Sulle richieste di sorveglianza speciale a Bologna

AGGIORNAMENTO AL TESTO “CHI NON MUORE SI RITROVA”

Considerazioni in merito all’Operazione “Ritrovo” sulle richieste di sorveglianza speciale

A un anno di distanza dall’Operazione Ritrovo è arrivata la richiesta di 5 anni di sorveglianza speciale con obbligo di dimora per 7 compagni e compagne indagati in quell’inchiesta. L’ udienza è stata fissata per il 12 luglio.

La mossa ci sembra del tutto in linea con quanto avvenuto tanto nel passato recente (vedi Cagliari e Genova) che in quello più remoto. A fronte del fallimento o del drastico ridimensionamento della portata di un’inchiesta, si tenta di colpire le stesse persone con altri mezzi. L’intento è chiaramente quello di non mollare la presa, indebolire quei contesti in cui pensare e organizzare la critica e l’opposizione a questo stato di cose è una prassi che rimane costante, anche col solo far sentire compagni e compagne costantemente sorvegliati, col fiato sul collo, cercando di metterli sotto pressione.

La sorveglianza speciale e, in modo differente, le misure cautelari “minori” come gli obblighi e i divieti di dimora sono misure tanto subdole quanto infami. Chi ne è colpito è isolato in modo apparentemente molto meno impattante rispetto a provvedimenti più pesanti, come gli arresti. Tuttavia, seppur con mezzi diversi, l’obiettivo dello Stato rimane lo stesso: restringere il campo di chi si muove, togliere di mezzo chi si espone e fungere da monito per chiunque avesse intenzione di farlo. E ci può riuscire tanto con il carcere che con altre, seppur più lievi misure. Quando compagni e compagne spariscono dai contesti in cui lottavano fino al giorno prima, proprio a causa di queste misure, ce ne accorgiamo. E se non ci sorprende che di fronte a esse la risposta solidale non si esprima con lo stesso impeto che di fronte a un arresto, ci preme comunque sottolineare che l’obiettivo a cui mirano è spesso il medesimo: arrestare dei percorsi di lotta. E questo non possiamo permetterglielo.

Ci sembra quindi essenziale innanzitutto collettivizzare il contenuto di tali richieste e auspicare che il dibattito e la resistenza a queste misure si allarghino, data anche la mole di sorveglianze richieste sul territorio nazionale negli ultimi mesi: 4 a Cagliari, 2 a Genova (di cui una attualmente attiva), 1 a Torino, 7 a Bologna (precedute da altre 2 nella provincia, di cui una rigettata e una data).

Per quanto riguarda la struttura di queste richieste ci sembra di poter dire che, in linea con l’inchiesta da cui prendono le mosse, sono decisamente raffazzonate.

Innanzitutto sono misure di sorveglianza richieste non per una pericolosità “generica”, ma per una cosiddetta “qualificata”, ossia destinata a persone indiziate di particolari tipi di reati; nello specifico reati di terrorismo (capo “d” del paragrafo del codice penale sui soggetti destinatari). Ciononostante, il solo reato di terrorismo che emerge dalle carte è quello legato all’Operazione Ritrovo – per cui compagne e compagni sono tutt’ora indagati – che un anno fa ha portato a sette carcerazioni e cinque obblighi di dimora. Quindi, tautologia già vista: il PM prima lancia l’accusa di terrorismo – respinta sia dal Tribunale del riesame che dalla Cassazione seguita all’appello fatto dal PM – e poi usa l’accusa stessa per dimostrare una pericolosità fondata proprio sul terrorismo.

Entrando nel merito del contenuto, le 7 richieste sono piuttosto individualizzate. Tutte quante condividono però un’introduzione comune, che richiama l’ottica preventiva decantata dal PM Dambruoso all’alba dell’Operazione Ritrovo e la concezione repressivo-pandemica secondo cui nel corso dell’ultimo anno si sarebbe verificata un’ «infiltrazione delle anime anarchiche locali all’interno del tessuto sociale al fine di “cavalcare la rabbia”, derivante dalle stringenti limitazioni imposte dal Governo italiano per il contenimento della pandemia Covid-19, ed incanalarla contro le libere istituzioni democratiche»*.

Per qualcuno si cita precipuamente l’essere intestatario dello spazio di documentazione “Il Tribolo” (al cui interno sono stati sequestrati addirittura striscioni e bandiere, da ritenersi dunque a sua personale disposizione), o la partecipazione attiva alla redazione del bollettino anticarcerario OLGa. Per altri l’aver partecipato a livello nazionale o internazionale a cortei e presidi, in particolare nella lotta contro la repressione e in solidarietà a compagni e compagne in carcere.

Non mancano ovviamente passaggi contraddittori. Per qualcuno la pericolosità personale si evincerebbe dal possesso di strumenti informatici di tutela della privacy. Per qualcun’altra dai contenuti (trascrizione di lettere, volantini, resoconti di assemblee) estrapolati da comunicazioni trasparenti, rinvenute su supporti informatici non criptati.

In alcune richieste ci si sofferma più sul “curriculum” militante, a partire dalle prime denunce (superficialmente riportate con inesattezze e refusi); in altre su fatti accaduti nell’ultimo anno, tra cui le manifestazioni di solidarietà ai detenuti in seguito alle rivolte di marzo 2020 e la partecipazione attiva all’Assemblea in solidarietà ai/alle prigionieri/e, oltre che ai contatti epistolari tenuti con questi ultimi, da cui viene tratteggiato per qualcuno un ruolo di “raccordo” a livello nazionale con compagni/e dentro e fuori le galere.

E poi, questo passaggio: «La condivisione delle dinamiche di lotta rivoluzionaria nel campo dell’anti-carcerario e in solidarietà ai detenuti anarchici insurrezionalisti appartenenti alla FAI/FRI» si sposa ideologicamente con «una progettualità eversiva volta a condurre una insurrezione violenta, anche sfruttando e fomentando le rivolte carcerarie»*. L’adesione ideologica sarebbe una condizione per procedere con richieste di misure preventive. Dambruoso lo dice apertamente dall’anno scorso e oggi continua a battere questa strada senza ripensamenti. Il PM, la cui esecrabile carriera nella procura milanese è stata costruita sulla repressione al cosiddetto terrorismo islamico, tenta di seguire oggi le stesse orme contro gli anarchici. E ciò farebbe ridere visti gli scarsi successi, se non fosse che proprio con simili inchieste per terrorismo, il cui fulcro è proprio l’adesione ideologica, lui come altri PM comminano anni di carcere o di misure preventive a destra e a manca.

La controparte attacca, e lo fa con costanza, mantenendo una sorta di “standard punitivo”, come a dire che sotto un certo livello di repressione lo Stato non scende, tanto in termini di anni comminati, che di tipologia di misure dispensate (preventive e non). Se il livello del conflitto si abbassa la repressione avanza o quantomeno non arretra. Proprio perché, lo dicono loro stessi, l’obiettivo è “prevenire”, evitare che tornino gli anni caldi.

E proprio da qui si è pensato di partire. A fronte della loro prevenzione, vogliamo opporre la nostra, organizzando e rilanciando, di fronte a questa ennesima mossa repressiva, lotte e discorsi che essa avrebbe la pretesa di spezzare.

*citazioni dalle richieste di sorveglianza speciale


link: Chi non muore si ritrova

Sulla situazione di Belmonte Cavazza, contro stato di tortura e misure di sicurezza

Liberiamo nelle brughiere un aggiornamento sulla situazione di Belmonte Cavazza.

CONTRO STATO DI TORTURA E MISURE DI SICUREZZA

Pochi giorni fa, Belmonte Cavazza aspettava di varcare la soglia del carcere di Piacenza, andando finalmente incontro alla libertà.

La sua condanna di 19 anni sarebbe dovuta terminare il 19 aprile. Veniva invece trasferito il 23 aprile presso la casa di lavoro di Castelfranco Emilia (MO).

La ragione? Una misura di sicurezza disposta nei suoi confronti nel 2003.

Le misure di sicurezza, introdotte da Mussolini nel ‘30 e ancora in vigore, si basano, analogamente alla sorveglianza speciale (misura di prevenzione), su un giudizio di pericolosità sociale: ciò che rileva è la personalità dell’individuo, le sue abitudini ed il suo profilo.

Queste misure vengono disposte sulla base di un “pregiudizio” giuridico di possibile reiterazione del reato; sulla condotta comportamentale durante la detenzione; sull’essere stato condannato o prosciolto per parziale o totale infermità di mente. Possono essere comminate dal giudice come misure accessorie, diventano cioè eseguibili una volta che la pena, alla quale si è stati condannati, è terminata.

Ergastolo bianco”, è così che sono state definite tali misure di sicurezza. “L’ergastolo bianco” è rinnovabile all’infinito, non essendo previsti per legge termini di durata massima. Di fatto un’altra pena di morte viva, forse la più dimenticata visto che è opinione diffusa che le case di lavoro non esistano più.

Deputati all’internamento di chi è in esecuzione di una misura di sicurezza, oltre alle case di lavoro, sono le colonie agricole e le REMS (che hanno sostituito i vecchi OPG) destinate a chi viene prosciolto da un reato per infermità mentale. Dentro questi luoghi si trovano rinchiusi gli ultimi degli ultimi dei circuiti detentivi. Persone che non possono contare sul sostegno di una famiglia o di una rete di relazioni.

Nonostante le informazioni su tali luoghi siano difficilmente reperibili, sembra che ad oggi – a seguito della chiusura di quella presente sull’isola di Favignana – in tutta Italia rimangano 3 case lavoro: a Vasto, a Castelfranco Emilia (in cui è presente anche una sezione a custodia attenuata) e ad Isili (Sardegna), dove c’è una sezione denominata “colonia agricola” .

Durante la seconda guerra mondiale il Forte urbano di Castelfranco Emilia fu un luogo di prigionia (casa lavoro) fascista, scenario nel ‘44 di esecuzioni nei confronti di partigiani, antifascisti, disertori alla leva.

La storia a venire non ha riservato a quel luogo un’infamia minore, considerati alcuni dei soggetti che ci hanno messo le mani in pasta.

Nel 2005, vi nasceva la colonia agricola penale per persone tossicodipendenti, la cui gestione veniva affidata, per volere del ministro Castelli, all’associazione di Andrea Muccioli, della Comunità di San Patrignano. Fu sponsorizzata da Carlo Giovanardi e inaugurata alla presenza di Gianfranco Fini, come un nuovo fiore all’occhiello. Il Forte urbano veniva quindi ad assumere due funzioni, quella di casa lavoro per l’esecuzione delle misure di sicurezza degli internati e quella di casa di reclusione a custodia attenuata per detenuti tossicodipendenti. Nel 2017, la gestione interna delle serre per il lavoro agricolo fu affidata a Caleidos, la cooperativa nota per la sua egemonia nel modenese in particolare nella gestione di canili, gattili e centri di accoglienza per richiedenti asilo, descritti dalle stesse persone che li hanno attraversati come luoghi di prigionia, controllo e sfruttamento. Nel 2020, a mettere le mani in pasta nel business legato alla casa lavoro è la cooperativa modenese L’Angolo, a cui è affidata la gestione della lavanderia industriale (così come al Sant’Anna). La cooperativa è nota alle cronache perché, anch’essa nel business dell’accoglienza, dava da mangiare ai migranti che vivevano nelle sue strutture cibo avariato e mordicchiato da ratti che, insieme alla muffa, invadevano letti e stanze.

Ma arriviamo al 2021. A ricoprire l’incarico di direttrice del Forte Urbano di Castelfranco Emilia è Maria Martone, la direttrice pro tempore ai tempi della rivolta nel marzo 2020 – e tutt’ora in forze – del carcere Sant’Anna di Modena. Recentemente è stata elogiata dal Sappe per gli sforzi da lei compiuti nel ripristino e ricostruzione del carcere cittadino dopo la rivolta.

Proprio a proposito di quest’ultimo punto, è bene fare un passo indietro, e ricordare quanto recentemente avvenuto. La risposta immediata dello Stato alle rivolte nelle carceri del marzo 2020 fu una strage di 14 morti tra le persone detenute.

Nel dicembre scorso, cinque tra i detenuti che erano stati trasferiti da Modena ad Ascoli Piceno dopo la rivolta al Sant’Anna, presentarono un esposto alla Procura di Ancona, in quanto testimoni della morte di Sasà Piscitelli nel carcere ascolano. Testimoniarono degli spari, dei pestaggi delle guardie e della mancata assistenza medica prima dei trasferimenti nel carcere Sant’Anna di Modena. Uno di loro è proprio Belmonte.

Pochi giorni dopo, con il pretesto ufficiale di dover essere sentiti dalla Procura di Modena, i cinque furono riportati in quel luogo di strage e tortura. Furono rinchiusi in una stanza liscia, al freddo, con le finestre rotte e privati della possibilità di mettersi in contatto con i propri cari: fu evidente a tutte/i il carattere intimidatorio e di ritorsione che ebbe quel gesto.

Si mobilitarono in molte/i e in breve tempo, la solidarietà fu ampia: dopo qualche giorno furono infine trasferiti altrove, ciascuno verso una diversa destinazione penitenziaria. Dopo diversi giorni, si venne a sapere che Belmonte era stato trasferito a Piacenza, dove a febbraio la magistrata di sorveglianza di Reggio Emilia, su richiesta del carcere di Piacenza, gli notificava il provvedimento di censura di tre mesi sulla corrispondenza.

Oggi a pena finita, si trova internato nella casa di lavoro di Castelfranco, la cui direzione è in mano alla stessa persona che dirigeva, all’epoca dei fatti raccontati dall’esposto, il carcere di Sant’Anna. Non dimentichiamo che nell’inchiesta della Procura modenese sulle morti al Sant’Anna, questa stessa direttrice ha affermato che tutti i detenuti, prima dei trasferimenti, avevano ricevuto assistenza medica presso il presidio sanitario allestito nel piazzale. Peccato che durante e dopo questi trasferimenti, altre 4 persone perderanno la vita. E altre 5 la perderanno proprio dentro il suo carcere.

Nonostante le minacce, le ritorsioni, i pestaggi, le violenze fisiche e psicologiche e i decenni passati dentro le galere il 27 aprile, Belmonte faceva sapere tramite lettera di averintrapreso uno sciopero della fame perché da diversi anni mi tengono sequestrato dallo Stato italiano e quindi non ho altre vie per protestare contro questo abuso di potere che ha il nostro ordinamento penitenziario in Italia, mi trattengono con delle normative di Benito Mussolini e poi festeggiano la liberazione dal fascismo…”.

Ad oggi non è stato ancora possibile ricevere notizie sulle sue condizioni di salute e se ha proseguito lo sciopero.

Qui l’indirizzo per scrivergli:

Belmonte Cavazza

via Forte Urbano, 1

41013 – Castelfranco Emilia (MO)

CONTRO LO STATO E I SUOI LUOGHI DI TORTURA,

AL FIANCO DI BELMONTE E DI CHI ALZA LA TESTA

Psichiatria: basta morti in contenzione

Il collettivo Artaud invita ad un volantinaggio antipsichiatrico
Sabato 29 maggio a LIVORNO in PIAZZA DAMIANO CHIESA
dalle ore 10:30 alle ore 12:30.

BASTA MORTI IN CONTENZIONE NEL REPARTO PSICHIATRIA!!
ABOLIAMO LA CONTENZIONE!!

Non si sa ancora niente del paziente originario della Val di Cornia ricoverato nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Livorno e morto a inizio aprile di questo anno dopo essere stato legato al letto per una settimana. Ciò che sappiamo è che nei reparti psichiatrici italiani si continua a morire di contenzione meccanica, sia in regime di degenza che durante le procedure di TSO.

Il 13 agosto del 2019, nel reparto psichiatrico dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo è  morta durante un incendio Elena Casetto, 19 anni, bruciata viva nel letto al quale era legata: la contenzione non le ha permesso di fuggire. A oggi per quel terribile evento sono indagati solo i due addetti della ditta che aveva in appalto il servizio antincendio dell’ospedale.
Un episodio simile era accaduto nel Manicomio Giudiziario di Pozzuoli nel 1974, quando Antonia Bernardini morì per le ustioni riportate dopo l’incendio che l’aveva avvolta nel letto di contenzione al quale era stata legata ininterrottamente per 43 giorni.
Il 4 agosto del 2009 Francesco Mastrogiovanni è morto per edema polmonare dopo 87 ore consecutive di contenzione nel reparto di psichiatria dell’Ospedale di Vallo della Lucania, provincia di Salerno. Era stato ricoverato in TSO, trattamento sanitario obbligatorio, senza rispettare le procedure previste dalla legge; sedato e legato con fascette ai polsi e alle caviglie, è rimasto senza mangiare, senza bere e senza nessuno che si preoccupasse di lui fino alla morte.

Nel caso Mastrogiovanni la Corte di Cassazione ha definito l’uso della contenzione meccanica un presidio restrittivo della libertà personale che non ha né una finalità curativa né produce l’effetto di migliorare le condizioni di salute del paziente. La contenzione non è un atto medico e non ha alcuna valenza terapeutica: è un evento violento e dannoso per la salute mentale e fisica di chi la subisce; offende la dignità delle persone e compromette gravemente la relazione terapeutica.

Purtroppo contenzione meccanica e farmacologica sono praticate diffusamente anche nelle strutture che ospitano persone anziane e/o non autosufficienti. In nessun caso la carenza di personale e di strutture può giustificare il ricorso a pratiche coercitive. Anche la logica dei “motivi di sicurezza”, dello “stato di necessità” o delle “persone aggressive” a cui sovente si fa appello nei reparti, deve essere respinta poiché fondata sul pregiudizio ancora diffuso della potenziale pericolosità della “pazzia”. Molti ritengono, per atteggiamento culturale o per formazione, che sia giustificabile sottoporre persone diagnosticate come “malate mentali” a mezzi coercitivi, che sia nell’ordine delle cose e corrisponda al loro stesso interesse. Chi condivide questa opinione non considera adeguatamente, sia in termini esistenziali che giuridici, il valore imprescindibile della libertà della persona, tanto più rilevante quanto più attinente a libertà minime, elementari e naturali, come la libertà di movimento.

Oltre al ricorso alla contenzione meccanica e farmacologica, continua ancora oggi a prevalere nei servizi psichiatrici un atteggiamento custodialistico e l’impiego sistematico di pratiche e dispositivi manicomiali: obbligo di cura, porte chiuse, grate alle finestre, sequestro dei beni personali, limitazione e controllo delle telefonate e di altre relazioni e abitudini.
Sappiamo inoltre, di numerose esperienze in Italia e all’estero dove viene evitata la contenzione. In solo 15 reparti italiani su 320 viene praticata la terapia no restraint, la contenzione è stata abolita e le porte sono aperte.

Ribadiamo la necessità di proibire, senza alcuna eccezione, la contenzione meccanica nelle istituzioni sanitarie, assistenziali e penitenziarie italiane.
Continueremo a lottare con forza contro ogni dispositivo manicomiale e coercitivo (obbligo di cura, trattamento sanitario obbligatorio, uso dell’elettroshock, contenzione meccanica, farmacologica e ambientale, ecc) e per il superamento e l’abolizione di ogni pratica lesiva della libertà personale.

Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud-Pisa
antipsichiatriapisa@inventati.orgartaudpisa.noblogs.org

Bologna: contro tutte le frontiere e la loro violenza solidarietà alle/i imputate/i del Brennero

Liberiamo nelle brughiere:

Oggi 14 maggio, mentre nel tribunale di Bolzano si stava pronunciando la sentenza per 63 compagne\i accusate\i di devastazione e saccheggio per il corteo contro le frontiere al Brennero del 7 maggio 2016, per le\i quali l’accusa ha chiesto oltre 300 anni di carcere, un gruppo di compagne è entrato nella stazione di Bologna raggiungendo il binario da cui partiva il treno Obb diretto a Munich, treno che attraversa quella frontiera dove si sarebbe dovuta costruire nel 2016 una barriera anti-immigrati voluta dallo stato italiano e austriaco. Per mesi su quei treni chiunque non avesse una faccia bianca veniva sottoposto ai controlli della polizia. Questa mattina, su quel binario è stato quindi aperto uno striscione e fatto un intervento, mentre venivano distribuiti dei volantini ai passeggeri del treno, per ricordare loro e a tutti che le frontiere continuano ad uccidere e che chi vi si oppone o cerca di attraversarle è duramente represso.

CONTRO TUTTE LE FRONTIERE E LA LORO VIOLENZA!
IN SOLIDARIETA’ ALLE/I IMPUTATE/I DEL CORTEO AL BRENNERO!

Consigli per la rivolta


Un compagno di Saronno qualche settimana fa è stato chiamato in questura per un interrogatorio riguardo a due post da lui ‘condivisi’ su facebookdimerda nell’ottobre 2020.

Questo il volantino condiviso,
Contro l’oppressore: fotocopia, diffondi, distribuisci!


Link: Saronno – Quando dei consigli per l’autodifesa diventano “Istigazione a delinquere” (qui)

Fano: tso su studente

A Fano è stato fatto un Tso ad un ragazzo di diciotto anni per una protesta contro l’obbligo di mascherina.

Link qui


In una società frenetica e senza respiro, non ci può essere spazio per la relazione e una sincera messa in discussione del quotidiano.

La violenza è ammessa come istituzione e prassi irrununucabile, la sorveglianza si sostituisce all’ascolto, la sicurezza all’apertura, l’assistenza alla compagnia, la terapia alla vita.

La contenzione e il ricovero obbligatorio diventano la risposta. La psichiatria arriva dove lo Stato non può, spacciandosi per ‘terapia’, ‘cura’.

Non esistono prove che l’abuso del ricovero coatto porti benefici a chi lo subisce, è certo invece che tale coerzione risulti traumatica e lesiva, e tenda ad avviare un processo vizioso che conduce la persona verso la completa dipendenza assistenziale dal servizio psichiatrico, creandole problematiche ulteriori che possono aggravare il suo stato.

Ricoverare obbligatoriamente una persona è una pratica crudele e disumanizzante, doppiamente crudele in quanto inutile.

Che sia stato fatto a scuola, è un fatto ancora più aberrante.