Psichiatria e pandemia: stigmi, contagi e sindemie

Un articolo di Chiara Gazzola uscito sul numero di aprile 2021 di “Sicilia libertaria”

STIGMI, CONTAGI E SINDEMIE

“Salute mentale”, abuso concettuale in uno slalom di tesi utile a definirne la carenza: le condizioni esistenziali che si discostano da un ipotetico equilibrio psicofisico di adattamento alle difficoltà. Si evita così di scalfirne le cause, poiché significherebbe puntare il dito alle iniquità sociali. E così non si guarda il dito, né si considera cosa stia segnalando, ma lo si penalizza registrandolo come “indicatore” (sintomo) di patologia.

I diversi approcci alla disciplina psichiatrica sembrano concordi nel definire la salute come il risultato fra stile di vita, condizioni socio-ambientali e capacità individuale di risposta a eventi esterni. Eppure non esiste protocollo sanitario che prenda in considerazione questa complessità di fattori. Se si rompe un tubo dell’acqua in una casa costruita su un terreno franoso, chi trae vantaggio nell’aggiustare il tubo? La salute, intesa come un insieme di risposte organiche, sensoriali e sociali, è quindi argomento di riflessioni filosofiche o antropologiche ma, se la politica le sovrasta, qualsiasi squilibrio rimane appannaggio esclusivo dell’industria farmacologica che non ha interesse a rimuovere i divari sociali causa di tanti malesseri. Nel frattempo la psichiatria si concentra sulla denominazione dei disturbi. Fatta la diagnosi, esclusivamente attraverso un’osservazione clinica soggettiva e non comprovata da test oggettivi, si passa alla cura. E quale occasione più ghiotta della pandemia per “scoprire” nuove sindromi?

Le prime pubblicazioni in era covid individuavano risposte patologiche come varianti del DSPT (disturbo da stress post traumatico). Lo scorso agosto la rivista scientifica Brain, behavior and Immunity informava che l’infiammazione da covid-19 è un fattore di rischio per la depressione. L’ampia gamma di molecole antidepressive e ansiolitiche è una voce prevalente del fatturato farmacologico: come avrebbe potuto l’invadenza del virus non andare a braccetto con una delle “malattie” più diffuse al mondo? Uno studio dell’Ospedale San Raffaele di Milano condotto su 402 pazienti guariti dal covid afferma che il 56% manifesta disturbi psichici multipli: DSPT 28%, depressione 31%, ansia 42%, insonnia 40%, sintomi ossessivo-compulsivi 20%; le sindromi depressive compaiono più facilmente nelle donne e si ipotizza che la maggiore vulnerabilità sia dovuta al “diverso funzionamento del sistema immunitario nelle sue componenti innate e adattive”. Il XII Congresso nazionale SINPF (società italiana di neuropsicofarmacologia), stando ai report recenti di vari quotidiani, rileva che l’aumento dei disagi psichici in era di pandemia stia attivando una vera e propria sindemia, un mix di pericolo clinico e sociale dovuto alla paura del contagio, allo stress da confinamento e alla crisi economica. Un contagio nel contagio? La probabilità di sviluppare sintomi depressivi nei soggetti colpiti dal virus, o da lutti in famiglia, aumenterebbe di 5 volte e così si legittima la previsione di 800mila nuove pazienti, con un’aspettativa di incidenza fino al 32%! L’incremento di vendite di psicofarmaci interesserebbe donne e adolescenti, in quanto categorie maggiormente colpite da perdita di lavoro e di socialità.

Per l’OMS (organizzazione mondiale di sanità) “la tutela della salute mentale è una priorità correlata alla pandemia in atto”, mostrandosi preoccupata per i nuovi disturbi “erroneamente inclusi nei DSPT”. Nasce quindi l’esigenza di nuove nomenclature per meglio definire uno “stress individuale/comunitario e non convenzionale, sospeso, subacuto, perdurante e perturbante che può evolvere in persistente”. Viene spiegato che le definizioni di “perturbante e non convenzionale” descrivono una sofferenza che va a dissestare il futuro: la percezione di furto del futuro come nuova condizione clinica! Uno stress che attraversa varie fasi: la prima, incredulità e sottovalutazione difensiva; la seconda, l’incredulità si trasforma in angoscia all’evidenza di malati e morti; la terza, perdite affettive e insicurezza economica, riducendo la plasticità adattiva e l’istinto di sopravvivenza, innescano la paura del fallimento. Ma l’OMS individua anche un nuovo agente patogeno: la infodemia. Trattasi dell’eccesso di informazioni e del rimbombo di commenti da cui siamo invasi. Altro contagio nel contagio: le notizie a contenuto angosciante e contraddittorio produrrebbero lesioni bisognose di cure da somministrare a chi ne soffre, non certamente a chi alimenta questo giornalismo! Uno studio condotto dall’Università di Oxford, e pubblicato da The lancet psychiatry, afferma che a 90 giorni dal contagio da covid nel 20% dei casi insorgono disturbi al sistema nervoso centrale e che i soggetti in cura psichiatrica sono più esposti (65% dei casi) a contrarre il virus. Se ne deduce: “queste evidenze stanno convincendo sempre di più i ricercatori che esiste una stretta correlazione fra le malattie psichiche e il virus”.

L’IEUD (istituto europeo per il trattamento delle dipendenze) ha registrato, nel primo semestre 2020, un aumento del 4% del consumo di benzodiazepine. L’AIFA (agenzia italiana del farmaco) riporta che nel 2020 la vendita di ansiolitici si è incrementata del 12%, dati definiti “allarmanti” in quanto non corrispondono alle diagnosi stilate: gli psicofarmaci vengono definiti “pericolosi se presi senza prescrizione medica”. Si individuano le cause dei nuovi malesseri nel telelavoro, nella didattica a distanza, nelle restrizioni agli spostamenti, nella paura del contagio, nella precarietà economica, nel rischio di essere considerati “untori”.

Ecco innescata una spirale velenosa affinché la psichiatria possa continuare a mettere le sue toppe mediche a problematiche sociali e ad accaparrarsi la facoltà di diagnosi/cura/controllo, di produrre stigmi (questi sì, reali e persistenti!), di annullare le dignità individuali e di farsi paladina di una salute mentale tanto millantata, quanto svilita: uscire dal labirinto le sarebbe controproducente!

Di Chiara Gazzola

Manifestino: il carcere uccide

Liberiamo nelle brughiere un manifestino da diffondere.

IL CARCERE UCCIDE

Cure negate
Contenzione psicologica, farmacologica, meccanica e fisica
Deprivazione, spersonalizzazione e pestaggi
SONO TORTURA

Dove non arrivano ad ammazzare il sistema giudiziario e le guardie,
arrivano la psichiatria e l’omertà degli operatori sanitari.

DENTRO LE CARCERI ESISTONO ANCORA ‘REPARTINI’ E CELLE LISCE
Trattamenti sanitari obbligatori
A DISCREZIONE DI GUARDIE E DIREZIONE

(nella foto: la ‘stanza 150’, cella liscia, carcere di Torino)

STATO ASSASSINO

Carcere: “articolazioni salute mentale”

Ma Opg e ‘repartini’ nelle carceri esistono ancora?

Alla Dozza, carcere bolognese, è presente una sezione ‘FEMMINILE ARTICOLAZIONE SALUTE MENTALE’

Si parla di salute mentale, ma è di psichiatria in mano ai carcerieri che si tratta.

A Bologna per altro solo femminile, perchè alla donna è sempre riservato un posto d’onore nella persecuzione e nella stigmatizzazione psichiatrica: nei luoghi di reclusione, nei reparti femminili degli istituti manicomiali, le donne sono sempre state oggetto di un maggior accanimento da parte di medici, infermieri, e del potere costituito.

Ma cosa sono?

Le ‘Articolazioni salute mentale’ sono sezioni speciali per quelle detenute e quei detenuti definiti “rei folli”, cioè con una valutazione psichiatrica sopravvenuta (successiva) alla detenzione.

In sintesi il carcere crea la menomazione, produce sofferenza, esaspera la tenuta psichica di chi vive la reclusione sulla pelle, e poi vuole contenere i ‘comportamenti problema’ (definizione amata da psichiatri ed educatori) reprimendoli ancora di più in ‘speciali repartini’.

Bisogna sapere che gli Opg contenevano tutte le autrici e gli autori di reato con diagnosi psichiatrica, sia quelli dichiarati non imputabili per ‘vizio di mente al momento del fatto’, e perciò prosciolti e rinchiusi in OPG in quanto ‘socialmente pericolosi’, sia quelli condannati a pena detentiva e ‘colpiti’ da ‘disturbi mentali gravi’ durante la permanenza in carcere.

Con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari in Italia (31 marzo 2015) l’istituzione totale dell’ospedale psichiatrico giudiziario veniva sostituita da più piccole istituzioni di reclusione non molto diverse nella sostanza, le cosiddette «residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza» (Rems), luoghi destinati a recluse e reclusi giudicati incapaci di intendere e volere al momento del giudizio e non successivamente.

Le ‘articolazioni salute mentale’ riguardano perciò  detenute e detenuti che non possono essere accolti nelle residenze sanitarie per l’esecuzione delle misure di sicurezza istituite dopo la chiusura degli Opg.

In Italia ci sono 47 Atsm in 36 penitenziari per un totale di 303 celle in cui a inizio 2019 erano presenti 318 detenuti (Fonte Relazione del ministero sull’amministrazione della giustizia 2018).

Come sono e cosa si sa?

Queste sezioni carcerarie sono sotto la responsabilità dell’Amministrazione Penitenziaria ma ‘a prevalente gestione sanitaria’, che non si capisce cosa significhi.

A quanto emerge non presentano nè una reale copertura giuridica, nè un qualsiasi tipo di chiarezza circa la ‘gestione’ delle articolazioni stesse e che tipo di aspetti ‘sanitari’ siano tenuti in considerazione e in che termini.  ‘Chiarezza’ poi, sappiamo non ce ne sarà mai finchè esisteranno quelle mura, ma se già ciò che avviene nelle sezioni non deve essere detto, ciò che avviene dentro i repartini, non deve essere detto ancora di più. Che cosa si intende con ‘a prevalente gestione sanitaria’?

La Magistratura di sorveglianza è stata chiamata a pronunciarsi su un caso di differimento pena, inviato nell’articolazione psichiatrica della Dozza di Bologna dopo la chiusura dell’OPG. Il responso è stato che la persona non poteva stare lì perché l’articolazione non aveva niente di sanitario.

Nel 2016 a Bologna sindacati e compagnia bella si opponevano all’apertura del repartino femminile per la sempre vittimistica carenza di organico e per le condizioni strutturali del luogo.

Quanto tempo vengono trattenute le persone nell’articolazione femminile della Dozza? Quale tipo di regolamentazione e ‘gestione’ vige e in che tipo di condizione?

Il garante nel 2018 dice che le tre donne detenute nell’articolazione salute mentale del carcere di Bologna  sono tenute in estremo isolamento.
“I numeri esigui, però, e la collocazione fisica di questi ambienti detentivi, collocati al piano terra, comportano un significativo stato di isolamento per queste donne detenute.”

“All’interno delle articolazioni si trovano infatti le persone che non possono essere curate e assistite nelle sezioni ordinarie, la maggior parte delle quali, giuridicamente, in “osservazione psichiatrica” (un periodo di 30 giorni prorogabile, in cui viene valutata la compatibilità dello stato di salute psicofisico e la detenzione). L’ingresso e l’uscita avvengono su decisione interna dell’amministrazione sanitaria e penitenziaria, ed è ‘prorogabile’ senza alcuna previsione di un controllo giurisdizionale (che avviene invece nel caso di ricovero in luogo esterno al carcere).”

Significa che direzione e guardie possono usare questo strumento e relative proroghe discrezionalmente e che la reclusa e il recluso non hanno gli stessi ‘diritti sanitari’ dei liberi come si millanta nelle varie norme e riforme.

L’ultimo rapporto di Antigone riporta la raccapriciante storia di M. presso l’articolazione salute mentale “Il Sestante” della Casa Circondariale di Torino.

La stanza 150 : “Il rispetto dei diritti della persona è spesso violato. Si segnalano casi di contenzione e si è rilevata (nella Casa Circondariale di Torino, anche filmata, l’esistenza di ‘celle lisce’ spoglie e senza suppellettili.”

“nonostante infatti formalmente venga dichiarato che la permanenza nella stessa dura generalmente qualche ora, in realtà vengono registrati in alcuni casi la permanenza di soggetti per periodi superiori a venti giorni.”

Eppure la Sentenza della Corte  Costituzionale  n.99/2019 ha stabilito  che,  se  durante  la  carcerazione  sopravviene  una  grave  ‘infermità psichica’,  si  potrà  disporre  che  la  persona  detenuta  venga  ‘curata’  fuori  dal carcere,  applicando  la  misura  alternativa  della  detenzione  domiciliare o in luogo di ‘cura’, così come già dovrebbe accadere per le gravi malattie di tipo fisico.

Una cosa importante da sapere è che dal 14 giugno 2008 le prestazioni/funzioni sanitarie fino ad allora svolte dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dal Dipartimento della Giustizia Minorile del Ministero della Giustizia sono state assimilate integralmente al Servizio Sanitario Nazionale. Assieme alle funzioni, sono state trasferite al Fondo sanitario nazionale e ai Fondi sanitari regionali le risorse, le attrezzature, il personale, gli arredi e i beni strumentali afferenti alle attività sanitarie nelle carceri. Il personale sanitario che ad oggi opera nelle carceri italiane è dunque inquadrato contrattualmente quale dipendente dell’usl e non più del DAP.
Questa riforma poneva il principio  della  parità  tra detenuti e soggetti liberi, soprattutto nella tutela del diritto alla salute e, quindi, del diritto  a  godere  di  prestazioni  sanitarie  celeri  ed  efficienti,  in  ottemperanza  al ‘problema  medico  che  si  presenta  nel  caso  concreto’.

Sappiamo invece come questo non sia assolutamente vero, le persone muoiono in carcere e di carcere, con o senza ‘patologie’, oggi come ieri, ne parliamo inoltre ad un anno dalla strage di Stato nelle carceri e dall’esplosione dell’emergenza sanitaria, che ha messo in evidenza l’omertà degli operatori sanitari e come la reclusione sia strutturalmente in antitesi con qualsiasi concetto di salute.

Suicidi in carcere

Le statistiche mostrano che i suicidi sono in continuo aumento, e tra i piu giovani. Emerge inoltre che la popolazione detenuta muore per suicidio esponezialmente di più rispetto la popolazione libera.

Nel 2020 sono stati 61 i suicidi, dall’inizio dell’anno 2021 già 6.


La sofferenza si traduce in isolamento, contenzione fisica, farmacologica e psicologica,
aggravata dall’annientamento, dalla violenza e dalla repressione carceraria.

La reclusione genera disturbi e menomazione (da problemi psichici, a problemi cardiovascolari e metabolici sino a malattie infettive), patologie e fragilità che spesso esordiscono in carcere e si protraggono anche dopo la scarcerazione.

La riflessione sulla contenzione della sofferenza mentale e della dissidenza ci deve mettere in guardia, la strumentalizzazione del disagio si traduce in termini ancora piu repressivi: dove non arriva il sistema giudiziario e il carcere, arriva la psichiatria,.

Oggi, oltre al profondo buio che circonda queste ‘articolazioni salute mentale’,  sindacati e guardie tornano a chiedere anche ‘particolari sezioni agitati’  per stringere una morsa repressiva ancora maggiore intorno a chi è reclusa e recluso in carcere e si ribella.

Il carcere è intrinsecamente non solo la negazione di qualsiasi concetto di salute, ma della vita e dell’esistenza stessa.

Rompere l’omertà che avvolge quelle mura e abbattere ogni prigione, qualsasi prigione, è una responsabilità di tutte e tutti.

Appunti sulla psichiatrizzazione e sulla contenzione della dissidenza

Qualcuno volo sul nido del cuculo di Milos Forman 1975
Foto di scena della Fantasy Film and United Artists Corporation USA


“Quadro di personalità allarmante”
“Inclinazione alla violenza”
“Sintomatico di una personalità incapace di controllare l’impulso criminale”

Queste sono le parole usate di recente dal Gip per descrivere i fatti di Torino.

Lo Stato risponde alle sollevazioni di malcontento prospettando anni di carcere e guai per qualche vetrina del lusso in frantumi confermando il suo cieco ruolo di tutore dell’ordine e garante dei privilegi: i poveri devono rimanere poveri, chi è ai margini deve rimanere ai margini a guardare le scintillanti vetrine.

Si parla di ‘punire’ le famiglie delle persone coinvolte con la sospensione del reddito di cittadinanza e non si esita a psichiatrizzare il comportamento individuale.

Rompere una vetrina diventa “Sintomatico di una personalità incapace di controllare l’impulso criminale”.

La psichiatrizzazione del comportamento considerato ‘oppositivo’ ha origini lontanissime, l’estensione capillare che oggi viene fatta del paradigma psichiatrico in  ogni ambito della vita – vedi la medicalizzazione dell’infanzia nelle istituzioni scolastiche – viene ad assumere una valenza enorme che riporta al centro del discorso collettivo la contenzione, la medicalizzazione e la stigmatizzazione psichiatrica dei comportamenti, paradigmi e pratiche coercitive e spersonalizzanti che vanno  a sostenere ‘profili criminosi’ e ‘quadri di personalità’ usati come arma per togliere di mezzo il dissenso.