UDINE: SOSTENIAMO IL LIBRO DI CLAUDIO! CENA SOCIALE BENEFIT

Diffondiamo

Le rivolte carcerarie del marzo 2020 sono state le più potenti dell’intera storia dello stato italiano e hanno mostrato un’anticipazione di una torsione autoritaria su tutta la società, fino a quel momento inedita. In risposta alla crisi sanitaria e alla richiesta di scarcerazione temporanea da parte dei detenuti, che si sentirono immediatamente in trappola, lo Stato rispose sospendendo colloqui, permessi e con altre misure punitive. In risposta alle giuste rivolte dei detenuti, lo Stato reagì sparando e manganellando.

Claudio, uno dei cinque detenuti che decisero di esporsi nel 2020 presentando un esposto in cui denunciavano ciò che lo Stato aveva agito in quei giorni, ha scritto un libro che ripercorre dalla sua prospettiva gli accadimenti di quelle giornate. La pubblicazione di questo libro, che sta per approdare alla fase di stampa, rappresenta una coraggiosa presa di parola da parte di chi vive l’oppressione e non vi si rassegna. Per questo è importante sostenerla e diffonderla il più possibile.

SOSTENIAMO IL LIBRO DI CLAUDIO!
CENA SOCIALE BENEFIT
SABATO 22 NOVEMBRE 2025 ORE 20.00

SPAZIO AUTOGESTITO DI UDINE
V. DE RUBEIS 43


Assemblea permanente contro il carcere e la repressione del Friuli e di Trieste

liberetutti@autistiche.org

Associazione “Senza sbarre”
c.p.129, 34121 Trieste

TRE FROCIX ENTRANO IN QUESTURA… SMASH. SULLE RECENTI PERQUISIZIONI AI DANNI DI TRE COMPAGNX PADOVANX

Riceviamo e diffondiamo:

Testo in PDF

11 settembre 2025.
Padova, città dalla forte vocazione universitaria ma ancor prima borghese e benestante, ha attraversato un recente periodo esemplare nel panorama nazionale: un’estrema militarizzazione del suo perimetro urbano ha portato ad una profonda pacificazione sociale. La sua tradizione lottarmatista è stata in parte dimenticata e in parte istituzionalizzata, lasciando nel tracciato cittadino solo uno sbiadito ricordo della prima cellula di Ordine Nuovo nata proprio qui, o delle prime azioni delle Brigate Rosse e dei natali dati a Toni Negri.

Assistiamo da anni a uno spettacolo politico insopportabile, con le poche forme di antagonismo attive e partecipate schiacciate sui soli social media, private di ogni incisività sul reale: il potenziale dissidente della lotta si esaurisce costantemente nel puro simbolismo. Le espressioni di dissenso di maggior intensità sono figlie di un patto non detto con le appendici dell’apparato repressivo (sbirri, magistratura, istituzioni politiche), esaurendosi in momenti di aperto scontro scenici e circoscritti nel tempo, nelle modalità e nella diffusione.

Ogni soggetto dissidente che rifiuta il dialogo con il potere costituito (istituzionale e non) viene sistematicamente e selettivamente escluso dal contesto politico cittadino e ogni azione che esce da tale tracciato va incontro alla mano più pesante della repressione: fogli di via, perquisizioni e denunce sono molto più frequenti che in altri contesti.

Che farci, gli sbirri di Padova sono zelanti come pochi, e con pochi!

 Così, l’11 settembre (data così cara a tantx) tre compagnx padovanx hanno visto rovinarsi la festività. Svegliatx alle 5.30 del mattino agenti della digos, della polizia di stato e dell’antiterrorismo hanno loro notificato ed eseguito un mandato di perquisizione. Sono statx informatx di un indagine a loro carico per i reati di ricettazione, istigazione a delinquere e concorso. Il pubblico ministero Orlandi, recentemente trasferito a Padova, contesta questi capi d’accusa in riferimento a tre striscioni ritrovati mesi prima dagli sbirri che riportavano frasi in solidarietà ad Alfredo Cospito, allx compagnx accusatx a Milano e a Torino per i cortei relativi alla mobilitazione contro il 41-bis e a Awad Mohamed Attia, che rischia l’ergastolo per strage politica a seguito di attacchi incendiari contro le volanti di polizia e carabinieri.

Due ore di perquisizioni hanno visto le loro case rivoltate, gli spazi propri, condivisi e altrui violati dalle sporche mani (almeno ricoperte da guanti) degli sbirri. Sono statx soggettx alle solite tattiche manipolatorie: costanti tentativi di allontanare le persone cui erano stati contestati i fatti dai loro affetti, cercando in questi ultimi complicità, sforzi manipolatori e intimidazioni. Puntando sulla poca conoscenza delle dinamiche investigative, hanno ostacolato il contatto con i legali, intimidito chi aveva atteggiamenti più refrattari e rassicurato chi risultava più disponibile a collaborare, specie tra gli affetti e lx familiarx.

A riprova della natura schifosa e deprecabile dell’operato degli sbirri, tra una violenza fisica e una psicologica, notiamo che non si fanno di certo mancare anche una buona dose di violenza di genere a ogni livello: allx compagnx di unx dellx perquisitx sono state fatte pressioni per tradirlx, cercando di persuaderlx di quanto fosse “un mezzo uomo”, di che vita “lx stesse facendo vivere”. Ad unx altrx perquisitx poi, immancabilmente, sono state fatte pressioni a parlare, tentando di ottenere complicità, perchè “io ho una figlia della tua età, anche tu un giorno sarai madre”. Insomma, bella merda, e belle merde.

Postx in stato di fermo e portatx in questura, sono statx trattenutx per 9 ore, con la ridicola scusa di ritardi nei sistemi informatici, e hanno visto loro sequestrati dispositivi elettronici, supporti di memoria e vestiti. Ha destato particolare disappunto il furto sbirresco delle calzature ai danni dellx sventuratx compagnx. Sbirri state per certo sicuri che non erano scarpe ortopediche, infami piedipiatti.

È stata impiegata, inoltre, la procedura della pre-view: i telefoni dellx compagnx sono stati scansionati meticolosamente sotto i loro occhi, registrandone schermo e audio. Tutto ciò senza lesinare battute di merda, pressioni psicologiche e minacce. Lo zelo sbirresco non è stato fermato nemmeno dai primi nudes: di certo non sarà il pubblico pudore a fermare l’ardore della giustizia, alla ricerca anche solo di una bomboletta nel culo!

Interessante notare, per coloro che leggono complici, il fatto che in sede di pre-view la semplice e reiterata contestazione dell’operato degli sbirri limiti in maniera importante la loro disinvoltura nell’eccedere ben oltre le prescrizioni della procura.

Dalla prima mattina abbiamo notato come l’apparato repressivo tutto si sia prodigato nel creare un’atmosfera paranoica: dalle istituzioni politiche (locali, regionali e nazionali) alla magistratura, passando per sbirri e contro-sbirri e giornali, per tre striscioni si è arrivatx persino a citare il passato brigatista della città! È stata esemplare, a tal riguardo, la conferenza stampa del questore Marco Odorisio a seguito delle perquisizioni e dei fermi. L’allarmismo più totale ha rimbalzato sui quotidiani della penisola e delle isole, ricalcando la stessa sceneggiata a cui avevamo assistito al ritrovamento nei mesi precedenti dei teli incriminati: scritte con una A cerchiata come firma avevano, infatti, giustificato la scorta al tribunale, ai comandi di polizia, guardia di finanza e sbirraglia varia, maggiori controlli in stazione e al comune.

È facile mettere in fila i fatti cui ci stiamo abituando: manifestazioni e espressioni di dissenso ricondotte alla lotta armata senza distinzione alcuna, con buona pace della grande confusione mentale del questore che parla di BR commentando fatti ricondotti da loro a esponenti della cosiddetta “compagine anarchica”. Tutte le pratiche, che questo spiacevole evento ci ha fatto sperimentare ancora una volta, si inseriscono nella più ampia strategia dello stato volta ad abituare le persone ad un controllo sempre maggiore del libero corpo sociale e a un dispiegamento quotidiano sempre più massiccio e smisurato di forze e tattiche.

Vorremmo chiudere con un’ultima riflessione sull’accurata scelta dei reati contestati. L’aggiunta di reati da compro oro, come ricettazione, evidenzia un utilizzo strumentale del diritto penale (come se ne esistesse uno non strumentale) funzionale ad avere più potere in sede di indagine per accedere a misure legalmente concepite come straordinarie e urgenti ( entrare in casa per tre striscioni).

Le procure si dimostrano infami non solo da Milano a Torino, ma fino a Padova, e ben oltre.

 Solidarietà alle persone perquisite a Padova come nel resto d’Italia.

Complici con le loro lotte.

AGGIORNAMENTI SUL SUDAN: CHE LA RIVOLUZIONE SIA UN PUGNALE AVVELENATO NEL CUORE DEI TIRANNI

Riceviamo e diffondiamo questo aggiornamento sulla guerra in Sudan e sulla complicità del governo italiano. In fondo all’articolo trovate i link a varie risorse per saperne di più, tra cui l’intervista a un compagno anarchico sudanese.

A fine ottobre le forze di supporto rapido (RSF), una delle due fazioni della guerra civile che infiamma il Sudan dal 2023, hanno conquistato la città di El-Fasher dopo un assedio durato oltre 500 giorni. Questo fatto è salito agli onori delle cronache anche in Italia, a causa della brutalità con cui è stato compiuto: le immagini satellitari mostrano campi divenuti rossi per il sangue che vi è stato versato, e le stime sono di decine di migliaia di sfollat*, e migliaia di morti.

L’esercito sudanese, che governa ciò che resta del Sudan in seguito ad un colpo di stato nell’aprile 2023, e che è guidato dal generale Al-Berhan (sostenuto dall’ucraina, l’egitto, l’iran, l’arabia saudita e la turchia), si batte contro le forze di supporto rapido (con, tra le altre, le milizie Janjaweed, sostenute dalla russia e gli emirati arabi uniti) del generale Hamdan. Le due fazioni commettono massacri indiscriminati, stupri, pulizia etnica e seminano terrore, contendendosi il territorio e il controllo delle risorse, tra cui oro e petrolio, le sorgenti del Nilo, oltre che la posizione strategica sul mar Rosso.

Il colpo di stato, l’ennesimo di una lunga serie nella storia degli ultimi 60 anni del Sudan, ha avuto come primo effetto quello di soffocare il vento rivoluzionario che soffiava sul Sudan: nel dicembre 2018 la popolazione si rivolta al grido di “pace, libertà, giustizia”, la piazza Al-Qayda a Khartoum viene occupata. Nel giugno del 2019 l’esercito attacca la piazza facendo centinaia di morti (700 secondo alcune stime), i cui corpi vengono buttati nel Nilo. Alla base del sollevamento, troviamo i Comitati di Resistenza. Questi raggruppamenti per quartieri, riorganizzano spontaneamente la vita in modo antiautoritario. Non c’è dunque nessun leader autoproclamato, nessun interlocutore per lo stato… fatto che ha permesso alla rivoluzione di durare, secondo le anarchiche in loco. E ciò mostra come l’anarchismo non sia soltanto un’idea occidentale, e che spesso venga messo in atto spontaneamente quando c’è un’insurrezione.

Secondo un compagno, la critica dell’islam si è diffusa enormemente tra la gioventù durante la rivoluzione, molto al di là delle cerchie anarchiche. Le anarchiche sono state parte integrante dell’insurrezione, dei comitati di resistenza, hanno organizzato discussioni, hanno distribuito pasti gratuiti, prodotti di prima necessità e farmaci in diverse città. Diverse anarchiche che svolgono lavori sanitari hanno fornito supporto medico essenziale. La maggior parte delle anarchiche organizzate sono donne e giovani, in un paese dove prima della guerra civile c’erano 18 milioni di student*.
Con l’inizio della guerra civile nell’aprile 2023 molte compagne hanno perso i contatti tra loro, tentando di sopravvivere ed essendo degli obiettivi privilegiati, essendosi esposte in precedenza nel movimento di rivolta.

Durante la rivoluzione sono morti i compagni Abu Al-Rish, Qusay Mudawi e Omar Habbash.

La compagna Sarah è stata stuprata e uccisa dalle milizie Janjaweed a Madani nel dicembre 2023.

Dall’aprile 2023, 12 milioni di persone sono state costrette a lasciare le loro case.
Tra 25 ooo e 150 ooo  persone sono state uccise.
Si stima che il 95% delle persone non riesca a consumare neanche un pasto al giorno, mentre 40 milioni di persone non mangiano tutti i giorni.
Il 75% delle strutture sanitarie non sono in funzione, e un’epidemia di colera si sta diffondendo nel paese.

Il 2 novembre, un compagno sudanese scriveva:

“Oggi piangiamo il martirio dei nostri compagni d’El-Fasher,
caduti difendendo la loro città, le loro famiglie e la loro stessa vita.
Si tratta di: Faisal Adam Ali,   Radwan Abdel Jabbar (« Kahraba »), Adam Kibir Musa, Abdel Ghaffar Al-Tahir (« Al-Sini »).

Piangiamo ugualmente numerosi giovani volontari uccisi dalla milizia terrorista delle Forze di supporto rapido, quando il loro solo “crimine” era di portare cibo agli abitanti della città.

Noi, membri del Gruppo Anarchico, facciamo appello a tutti i compagni:
è arrivato il momento di avvicinarci e unirci contro questa guerra autoritaria e distruttrice. Dobbiamo allertare il mondo intero sullo sterminio di massa perpetrato dalle milizie delle Forze di supporto rapido, sostenute dagli Emirati Arabi uniti. Queste milizie attuano una pulizia etnica e un genocidio fondato sulla “razza”, al servizio d’interessi imperialisti perversi che cercano di controllare le risorse e l’oro al prezzo del sangue. Il mondo non può restare con le braccia incrociate. I rivoluzionari del mondo intero devono conoscere i nostri sacrifici e la nostra lotta contro il terrore capitalista selvaggio, contro il potere e contro la pulizia etnica sistematica.

All’interno del Gruppo anarchico del Sudan, abbiamo perso dei compagni;
alcuni dei nostri membri sono stati feriti, altri sono morti; altri ancora sono confrontati al pericolo imminente della guerra.
Le nostre famiglie soffrono la fame, la mancanza di medicine e di nutrimento.
Abbiamo creduto nell’Anarchia in un paese dove l’autorità è onnipresente, e abbiamo combattuto per difenderci, difendere i nostri ideali e preservare la nostra unità. Oggi, abbiamo bisogno di voi: tendeteci la mano e sosteneteci affinchè possiamo resistere alle autorità e ai Janjawid.

Che la rivoluzione continui! Che sia una lama avvelenata piantata nel cuore dei tiranni”

                                                                                       – Ali Abdel Moneim

In totale, più di 3800 euro sono stati mandati alle compagne dalle anarchiche di francia, ma anche da anarchiche curde, di cina e altre parti d’Asia, e dall’inghilterra. Un anarchico ha in seguito scritto: “Abbiamo potuto mettere al riparo sei compagne. Si trovano ora al sicuro, in etiopia, in ruanda e in kenya. Siamo in un po’ ad essere ancora in sudan. Ci stiamo coordinando per continuare le nostre attività di liberazione dall’estero (perché qui la situazione è troppo pericolosa). Ci avete sostenuto fortemente, avete salvato la vita delle nostre compagne che erano in delle regioni molto pericolose. Speriamo che il vostro supporto non si fermerà. Ogni giorno soffriamo, ma il mio attaccamento alle idee e per l’anarchismo non cessa di crescere. Viva la solidarietà!”

Infine, due parole sulla complicità dell’italia.
Nel 2014 l’unione europea, su impulso del governo italiano, ha stretto un  patto, il processo di Karthoum, in cui si impegnava a “finanziare lo sviluppo” in sudan, in cambio di una stretta sul controllo dei migranti. Nel 2016, ai tempi del governo Renzi, è stato firmato un memorandum d’intesa tra il dipartimento di pubblica sicurezza del viminale e la polizia del presidente Omar Al-Bashir, poi deposto. L’accordo prevedeva, ancora una volta, soldi in cambio del controllo delle rotte migratorie, oltre che l’addestramento delle milizie locali. Tra queste milizie c’erano le forze di supporto rapido e i janjaweed. Inoltre, è stato provato che le armi che Leonardo vende agli emirati arabi vengono inviate in sudan.

ROMPIAMO IL SILENZIO SUL GENOCIDIO IN SUDAN!

BASTA COMPLICITà CON LE GUERRE COLONIALI!

BASTA PADRONI CHE SI INGRASSANO VENDENDO ARMI!

SOLIDARIETà INTERNAZIONALISTA!

 


Per saperne di più:

1. Traduzione del primo numero del foglio “le feu meurt”, bollettino anarchico francese

2. Intervista a un compagno anarchico del Sudan

3. La tribù e lo Stato: un tentativo di analizzare il conflitto autoritario in Sudan

4. Perché diventare anarchico in Sudan?

5. Dichiarazione del Gruppo Anarchico in Sudan : genocidio in Sudan

CAGLIARI: PRESIDIO SOLIDALE PER PAOLO DI FRONTE AL TRIBUNALE

Diffondiamo:

PRESIDIO DI FRONTE AL TRIBUNALE DI CAGLIARI
MERCOLEDÌ 12/11 ALLE ORE 9

Il 12 novembre lo Stato italiano con ogni probabilità celebrerà il processo contro il nostro compagno Paolo ed altri due nostri amici. Non sappiamo e non ci interessa sapere se siano o meno gli autori di ciò per cui vengono accusati. Come anarchici, siamo sempre solidali e complici con chi si oppone a una società che produce miseria, disuguaglianze, violenze, morte e genocidi. Ci preme sottolineare come ancora una volta il sistema tramite i suoi servi si accanisca, con continue ritorsioni e tormenti, contro chi, in libertà e in detenzione, non ha mai piegato la testa, schierandosi sempre dalla parte dei più deboli, denunciando le violenze degli sbirri, le torture dello Stato che, nel carcere di Uta, nega ai prigionierx persino l’acqua potabile, contro chi svela la complicità arrogante del tribunale di Sorveglianza e dei garanti che tacciono sui soprusi e sulle torture subiti quotidianamente dai prigionierx.
per questi e per tanti altri motivi Paolo ha portato avanti uno sciopero della fame per 44 giorni tra maggio e giugno.

I tribunali sono strumenti per esercitare la violenza della legalità, pertanto pensiamo che il verdetto sarà usato come punizione esemplare, per mandare a loro, e a tuttx i proletari, il messaggio che non bisogna ribellarsi, ma bisogna accettare in silenzio ogni violenza e tortura dello Stato. Per questo non accetteremo i verdetti di giudici che rappresentano questo sistema assassino.

Siamo solidali e complici con Paolo, Joan e Walter e non li lasceremo soli né nelle galere, né nei tribunali.

Anarchicx contro carcere e repressione

PAOLO LIBERO
TUTTX LIBERX
FUOCO ALLE GALERE

ROMA: PRESIDIO AL CPR DI PONTE GALERIA

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9 novembre ore 17 presidio al CPR di Ponte Galeria
Appuntamento alla stazione Fiera di Roma del treno per Fiumicino

La grande differenza tra una galera israeliana e un CPR come quello di Ponte Galeria è che la maggior parte delle torture e delle uccisioni l’Italia le ha esternalizzate ed appaltate alle guardie di Libia, Niger e Tunisia coperte dall’UNHCR.

Il razzismo, la segregazione e l’espulsione hanno la stessa radice coloniale, da una parte all’altra del Mediterraneo.

La storia dei CPR è fatta di quotidiane resistenze individuali e collettive che spesso hanno acceso la solidarietà all’esterno.
Ad oggi il CPR di Ponte Galeria è stato ricacciato nel silenzio, nulla è dato sapere dalla voce diretta delle persone imprigionate.

A Roma il PD – che ha avuto tra le sue fila i consulenti di Leonardo, i diretti responsabili dei lager in Libia e del bottino coloniale consegnato ad ENI – gioca una battaglia elettorale sul corpo delle persone colpite dal razzismo di stato dichiarando cose che non farà mai, come la chiusura dei CPR che il PD stesso ha aperto.

Crediamo sia importante rompere l’isolamento delle persone imprigionate e far sentire forte la nostra solidarietà fuori da quelle mura.

Assemblea di solidarietà e lotta

AGGIORNAMENTO DAL CPR DI TORINO (NOVEMBRE 2025)

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La sera del 20 ottobre, tra le 19:30 e le 20:00, cinque persone hanno deciso di salire sul tetto dell’area verde per protestare, mettendo in gioco il proprio corpo per rivendicare la libertà a partire da alcune questioni specifiche. C’era chi stava protestando per avere informazioni chiare sulle proprie istanze di liberazione, denunciando le continue menzogne dell’amministrazione del CPR al solo scopo di pacificare le persone recluse, chi protestava per l’impossibilità di parlare con il proprio avvocato perché, come spesso accade, l’amministrazione ostacola il più possibile le comunicazioni, nascondendosi dietro a burocraticismi e cavilli; e chi rivendicava l’accesso alle proprie medicine, bloccate perché troppo lento il passaggio di consegna della cartella clinica proveniente dal carcere.
I reclusi hanno scelto di lottare insieme, salendo sul tetto e usando il proprio corpo come leva per fare pressione sull’amministrazione e ottenere “il rispetto dei propri diritti” – come ci dicono da dentro. Anche dalle altre aree, le persone hanno sostenuto la protesta, amplificando le rivendicazioni rendendole collettive. Non sono mancate le reazioni immediate dell’amministrazione e della polizia, che hanno minacciato di trasferire le persone alle Vallette, facendo così ripartire il conteggio dei giorni di detenzione.

Se dalla riapertura del CPR di Torino Sanitalia ha tentato di oscurare la tortura portando avanti una gestione all’insegna del detto “bastone e carota” e quindi concedendo qualche miglioria delle condizioni quotidiane, dall’altra parte non sono mancate politiche estremamente punitive e repressione anche a suon di burocraticismi nei confronti di chi dentro quel centro si ribella. Dai trasferimenti in carcere, purtroppo sempre più frequenti, ai trasferimenti punitivi nel CPR in Albania, diventati non solo reali ma anche una minaccia quotidiana per chi vive ogni giorno la violenza della detenzione nel CPR, i fatti delle ultime settimane ci mostrano l’altro lato della violenza razzista di Sanitalia ai danni delle persone recluse e di chi prova lottando a rompere il velo di pacificazione tanto agognato dall’amministrazione.

A riprova di ciò, dopo il mese di settembre scandito da quotidiani gesti di ribellione dentro il CPR, alle prime di settimane di ottobre dove diversi reclusi hanno deciso di mettere a rischio la propria vita buttandosi dal tetto pur di poter uscire da quel centro – la quotidianità punitiva del CPR è tornata a farsi sentire. Il cibo è tornato ad essere immangiabile, definito “becchime per uccelli”, si tratta spesso solo di pasta o riso, spesso marcio e andato a male. Molte persone hanno sofferto di diarrea per giorni e, come accadeva anche con la precedente amministrazione del CPR, vengono messi psicofarmaci nei pasti, lasciando le persone confuse e stordite. Da dentro ci raccontano che da oltre tre mesi non viene distribuito nulla di fresco.
Come spesso accade nei luoghi di tortura, nonostante l’arrivo del freddo, il riscaldamento non funziona e le persone sono costrette sotto le coperte anche durante il giorno. In una delle aree i bagni sono praticamente interdetti e, nonostante le continue richieste d’intervento, la situazione non sembra cambierà a breve.

Anche le deportazioni continuano. Infatti, la sera di venerdì 24 ottobre, 10 persone sono state prelevate con un bus dal CPR e sono state deportate, probabilmente proprio in Albania. Al contempo, se 10 persone sono uscite, 20 sono state portate dentro al CPR di Torino proprio la mattina dopo. Di nuovo, la notte tra il 29 ed il 30 ottobre, altre 10 persone sono state portate in Albania.

LA SUPERIORITÀ “RAZZIALE” EBRAICO-ISRAELIANA E LA PERSECUZIONE DEI PALESTINESI IN CISGIORDANIA DURANTE LA GUERRA DI GENOCIDIO E LA PULIZIA ETNICA

Riceviamo e diffondiamo:

Riportiamo, con un po’ di ritardo dovuti ai tempi di traduzione, una breve testimonianza e descrizione di quello che sta/stava succedendo in Cisgiordania, all’ 8 ottobre 2025 (ad oggi la situazione potrebbe essere peggiorata e i numeri presenti nel testo potrebbero risultare inesatti). Questo contributo è l’esperienza diretta di un palestinese che vive quei territori e l’occupazione sionista sulla sua pelle da tutta la vita, vedendone l’evoluzione e i cambiamenti. Se a Gaza la mira delle potenze sioniste è di eliminare Gaza, la sua popolazione e la sua memoria, poco più a nord in Cisgiordania l’occupazione israeliana avanza inesorabile, con la presa di sempre più terre da parte dei coloni israeliani e con la riduzione sempre maggiore degli spazi di agibilità e mobilità palestinesi. Non sentiamo la necessità di aggiungere un commento al testo, se non ribadire la nostra totale solidarietà al popolo palestinese che lotta per la sua liberazione e l’intento di dare spazio alle voci palestinesi che arrivano direttamente da quei territori e che molto spesso non giungono fino a noi.
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Testo in PDF

La superiorità “razziale” ebraico-israeliana e la persecuzione dei palestinesi in Cisgiordania durante la guerra di genocidio e la pulizia etnica

Dalle colline di Ramallah, la sera potevamo vedere le luci di Yafa, se il tempo era sereno potevamo vedere il mare. Abbiamo sempre detto che un giorno saremmo riusciti a raggiungere il mare. Ma ad oggi, dopo due anni di guerra genocida, non possiamo più stare sulle colline.
I Coloni e i gruppi estremisti come i “giovani delle colline” e “la terra promessa”, a volte indossando magliette con la scritta “la mia terra è ovunque posso occupare”, impediscono a chiunque di raggiungere le colline, usando le armi che gli sono state distribuite dal Ministro della Sicurezza Nazionale, Ben-Gvir. La possibilità di vedere il mare ci è stata negata.
Negli ultimi due anni, Ben-Gvir ha distribuito 40 mila armi ai coloni che vivono sulle colline della Cisgiordania. Ha distribuito centinaia di veicoli a quattro ruote motrici per facilitare il loro accesso ai terreni montuosi, che sono stati confiscati dello Stato sionista, e ha finanziato l’installazione di pannelli solari per ogni loro nuovo insediamento.
I coloni occupano la terra, le fonti d’acqua e i pozzi artesiani. Hanno rubato il bestiame e i trattori agricoli delle comunità beduine, distruggendo le loro case, espellendoli dalle loro terre e fondando insediamenti al loro posto.

I villaggi palestinesi sono stati attaccati da coloni sotto la protezione dell’esercito dell’occupazione israeliano. Case, auto e campi sono stati bruciati e alberi sono stati sradicati, come è successo a Turmus Ayya, al-Mughayyir, Khirbo Abu Falah, Huwara e Qaryut e a Kafar Malik, a 15 km da Ramallah, dove si trova il pozzo principale che fornisce il 40% dell’acqua necessaria alla città di Ramallah e al-Bireh. Lì, i coloni hanno sequestrato la fonte d’acqua e l’hanno trasformata in una piscina e in un luogo dove lavare il loro bestiame. Questi avvenimenti sono stati ripetuti in altri villaggi e province, in contemporanea alla pulizia etnica e alle scene di genocidio e uccisioni trasmesse in diretta al mondo intero.
Il campo profughi1 di Jenin, nella Cisgiordania settentrionale, sta venendo silenziosamente sgomberato: oltre 100 famiglie hanno perso le loro case; le infrastrutture fognarie, elettriche e idriche sono state distrutte così che tante persone hanno perso i loro mezzi di sussistenza di base. La situazione non è diversa nei campi profughi di Nur Shams e di Tulkarem, nella provincia di Tulkarem. I campi profughi sono stati divisi, le strade sono state distrutte e, nel nord, stiamo assistendo a un’ondata di sfollamenti dai tre campi verso i centri delle due città.

Con il sostegno legale e politico del governo dell’occupazione sionista, le norme che regolano l’uso di armi da fuoco sono state modificate e ulteriore protezione è garantita ai coloni che commettono omicidi contro i palestinesi. Ciò consente l’uso letale di proiettili (n.d.t. ossia non più di gomma) contro i palestinesi, anche senza “giustificazione”. Ciò fornisce un chiaro riflesso nella profondità del disprezzo dello Stato Occupante per le vite dei palestinesi e costituisce un elemento fondamentale della struttura che consente a Israele di continuare a esercitare il suo controllo violento su milioni di palestinesi.

Oltre 14 milioni di persone vivono nelle terre tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, circa la metà delle quali sono israeliane e l’altra metà palestinesi. La percezione prevalente – nella sfera pubblica e giudiziaria, politica, mediatica e dei giornali – è che queste terre siano divise dalla Linea Verde: la prima metà si trova all’interno dei confini sovrani di Israele, è democratica e stabile e ospita circa nove milioni di persone “tutti cittadini israeliani”; la seconda metà si trova nei territori occupati da Israele nel 1967, il cui status definitivo dovrebbe essere determinato in futuri negoziati tra le due parti.

Circa cinque milioni di palestinesi vivono in queste aree sotto occupazione militare temporanea. Tuttavia, questa definizione è diventata sempre più irrilevante nel corso degli anni. Ignora il fatto che questa situazione persiste da oltre settant’anni, ossia praticamente dalla fondazione dello Stato di Israele, ma non tiene conto delle centinaia di migliaia di coloni ebrei residenti in Cisgiordania, il cui numero è aumentato drasticamente in questi due anni trascorsi dall’inizio della guerra di sterminio. Ma, cosa ancora più importante, questa distinzione ignora la realtà di un unico principio del governo applicato in tutto il territorio che si estende tra il fiume Giordano e il Mediterraneo: il rafforzamento e la perpetuazione della supremazia di un gruppo di persone – gli ebrei israeliani – su un altro – i palestinesi. Tutto ciò porta alla conclusione che non si tratta di due sistemi paralleli che operano casualmente secondo lo stesso principio, ma un sistema unico che governa l’intero territorio, controllando tutte le persone che vi risiedono e operando secondo il principio del governo israiliano.

Dall’inizio di questa guerra sono state registrate 1.048 uccisioni in Cisgiordania, di cui 260 bambini.
Il sionismo non si è accontentato di questo. Il controllo coloniale basato sull’isolamento e la sottomissione, ha trasformato il territorio palestinese in un arcipelago di isole separate, come se fossero “cantoni” chiusi, separati da cancelli di ferro, soggetti all’autorità assoluta dell’occupante. Migliaia di palestinesi sono stati e sono costretti ogni giorno a percorrere strade alternative, spesso sterrate, casuali e rischiose che a volte non esistono neanche. Queste chiusure delle strade ostacolano l’attività economica e l’accesso ai servizi sanitari e educativi, aumentano l’isolamento delle aree rurali e trasformano il semplice spostamento in un viaggio di sofferenza sistematica.
Alla luce di questa realtà, le porte di ferro installate dallo stato Israeliano lungo le strade palestinesi, sono un chiaro simbolo di punizione collettiva e parte di una politica più ampia, il cui obiettivo è: frammentare il tessuto sociale palestinese, spezzarne l’autodeterminazione e radicare la realtà dell’apartheid sul territorio.

Secondo un rapporto pubblicato dalla Commissione per la Resistenza contro il muro dell’apartheid, nel settembre 2025, il numero totale di posti di blocco militari e cancelli di ferro installati dall’esercito di occupazione in Cisgiordania ha raggiunto quota 910, di cui installati 83 dall’inizio del 2025. Mentre 247 cancelli di ferro sono stati installati dopo il 7 ottobre 2023.
D’altra parte, in un rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari nei Territori Palestinesi Occupati del 20 marzo 2025, intitolato “Ultimo Aggiornamento Umanitario n. 274” | riguardo alla Cisgiordania dichiara: “Attualmente, ci sono 849 ostacoli che controllano, limitano e monitorano il movimento dei palestinesi in modo permanente e intermittente in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est e l’area di Al Khalil (Hebron) controllata da Israele”.
Un’indagine rapida condotta dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari a gennaio e febbraio 2025 ha rilevato che nei tre mesi precedenti erano sono stati messi 36 nuovi ostacoli al movimento, la maggior parte dei quali installati in seguito all’annuncio di un cessate il fuoco a Gaza a metà gennaio 2025, ostacolando ulteriormente l’accesso dei palestinesi ai servizi essenziali e ai luoghi di lavoro. Sono state documentate ulteriori chiusure, che si ritiene siano state messe nel 2024.

Vale la pena notare che fino ad oggi sono stati installati in totale 29 nuovi varchi stradali in tutta la Cisgiordania. Sono stati costruiti sia nuovi varchi di chiusura a sé stanti che varchi aggiuntivi nei posti di blocco già esistenti, portando il numero totale di varchi stradali aperti o chiusi in Cisgiordania a 288, costituendo un terzo degli ostacoli al movimento. Di questi, circa il 60% (172 su 288) viene chiuso frequentemente.
Oltre all’aumento del numero di ostacoli installati, l’aumento del controllo sulla circolazione ha portato interruzioni della circolazione per lunghi periodi, chiusure delle strade principali che collegano i centri abitati in Cisgiordania e un aumento del numero di varchi chiusi frequentemente. In totale, gli ostacoli includono 94 checkpoint con militari 24 ore su 24, 7 giorni su 7; 153 posti di blocco (con militari non sempre presenti) di cui 45 sono spesso chiusi, 205 cancelli stradali di cui 127 spesso chiusi, 101 posti di blocco costruiti con muri di terra e fossati, 180 fatti con cumuli di sacchi terra e 116 ostacoli di altro tipo posti lungo la strada2. Questi dati non includono i check-point lungo la Linea Verde e altre modalità di restrizione, come la chiusura del campo profughi di Jenin agli abitanti che vi facevano ritorno dopo lavoro e le segnalazioni di alcune aree come zone militari chiuse – che non sono sempre caratterizzate da barriere fisiche.

Settantasette prigionieri palestinesi sono martiri a causa delle torture nelle carceri israeliane in Cisgiordania, mentre sono stati registrati circa 20.000 arresti dall’inizio della guerra di sterminio due anni fa. I prigionieri sono stati privati del sonno e torturati nelle loro celle. Sono state negate loro le visite. I pasti sono stati limitati a un singolo pasto al giorno a malapena sufficiente per sopravvivere. Sono stati privati delle loro coperte e dei loro vestiti in inverno. Malattie della pelle si sono diffuse tra i prigionieri a causa del divieto di lavarsi e di pulire la loro cella. È stato inoltre negato loro qualsiasi tipo di assistenza medica durante la prigionia.

Lo Stato sionista però non si è fermato a queste vessazioni. Considerando che la maggior parte dei terreni agricoli si trova nell’Area C, ai palestinesi è stato vietato raccogliere i frutti dei loro alberi e qualsiasi tipo di prodotto delle loro terre. È stato negato l’accesso all’acqua.
I campi coltivati sono stati bruciati e, in alcuni casi, i coloni hanno liberato le loro pecore e mucche per distruggere i raccolti. Le serre che un tempo si estendevano nelle pianure di Tubas, Salfit e nella valle settentrionale del Giordano sono state demolite. Gli agricoltori sono stati fucilati, arrestati e maltrattati.

E nonostante ciò Israele non si è accontentato, difatti ha anche impedito alla cassa del Tesoro dell’Autorità Nazionale Palestinese di pagare i dipendenti pubblici, che non ricevono i loro stipendi da almeno nove mesi.

Alla luce di tutto ciò, i palestinesi non hanno smesso di riunirsi in gran numero per andare nei loro campi per proteggersi a vicenda. I giovani dei villaggi vicini spesso partecipano alla difesa del villaggio preso di mira dai coloni dopo aver sentito la chiamata dagli altoparlanti della moschea. I palestinesi si spostano tra villaggi, campi e città in gruppi per proteggersi a vicenda dagli attacchi dei coloni. Hanno inventato vari meccanismi di comunicazione, inclusi i gruppi Telegram che fornivano notizie di strada in tempo reale. La partecipazione ai gruppi Telegram è diventata, tuttavia, motivo di percosse e accuse se viene scoperto dell’esercito.

Tutta la comunità si mobilita per trovare cibo, alloggio e vestiti. Nessuno proveniente dai campi demoliti nella Cisgiordania settentrionale rimane senza un pezzo di pane o senza un riparo. Nonostante le ripetute incursioni dell’esercito, i palestinesi non hanno smesso di mandare i figli a scuola ogni giorno, né hanno impedito loro di svolgere le loro attività quotidiane. Un esempio: il villaggio beduino di Al-Araqib è stato demolito 200 volte e 200 volte ricostruito. Dei palestinesi rapiti dall’esercito che vengono rilasciati lontano dai loro villaggi per essere torturati, nessuno si trova a dormire senza un riparo, per il senso di comunità e solidarietà tra la gente palestinese.

I giovani nei villaggi, nelle città e nei campi profughi non hanno altro che pietre per affrontare la repressione dell’occupazione in Cisgiordania, che viene perpetrata con una forza letale. Nessun scontro con l’occupazione avviene senza caduti e feriti. Il nostro obiettivo ora è rimanere nella nostra terra, nonostante la corruzione politica delle autorità al potere in Cisgiordania, che a volte partecipa alla repressione delle proteste, perchè nonostante il loro controllo sulle risorse governative, la loro preoccupazione principale è diventata la salvaguardia dei loro interessi materiali, che sono legati all’esistenza dell’occupazione sionista stessa.


1 Quando si parla di campi profughi, non bisogna immaginarsi una distesa di tende, ma agglomerati di case e palazzine, strade e vicoli – dei veri e propri villaggi che vengono comunque nominati come campi profughi perché creati e costruiti laddove si stabilirono i palestinesi dislocati dalle loro case a cui gli è stato impedito di ritornare durante e dopo la Nakba.

2N.d.T: I dispositivi che regolano la libertà di movimento dei/delle palestinesi in Cisgiordania hanno varie forme. Quando si parla di ostacoli, oltre ad immaginarsi veri e propri checkpoint, bisogna immaginarsi anche sacchi di terra, barriere in cemento, dossi (anche chiodati) posti lungo le strade percorribili con i mezzi, che inevitabilmente rallentano o impediscono gli spostamenti. Per chiusura totale o parziale, inoltre si intende, che è impossibile attraversare il posto di blocco e che a destinazione non si arriva.

TI CONOSCO, MASCHERINA! UNA TRAMA AVVINCENTE CON CRACKERS, MACCHINE IN FIAMME E UNA STRUGGENTE STORIA D’AMORE

foto del materiale trattenuto fatta pervenire ai media

Diffondiamo

Cosa è accaduto

Sabato 4 ottobre 2025, un’imponente operazione di controllo e “filtraggio” dei manifestanti è stata messa in piedi in occasione della manifestazione nazionale prevista il giorno stesso. Al casello di Roma Nord macchine e autobus incolonnati in monocorsia venivano smistati verso varie piazzole per poi essere perquisiti. Diciamo subito che il bottino è stato esiguo. Se certa carta stampata ha potuto parlare di «mazze», è sicuramente per licenza poetica e non per malafede. O forse nella telefonata con gli agenti si è persa una sillaba: si trattava di ramazze, insomma, manici di scopa (perlopiù in plastica). In mezzo c’era addirittura una canna da pesca, uno strumento crudele, siamo d’accordo, ma solo per chi respira con le branchie. In questa serie di oggetti (che altro non erano se non aste casarecce), spicca la requisizione avvenuta ai danni di alcunx nostrx compagnx provenienti da Perugia. Nel loro veicolo sono stati rinvenuti alcuni kit di pronto soccorso assemblati per l’occasione: erano infatti direttx al presidio di street medic (primo soccorso autorganizzato di piazza).

Come si può notare dalla foto gentilmente concessa ai giornali, il materiale sospetto consta di:

sacchetto di avanzi della colazione con 1 (uno) mandarino; rotoli di benda elastica; ghiaccio istantaneo; occhiali protettivi; giacca antipioggia con bande riflettenti; valigetta pronto soccorso; filtrante facciale; coperte termiche; assorbenti; mascherine industriali; disinfettante; crackers; compresse di garza; guanti monouso; disinfettante spray.

Tra il materiale trattenuto figurano anche un paio di pantaloni ad alta visibilità con nastro riflettente.

A seguito del ritrovamento, allx compagnx è stato intimato di recarsi in caserma insieme ad altri due autobus, scortatx da 4 veicoli di polizia per non meglio precisati “accertamenti”. Sappiamo che alle persone sui pullman era stato detto che sarebbero state condotte al concentramento: solo dopo aver accostato perché ormai chiaro che il tragitto portava da tutt’altra parte, sono state informate del fatto che anche loro, più di cento persone, erano dirette in caserma. A questo punto, lx compagnx degli autobus, forti del loro numero, sono smontatx e hanno ottenuto di svincolarsi dall’assurdità di un fermo ottenuto con l’inganno. Hanno inoltre intavolato una trattativa per far sì che anche allx compagnx di Perugia fossero restituiti i documenti, e di fronte al rifiuto opposto dalla polizia hanno deciso di seguirlx e presidiare la caserma dove erano statx condottx. Qui, dopo varie lungaggini, lx cinque sono statx rilasciatx previo fotosegnalamento e requisizione del materiale di primo soccorso in quanto «potenzialmente pericoloso» e «incompatibile con una manifestazione pacifica». Il loro fermo, tra ripetute perquisizioni, intimidazioni da parte dei più alti in grado ma anche tanto tanto divertimento, è durato in tutto poco meno di 6 ore.

Per fortuna il corteo era in ritardo.

Le nostre armi sono “non letali”, ciò che da loro vi protegge è “pericoloso”

Nel patetico teatrino del sequestro di cerotti e crackers, polizia e media si sono prodigati nel mettere in risalto le temibili mascherine.

E quindi parliamone, anche se sembra assurdo.

Le mascherine sono un presidio di parziale tutela dagli effetti del gas lacrimogeno. Difficilmente si può immaginare in quale modo possano essere «atte a offendere», salvo impiegarle nella stessa frase: nel qual caso l’offesa c’è, ed è al buonsenso.

Le armi antisommossa hanno il fine di disgregare e seminare caos in un gruppo coeso di persone, contribuendo così alla sua dispersione. In generale, si tratta di strumenti indiscriminati e imprecisi, in quanto loro obiettivo è la massa. Sono a torto dette “non letali”, e sarebbe più corretto definirle come “a bassa letalità”, dato che possono uccidere e non di rado lo fanno. Senza contare che la loro pericolosità aumenta se, come spesso accade, vengono utilizzate in maniera impropria.

Il gas lacrimogeno, di cui si fa largo uso nelle piazze, è arma dagli effetti non circoscrivibili, in quanto colpisce tuttx lx astanti (non è raro che ne facciano le spese gli stessi agenti). In Italia si usa tra gli altri il CS, messo al bando in contesto bellico, ma curiosamente impiegato contro la propria popolazione civile. Il gas causa irritazione oculare, cutanea, stress respiratorio, e in alte concentrazioni o in caso di esposizione prolungata, o ancora se colpisce soggetti con pregresse difficoltà respiratorie, può risultare letale. Pochi giorni fa, a Bologna, l’abitudine a sparare i candelotti “ad alzo zero”, con il fine deliberato di procurare danni da impatto, ha causato il grave ferimento di una ragazza che ha reso necessario un intervento chirurgico per scongiurare la perdita dell’occhio.

Ci sembra superfluo dire che per un intervento di primo soccorso in piazza, e potenziale esposizione prolungata ai gas, i dispositivi di protezione sono imprescindibili.

Manifestanti cattivi e dove trovarli

Il 4 ottobre 2025, dopo due anni di uno sterminio annunciato, è sceso in piazza più di un milione di persone. Sicuramente un grande risultato per chi da due anni (e più) lotta per rompere il silenzio che si è tentato di imporre sull’annientamento della popolazione palestinese. Ma anche un pessimo segno, per una specie che ha la pretesa di definirsi “superiore”. Ci sono voluti due anni di impegno per ricostruire quel basilare senso di dignità che di fronte a un genocidio facesse scendere la gente in strada, il che, diciamocelo, è un po’ il minimo sindacale. Avremmo dovuto bloccare tutto due anni fa, anzi avremmo dovuto bloccare tutto molto prima, ad ogni annuncio dell’apertura di una fabbrica di armi. Ad ogni speculazione di borsa a seguito di una strage. Ad ogni centesimo investito in un sistema di sfruttamento coloniale. Senonché chi sosteneva tali idee e ancor più chi le metteva in pratica veniva tacciatx di “estremismo” e “violenza”, un modo facile per evitare qualsiasi discussione.

Quelle di “estremista” e “violento” sono categorie elastiche: chi oggi presta orecchio al coro dell’unanime condanna dei “violenti” dovrebbe riflettere su quanto sia facile finire nel mazzo dei cattivi. “Violenti” erano lx nostrx compagnx con il kit del primo soccorso. “Violento” era il signore sull’autobus con la canna da pesca a reggere una bandiera. “Violento” era chi ha dato alle fiamme un’auto della polizia, e così via.

Intanto il nostro paese arma chi alle fiamme ci dà le persone. Foraggia i militari e li dota degli ultimi ritrovati in materia di uccisione. Per fare questo taglia salute, istruzione, pensioni, stipendi, saccheggia i territori, alimenta le diseguaglianze e soffia sul fuoco della xenofobia per offrire dei comodi capri espiatori quando il malessere minaccia di esplodere.Ogni accenno di dissenso, per quanto piccolo, è represso con crescente brutalità.Tutto questo non è forse violenza?

Qual è dunque il grado di conflittualità accettabile di fronte a un genocidio e all’industria che vi ruota intorno? Davvero il problema è una mascherina, una canna da pesca, una macchina bruciata?

Chi aveva con sé materiale medico, chi una canna da pesca, chi ha incendiato un’auto, tuttx avevano degli obiettivi, che, sembrerà strano, non erano lo scontro fine a se stesso con le Forze dell’Ordine. Queste ultime, come dice il nome, difendono l’Ordine, lo status quo, qualunque esso sia. Se l’ordine delle cose prevede di collaborare al genocidio, esse verranno impiegate a sua tutela. Presi singolarmente molti agenti potrebbero addirittura non essere d’accordo, ma molto probabilmente non si tireranno indietro, perché – quante volte glielo abbiamo sentito ripetere? –  stanno solo facendo il loro lavoro o, in alternativa, stanno solo eseguendo ordini. Obiettivo della protesta in genere non è l’auto della polizia, ma sicuramente l’auto della polizia si verrà a trovare tra i manifestanti e l’obiettivo della protesta.

Abbiamo ancora lacrime da versare per la macchina?

Perché?

Perché tanto accanimento sulla street medic? A livello operativo, degli agenti sul campo, il mandato era sicuramente ottenere qualcosa, qualsiasi cosa, da dare in pasto ai media per demonizzare la piazza. Non ci fosse stato il materiale medico sarebbe toccato alle aste, e in subordine agli spazzolini da denti, o alle bolle di sapone, non importa.

È però possibile rilevare un’ulteriore motivazione, più o meno conscia, lungo la catena di comando: il materiale della street medic infastidisce perché rappresenta un germe di solidarietà tra le due parti contrapposte nella trita retorica buoni/cattivi che da troppo tempo intossica i movimenti.

Forse il timore è che parte del corteo cosiddetto “pacifico” possa supportare attivamente chi adotta altre modalità d’azione, e resistere all’apparato repressivo dispiegato, minando alla base la frammentazione ottenuta grazie alla velenosa dicotomia violenti/nonviolenti. Nel mondo non mancano esempi, anche recenti, in cui proteste nutrite e variamente conflittuali hanno ottenuto dei risultati, pensiamo a Nepal, Indonesia, Francia.

L’idea stessa alla base del primo soccorso in piazza è la prova dell’esistenza di una sfumatura, di una complicità, di qualcosa che va oltre la divisione in buoni e cattivi. Del fatto che comunque vada, in strada si rimane finché si riesce. E se si va via, lo si fa come si è arrivatx: insieme.

E se questo vuol dire essere violentx, e dellx cattivx manifestanti, allora sì, siamo tuttx violentx, siamo tuttx cattivx manifestanti.

Un momento, e la struggente storia d’amore che ci avevate promesso?

Non c’è, vi abbiamo fregato. Oppure non l’avete vista, non ve lo diremo mai.

CATANIA: ULTIMO ULULATO – ASSEMBLEA CITTADINA CONTRO LO SGOMBERO DELLA L.U.P.O.

Mercoledì 22 Ottobre h.19.00

Diffondiamo:

Ecco ci risiamo, lo sgombero della L.U.P.O. è alle porte, un’altra volta, ma questa volta sembra che, il progetto di trasformare Piazza Pietro Lupo in parcheggio,sia passato in esecutivo il 2 ottobre.
Passeranno all’azione i paladini della “riqualificazione urbana”, capeggiati dal sindaco fascista e sessista e dal suo assessore all’urbanistica.
Quasi 4 milioni di euro definitivamente stanziati per radere al suolo la palestra lupo e costruire il famoso parcheggio di cui Catania avrebbe così tanto bisogno.

In un articolo di qualche giorno fa non c’era scrupolo nel definire la L.u.p.o. come un posto di aggregazione e socialità e non c’è stato scrupolo neanche nel parlare dello sgombero e della successiva demolizione.
Siamo dunque giuntx al momento dello scontro finale. Il comune di Catania si immagina pronto a sgominare il degrado inferendogli una ferita mortale. Grazie ad i fondi PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) per i PUI (Piani Urbani Integrati), possono ripristinare l’agognato grigio decoro; cacciando via lx migrantx da San Berillo e demolendo i suoi edifici storici per trasformare le sue strette stradine in larghe vie a misura di turistx. Non secondario lo sgombero e la demolizione della L.U.P.O., rea di ospitare ogni settimana centinaia di ragazzx ad eventi socioculturali totalmente autogestiti e senza alcun scopo di lucro.

Non è una novità che lx giovani alla pari dellx migrantx e dellx marginalizzatx siano consideratx coloro che degradano.
Sono queste le priorità della città? No, ovviamente. Queste sono le priorità per i pochi speculatori che ne potranno beneficiare. D’altronde il comune di Catania ha un debito di circa 100 milioni con la Banca Sistema e stenta a portare avanti i minimi incomprimibili di bilancio: rifiuti, servizi sociali e manutenzione essenziale. Quindi l’erogazione di fondi europei sembra rimasto l’unico modo per drenare denaro pubblico e accontentare le imprese dei soliti noti bacini di consenso, che importa se l’ex abitanti non avranno alcun giovamento?
Così Catania è destinata a rimanere la città con meno verde d’Italia, rimarrano i suoi problemi infrastrutturali, rimarrano insufficienti gli ospedali, le scuole continueranno a non formare una delle popolazioni con più ostacoli all’alfabetizzazione d’Europa, la viabilità continuerà ad essere un problema, Librino rimarrà un quartiere dormitorio.

Catania continuerà ad essere una città con poca vista sulla costa e ancor meno accessi al mare, una città in cui le piazze crollano e i quartieri sono sommersi di rifiuti, ma la si vuole fare diventare la “Capitale della Cultura” 2028. Capitale della cultura del profitto derivante dal overtourism, della cultura dello sradicamento, della cultura del Trumpismo di guerra, della sopraffazione della povertà e della riverenza ai ricchi. Capitale dell’indifferenza e del cinismo, d’altronde come può importare delle persone che ci vivono, se gli affari non si fermano nemmeno di fronte ad un genocidio?

La L.U.P.O. è un piccolissimo tassello per i “Signori” della città, ma un grande esempio di cultura critica, di relazioni anticapitaliste, antirazziste e antisessiste per tuttx coloro che la hanno attraversata e si sono ritrovatx a comprendere in prima persona cosa significa autorganizzarsi senza gerarchie. Sono 10 anni che la L.U.P.O. promuove laboratori, workshop, esposizioni, iniziative politiche e solidali, attività sportive e tanta musica, organizzati da collettivi e individualità cittadine a costo zero. Questo è veramente troppo per una politica esclusivamente orientata al profitto che impernia le sue attività culturali e musicali appaltandole esclusivamente all’industria dell’intrattenimento, che recinta le proprie relazioni intorno al consumo patinato nei tavolini dei dehors mentre non ammette alcuna possibilità di espressione per lx proprx abitanti.

A tuttx coloro che hanno partecipato a qualsiasi titolo e in qualsiasi maniera e che qui conservano ricordi preziosi, a tuttx coloro che non hanno avuto la possibilità di attraversare questi spazi, a chiunque arde dalla voglia di sovvertire l’esistente: è adesso il momento di agire, è adesso il momento in cui necessitiamo realmente delle energie di tuttx.
Prima che sia troppo tardi e la memoria di questo posto svanisca insieme alle speranze di un futuro migliore. Prima di non aver lottato abbastanza per quello che ci spetta: la possibilità di autodeterminare i nostri desideri, raggiungerli, e di prendere in mano il nostro destino.

DALLA LUPO LIBERATA ALLA PALESTINA OCCUPATA,
NON SI PUÒ DEMOLIRE UN’IDEA.