquista del potere che significano per la gente qualcosa nel momento in cui si gioca la propria vita. Ecco gli anarchici, in quel contesto, significano qualcosa. […]

non occorre leggere i libri scritti dagli anarchici, non occorre sapere cosa vuol dire la differenza fra nucleo di base o gruppo di affinità – queste sono faccende da specialisti.. […] è questo che fa paura, il fatto che l’anarchico potrebbe essere il compagno di strada di milioni di persone, che un certo momento al di là delle barriere ideologiche e della stessa situazione di classe – per quello che oggi può significare ancora ‘sta parola – potrebbero scendere in piazza… e allora sì che lo Stato potrebbe avere paura.»

Tornando a me, per quante ambasce mi dia il pensiero dell’impatto pratico di un simile provvedimento sulla mia quotidianità, dall’impossibilità di lasciare il mio comune di residenza all’obbligo di rientro entro le nove di sera, più altre piccole e grandi vessazioni che non c’è bisogno di nominare perché mi preme di più un altro ordine di considerazioni, so di non trovarmi nell’epicentro della violenza repressiva. Mi basta pensare solo per un istante a chi sta cercando di valicare una frontiera e si sente, perché lo è, braccato dalle polizie di due paesi; a tutte le detenute e i detenuti; a chi ad una pena già schifosa ed afflittiva si vede aggiungere il supplemento di condizioni detentive che implicano una quotidiana ulteriore tortura fisica e psicologica. Per questo motivo sia la mia intelligenza che il mio istinto mi suggeriscono di attraversare ciò che mi sta capitando con lo sguardo rivolto non tanto alla spada di Damocle che pende sulla mia testa quanto al paesaggio sociale in cui questo avviene e alle valutazioni complessive che è possibile trarne. I valori occidentali sono evidentemente compatibilissimi con provvedimenti rivolti alla penalizzazione delle idee e giustificati dall’intento di prevenire il rischio che quelle idee diventino reati. Ma se si pensa che questo riguardi poche isolate teste calde, si rischia di non apprendere le dure lezioni degli ultimi anni. Se l’accusa rivolta ad anarchici e antagonisti è di «impedire all’autorità di svolgere le proprie funzioni», che cosa si dirà di qualsiasi lotta che non sia puramente testimoniale? Se gli abitanti di Piombino, o della valle del Mela, si mobiliteranno contro ri-gassificatori ed inceneritori provando a impedirne davvero la realizzazione, potrebbero incorrere anche loro in sanzioni del genere. Per questo scrivo, sentendo l’esigenza di condividere le mie riflessioni. Forse serve solo a non arrendersi alla corrente: ma non è poco.

Scorro i fogli che ricostruiscono dal punto di vista delle autorità la mia biografia, e mi viene da chiedermi a quali corsi vengano sottoposti gli ufficiali dell’arma per disimparare a scrivere e a leggere in questo modo. «La di lui fidanzata» mi ha ricordato che la sorveglianza speciale è nelle sue ultime riformulazioni una misura figlia di provvedimenti molto simili adottati contro «oziosi, vagabondi» e sovversivi sia dal governo Crispi che dal governo Mussolini – facendomi respirare l’atmosfera e la prosa di un verbale redatto verso la fine del diciannovesimo secolo; un intero testo di Giorgio Cesarano scambiato – distorcendone per intero il senso – per un mio personale invito a dare avvio alla «lotta armata» contro «il c.d. potere negativo» rivela in un colpo solo i limiti ermeneutici di chi deve far corrispondere il materiale riscontrato con la tesi precostituita. Per il resto, gli elementi a mio carico sono un saluto al carcere di Siracusa e la disponibilità espressa per telefono ad ospitare a casa mia un compagno che sarebbe venuto a Messina per un colloquio con Anna, in quel momento detenuta a Gazzi. Nonché un generico collegamento con individui e realtà collettive presenti sia  in Sicilia che nel resto d’Italia. Per il resto, si tratta per l’appunto di attingere al serbatoio dei procedimenti giudiziari passati e pendenti. È la somma che fa il totale. Vediamo dunque di che si tratta.

Nel 2009 «veniva denunciato per resistenza a pubblico ufficiale e per invasione di terreni o edifici, per fatti risalenti» all’anno precedente «in cui lo stesso, in concorso con altri, a conclusione di un corteo studentesco di protesta, occupava parte del locale ateneo, forzando il cordone formato dalle forze dell’ordine». Quel giorno ho fatto esperienza di ciò che da tempo, confusamente, sentivo: e cioè che ribellarsi è possibile ed è giusto, nonostante tutto ciò che ci si erge innanzi per scoraggiarci dal tentare. (Che si tratti di un cordone, per quanto in quel caso veramente esiguo e privo dei mezzi della Celere, o di una denuncia – per quanto in quel caso priva di conseguenze penali.) Non baratterei l’intensità di quella scoperta se in cambio mi venisse offerta una fedina penale immacolata.

Nel 2010, «veniva denunciato in stato di libertà dalla Digos di Messina per interruzione di un ufficio o servizio pubblico o di un servizio di pubblica necessità, blocco ferroviario, per fatti risalenti al 12.09.2010, in cui lo stesso, in concorso con altri, nel corso della manifestazione dei precari della scuola poneva in essere un blocco, di alcune ore, della circolazione ferroviaria all’interno della locale stazione centrale delle ff.ss». Quel giorno, secondo cgil, cisl e uil le docenti e i docenti provenienti da mezza Sicilia avrebbero dovuto «rappresentare la crisi» restando confinati a Piazza Cairoli ad ascoltare gli interventi dei sindacalisti. Ed invece..

Nel 2011, «veniva segnalato da personale della locale Compagnia della Guardia di Finanza, quale assuntore di sostanze stupefacenti»; perché sì, è capitato, capita e capiterà che io fumi marijuana o assuma sostanze enteogene e psichedeliche. E non sarà la paura del recupero da parte del riformismo istituzionale (peraltro sempre meno probabile intorno a questi temi, almeno in Italia) a farmi seppellire la bussola dell’antiproibizionismo. «Uccide di più lo stigma che le sostanze». Io su questo terreno erigo le mie barricate di consapevolezza, fragili ed esposte alle intemperie come tutto ciò che è vivo, eppure ben salde – radicate e ravvivate nel contatto con la mia intimità più profonda. Ma quanti danni atroci ha fatto e continua a fare ogni giorno, sulla carne viva del dolore e dell’inquietudine regnanti lì dove il capitale si fa dominio totale, la legislazione che dalla Craxi-Jervolino alla Fini-Giovanardi ha dichiarato guerra ai “drogati”? Una persona su quattro utilizza psicofarmaci – moltissime volutamente; altre – riottose alla visione del mondo dominante nei reparti psichiatrici (e fuori di essi: nella società che li produce) – su forzatura medico-poliziesca. Semplicemente, è lo Stato a decidere quali sostanze possano, o addirittura debbano, essere assunte e quali no. Ed io non voglio adeguarmi a questo andazzo. Legislatori ed esecutori hanno il coltello dalla parte del manico: ma mi ferirei mortalmente da solo, se per non risultare una “persona pericolosa” relegassi queste mie idee, che piuttosto vorrei gridare dappertutto, da tutti i tetti, nella clandestinità.

Nel 2012, sono stato denunciato per una manifestazione non autorizzata culminata in un breve blocco della circolazione ferroviaria, nel giorno in cui dalla val Susa era arrivato l’appello a «bloccare tutto, dappertutto».

Nel 2013, sono stato denunciato per l’occupazione del teatro in fiera. Nessuna distanza intercorrente tra il me di adesso e il me di allora potrebbe mai indurmi un minimo di pentimento intorno a quell’azione. Da cui sono seguiti giorni, e poi mesi e anni, che hanno rivoluzionato la mia esistenza. Fino a farmi scorgere nell’etica anarchica (che non incarno affatto ma verso cui mi protendo con tutta la mia passione e con tutti i suoi inciampi) la prosecuzione quotidiana di quei bagliori che in modo intermittente avevano illuminato le situazioni e i contesti di lotta vissuti fino a quel momento. Il rifiuto della delega, l’opposizione con ogni mezzo necessario a chi spadroneggia nel regno degli eserciti e delle merci, l’appello con i gesti e le parole alla «solidarietà cosciente e voluta» piuttosto che alla presa del potere per modificare i rapporti sociali, sono state per me un’esortazione costante, uno sprone a non cercare scorciatoie e neppure strade comode. Ne sono venute altre denunce, una sfilza delle quali tra il 2013 e il 2016 a Niscemi per aver invaso la base Nato in cui è stato impiantato il Muos, per aver danneggiato le recinzioni di filo spinato, per violenza e resistenza a pubblico ufficiale, per aver ritardato di qualche ora l’arresto di una persona nei pressi del presidio. Anche sul corteo al Brennero, sulla ‘radunata sediziosa’ contro un banchetto di casapound, sull’interruzione della messa nella cattedrale il giorno della domenica delle palme mentre nell’indifferenza generalizzata il governo turco bombardava la città curda di Afrin: non ho autocritiche da fare che intacchino la sostanza di ciò che sentivo mentre mi trovavo in quei contesti. Innanzitutto, che volevo fortemente trovarmi lì. Un mondo nel quale non si può che obbedire alla logica della sopraffazione, e soccombere a tutto ciò che questo comporta, è per me inabitabile. Un mondo nel quale uno sparuto gruppo di persone, alcune conoscendosi solo da qualche giorno, attraversa in piena zona rossa la Sicilia per andare a fare un rumoroso saluto a un compagno in carcere nel giorno del suo compleanno, lo è un po’ meno. Se la posta in gioco è la criminalizzazione della solidarietà, non cercherò di schivarla stando schivo: si tratta invece di difenderla con tutto me stesso. Il tempo è ora. Ed è il tempo di dire forte e chiaro ciò che non si può più tacere. Nel paese della strage di Piazza Fontana (indagini depistate dal generale Maletti e dal capitano Labruna), di piazza della Loggia (uno dei cui esecutori si è scoperto dopo quarantanni essere un informatore dei servizi segreti), della stazione di Bologna (indagini depistate dal generale Musumeci, dal colonnello dei carabinieri Belmonte e dall’agente segreto Pazienza – per tacere del ruolo svolto dal maestro venerabile della P2, Licio Gelli); nel paese degli attentati di Capaci e Via D’Amelio (basterà nominare l’agenda rossa di Borsellino, l’ordigno all’Addaura contro Falcone, la fabbricazione del falso pentito Scarantino e le conseguenti condanne al 41 bis di persone che solo dopo 18 anni di torture quotidiane sono state riconosciute del tutto estranee ai fatti per vedere arrossire chi in vita sua si è sempre schierato dalla parte dei sepolcri imbiancati e dei colletti bianchi?); nel paese in cui mafia, fascisti, massoneria e servizi segreti hanno agito in combutta per stroncare ogni istanza di rivoluzionamento dei rapporti sociali e per “difendere la società” istituita: in questo paese in cui la rimozione di ciò che è accaduto si accompagna all’occultamento e alla distorsione di ciò che continua a succedere, ci sono in questo momento una compagna e due compagni anarchici (Anna Beniamino, Alfredo Cospito e Juan) condannati all’ergastolo o a 28 anni per il reato di tentata strage. Nonostante gli ordigni collocati davanti a una sede della lega nord e davanti alla scuola Allievi dei Carabinieri non abbiano determinato né morti né feriti. Alfredo Cospito è sottoposto al 41 bis, ed ha per questo iniziato uno sciopero della fame «a oltranza». Sciopero a cui si è unito anche Juan. Di fronte a questa consapevolezza, ognuno tragga le sue conclusioni.

«Chiunque si sente nel quotidiano come in un deserto, è a un passo soltanto dal cuore di tutti, poiché è ad un passo soltanto dal proprio cuore. Non si tratta di arrestarsi, non si tratta di sedersi a piangere, di costruirsi un’oasi. Si tratta, al contrario, di accennare con tutta la forza rimasta quel passo di avvicinamento, quell’abbraccio d’amore e di lotta, che tanto più sembra assurdo quanto più il quotidiano appare deserto. È in questo movimento che ognuno potrà, nel perdurare del desiderio resistente all’annientamento oggettuale, scoprire in sé la presenza di quel programma storico che è la passione, e sentirsi pronto».

Io non mi sento pronto affatto, ma qualche minimo appiglio ce l’ho e me lo tengo stretto: il mio abbraccio d’amore e di lotta, la mia più profonda solidarietà, vanno a Juan Alfredo e Anna. Ciò che mi annienterebbe, più della convalida di voi giudici alla richiesta del questore, sarebbe la collusione – in nome di una possibilità di quiete – con questo ordine delle cose. Tutti i miei momenti di felicità più piena sono sgorgati da quelle volte nelle quali, in mezzo a mille viltà quotidiane, ho trovato nel contatto con la mia dimensione più profonda lo slancio e il coraggio della rivolta: e il più grave delitto che potrei commettere contro la mia sensibilità sarebbe quello di acconsentire al prosciugamento di quella fonte.

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