BOLOGNA: PARCO DON BOSCO. BOLLETTINO E BILANCIO AL 7 MAGGIO 2025

Riceviamo e diffondiamo:

PARCO DON BOSCO: MR. SBATTI LEGALI NON FA PASSI DI LATO. BOLLETTINO E BILANCIO AL 7 MAGGIO 2025

03 aprile 2024.
Bologna, Parco Don Bosco. Mattina presto. Facce assonnate e tè caldo. Si parlotta e si scherza, tensione nell’aria, unx giovane ghirx sbadiglia su un pioppo. Arrivano le camionette, quante ce n’erano? La digos inizia già a filmare. Qualcunx ci parla, chi davvero, chi per scherzo… presto avrebbero invaso i confini del parco che proteggevamo. Le ore passano rapide scandite da grida: “Attenti! Sono entrati di là!”, “Facce schifose”, “Mi fai male!”, “Daje regaaa”. In quel prato verde le creature volevano ancora giocare a tiro alla fune, allo sparviero, all’arrampicata, a guardie e ladri. Vinsero lx ladrx mentre gridavano: “Fuori! Gli sbirri! Dal Don Bosco!”.

03 aprile 2025. La natura del Parco Don Bosco fiorisce per un’altra primavera ancora, ma un’ombra grigia si aggira tra condomini e cantieri, turbando il risveglio delle creature dopo il riposo invernale. Anche le indagini per i fatti relativi al 20 giugno sono state concluse, e la figura del Signor Sbatti Legali di cui abbiamo parlato qualche mese fa ha preso la sua forma definitiva, mostrandosi in tutta la sua arroganza: un decreto penale di condanna per il 29 gennaio, una condanna in primo grado a seguito del vergognoso pestaggio ad unx di noi da parte dei carabinieri la notte seguente al 3 aprile, due fogli di via da Bologna, tre daspo dagli eventi sportivi applicati “fuori contesto” con obbligo di firma in questura, 23 persone denunciate per le giornate di lotta del 3 aprile e del 20 giugno. Vengono contestati i reati di oltraggio, resistenza e aggressione a pubblico ufficiale, omesso preavviso di manifestazione pubblica, travisamento, rifiuto di identificarsi, lancio di oggetti, interruzione di pubblico servizio. Il tutto aggravato dal concorso con altre creature, perché non eravamo mica pochx, ma uno sciame a difesa degli alberi.

Eccoci, dunque, ancora qui. Nell’attesa che Mr. Sbatti Legali convochi tra qualche mese lx imputatx all’udienza preliminare, continuiamo a tracciare sul cemento di questa città una linea, la traccia di una storia che, seppure irregolare, tutt’oggi si scrive.
I ricordi di notti stellate tra i rami rimangono vividi, le cicatrici nei corpi e nei cuori bruciano ancora. È tempo che le creature si siedano attorno al fuoco per trarre un bilancio di quello che è stato il presidio a difesa del Parco Don Bosco.

Giocare è una cosa tremendamente seria, come la lotta; lo sapevamo allora e lo sappiamo ancora meglio adesso.

Per cosa ci battevamo il 20 Giugno? Per il parco? Certo. Per gli alberi? Ovviamente. Contro il tram? Forse. Il passaggio dal “No al progetto per le nuove scuole Besta” all’opposizione ai lavori per la tranvia non era scontato. Basti pensare a metà marzo 2024, quando la comunità del parco assistette inerme e confusa al primo taglio di alberi armato sul terrapieno di Via Serena, propedeutico al cantiere della linea rossa. Non c’è mai stata nei sei mesi del presidio permanente una riflessione condivisa sulla contestazione al progetto del tram, ma i tre mesi che hanno separato marzo e giugno sono stati sufficienti per rendersi conto che la favola di un trasporto pubblico più green non vale il taglio di un albero, né al Don Bosco né altrove. Ci pare che questo sia un aspetto positivo, che racconta di come una comunità in lotta si trasformi e maturi man mano che gli eventi procedono, e con essi cresca e prenda consapevolezza di sé e dei valori per cui battersi.

Se non ci fosse stata la resistenza del Comitato Besta, delle creature del parco, dei collettivi cittadini e di tutte quelle persone e figure leggendarie che animavano il presidio, non avremmo visto nessun passo di lato da parte del sindaco, nessuna ritirata da parte delle guardie il 3 aprile, ma solo una grossa colata di cemento sul parco. Chi oggi si trova imputatx, verrà giudicatx per azioni compiute per ragioni che hanno già vinto sul piano politico pubblico, dal momento in cui l’amministrazione ha compiuto il suo “passo di lato” bloccando un progetto di scuola ingiustificabile e insostenibile nonostante le sue stesse bugie. Invece i cantieri della tranvia proseguono, collassando la viabilità urbana e portando a un aumento di più del 50% il costo dei biglietti per il trasporto “pubblico”. Peccato che quella pista ciclabile green che avrebbe dovuto affiancare i binari di Via Aldo Moro, costata la vita ad alberi sani e adulti e qualche osso rotto ad indomite creature, non sia mai stata realizzata. Al suo posto… lo stesso marciapiede rinnovato e lo stesso terrapieno, su cui svettano oggi giovani alberi appena piantumati che impiegheranno decenni a ripristinare il ruolo ecosistemico che avevano i loro predecessori. Anche la logica ingannevole delle compensazioni si mostra nella sua ridicola limitatezza.

Il presidio al Don Bosco ha messo in seria crisi la governance cittadina. Non ha raggiunto potenzialità destituenti, ma in prospettiva ne ha avute: il moltiplicarsi dei comitati cittadini, la solidarietà proveniente da tutta Italia, gli strani e inattesi legami di complicità che si stringevano al parco. Tutto ciò ha aperto lo spiraglio di una contestazione non solo al progetto delle Nuove Scuole Besta, ma alle modalità della trasformazione urbanistica tout court. Ma anche oltre il piano locale, gli esempi di lotte territoriali sono innumerevoli e costellano tutto lo spazio nazionale. Dalla Val Susa allo Stretto di Messina, da Gallarate a Vicenza, che sia per la difesa del verde urbano o contro opere infrastrutturali e strategiche, dovunque si odono i sussurri o le grida di chi pretende e pratica modi diversi di abitare i territori. Sta a noi mettere in relazione queste esperienze e queste voci per inceppare il meccanismo di questa macchina in avaria.

La violenza subita al parco e la repressione che ne è seguita vanno comprese alla luce di questi ultimi aspetti, ma storicamente non rappresentano una novità o una variabile. Il tentativo è stato quello di disinnescare “l’effetto Besta”, scongiurare nuove “commistioni pericolose” e spezzare i legami di solidarietà attraverso il solito braccio forzuto di uno Stato sempre più armato, levatosi a difesa e con la complicità di un’inquietante amministrazione di sinistra, il cui consenso è sempre più fragile. Una debolezza di senso svelata nelle scioccanti scene in cui le forze dell’ordine si aggrappano alle gambe nude di persone arrampicate sugli alberi. Ecco la stupidità ingiustificabile di chi è cieco e sordo, in contrapposizione agli sguardi spaventati e i sussurri di incoraggiamento provenienti dallx bambinx delle scuole Besta, che ci guardavano incredulx attraverso il cortile.

A riprova di quanto fosse pericolosa la commistione che si era creata al parco (citazione letterale del preoccupato Questore), la mano della legge ha estratto dalle varie aree che formavano l’eterogenea composizione del presidio: tra le persone denunciate troviamo studentx delle superiori, dei vari collettivi politici, quasi tuttx giovanissimx e non riconducibili al volto pubblico del comitato. Un paio di persone per area sono state isolate, e poi colpite. Nonostante queste tattiche divisive, stiamo assistendo all’effetto opposto all’isolamento: la solidarietà come arma trasversale, orizzontale e universale.

Siamo consapevoli che i mesi trascorsi dalla fine del presidio abbiano lasciato in moltx un vuoto difficile da colmare. Ma crediamo anche che tante delle energie che avevano trovato nel parco un luogo in cui confluire scorrano ancora per le vie di Bologna: le occupazioni studentesche, le rivolte per Ramy, le manifestazioni contro il genocidio palestinese e tutte le guerre colonialiste, i movimenti contro la precarietà abitativa e salariale, le piazze contro la violenza di genere e il patriarcato o le politiche securitarie, sono i segni di un quadro che si stravolge. Forse quel vuoto non chiede di essere riempito con le risposte corrette, ma con le giuste domande.

L’esito del processo giudiziario dipenderà anche da quella variegata comunità e dalla sua capacità di ribaltare nuovamente i rapporti di forza e restare unita. Una lunga attesa ci si para davanti: anni di una lentezza giudiziaria inconciliabile con l’incalzare frenetico del sistema capitalista. Di questo ritmo rallentato vogliamo fare tesoro, calandoci nei ricordi e passandoli alla memoria collettiva, affinché possano ispirare futuri orizzonti di lotta.

Creature contro la repressione
7 maggio 2025

DENY, DEFEND, DON BOSCO!

Puoi continuare a sostenerci nelle spese legali con un bonifico da inviare a:

IBAN: IT75 G050 1802 4000 0002 0000 431
Intestatario: Rete Ecologista Solidale Emilia Romagna
Causale: “Sostegno spese legali vertenza ecologista
parco Don Bosco”


Pdf per stampa e diffusione:
Parco Don Bosco_bollettino_7_maggio

TORINO: AGGIORNAMENTI DA UN CPR IN COSTANTE RICOSTRUZIONE

Diffondiamo

A Torino, in seguito all’ultima rivolta al cpr di corso Brunelleschi di venerdì 16 maggio, i tre quarti del cpr sono inagibili. L’area bianca, da cui la rivolta è partita, è bruciata interamente. Le persone che vi erano recluse hanno dovuto dormire fuori per due giorni, e sono successivamente state quasi tutte trasferite. La maggior parte, come spesso accade, è stata deportata nei cpr punitivi del sud Italia: Palazzo San Gervasio, Bari e Brindisi. Spostati come pacchi, anche chi aveva affetti e famiglia vicini, rendendogli oltretutto estremamente più difficile tenere il filo della propria difesa, e obbligandoli a cambiare avvocato da un giorno all’altro e a dover ricostruire tutto daccapo, in un nuovo lager. C’è anche chi dopo varie peripezie e un tentativo fallito di deportazione in Tunisia si trova ora al cpr di Caltanissetta. Il giovane che quella sera aveva tentato di arrampicarsi sulla rete di recinzione ed era caduto, facendosi molto male, è stato portato in ospedale solo dopo ore e ore di insistenze congiunte da parte dei reclusi e dei solidali presenti fuori dalle mura, per poi essere nuovamente recluso. Il suo tentativo di evasione e il conseguente pestaggio da parte delle guardie erano stati le scintille che avevano portato l’insofferenza dei reclusi a manifestarsi nella rivolta.

Ad oggi, nell’area blu, l’unica superstite, sono recluse 30 persone. I lavori vanno avanti nelle adiacenti aree rossa e verde e, da oggi, anche nella bianca, che potrebbero presto essere pronte. Distrutta un’area se ne appronta un’altra, un’affannosa ricostruzione ad ogni costo. Di fronte all’ormai innegabile evidenza del fallimento della gestione del centro, Sanitalia cerca di placare gli animi con vaghe promesse di miglioramenti nelle condizioni di detenzione, come quella di non trattenere più di 30 persone per area, e di portare un dentista a visitare i reclusi nelle loro celle. Ci sono però almeno quattro persone con infezioni gravi in bocca, che avrebbero bisogno di cure urgenti, e non di un dentista a domicilio. Quattro altre persone sono costrette a dormire nella mensa perché con gravi fragilità psichiche, e sono totalmente abbandonate a loro stesse, senza alcun supporto medico. C’è chi non riesce nemmeno a parlare o a fare una doccia; chi chiaramente, anche secondo i parametri di un cpr, dovrebbe essere considerato non idoneo al trattenimento.

Nelle ultime settimane non sono poi mancate le passerelle di parlamentari del PD e di figure istituzionali varie, venute a costatare che i lager funzionino ancora come dovrebbero; come se facessero un giro allo zoo, tra commiserazione e compiacimento. Proprio stamattina dei consiglieri comunali del PD in visita, preannunciati da pulizie frettolose e sguardi minacciosi atti a redarguire da eventuali lamentele, si sono permessi di chiedere ai reclusi perché non volessero tornare nel loro paese. Non si sono meritati risposta, ma si meritano invece di essere menzionati come fautori di questo infame sistema razzista che permette che le persone vengano criminalizzate, imprigionate e deportate per la mancanza di un documento in tasca, e come complici di tutte le torture che in questi lager avvengono.

E’ solo grazie al coraggio dei detenuti che emerge la verità di ciò che accade dietro alle mura di corso Brunelleschi.
Solo grazie alla solidarietà, se queste voci non vengono soffocate.

LETTERA DAI DETENUTI LIBERI DI REGINA COELI

Diffondiamo

Cara Radio Onda Rossa,

Intanto grazie per l’attenzione e per dare voce a chi, come noi, si ritrova schiacciato da questo sistema insano e inumano. Questi giorni sono molto faticosi per noi. Il caldo amplifica le sofferenze che già erano insopportabili.

Senza troppo girarci intorno, quello che vi chiediamo è di aiutarci, di rendere trasparenti questi muri, mostrando alla gente i crimini commessi da uno stato che, ipocrita, pretende il rispetto delle leggi che esso stesso vìola sistematicamente restando però impunito. Vorremmo che tutti e tutte riuscissero a capire che non c’è nulla di rieducativo nel carcere. Vorremmo che si superasse la solita narrazione della prigione che garantisce la sicurezza dei cittadini. È falso. Il carcere è criminale, criminoso e criminogeno.

Oggi in Italia vivono migliaia di persone (uomini, donne, ragazzini, perfino neonati con le loro mamme) chiuse come le bestie, in celle piccolissime nelle quali si boccheggia, buttate su brande di ferro con un foglio di gommapiuma lercia come materasso. Vivono chiuse senza servizi igienici adeguati, senza una doccia, senza un luogo sano nel quale cucinare.
Quando vedete le immagini in TV della solita rivolta o dell’ennesimo suicidio, dovete sapere che di carcere si soffre fino a diventare pazzi, di carcere ci si ammala, di carcere si muore. Fuori si vive un’immagine che, per quanto negativa, non riuscirà mai a rappresentare l’oscenità del carcere.

Qui a Regina Coeli abbiamo quasi raggiunto 1200 detenuti (a fronte di 680 posti ufficiali). Col sovraffollamento è saltato tutto: le educatrici non si vedono più, molte attività sono sospese, l’area sanitaria è totalmente inadeguata, con mesi di attesa per una visita. Anche la magistratura di sorveglianza è intasata al punto che non vengono nemmeno concessi i benefici di legge. Il vitto è disgustoso e comunque insufficiente. I lavoranti sono costretti a ridividere, i pezzetti di pollo per farli arrivare a tutti. Servono quasi ogni sera, con questo caldo, un brodo immangiabile fatto con gli avanzi dei pasti precedenti. E quando la cucina non ce la fa (sta erogando il doppio dei pasti) arrivano ranci ridicoli, con un uovo sodo o due fettine sottili di formaggio. Le persone più giovani muoiono di fame, quelle più anziane o più fragili si ammalano. L’acqua corrente è sempre più scarsa. Con quell’unico rigagnolo che c’è rimasto dobbiamo lavarci, cucinare, bere, ecc.

Oltre la metà di chi è rinchiuso qui dentro non ha soldi, quindi non si può permettere i pochi e costosi prodotti che siamo autorizzati ad acquistare dal fornitore monopolista. Così, una massa di almeno 600 persone, ogni giorno deve trovare il modo di rimediare il cibo, il sapone per lavarsi, perfino la carta igienica! (te ne danno un rotolo al mese, le guardie). Poi ci sono gli insetti che ti mangiano. Due sezioni sono piene di cimici e scabbia. I topi sono ovunque.
E poi ci sono quelle maledette gelosie. Guardate bene in carcere: le vedete? Quelle lastre di ferro nero montate davanti alle finestre delle celle. Illegali da molti anni ma mai rimosse per i costi dei lavori. Non fanno passare l’aria, non passa manco la luce. D’estate, quando ci batte il sole, si infuocano. Impazzisci. Cerchi di stare lontano da quella finestra bollente, ma la stanza è piccola, e al lato opposto c’è una porta blindata chiusa. Ti senti in trappola, appiccicato agli altri, tutti insofferenti. Ti fai aria con quello che trovi, ma l’aria è troppo calda. Intorno a te tutto è caldo, come un forno. Anche il cibo che compri si deteriora velocemente perché non c’è un frigo. È una tortura, e nient’altro. Lo stato tortura migliaia di persone. Non lo diciamo solo noi, ma le decine di sentenze della Corte Europea per i Diritti Umani.

Tra noi c’è chi reagisce con forza, sbatte sulla porta, cerca di uscire almeno nel corridoio. Chi invece si lascia andare e decide di imbottirsi di psicofarmaci, dormire e non pensare (quasi il 40% dei detenuti), chi urla, chi piange, chi prega. Potremmo raccontarvi ancora tanto, ma non basterebbe un quaderno interno! Non si tratta più di riforme, decreti o disegni di legge. Qui, ora, si stanno commettendo crimini contro l’umanità. Le persone sono sottoposte a torture, trattamenti degradanti. Qui, proprio ora c’è gente che sta morendo. E non parliamo solo dei 54 suicidi dall’inizio dell’anno, di quelle 54 vite spezzate che oggi sono un numero sui giornali, ma ieri erano reali, avevano un nome, una storia, legami affettivi polverizzati dalla galera. Parliamo anche degli oltre 300 tentativi di suicidio dichiarati dal DAP, sventati il più delle volte da altri detenuti. Parliamo anche degli altri 72 morti per malattie o cause considerate naturali, ma anche quelli sono morti in carcere e di carcere.
Qui con noi c’è un anziano nordafricano. Ha 78 anni, cammina a fatica, gira spaesato. Dopo quasi 2 mesi ancora si confonde e non ricorda la sua cella. Dobbiamo aiutarlo per tutto, ha un’autonomia molto ridotta. Abbiamo fatto di tutto per segnalarlo, non può stare qui! Siamo molto preoccupati per lui. Non vogliamo che diventi l’ennesima “morte naturale”, conteggiata cinicamente tra i numeri che non contano!

Ci sentiamo soli, esclusi da una società cieca, ma capace di catalogare, marchiare ed escludere. Non si riesce a non pensare almeno una volta a farla finita. Non vuoi soffrire più. Qualche volta reagiamo, lottiamo, cerchiamo di unirci. Ma ogni protesta è sedata, repressa. In tanti hanno paura. Dopo la prima rivolta in sesta hanno spedito 15 capri espiatori nelle carceri più remote (perfino in Sardegna) facendo perdere loro la possibilità di vedere i familiari. Nonostante ciò, e nonostante il DL sicurezza, in sole 3 settimane ben 4 sezioni sono insorte, per disperazione. Ci sono stati incendi, lanci di oggetti. Almeno una volta a settimana il carcere è invaso dal fumo acre e tossico dei roghi. Dalla settima, dove stanno chiusi 23 ore su 24 (con l’ora d’aria spesso negli orari più caldi) quasi ogni sera si sentono battiture e grida di aiuto. Sentiamo ogni giorno notizie da altri penitenziari. Viterbo, Firenze, Milano, Trani, Trieste. Stesse storie, stesse proteste. A volte siamo costretti ad urlare, fare rumore, accendere fuochi. Vogliamo farci sentire, vogliamo essere considerati vivi perché, per quanto ci vogliano zitti, fermi, passivi, noi non siamo ancora morti!

Siamo esseri umani come voi. Alcuni hanno sbagliato, altri sono innocenti, altri ancora li hanno resi “sbagliati” con leggi liberticide che hanno creato reati dove non ce ne sono.

Siamo qui, davanti a voi, dentro Regina Coeli, dove subiamo torture, maltrattamenti, umiliazioni, trattamenti degradanti. Questo succede davanti a voi, proprio adesso. Il nostro è un grido d’aiuto, aiutateci a resistere e ad esistere!

Detenuti Liberi Regina Coeli

CPR MACOMER: TRASFERIMENTI AL CPR IN ALBANIA

Diffondiamo

Ieri alle 7 del mattino sono entrati una ventina di agenti in antisommossa dentro il blocco destro e sinistro del CPR di Macomer. Hanno preso con la forza 8 persone, per trasferirle in Albania.

La macchina razzista dello Stato continua il suo sporco lavoro di deportazione. Il nuovo lager sorto in Albania, gestito dalla cooperativa Medihospes, può recludere fino a 144 persone destinate al rimpatrio.

Le deportazioni fanno ingrassare anche le pance di compagnie aeree come Aeroitalia, AirMediterranean, AlbaStar e Smartwings che organizzano appositi voli charter, lucrando sulle espulsioni e sui trasferimenti da un CPR all’altro. Per compiere quest’operazione vengono usati anche aeri di linea. Sappiamo di voli interrotti grazie alla lotta degli stessi detenuti, che sono riusciti a far bloccare la partenza una volta a bordo. Infatti, spesso, le persone oggetto di espulsione o trasferimento vengono sedate. Quindi è nostra responsabilità cercare di inceppare questo tassello della macchina razzista, nel caso dovessimo trovare degli indizi di una deportazione in atto. Di seguito alcune info utili a riguardo:

“Un aereo non può decollare se ogni passeggero non è seduto con le cinture di sicurezza allacciate.
Un modo per ritardare la partenza, chiedendo lo sbarco della persona in stato di trattenimento coatto, è rimanendo in piedi nell’aeromobile, impedendo così la partenza fino all’ottenimento della richiesta di discesa!

Se quando sali su un aereo vedi:
– Pattuglie delle forze dell’ordine fuori (affianco o difronte) dall’aereo;
– Una persona razzializzata, nera o est-europea, seduta nell’aeromobile con affianco 2 brutti ceffi;
Sappi che è altamente probabile che sia in corso una deportazione.”

RESISTERE ALLE DEPORTAZIONI: racconto in messaggistica istantanea di una deportazione bloccata

CONTRO I MILLE VOLTI DEL RAZZISMO DI STATO, BLOCCARE LA MACCHINA DELLE ESPULSIONI È POSSIBILE.

TORINO: HAMID È STATO UCCISO

Diffondiamo

Nel primo pomeriggio di sabato 17 Maggio – mentre la città di Torino si svegliava con un’area del CPR totalmente distrutta dal fuoco dei ribelliHamid veniva aggredito, umiliato, sottoposto a violenza e arrestato da un branco indistinto e numeroso di poliziotti in Barriera di Milano: il quartiere più militarizzato e mediatizzato di Torino.

Non si conoscono con certezza i momenti che hanno preceduto il suo fermo brutale, quello che si sa – senza ombra di dubbio e senza possibile edulcorazione da parte di Procura e giornalisti- è che Hamid è stato ammanettato mentre urlava disperato: inginocchiato e schiacciato a terra con violenza da vari poliziotti. Che è stato sbattuto dalla Polizia contro la volante dove volevano farlo entrare mentre lui si dimenava terrorizzato. E che gambe e testa sono state colpite, spinte e schiacciate contro le portiere da vari poliziotti in contemporanea mentre lui lottava, urlava e chiedeva aiuto a squarciagola. Chi ha provato ad aiutarlo e a inserirsi in quella dinamica di sopraffazione ha preso insulti, spintoni, colpi e minacce da parte dei poliziotti. E porta oggi in tasca una denuncia – appena stampata – di resistenza a pubblico ufficiale e, in certi casi, tentata procurata evasione.

Un intero angolo di quartiere ha visto, nessuna riscrittura mediatica o giudiziaria della narrazione potrà coprire la verità. Tutti sanno che la Polizia ha ucciso Hamid.

Poche decine di ore dopo il suo corpo senza vita viene trovato – con il collo stretto da lacci delle scarpe – nella decima sezione del Blocco B del carcere Lorusso e Cotugno di Torino. Nessuno in quartiere, né dei suoi amici, crede che si sia ucciso per scelta. E se anche fosse: Hamid è morto di un pestaggio della Polizia nel quartiere di Barriera di Milano a Torino e poi è anche morto, come tanti, di carcere. In entrambi i casi un omicidio di Stato.

Ma Hamid non è morto “solo” di questo. Era appena stato liberato dalla detenzione in due CPR: Brindisi e poi Gjader in Albania, la nuova struttura coloniale fuori dai confini nazionali.
Sappiamo quanto piaccia alla sinistra moderata sferrare colpi retorici indignati contro il nuovo lager in terra albanese e prevediamo come – per coprire il pestaggio, la violenza del carcere e la tortura in tutti i CPR – l’attenzione verrà indirizzata verso l’inumanità del CPR oltre confine. Tocca a noi ripetere piuttosto l’ovvio: seppur un pezzo della morte di Hamid possa essere attribuita a quel lager, lui non è morto unicamente di quello. E’ stato sottoposto alla tortura sia dei lager nostrani che di quelli di forma coloniale.

La morte di Hamid ci urla e indica molti dei responsabili del razzismo strutturale e quotidiano. Racconta le sorti di chi arriva in Italia senza documenti europei e scoperchia nitidamente l’evidenza del razzismo nella quotidianità nel capitalismo contemporaneo.

Hamid è stato ucciso dai CPR, dal carcere e dai pestaggi della Polizia in strada.
Hamid è stato ucciso dal razzismo nei suoi mille volti.

ALTRO CHE GIUSTIZIA, QUI SERVE SOLO VENDETTA!

nocprtorino.noblogs.org

CAGLIARI: NOI LA CHIAMIAMO TORTURA – AGGIORNAMENTI DAI PRIGIONIERI DEL CARCERE DI UTA

Diffondiamo da rifiuti.noblogs:

Poco importa se uno combatte da solo o se combattono in centomila; se uno s’accorge di dover combattere, combatte, e poco importa che abbia o no compagni di lotta. Io dovevo combattere e tornerei a farlo. (H. Fallada)

Il 25 aprile scorso i prigionieri del carcere di Uta hanno iniziato uno sciopero della fame per protestare per le condizioni di vita nel carcere, vere e proprie forme neppure tanto sottili di tortura. Tra le tante ragioni della protesta saltava subito all’occhio quella per l’acqua dei rubinetti del carcere, tanto piena di colibatteri fecali da rendere rischioso persino utilizzarla per lavarsi.
I solidali hanno subito iniziato una campagna di supporto alla lotta, sia tra i familiari dei detenuti all’esterno della prigione (che l’amministrazione carceraria ha dimostrato con modi “fisici” di non gradire), che nelle piazze di Cagliari, tanto da riuscire a far uscire la notizia dello sciopero nel maggiore quotidiano locale sardo.

Per evitare ulteriori danni all’immagine dell’amministrazione sono intervenuti immediatamente Gianni Loy, garante della città metropolitana, e Irene Testa, garante regionale (chiamati in causa nel documento dei prigionieri per la loro totale assenza), che hanno incontrato alcuni prigionieri, hanno misurato le dimensioni delle celle e hanno dichiarato alla stampa, come sempre, di essere a conoscenza da tempo della grave situazione che promettevano di risolvere nel giro di una settimana. I prigionieri hanno interrotto lo sciopero in attesa dei risultati promessi e mentre Irene Testa è tornata alla sua occupazione abituale (convegni, dichiarazioni alla stampa e totale indifferenza verso le richieste dei prigionieri), Gianni Loy è giunto addirittura (sic!) a chiedere il ripristino del reparto ospedaliero nel carcere aprendovi però finestre (sinora assenti), naturalmente chiuse da sbarre.

Ha completato l’opera l’amministrazione penitenziaria “risolvendo” il problema dell’acqua non potabile mescolandola a tanto cloro da renderla inutilizzabile anche per cucinare. Questa mossa, che ha come conseguenza principale che i detenuti con meno disponibilità economica abbiano difficoltà anche per cucinare. Noi la chiamiamo TORTURA, una tortura moderna di quelle che non lascia segni visibili, quella che alcuni sociologi chiamano “autoinflitta” perché le vittime possono pensare di esserne la causa diretta e non attribuirla a coloro che la praticano.

L’amministrazione penitenziaria supportata dai garanti (che nei giorni scorsi hanno espresso alla stampa “vivo apprezzamento” per la recente nomina di Pietro Borrutto che sostituisce Marco Porcu, di cui non sentiremo la mancanza, come direttore di Uta) ha agito tentando di dividere e scoraggiare i prigionieri in lotta ma, nonostante questo, alcuni di loro hanno ripreso e continuano lo sciopero della fame mettendo a rischio la loro vita.

Da parte nostra, oltre a ribadire la nostra solidarietà ed il nostro impegno a portare la lotta oltre le sbarre, convinti che sino a quando anche un solo prigioniero continua la lotta l’amministrazione non dovrà e non potrà avere pace, ricordiamo ai solerti garanti, corresponsabili con i loro silenzi e mediazioni della situazione attuale, che, se ad un solo prigioniero in sciopero dovesse accadere qualcosa, dovranno assumersene responsabilità ed oneri.

Ai prigionieri in lotta vanno il nostro appoggio, solidarietà e complicità.
TUTTE LIBERE, TUTTI LIBERI
CHIUDERE UTA, CHIUDERE TUTTE LE GALERE

Anarchicx contro carcere e repressione

PIEMONTE: INIZIATIVE PER LE STRADE E SOTTO LE CARCERI. CONTRO IL 41 BIS, L’ERGASTOLO E TUTTE LE FORME DI DETENZIONE

Diffondiamo

In un clima di guerra sempre più dispiegata e di repressione che affina i suoi strumenti, il processo per la manifestazione del 4 marzo 2023 a Torino in solidarietà al compagno Alfredo Cospito e contro il 41 bis sta per iniziare.

Durante i mesi di mobilitazione in solidarietà ad Alfredo, il vero volto della democrazia si è mostrato e qualche crepa si è aperta, mostrando il 41 bis come uno strumento repressivo utilizzato per rimettere in riga i recalcitranti, una tortura a norma di legge.

Solidarietà e lotta sono gli strumenti che abbiamo per ribaltare l’esistente e per questo, alle porte dell’inizio del processo, vogliamo continuare a urlare la nostra solidarietà a chi lotta nelle galere e la nostra opposizione al 41 bis.

Contro il 41 bis, contro l’ergastolo e contro tutte le forme di detenzione.

Solidarietà ad Alfredo, Chiudere il 41 bis!

Tutti e tutte libere


24 MAGGIO
Corteo città – carcere – città
Partenza dalla stazione di Cuneo ore 15.00

1 GIUGNO
Presidio solidale al carcere di Quarto d’Asti ore 17.00

7 GIUGNO
Presidio al carcere delle Vallette
Ritrovo al capolinea del tram 3 – Torino
ore 17.00

PER VAKHTANG E TUTTI GLI ALTRI: CHIUDIAMO TUTTI I CPR – PRESIDIO A GORIZIA E GRADISCA

Diffondiamo

VENERDÌ 23 MAGGIO

ore 14 – PRESIDIO AL TRIBUNALE DI GORIZIA – Via Nazario Sauro 1

ore 18 – PRESIDIO AL CPR DI GRADISCA D’ISONZO – davanti al CARA

Il prossimo venerdì 23 maggio si terrà al tribunale di Gorizia una nuova udienza del processo per la morte, nel gennaio 2020, di Vakhtang Enukidze, trentasettene di origine georgiana allora prigioniero nel cpr di Gradisca. Come già ricordato, il processo vede giudicati per omicidio colposo Simone Borile, allora capo della cooperativa Ekene (che gestisce tuttora il CPR di Gradisca) e l’allora centralinista del centro, Roberto Maria La Rosa.

Indipendentemente dai suoi esiti, nessun processo in nessun aula di tribunale potrà fare alcuna “giustizia” né stabilire alcuna altra verità o “versione dei fatti”, come piace scrivere a chi è pagato per fare da megafono alla voce degli amministratori dell’ordine.

La vicenda di Vakhtang è paradigmatica del normale funzionamento dei lager di stato, come anche di tutte le carceri del circuito penale.

Il 14 gennaio del 2020 Vakhtang litiga con un suo compagno di cella, una decina di agenti in tenuta antisommosa entra e si accanisce su di lui. Vakthang verrà violentamente pestato, includendo almeno un colpo sulla nuca e una ginocchiata sulla schiena. Subito dopo viene trascinato dai piedi e portato in prigione da dove, due giorni dopo, viene riportato nel CPR e, come racconteranno più tardi i suoi compagni di prigionia, il suo stato in quel momento è critico, riuscendo a malapena a tenersi in piedi. Disperato, grida dalla cella chiedendo un medico, rimanendo completamente inascoltato, come dal resto avviene quotidianamente nei CPR – ed esaurisce man mano le sue energie. A un certo punto smette di lamentarsi. Durante la notte, cade dal letto, senza alzarsi più. La mattina dopo, i suoi compagni di cella lo trovano incosciente. Viene allora portato in ospedale – per la prima volta dal pestaggio – dove morirà poche ore dopo.

Dal primo momento, nonostante i tentativi di depistaggio e insabbiamento, le testimonianze uscite dal CPR sono state chiare: Vakhtang è morto di stato, per mano dello stato. Così è stato rinaugurato il CPR di Gradisca d’Isonzo e ha continuato a produrre morte e tortura.

I campi per le deportazioni, come le carceri, costituiscono l’apice della piramide del sistema di oppressione e monito nei confronti dei cosiddetti liberi. Ma guardare alle singole prigioni come strutture a sé stanti, come più evidenti manifestazioni della brutalità dell’impianto razzista statale, restituirebbe solo un orizzonte parziale rispetto alla complessità dell’intero sistema di dominio in cui esse stesse si inscrivono. I sopracitati Borile e La Rosa, le cosiddette “mele marce”, sono in realtà due dei tanti ingranaggi della macchina di sfruttamento, oppressione, ricatto e controllo che sulla vita degli ultimi e dei marginali  – ma anche di fasce man mano più ampie di popolazione – genera lauti profitti, consenso elettorale e merce di scambio per accordi politici, economici e sindacali.

La macchina che ogni giorno spezza le vite migranti attraverso il sequestro di persona istituzionalizzato (ufficialmente “detenzione amministrativa”) e il trasferimento coatto in Paesi dove, molto spesso, le persone deportate devono riaffrontare la miseria da cui erano scappati, è anche un grande business che frutta milioni pubblici alle cooperative della “accoglienza”, alle compagnie aeree e a tutta la molteplicità di attori complici del suo funzionamento (ognuno col suo ruolo e funzione) e che contribuisce a convogliare sempre più risorse all’apparato poliziesco-militare.

A questo proposito, in questi giorni alcuni partiti locali, risvegliati dalla necessità di fare campagna elettorale sulla pelle (e sulla morte) dei prigionieri nei CPR – e nelle carceri – chiedono ipocritamente la chiusura del CPR di Gradisca (non di tutti gli altri). E lo fanno sedendosi a convegno e marciando a fianco di chi i CPR li ha aperti con la Legge Turco-Napolitano del 1998 e dei rappresentanti di chi al loro interno manganella e gasa a piacimento i reclusi, contribuendo nel tempo – gli uni e gli altri – a tutte le svolte repressive degli ultimi anni.

Da Torino a Brindisi, da Macomer a a Trapani, i CPR vengono percorsi dalle continue rivolte autonome dei prigionieri nel tentativo di riguadagnare la libertà, opporsi alle deportazioni, ribellarsi alla brutalità delle guardie e al trattamento loro imposto dagli enti gestori, rivolte che spesso portano alla devastazione e chiusura di intere aree.

Solo guardando alle rovine di questi lager – e di tutti coloro che ne permettono l’esistenza – si potrà pensare che giustizia è stata fatta, per Vakhtang Enukidze e per tutte le altre centinaia di persone torturate e ammazzate là dentro.

I CPR li hanno chiusi i fuochi e le rivolte dei prigionieri, li hanno chiusi in passato e li chiuderanno ancora. A noi il compito della solidarietà attiva e complice a chi si rivolta.

Per un mondo senza frontiere e galere!

Tutti liberi, tutte libere

Assemblea NO CPR fvg

https://nofrontierefvg.noblogs.org/post/2025/05/17/per-vakhtang-e-tutti-gli-altri-chiudiamo-tutti-i-cpr-23-maggio-2025-doppio-presidio-a-gorizia-e-gradisca/

FRANCIA: 3 MESI DI CARCERE PER AVER GRIDATO “ACAB”

Diffondiamo

Repressione giudiziaria in Francia

Lunedì 5 maggio si è svolto il processo a uno studente tedesco, arrestato durante un’azione di blocco in solidarietà a Georges Ibrahim Abdallah e del popolo palestinese presso l’Università Lumière Lyon il 2 dicembre 2024.

Arrivata sul posto, la polizia ha rapidamente e violentemente caricato e posto in stato di fermo diversi studenti. Durante questo scontro, Rima ha gridato ACAB. L’intero processo ruota attorno alle sue idee politiche, che il procuratore considera “di ultra-sinistra”, accusando Rima di “essere venuto in Francia per provocare disordini”, quando forse trova semplicemente i gattini troppo carini.

Per aver insultato la polizia e per essersi rifiutato di fornire le sue impronte digitali durante il fermo, è stato condannato a 3 mesi di prigione con la condizionale, a una multa di 2.000 euro e al divieto di recarsi a Lione per 5 anni.