OPUSCOLO: STRAPPI Riflessioni antipsichiatriche

Siamo dei collettivi antipsichiatrici e singole persone da anni impegnate sul territorio a contrastare le pratiche della psichiatria. Il nostro impegno consiste nell’osservazione, nell’analisi, nel monitoraggio attivo del ruolo sempre più ingombrante che la psichiatria si vede riconoscere all’interno della società, ponendo particolare attenzione alle modalità e ai meccanismi attraverso i quali essa si espande sempre più capillarmente e trasversalmente. Tale tendenza si è ingrandita e rafforzata durante la pandemia. Aver vissuto un periodo senza contatti sociali dovuto alla paura del contagio, lo stress da confinamento e la crisi economica, che sta colpendo ampi strati sociali, ha causato un incremento dei disagi psichici. L’ epidemia da Covid-19 e la sua gestione politico-mediatica ha messo in difficoltà la maggior parte della popolazione, generando disagi, patologie e fragilità e ha portato ad un rafforzamento dei dispositivi psichiatrici. Assistiamo infatti ad un frequente ricorso al TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio), ad un aumento del consumo di psicofarmaci e della contenzione fisica all’interno dei reparti psichiatrici di diagnosi e cura e non solo (RSA, ospedali, centri di detenzione per immigrati). In questo opuscolo collettivo troverete approfondimenti sul ruolo della psichiatria nell’adolescenza, nell’aumento delle diagnosi psichiatriche a scuola, nella digitalizzazione, nel carcere e nelle REMS (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza). L’idea nasce dalla volontà di voler contrastare il dilagare della psichiatria, con l’obiettivo di informare e sensibilizzare sugli effetti nefasti di una disciplina che opprime e riduce gli individui a mere categorie diagnostiche e nega loro la possibilità di autodeterminarsi. Ci sembra necessario mettere in discussione le pratiche di esclusione e segregazione indirizzate a coloro che non rientrano negli imposti parametri dei così detti “comportamenti normali”. Negli ultimi decenni la psichiatria ha radicato il suo pensiero e potenziato le sue tecniche nell’intero corpo sociale diventando un vero e proprio strumento di controllo sociale trasversale a varie Istituzioni e fasce d’età. Un concreto percorso di superamento delle pratiche psichiatriche passa necessariamente da uno sviluppo di una cultura non etichettante, senza pregiudizi e non segregazionista, largamente diffusa, capace di praticare principi di libertà, di solidarietà e di valorizzazione delle differenze umane.

PSICHIATRIA IN CARCERE

Il 31 marzo 2015 viene sancita la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG), che nel 1975 avevano sostituito i manicomi giudiziari, e l’apertura delle REMS (Residenze per l’Esecuzione della Misura di Sicurezza). Ciò ha prevalentemente significato il passaggio di gestione dal Ministero di Giustizia, prima responsabile degli OPG, alle ASL. Un passaggio che avrebbe potuto significare, quanto meno, una misura meno custodialistica e più volta ad una funzione terapeutico-riabilitativa. Le REMS, infatti, vedono al loro interno solo ed esclusivamente personale sanitario (psichiatri, psicologi, infermieri, OSS, etc.) mentre il controllo perimetrale esterno è affidato alle Regioni e alle Province autonome attraverso specifici accordi con le Prefetture che tengano conto dell’aspetto logistico delle strutture al fine di garantirne gli standard di sicurezza. Va da sé che, a colpo d’occhio, tra sbarre ai balconi e entrate sorvegliate da metal detector, queste strutture ricordano piccole galere. Un esempio, tra i tanti, Castiglione delle Stiviere prima OPG e, ad oggi, REMS. Nulla è cambiato dal punto di vista strutturale e, inoltre, nonostante il numero di posti disponibili per ciascuna struttura non debba essere superiore a 20 (per evitare di assomigliare troppo, nella gestione, a dei manicomi) a Castiglione delle Stiviere, a fine 2020, c’erano ben 158 persone!

Ma a chi sono destinate le REMS?

Sono destinate ai cosiddetti “folli rei” cioè a chi, pur avendo commesso un reato, è stato dichiarato parzialmente o totalmente incapace di intendere e di volere al momento dell’atto; la posizione giuridica della persona lì internata può essere o quella di aver ricevuto dal giudice una misura di sicurezza provvisoria, in attesa della fine del processo, oppure “definitiva” (cioè che abbia avuto una sentenza di condanna definitiva). Queste persone dovrebbero essere “accompagnate” nel loro percorso terapeutico individuale verso la presa in carico dei servizi territoriali, in una logica curativo-riabilitativa che li veda fuori da quei circuiti, entro un arco di tempo molto variabile e impreciso, pronti per il rientro in società… Molto ci sarebbe da dire ancora su come in realtà funzionino questi posti e i loro progetti riabilitativi, ma questo scritto vuole parlare, più in particolare, della psichiatrizzazione all’interno delle carceri. Cioè di tutte quelle persone che non hanno accesso alle REMS, per mancanza di posti o perché “rei folli”, cioè la loro “malattia mentale” si è manifestata nel corso della detenzione.
Pensiamo che il carcere sia una delle manifestazioni più palesi della infondatezza della definizione scientifica di “malattia mentale”. Immaginiamo per esempio, per chi non ne abbia esperienza diretta, il momento di un primo ingresso all’interno del sistema carcerario: la rottura dei rapporti con il mondo esterno, le fragilità e le problematiche individuali e relazionali, la precarietà dei rapporti affettivi, l’assimilazione coatta di quell’insieme di norme che governano ogni aspetto di vita quotidiana e che possono portare ad un annichilimento della personalità e dei valori che erano propri prima dell’ingresso in carcere. Gli addetti ai lavori denominano con “sindrome da prigionizzazione” le profonde difficoltà, l’alienazione, la sofferenza che tutto ciò può comportare. L’ambiente carcerario è terribilmente nocivo soprattutto per coloro che sono sforniti di strumenti adeguati a reagire al contesto di privazione della libertà personale.
Persino l’essere in prossimità alla scarcerazione può determinare una serie di preoccupazioni e ansie legate al reinserimento all’interno della società così detta “libera”. Ma se riconosciamo come vero quanto sopra descritto, ci chiediamo: come è giustificabile la visione organicista della psichiatria insita nella definizione di “malattia mentale”? Come è possibile non vedere quanto invece sia l’ambiente, le (squalificate) relazioni, l’assenza di affettività a determinare quelle reazioni (forse invece davvero sane) di “non adattamento”, di “rifiuto al conformarsi”, di chiusura in sé stessi o di fuga? Come “fughe”, in fondo, sono spesso i numerosi suicidi che all’interno delle patrie galere aumentano di anno in anno in modo esponenziale. Secondo uno studio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2016 i suicidi tra la popolazione “libera” erano pari allo 0,82 per 10.000 abitanti; nel 2019 in carcere 8,7 ogni 10.000. A dicembre 2020 in carcere si sono suicidate ben 55 persone, per non parlare dei tentati suicidi e degli atti di autolesionismo.
E partiamo proprio da questo dato per provare a guardare oltre le spesse mura perimetrali di un carcere oggi, a circa due anni dalla pandemia (che preferiremmo chiamare sindemia).
Conosciamo bene il devastante impatto che questo periodo ha portato alle nostre vite.
Ma sappiamo anche qualcosa di quanto accaduto all’interno delle carceri: la consapevolezza delle persone detenute del disinteresse delle istituzioni nei loro confronti e, già in tempi precedenti al manifestarsi del Covid-19, della sciatteria del servizio sanitario penitenziario hanno fatto sì che la rabbia esplodesse. E solo quella rabbia, punita con morti, mattanze e vendette anche a freddo, ha determinato che, obtorto collo, ci si è dovuti accorgere delle circa 61.000 persone che, dentro le galere, rischiavano la vita e la loro salute. La miccia, per l’esplosione di quella rabbia, è stata l’unica decisione di “prevenzione della salute” assunta dallo Stato: la chiusura dei colloqui con i loro familiari.

A questa ha fatto seguito la totale blindatura del carcere all’ingresso di tutte le persone che non fossero personale lavorativo. Niente più di quel già poco che c’era: nessun lavoro, nessun corso di formazione o scuola, nessuna attività. Le carceri sono diventate dei fortini, al cui interno tutto era possibile. Quel po’ di trasparenza che c’era prima dell’emergenza sanitaria ha ceduto il posto ad un’opacizzazione totale. Prova ne è il tempo che è passato prima che venisse alla luce quanto accaduto all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere.

Una delle seguenti misure preventive adottate (e ancora vigente) è stato l’isolamento sanitario sia per chi entra in carcere dall’esterno (ovviamente detenuto/a) sia per chi presenta sintomi da Covid-19.
L’isolamento è sempre stata una delle misure punitive più adottate in carcere e si realizza con la separazione dalle altre persone detenute. Le celle predisposte per questo regime detentivo mancano, a volte, persino dei materassi, coperte, lenzuola. Sono presenti solo un letto, un tavolo e uno sgabello fissati al pavimento, un mobiletto per i pochi effetti personali concessi. Assente, molto spesso, anche la televisione. In molti casi il bagno è visibile dallo spioncino o con telecamere a circuito chiuso. Capita che non ci siano vetri alle finestre né alcuna forma di riscaldamento. In genere anche le aree esterne, dove si passano le ore d’aria, sono le peggiori dell’istituto perché piccole e spesso coperte da reti.

Stare in quella condizione può essere causa di danni fisici e psichici enormi. Effetti ricorrenti sono la sociofobia, gli attacchi di panico, difficoltà nell’interagire, ansia, disturbi del sonno, disfunzioni cognitive, letargia, depressione, rabbia, allucinazione, automutilazione, comportamento suicida e molti altri effetti.

E molto spesso questi effetti proseguono anche una volta finito il periodo di isolamento.

Ora, l’isolamento previsto per la prevenzione della salute (di circa 14 giorni) non comporta limitazioni così vessatorie, ma comunque si è soli/e con se stessi/e, con la paura della malattia e delle sue conseguenze, senza uno scambio relazionale di fiducia, senza un affetto, all’interno di un posto che, per usare un eufemismo, è ostile.

Insomma questi ultimi 2 anni dentro le carceri (come, anche se in misura diversa, fuori le galere) hanno drasticamente peggiorato le condizioni di vita quotidiana, fisiche ed emotive.
La stampa, quella poca che si interessa all’argomento carcere, spesso riporta di situazioni allo stremo e della quantità, sempre più in aumento, di persone detenute che manifestano disagi “psichici e psichiatrici” in quasi tutte le galere d’Italia. Le testimonianze sono (a parte alcuni pochi casi che risaltano alla cronaca) portate dalle guardie penitenziarie che non perdono occasione per avanzare le loro rivendicazioni di categoria, denunciando aggressioni su aggressioni da parte delle persone detenute portatrici di “disagio psichico”.

La disponibilità di posti all’interno delle REMS è limitata per le ragioni sopra riportate e c’è una lunga lista di attesa. Al 30 novembre 2020 si segnalano 175 persone (di cui il 31% in attesa in un istituto penitenziario) che attendono di essere inserite all’interno di quelle strutture (nel 2019, alla stessa data, 92). Persone che nel frattempo restano in carcere nonostante, a seguito della sentenza 99/2019 della Consulta, sia prevista la possibilità che il giudice possa disporre che la persona, che durante la detenzione manifesti una “grave malattia di tipo psichico”, venga curata fuori dal carcere e quindi concederle (anche quando la pena residua sia superiore a 4 anni) la misura alternativa della detenzione “umanitaria” o in “deroga”, come già previsto per le persone detenute con gravi malattie fisiche.

E allora cosa sta accadendo all’interno dell’inferno degli istituti penitenziari?

Intanto dobbiamo sapere che i farmaci più profusi e, soprattutto, gli unici sempre disponibili sono gli psicofarmaci. Chiunque può avere la sua, anche abbondante, dose quanto meno serale di “terapia”. Avere persone docili e dormienti è utile ad una gestione che punta alla riduzione ai minimi termini del conflitto. Poco importa se chi uscirà un giorno da quelle mura sarà un farmaco-dipendente per il resto della sua vita.

Inoltre si stanno organizzando e implementando delle sezioni speciali dette “Articolazioni per la salute mentale”.
Di seguito alcuni stralci di quanto riportato nel XVII Rapporto dell’associazione Antigone a proposito di quei reparti ed, in particolare, all’interno della Casa Circondariale delle Vallette (TO).

“…Tali reparti sono destinati a condannati o internati che sviluppino una patologia psichiatrica durante la detenzione o a condannati affetti da vizio parziale di mente, e si prevede che la permanenza nelle suddette sezioni non debba essere superiore a trenta giorni. Lo scopo formale è quello di garantire a questi soggetti un’attività di tipo terapeutico e riabilitativo in maniera continuativa e individualizzata. Tuttavia, le criticità che si riscontrano all’interno di queste sezioni, in molti casi del tutto sprovviste di adeguati percorsi trattamentali e risocializzanti, finiscono per rendere nulle le intenzioni di cura che il legislatore si era posto come fine ultimo, diventando terreno fertile per il peggioramento delle patologie dei soggetti che ne vengono ristretti. Molto spesso infatti, l’approccio terapeutico nelle sezioni di osservazione si limita al contenimento del detenuto, spesso in acuzie, e alla somministrazione della terapia farmacologica, dando priorità alle ragioni di ordine e sicurezza, come dimostrato dalla presenza in alcuni di questi reparti delle cosiddette celle lisce.

Per comprendere più a fondo la questione relativa alle articolazioni per la salute mentale, prendiamo in esame proprio la Casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino, nello specifico il reparto “Sestante”. Lo stesso rappresenta il centro di riferimento regionale per la cura delle più gravi malattie mentali manifestate dai detenuti, ed è anche uno dei centri di riferimento dell’amministrazione penitenziaria a livello nazionale.

Il reparto è suddiviso a sua volta in due sezioni: la Sezione VII, reparto osservazione, in cui vengono ristretti i soggetti in acuzie, sottoposti a videosorveglianza in maniera continuativa, e la Sezione VIII, reparto trattamento, per soggetti che vengono valutati idonei a intraprendere un percorso terapeutico. Come riportato dal rapporto del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute e private della libertà personale, a seguito di una visita effettuata nel 2018, le criticità più evidenti vengono riscontrate soprattutto nella sezione VII: nonostante nasca come luogo in cui debbano essere ristretti soggetti nella fase più acuta dunque soggetti che avrebbero maggiore bisogno di cure, viene segnalata la totale mancanza di qualsiasi progetto terapeutico e l’esclusione di attività che consentano qualsiasi forma di socialità. I detenuti si trovano ristretti in celle singole per la quasi totalità della giornata. In questi casi, la tutela alle necessità specifiche di tali soggetti, sembra in continuo conflitto tra modalità di isolamento e un trattamento di cura delle problematiche di salute mentale. A riprova di ciò, l’elemento di maggiore criticità viene riscontrato è rappresentato dalla presenza di una cella liscia, la stanza 150, che manca di qualsiasi elemento di arredo, televisore compreso, con servizio igienico alla turca a vista e senza lavabo. Un altro dato allarmante che viene riportato dal Garante è rappresentato dal registro degli accessi in cella liscia: nonostante infatti formalmente venga dichiarato che la permanenza nella stessa dura generalmente qualche ora, in realtà vengono registrati in alcuni casi la permanenza di soggetti per periodi superiori a venti giorni.

Le condizioni strutturali generali del reparto, inoltre, risultano anch’esse particolarmente scadenti: tutte le camere presentato necessità di interventi di ristrutturazione; viene denunciata sporcizia diffusa, tracce di muffa, materassi scaduti e servizi igienici a vista in tutte le celle. L’unico elemento di positività è rappresentato dall’assistenza psicologica e psichiatrica che viene garantita quotidianamente dalle 8:00 alle 20:00. La sezione VIII, o reparto trattamento, presenta senza dubbio delle condizioni complessivamente migliori. Le camere sono in buone condizioni per quanto riguarda l’arredamento e la manutenzione e i bagni sono separati. Inoltre, all’interno della sezione vi è una sala biblioteca, una stanza per l’attività trattamentale e un ambulatorio per percorsi congiunti con psicologi, psichiatri ed educatori…”.

Insomma morto un OPG se ne fa un altro.
E il sistema manicomiale esce ed entra sempre da porte e finestre blindate.

Collettivo “SenzaNumero”
senzanumero@autistici.org
senzanumero.noblogs.org/

SCUOLA E PSICHIATRIA

Il campo nel quale, negli ultimi anni, si è registrato il maggiore aumento di diagnosi psichiatriche e prescrizioni di psicofarmaci è senz’altro quello dell’infanzia e dell’adolescenza. Oggi a scuola sono sempre di più i bambini che hanno diagnosi psichiatriche, in particolare disturbo dell’adattamento, dell’attenzione, iperattività, depressione, disturbo bipolare. Questa tendenza è aumentata e si è rafforzata durante la pandemia da Covid-19. Non è lecito trasformare quanto accaduto in seguito all’emergenza sanitaria in processi diagnostici, cercando disturbi in comportamenti che sono semplicemente la conseguenza di aver vissuto un periodo senza contatti sociali, con poca possibilità di fare sport e movimento, con la scuola a singhiozzo e senza relazioni amicali.

L’introduzione di nuove patologie specifiche per l’infanzia e l’aumento a dismisura dello spettro delle patologie psichiatriche nell’ultimo Manuale Diagnostico e Statistico (DSM) del 2013, ha allargato i confini diagnostici tra ciò che è normale e ciò che non lo è, favorendo l’entrata in psichiatria di un numero sempre più alto di bambini, a cui sono prescritti psicofarmaci per periodi più o meno lunghi della loro vita. Si tratta di un aumento percentuale, senza precedenti in Italia, e che pone più di un dubbio sull’attuale boom terapeutico a cui sono sottoposte le giovani generazioni nel nostro Paese. Tutti i dati statistici confermano una sensazione diffusa tra chi passa la propria vita, professionale e non, nelle aule della scuola italiana: siamo di fronte a un aumento esponenziale di diagnosi e certificazioni di disabilità, di patologie psichiatriche, disturbi e difficoltà.

Il fenomeno degli eccessi di neurodiagnosi e di certificazione scolastica di disabilità che, negli ultimi dieci anni, si è letteralmente abbattuto sui bambini, non lascia molti margini di interpretazione statistica. L’esplosione delle diagnosi (passate da 1,4% del 1997/98 a 3,1% del 2017/18), mostra come in venti anni esse siano più che raddoppiate: da 123.862 a 268.246. Salta agli occhi il fatto che attualmente la tipologia più diffusa è quella delle disabilità intellettive che da sole rappresentano il 68,4% del totale.

L’attuale tendenza dell’insegnamento e della pedagogia è quella di farsi coadiuvare dalla neuropsichiatria ogni qualvolta un bambino disturba o contrasta i programmi formativi. Il “disagio” comportamentale, invece di essere valutato come un campanello d’allarme nella relazione con l’adulto, viene incasellato come un problema mentale del bambino, dispensando così l’educatore o l’insegnante dal modificare l’approccio educativo e delegando il problema a un neuropsichiatra. “L’educatore così – deresponsabilizzato e dispensato dal dover modificare il proprio approccio educativo – delegherà a un esperto il problema (reale o apparente che sia), il quale lo affronterà dal punto di vista della salute mentale. La pedagogia di stampo più repressivo si rinnova nel tentativo di contenere chimicamente quelle condotte non riconducibili alla norma; così si elimina la soggettività, si disciplina quella potenziale libertà presente nell’infanzia che, attraverso desideri e aspirazioni, porterebbe a una personale interpretazione dell’esistenza”. Vince così il paradigma biologico secondo cui questi bambini hanno qualcosa che non va nel loro cervello e per questo dovranno assumere psicofarmaci. Molti psichiatri trovano più semplice dire ai genitori e agli insegnanti che il bambino ha un disturbo mentale anziché suggerire dei cambiamenti rispetto alla genitorialità o all’educazione. Il comportamento considerato deviante e non conforme ai canoni prestabiliti di normalità viene isolato, fotografato, trasformato in diagnosi, strappato al rapporto relazionale insegnante-alunno e, sempre più spesso, curato con i farmaci. La medicalizzazione della scuola è inquadrabile all’interno dell’esigenza di ridurre a una risposta semplice e immediata l’interazione complessa dei diversi fattori che determinano i comportamenti in età evolutiva.

Le scuole sono invase da screening neurodiagnostici, alla ricerca di presunti disturbi che altro non sono che la legittima risposta dei bambini e ragazzi alle difficoltà. Centri specializzati, senza alcuna cornice normativa, entrano nelle scuole, col consenso di dirigenti e di insegnanti mal consigliati, per cercare disturbi dell’apprendimento, dello spettro autistico e dell’iperattività. Si tratta di evitare che i più piccoli vengano raggiunti da questi tentativi, proposti nelle scuole senza alcun quadro normativo, di realizzare screening per andare alla ricerca di questi disturbi.

Sarebbero 80.000 gli studenti con ADHD (Disturbo da Deficit dell’Attenzione e Iperattività) e circa 400.000 quelli con funzionamento intellettivo ridotto, con un’incidenza pari al 5% sull’intera popolazione studentesca italiana. In mancanza di statistiche più attendibili, sembrerebbe che proprio le difficoltà momentanee, come la timidezza, l’ansia, i dissesti economici, il lutto, i problemi di lingua conseguenti alle migrazioni, e le circostanze avverse della vita siano i principali protagonisti dei pervasivi meccanismi medicalizzanti e psichiatrizzanti che stanno scuotendo dalle fondamenta della scuola italiana. Significativo è il fatto che in Italia gli alunni stranieri siano 815.000, il 9,2% dell’intera popolazione scolastica e di questi il 12% sia stato certificato.

Una delle diagnosi fra le più diffuse a scuola è quella di ADHD, che raggruppa un insieme di comportamenti considerati inadeguati e anormali dello scolaro, che possono essere causati da innumerevoli fattori, come l’ansia per la scuola o per le verifiche, l’impreparazione scolastica, una classe noiosa, un insegnamento inadeguato, problemi e conflitti a casa o a scuola, cattiva alimentazione e insonnia. La diagnosi di ADHD non mette in relazione lo stato mentale, l’umore e i sentimenti del bambino e non dà luogo a una valutazione completa dei suoi bisogni reali per migliorare l’educazione e la genitorialità. Tale diagnosi ha determinato il ricorso sempre più massiccio all’utilizzo di sostanze psicotrope come il Ritalin, uno stimolante a base di metilfenidato prodotto dalla Novartis Farma Spa, che ha effetti simili a quelli delle anfetamine. Il Ritalin agisce principalmente sulla ricaptazione della dopamina, ma non sono chiare né la gamma completa delle sue interazioni biochimiche, né la modalità d’azione.

Un altro farmaco utilizzato è lo Strattera (atomoxetina), un inibitore della ricaptazione della noradrenalina. La casa produttrice Ely Lilly non è riuscita a farlo approvare per la depressione, ma lo vende come trattamento “non stimolante” per l’ADHD. Molti bambini hanno sviluppato impulsi suicidi e omicidi sotto l’effetto dell’atomoxetina, che può inoltre provocare insufficienza epatica. Negli Stati Uniti, negli ultimi anni, ai bambini piccoli con diagnosi di ADHD viene somministrato l’Adderall, un composto di sali di anfetamina precedentemente utilizzato per la riduzione di peso con il nome di Obetrol, screditato e ritirato dal mercato poiché creava dipendenza. Questo farmaco è stato ritirato dal mercato canadese nel 2005 dopo che quattordici bambini sono morti improvvisamente e due hanno avuto un ictus.

Di certo gli stimolanti a qualcosa servono: aiutano il contenimento di comportamenti considerati anormali. I farmaci per l’ADHD sono popolari tra gli insegnanti perché rendono il loro lavoro più facile, ma è giusto dare farmaci ai bambini per renderli meno disturbanti? Gli stimolanti non producono miglioramenti duraturi rispetto all’aggressività, al disturbo della condotta, agli atteggiamenti violenti, all’efficacia negli apprendimenti, alle relazioni.

Ebbene, anche nel caso in cui gli psicofarmaci producessero risultati positivi dal punto di vista del comportamento a scuola, sarebbero d’aiuto per il bambino? Oltre ad agire solo sui sintomi e non sulle cause della sofferenza della persona, gli psicofarmaci alterano il metabolismo e le percezioni, rallentano i percorsi cognitivi e ideativi contrastando la possibilità di fare scelte autonome, generando fenomeni di dipendenza e assuefazione del tutto pari – se non superiori – a quelli delle sostanze illegali classificate come droghe pesanti. Presi per lungo tempo, possono portare a danni neurologici gravi che faranno del bambino un disabile. Oggi, a scuola, si mira sempre più a un addestramento alla produttività, all’efficienza e alla centralità del risultato. Molti insegnanti sono stati convinti dall’autorità dello psichiatra che i bambini che esprimono comportamenti sofferenti abbiano bisogno di farmaci stimolanti per cui i maestri e le maestre hanno rinunciato alla ricerca di soluzioni in classe per risolvere i problemi. In realtà questi docenti dovrebbero essere incoraggiati a cercare e trovare nuovi metodi nell’educazione. Insegnare dovrebbe dare priorità alla relazione, sapere e poter sperimentare approcci didattici e pedagogici a seconda della persona con la quale ci si rapporta. Esistono approcci didattici e pedagogici che, anziché sopprimere la spontaneità, aiutano gli studenti che manifestano “disagio” ed evitano di trattare il loro cervello in crescita con sostanze altamente tossiche come gli stimolanti. Insegnare è un’attività fluida, cangiante, sfumata, che cambia da persona a persona, da situazione a situazione, proprio perché basata sull’interazione e non sui dogmi. L’attività dell’insegnamento ha tante caratteristiche, ma non dovrebbe avere quella dell’assolutezza, dell’indiscutibilità, della categoricità. Non esistono metodi validi in assoluto: insegnare è un’attività che fa interagire soggettività, singole e di gruppo. Significa condividere pezzi di vita, conoscenze ed esperienze. Non indottrinare, ma interagire; non preparare al lavoro, ma preparare alla vita.

È compito degli adulti difendere le nuove generazioni tornando a riflettere sull’importanza dell’ambito sociale, comunitario e relazionale per la loro educazione. È necessario che genitori, insegnanti, educatori e tutti coloro che hanno a che fare con i bambini, non cedano al riduzionismo psichiatrico, non psichiatrizzino ogni comportamento disturbante e/o sofferente, affinché la fantasia, il senso critico e la libertà di scelta possono continuare a caratterizzare l’infanzia.

http://www.giornale.cobas-scuola.it/ossessione-diagnostica/
Gazzola C., Ortu S., Divieto d’infanzia, BFS Edizioni, Pisa, 2018, p. 113 http://www.giornale.cobas-scuola.it/ossessione-diagnostica/∑ Santerini M., “Diamo a ciascuno il tempo di cui ha bisogno”, in: Conflitti. Rivistaitaliana di ricerca e formazione psicopedagogica, n. 3, 2017, p. 32.
Esposito A., Le scarpe dei matti, Ad Est dell’Equatore Editore, Napoli, 2019.6 Whitely M., “Strattera a sad story (warning it may make you want to kill your- self)”, 2015, su http://www.speedupsitstill.com/strattera/7 Gotzsche P.C., Psichiatria letale e negazione organizzata, Fioriti Editore, Roma, 2017. 8 Whitaker R., Indagine su un’epidemia, Fioriti Editore, Roma, 2013.

Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud-Pisa

+39 335 700 26 69
via San Lorenzo 38, Pisa (Pi)
antipsichiatriapisa@inventati.org www.artaudpisa.noblogs.org

RILFESSIONE SULLA SOFFOCANTE TUTELA PSICHIATRICA

Chi come chi scrive ha vissuto o vive una storia di psichiatrizzazione, su cui vorrei abbattere ogni stigma perché può capitare a chiunque in diverse età della vita per diversi motivi, può testimoniare facilmente la sensazione di sentirsi espropriat del proprio sentire e del proprio volere da parte di figure che pretendono di conoscere gli interessi di un individuo meglio dell’individuo stesso.

Riconosco che la mia esperienza personale non è per forza paradigmatica o generalizzabile e che esistono varie forme gravi di stigmatizzazione, fra cui la negazione del vissuto di chi prova esperienze di sofferenza non riconducibili e accertabili come ‘fisiche’ o visibili, tuttavia ho sentito l’urgenza di denunciare in particolare l’aspetto di sovradeterminazione del soggetto da parte della psichiatria, mascherato da ‘cura’ e ‘tutela’, ma di una cura e tutela istituzionalizzate.

Di questo vorrei che si parlasse e mi riferisco anche ai rari casi in cui formalmente il parere del/la pazient psichiatric viene per un attimo preso in considerazione, ma sempre in quanto parere ‘soggettivo’ e condizionato, e si arriva quindi in diversi modi alla prassi di costringere più o meno con le buone o con le cattive la persona a perseguire il proprio bene, intendendo per tale quello indicato dall psichiatra. Questo fenomeno si verifica in diversi gradi e in diverse modalità anche in molti altri ambiti e sembra diffondersi sempre più in maniera capillare nella società, in una logica che non dovrebbe farci abusare del termine TSO fuori dal suo contesto, ma che ha sicuramente qualcosa o molto a che fare con una società in cui il TSO è ammesso e viene praticato.

Esiste sicuramente un aspetto custodialistico anche nella scolarizzazione; il/la minorenne, in quanto infante o adolescente, ha bisogno di essere accompagnat nella sua crescita ma gli aspetti educativi e pedagogici cosiddetti ‘formativi’ molto spesso (o comunque più spesso di quanto siamo dispost ad ammettere) lasciano il posto a un mero esercizio di sorveglianza e controllo, e ogni bambin è continuamente sovradeterminat dall’adult, che a sua volta può arrivare a delegare la propria responsabilità a figure di specialist della psiche, come ben mostrato negli altri testi dedicati.

Analogamente il/la paziente psichiatric è continuamente infantilizzat e trattat con paternalismo, considerato incapace di autodeterminarsi e di coltivare reti sociali. Quest’ultimo aspetto in particolare, che può costituire un orizzonte di senso, di guarigione o di vera e propria salute, anche quando presente viene spesso ridimensionato o considerato insufficiente a fronte del pregiudizio psichiatrico della sacralità della diagnosi e di una sorta di profezia autoavverantesi di trovarsi di fronte nient’altro che un paziente, utente o potremmo dire ‘cliente’ della psichiatria.

Viceversa è proprio questa possibilità di intessere relazioni di prossimità e affinità, fra i mille ostacoli di una società anomica e spesso ostile, a costituire una vera e propria esperienza esistenziale lontana anni luce da questa soffocante tutela psichiatrica.

Per concludere, un approccio interdisciplinare ci fa vedere come non sia forzato intravedere in altre forme di gabbia elementi in comune con la psichiatria.
Proprio tale approccio intersezionale ha mostrato lampi di possibilità, seppur talvolta inespressa, di squarciare la cappa opprimente e prendersi qualche boccata d’aria pure nella nuova fase della pandemia, che sta accentuando e accelerando dinamiche già in corso di isolamento sociale e retoriche anche istituzionali sulla resilienza e l’adattamento passivo a cambiamenti forzati e turbolenti.

Così almeno è stata per chi scrive la lettura di un importante articolo decoloniale anticarcerario dell’estate calda statunitense del 2020 che metteva in rilievo come l’abolizione del carcere debba includere la psichiatria e merita di essere ripreso (tradotto in italiano con il titolo “l’abolizionismo deve includere la psichiatria”) di cui riporto due note importanti:

L’abolizione della psichiatria non significa che a nessunx sia permesso identificarsi con diagnosi psichiatriche che ritengono essere loro utili, o che nessunx possa continuare a prendere farmaci psichiatrici che ritengono efficaci. Significa, tuttavia, che la nozione di “malattia mentale” è stata inventata per patologizzare le risposte logiche allo stress e ai traumi che sono onnipresenti in un mondo brutalizzato dal colonialismo e dal capitalismo.

Vorremmo anche confermare che alcune persone hanno avuto buone esperienze in istituti psichiatrici. Da un’ottica abolizionista, crediamo che le parti buone di quelle esperienze potrebbero essere replicate e migliorate all’interno dei centri di riposo e altre innovazioni negli spazi di guarigione non carcerari. Inoltre, dire che hai avuto una buona esperienza in un reparto psichiatrico e quindi la psichiatria non dovrebbe essere abolita è come dire che la polizia ti ha aiutato e quindi non dovrebbe essere abolita.

Contributo antipsi resistente

PSICHIATRIA IN ADOLESCENZA, STATI INTEGRATI DA DISGREGARE

La storia della psicologia e (soprattutto) della psichiatria è segnata da diagnosi che, comparse velocemente e diventate tanto di moda quanto i jeans a zampa negli anni 70 o le spalline nel decennio seguente, sono poi state abbandonate per far posto ad altre “malattie”. Nelle stesse università, durante i corsi di storia della psicologia, prima o poi si affrontano alcune tematiche che hanno segnato indelebilmente la società. Ad esempio l’isteria connotava solo ed esclusivamente le donne e la radice del termine mette subito in chiaro perché (hysteron = utero): fino alla fine dell’ottocento praticamente tutte le donne della medio-alta borghesia ne erano affette. Lasciando perdere le interpretazioni più o meno plausibili sul motivo per cui proprio in quel momento storico sia comparsa questa diagnosi (anche perchè le interpretazioni sono state sviluppate solo ed esclusivamente da uomini, guarda caso), è un dato di fatto che con il veloce cambio del sistema sociale la cosiddetta isteria sia sparita nel nulla nel giro di un decennio. Altro esempio il disturbo dissociativo dell’identità, dove una persona sviluppa più identità che convivono più o meno amorevolmente dentro uno stesso corpo. Tanto in voga negli anni 70, negli 80 inizia a scemare per scomparire praticamente ovunque nel mondo. Alcuni manuali raccontano addirittura di persone che avrebbero sviluppato più di 20 personalità, quasi fosse una gara a chi era in grado di interpretare più ruoli.

Noi crediamo che le malattie, per essere tali, non possano essere legate al momento storico come nei casi descritti sopra. L’ipertensione o il diabete sono patologie che possono essere controllate con la dieta, ma esistono comunque e siamo certi non spariranno nel breve periodo. L’omosessualità, che qualcuno considera tutt’oggi una patologia, nella storia del DSM è passata dall’essere una malattia da curare a suon di elettroshock e docce gelate all’essere definita devianza, per speriamo sparire definitivamente da qualsiasi manuale in un prossimo futuro. Eppure ci sono condizioni esistenziali, anche di altro tipo, che per motivi tutt’altro che chiari e leciti diventano improvvisamente “malattie”. Nell’ultimo anno e mezzo la pandemia che ha volenti o nolenti sconvolto la vita dell’intero pianeta, in alcuni momenti in particolare ha segnato ancor maggiormente la nostra quotidianità. Soprattutto in alcune zone d’Italia, Brescia e Bergamo in primis, contagi e morti hanno sconvolto la nostra quotidianità. Senza scomodare il corteo delle bare trasportate dall’esercito, è innegabile che l’impatto della pandemia sia stato devastante. L’occhio della stampa si è posato a ripetizione un po’ su tutti, ma soprattutto su bambini e adolescenti, ovvero coloro che più hanno subito le conseguenze negative delle restrizioni non potendo più frequentare la scuola. Già questo è un aspetto che potremmo criticare: homeless, migranti e detenuti si giocano ampiamente il podio di chi ha visto la qualità della propria vita peggiorare drasticamente. Ma evitiamo inutili classifiche e andiamo avanti.

È innegabile che anche i più piccoli abbiano subito un disagio da questa situazione, ma ancora una volta si è corsi a patologizzare una condizione straordinaria che avrebbe comunque avuto una sua conclusione. Anche stavolta l’occhio della stampa e della società hanno esplorato solo un aspetto della situazione che si è venuta a creare, ovvero l’impossibilità di partecipare a quel momento sociale (fondamentale) che rappresenta la scuola. Scorrendo i titoli dei giornali poi si trovavano solo riferimenti catastrofici all’anno perso e alle capacità cognitive dei minori andate in fumo, ignorando le voci dissonanti che comunque si levavano per tranquillizzare le famiglie. Non servono infatti studi decennali in pedagogia o neurofisiologia per sapere che il cervello umano nei primi 20 anni di vita ha una formidabile capacità di adattamento e recupero cognitivo dopo situazioni di pesante e prolungato stress. Abbassare la tensione però non è mai un buon argomento con cui vendere copie dei quotidiani o essere seguiti in tv, perciò a certe voci non è stato dato lo spazio che meritavano.

Si insinua perciò il sospetto che, anche in questo ambito, pandemia e lockdown abbiano incrementato il mercato degli psicofarmaci in quel territorio che da vent’anni a questa parte è sinonimo di affari per le grandi case farmaceutiche. Dopo l’espandersi delle diagnosi di ADHD e disturbi dell’attenzione, secondo alcuni esperti dovuto alla maggior capacità di diagnosi, ma che in effetti ci lascia se non scettici almeno un po’ dubbiosi, l’occhio della psichiatria si è spostato verso il preadolescente e il suo desiderio di isolamento. Non essendo più possibile diagnosticare una dipendenza da videogiochi o telefonino come in un recente passato, sembra che la diagnosi psichiatrica debba comunque trovare qualcosa che non va, orientandosi in un verso o nell’altro a seconda di come la società cambia. Tornando agli esempi riportati, fino a vent’anni fa passare più di 4 ore al giorno giocando alla play o utilizzando il cellulare erano considerati condizione di dipendenza. Oggi è la normalità. Domani sarà (ipotizziamo) considerato patologico l’individuo che non si iscrive a nessun cosiddetto social e perciò degno di diagnosi.

Durante la pandemia la condizione di difficoltà dei più giovani (che non neghiamo) è diventata ben presto patologia, grazie anche all’attenzione posta dall’OMS all’incremento dei fondi da dedicare alla presunta salute mentale. Ancora una volta però siamo convinti che, come in passato, questa condizione dilagante di isolamento-depressione-apatia legata al covid sia figlia delle mode e venga cavalcata a beneficio dei soliti noti.

Sempre non volendo negare l’esistenza di un disagio o di condizioni di fragilità, non ci è capitato infatti di sentire gli “specialisti” consigliare il ritorno al contatto con l’altro, alla socialità, all’impegno per i più bisognosi, ma sempre più suggerire di rivolgersi ai servizi sanitari. Ancora

una volta la risposta è stata delegare e approdare al farmaco, quando invece l’isolamento e la chiusura in sé stessi si combatte solo con la socialità e il confronto. Pandemia o no, crediamo sia possibile trovare nuove forme di socialità o addirittura, atto ancor più rivoluzionario, ristabilire quelle forme di incontro che rischiano di sparire nel nulla.

Al netto di ciò che uno possa pensare su vaccini o green pass, la grande ribellione di cui abbiamo bisogno ora e di cui necessitano soprattutto i più giovani è il ritorno all’incontro, alla socialità e all’impegno politico e civile. Il centro sociale, la strada, l’incontro con l’altro sono la scuola di cui hanno bisogno ora i più giovani…e anche noi.

CAMAP – Collettivo Antipsichiatrico Camuno
http://collettivoantipsichiatricocamuno.blogspot.com/

SU MEDIA, ACCELERAZIONE DIGITALE E ALIENAZIONE AL TEMPO DEL COVID

L’isolamento imposto durante il lockdown si è insediato su una condizione di profonda miseria umana e materiale che ha indebolito rapporti e legami, esasperato paure e divisioni, e impedito nella maggior parte dei casi elaborazioni critiche della realtà, dei vissuti e delle esperienze.

La componente affettiva ed emotiva delle relazioni è stata trascurata generando conflitto e ulteriore angoscia, facendo sentire le persone ancora più isolate.

Frustrazioni e paure sono dilagate online, nei circuiti delle platee digitali: chat, social network, liste e siti di ogni genere e sorta hanno alimentato una macchina parossistica di testi, immagini, emozioni forzate, informazioni e disinformazioni che hanno spinto chiunque a prendere ‘partito’, tra applausi, dissensi ed indignazioni, in una realtà sempre più rarefatta, divenuta rappresentazione, sfondo, vetrina per l’ego atomizzato di ognunx.

Riversare la proprie frustrazioni e la propria solitudine online ha esposto a tutta una serie di insidie, incidenti e fraintendimenti le vulnerabilità di molte persone: ascolto, solidarietà e riflessione critica hanno ceduto il passo a semplificazioni eccessive e a comunicazioni ‘eclatanti’, la velocità con cui si è giocata l’informazione, la drastica riduzione delle complessità imposta dalle piattaforme (messaggi abbreviati, numero di caratteri limitato, video molto brevi, comunicazione prevalentemente visuale) unitamente alla distanza tra le parti coinvolte e spesso alla poca conoscenza reciproca, ha incoraggiato interazioni “di pancia” che non hanno richiesto né sforzo, né empatia con nessunx, esattamente alla maniera dei social network commerciali, dove emerge ed è premiato il contenuto che stupisce di più, la voce che urla più forte.

L’eco e la pressione della visibilità pubblica e della ‘reputazione’ hanno aumentato il senso di competizione/prestazione dei botta e risposta, commenti artefatti in cambio di qualche like e opinioni posticce sono diventati in molti casi vestitini per l’ego da indossare all’occorrenza sull’argomento ‘indignato’ del giorno in attesa di quello del giorno dopo in una memoria “scroll” che il più delle volte non ha depositato nulla, se non il vuoto di cui si è nutrita.

Algoritmi specifici hanno privilegiato notizie e informazioni in linea con le ricerche già effettuate ed esasperato ulteriormente le bolle informative già presenti, impegnando tantissimx a confermare soltanto se stessi.

Se da una parte l’affidamento acritico a social network e chat ha amplificato polarizzazioni, semplificazioni, dinamiche competitive e aggressività, a scapito della qualità e della profondità delle interazioni, dall’altra ha potenziato, in un momento di forte disorientamento collettivo, il conformismo di gruppo e l’accondiscendenza per senso di appartenenza, riducendo l’attitudine al ragionamento autonomo e al pensiero critico.

Il livello di fragilità in circolazione è aumentato: odio online e bisogno di visibilità si sono alternati in un debilitante gioco dove la tensione è stata il più delle volte scaricata tra oppressx.

Il tempo speso male all’interno di piattaforme digitali, l’esposizione acritica di relazioni, framework di vissuti e comunicazioni a platee pubbliche e a configurazioni commerciali, l’informazione abnorme ma parziale, la continua esposizione a condizionamenti e suggestioni, l’assedio di notifiche costanti, il condizionamento a controllare costantemente profili social e chat, insieme all’utilizzo di schermi anche alle sera e alla notte, ha indebolito la qualità del sonno e della veglia e le funzioni riflessive ed emotive e di moltx.

In generale l’affidamento all’informazione pervasiva, la convinzione che la risposta alla vita, all’universo e tutto quanto si trovi facilmente con un clic, ha fatto credere a moltx che la ‘conoscenza’ possa risiedere ‘fuori da sè’ ed essere tirata fuori all’occorrenza. Ma affidare senza discriminazione la propria conoscenza a dispositivi esterni e le proprie risposte ad un motore di ricerca non crea reale e autentica conoscenza, né originale elaborazione personale. Viviamo nell’illusione di poter accedere ad informazioni incredibili ma se non abbiamo il tempo e le capacità di elaborarle, approfondirle, discriminarle, discuterle, comprenderle, se non sappiamo considerarne i contesti, le premesse e l’affidabilità, se non sappiamo verificarne le fonti, l’attendibilità ecc., le subiamo e basta, non costruiamo conoscenza individuale, ne critica collettiva utile, non ce ne facciamo nulla. La conoscenza rischia di ridursi sempre più ad un puro esercizio di ripetizione di contenuti semplificati indisponibile ad incidere in modo significativo sulle esperienze e sul piano della realtà.

Tutto questo è sempre stato vero, il contesto pandemico lo ha esasperato: la pervasività dei media e l’accelerazione della digitalizzazione di ogni aspetto della vita sta coinvolgendo e stravolgendo ogni campo dell’esistente, per questo sentiamo urgente una riflessione critica antiautoritaria e antipsichiatrica alle tecnologie che sia in grado di non sedersi sul proprio privilegio e che sia attenta a non ridurre la realtà ad una semplificazione astratta e indeterminata: gli scenari dei diversi contesti di dominio, abuso e sfruttamento è composta da molteplici oppressioni che altrimenti rischierebbero di essere invisibilizzate.

Se è vero che la rete ha permesso il non completo isolamento di chi altrimenti non avrebbe avuto alcuna possibilità di relazione o qualsivoglia simulacro di compagnia e/ o calore, consentendo a moltx di rimanere in contatto con persone lontane e di mantenere interessi, legami e rapporti, è vero anche che ha lasciato fuori e sta lasciando fuori chi per scelta, divario digitale, assenza di competenze, tempo, connessione, rete o dispositivi, si trova esclusx.

La relazione col digitale e col virtuale non può essere data per scontata.

In una società lanciata in corsa verso un ‘progresso’ predatorio, dove l’atomizzazione sociale dilaga e le relazioni di prossimità e la solidarietà collassano, la mediazione tecnologica di ogni aspetto dell’esistente sta diventando in tutti i campi una scelta obbligata, con un impatto in termini di controllo e alienazione che non si sta considerando ancora abbastanza.

Internet diventa onnipresente ed essenziale per fare qualunque cosa ma la sua infrastruttura è controllata e monopolizzata dagli interessi politici, economici e ideologici di chi la possiede.
Mentre i corpi oppressi sono ridotti sempre più ad oggetti e funzioni in relazione a chi detiene i maggiori privilegi sociali ed economici e gli spazi di libertà si riducono la rete ci sottopone a nuove forme di dominio non solo inerenti al divario digitale e al capitalismo della sorveglianza ma anche e soprattutto relativamente a come subiamo i suoi dispositivi e li implementiamo nelle nostre vite: se ci esponiamo a influenze commerciali e condizionamenti sempre più capillari senza nessun tipo di autodifesa, preparazione, consapevolezza e consenso, la nostra relazione con noi stessx e col mondo rischia di esserne compromessa.

Si tratta di nuovi paradigmi che seguono la ristrutturazione del capitale, meno fondati sulla ‘fabbrica’ e più sui ‘servizi’: la merce siamo noi.

Nuovi rapporti di produzione e accumulazione, quindi nuovi rapporti di alienazione, mercificazione e riproduzione sociale: atomizzazione sociale, burocratizzazione automatizzata, ’smart city’ sorvegliate e normate, servizi sempre più digitalizzati e ‘personalizzati’ (l’illusione della ‘scelta libera’ definita da algoritmi e costantemente tracciata), relazioni sempre più virtualizzate, telemedicina, assistenti robotiche (declinate sempre al femminile, a ricordarci come l’asse dello sfruttamento predatorio si specializzi ma parli sempre la stessa lingua), commercio elettronico e sfruttamento, smart working, big data, intelligenza artificiale, internet of Things, industria 4.0… L’impatto in termini di salute, libertà, controllo, discriminazione ed esclusione, senso e alienazione, sono profonde e molteplici.

Si sta spingendo indiscriminatamente sul capitalismo dell’innovazione tecnologica e sulla produzione esasperata di dispositivi che mediano e medieranno sempre di più il nostro rapporto con la realtà, a ritmi esponenziali, umanamente insostenibili dal punto di vista delle materie prime, ma anche dal punto di vista umano e relazionale, con grandi profitti, ricatti e interessi in campo, e ripercussioni importanti sul tessuto sociale che ci attraversa.

Le città si stanno trasformando in industrie di sfruttamento mediate da aziende private, interconnesse e digitalmente sorvegliate, normate sempre più in senso autoritario e iperrazionale, nonluoghi ripuliti, inibiti al vagabondaggio, agli incontri estemporanei e generativi e al confronto con l’alterità.

L’organizzazione algoritmica dello sfruttamento, la mercificazione esasperata di ogni aspetto della vita, oltre che consolidando forme sempre più specializzate di potere e dominio, sta depoliticizzando l’incontro con noi stessx, con l’altrx e con l’ambiente, e incoraggiando una sempre più ampia disumanizzazione delle relazioni sociali.

La solitudine di fronte a quest’accelerazione ci lascia espostx all’abuso.

Tutto questo, come soggettività con un posizionamento antiautoritario e antipsichiatrico non solo ci riguarda, ma ci chiama in causa.

La necessità di autodifenderci si impone alla nostra riflessione e alla nostra pratica travolgendo quotidianità e prospettive di autogestione con l’urgenza di individuare spazi di riappropriazione, autodeterminazione ed emancipazione per rispondere a conseguenze, derive e abusi che senz’altro subiremo se non ci organizzeremo.

L’isolamento e il disciplinamento sempre più esasperato di ogni aspetto della vita, l’alterazione in molti casi del sonno e del riposo a causa della ‘connessione’ nostop e della reperibilità perenne, l’insicurezza legata al presente e al futuro, l’assedio costante di notizie a contenuto angosciante e contraddittorio, le notifiche continue e la sovraesposizione a schermi e dispositivi vede infatti anche la psichiatria sempre più impegnata nell’individuazione/specializzazione di nuovi ‘disturbi’ e nuove ‘terapie’ farmacologiche per ‘contenere’ con nuove diagnosi e nomenclature le ‘ansie’, legate a rabbia, paura, disagio e frustrazione in crescente aumento. (1)

Se nella storia il controllo e il monopolio della violenza e della costruzione della conoscenza è sempre stato monopolio dei corpi, dalle società religiose all’odierno neoliberismo, è necessario oggi più che mai sfidare relazioni omologanti e predatorie, per liberare conoscenze, saperi, legami e desideri in grado di spezzare gabbie, isolamento e alienazione.

Lungi dall’ammiccare a visioni della natura moralizzanti, sacralizzate, preordinate e preordinanti, che rimandano a concettualizzazioni universalistiche che rischiano di riportare l’autodeterminazione dei corpi, dei loro significati e desideri a presunti schemi ‘naturali’ astratti da rispettare, ‘buoni’ e ‘giusti’, crediamo che sia necessario contrastare la deriva autoritaria in corso conquistando spazi di libertà, riflessione e imprevisto.

Non ci collochiamo fuori dalle contraddizioni e da nulla, la nostra rivolta parte delle fratture che abitiamo, da lì ci muoviamo e rivoltiamo, crediamo infatti che solo partendo dalle crepe che solchiamo possiamo articolare discorsi sull’esistente che non siano prevaricanti e autoritari, capaci di liberare significati e possibilità, e non nuove forme di dominio.

Si tratta di sfidare prospettive di stampo perfezionista, morale e paternalista che ricalcano l’ideale esplicativo tecnico-razionale del patriarcato sull’esistente, di non calare sull’altrx dogmi, stigmi e religioni, né mortifere profezie della catastrofe e del suicidio: la catastrofe la occupiamo affermando la nostra esistenza e la nostra rabbia oltre qualsiasi gabbia, sfidando isolamento e oggettivazione, creando meticciamenti e nuovi e differenti ‘corridoi ecologici’ ibridi, nomadi, conviviali, imprevisti e rivoluzionari. Non si tratta di ‘resilienza’ o di ‘cogestire l’agonia’ e/o l’alienazione, si tratta di non subirla e ribaltarla contro chi sfrutta e opprime.

E’ per questa solitudine, per questo fuoco, per questa empatia nomade e senza briglie che ci anima e ci muove, che viene prima di qualsiasi ‘frontiera’ o ‘distanziamento’, e che nessuna virtualizzazione, razionalizzazione o soluzione tecnica può risolvere, domare o concludere, che è importante rimettere al centro del discorso politico la scoperta di sé e dell’altrx oltre i protocolli, le gabbie istituzionali, i circuiti obbligati e obbliganti, e i ruoli sociali imposti e previsti.

E’ necessario oggi più che mai riappropriarsi del tempo, di spazi e vissuti, per recuperare la possibilità di comprendere e comprendersi a partire da gruppi umani caldi, affettivi e interessati, capaci di liberare legami, solidarietà e reciproca soggettivazione, per amare, essere e desiderare, creare e sperimentare, muovendo dalle oppressioni che viviamo, partendo dalle fratture che riusciamo ad allargare, individuando complicità e intersezioni, alla conquista di liberazioni che siano anche pratiche, per rivoltare insieme al presente, anche l’orizzonte.

Brughiere
https://brughiere.noblogs.org/

(1) Chiara Gazzola STIGMI, CONTAGI E SINDEMIE (uscito sul numero di aprile 2021 di “Sicilia libertaria”) https://brughiere.noblogs.org/ post/2021/04/17/psichiatria-e-pandemia-stigmi-contagi-e-sindemie/

“Quello che è successo a me non può essere solo mio”

Condividiamo il discorso della mamma di Matteo Tenni in seguito all’archiviazione “per tragica fatalità” del processo sulla morte del figlio.

Una semplice infrazione al codice della strada che il 9 aprile 2021 a Pilcante si è trasformata in violenta caccia al «matto», fino al vero e proprio abbattimento.

“COGLIONE FERMATI”, “NON SI FERMA ‘STO BASTARDO” , “MATTO, SEI UN MATTO”, “SCHIANTATI, SCHIANTATI”, “DOVEVO SPARARGLI PRIMA”

L’inseguimento predatorio di Matteo fin sulla porta di casa e lo spietato omicidio davanti alla madre Annamaria, cui è stato impedito anche di avvicinarsi al figlio morente, non sono una tragica fatalità, è la polizia, è la psichiatria!

NOI NON DIMENTICHIAMO, NOI SAPPIAMO CHI È STATO

PER UN MONDO SENZA PSICHIATRIA, SENZA CARCERE E SENZA FRONTIERE

A luglio del 2021 è stata aperta una sezione ‘nido’ al femminile della Dozza proprio accanto alla sezione psichiatrica – la cosi detta ‘sezione articolazione salute mentale’, l’unica femminile in Emilia Romagna.

Il carcere che annienta gli adulti si è organizzato per l’infanzia: un nido dietro le sbarre accanto al repartino psichiatrico, due dispositivi che insieme esprimono tutta la ferocia del sistema carcerario.

Sabato 22 gennaio dalle 18:00 alle 18:30 su Mezz’ora d’aria, trasmissione radio anticarceraria bolognese sulle frequenze di Radio Città Fujiko, una puntata per parlare di carcere femminile, infanzia reclusa e psichiatria.

PER UN MONDO SENZA PSICHIATRIA, SENZA CARCERE E SENZA FRONTIERE

Il podcast della puntata

La puntata si troverà anche sul sito della trasmissione
https://www.autistici.org/mezzoradaria/

Diffondi

Il 15 febbraio 2021 muore Isabella P., 37 anni,  ‘temporaneamente trasferita’ dall’articolazione femminile di Bologna in quella di Pozzuoli per il tempo dei lavori di ‘ristrutturazione’ nel repartino psichiatrico della Dozza.

Una crisi respiratoria.

Isabella è solo un nome in più nell’elenco dei tanti morti di carcere e di psichiatria.

Isabella non c’è più, l’articolazione ‘salute mentale’ c’è ancora, oggi con una sezione ‘nido’ accanto.

Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems): i nuovi manicomi

Contributo su carcere, psichiatria e Rems a cura del Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud di Pisa per l’agenda “Scarceranda 2022”

La Legge n°81 del 2014 ha disposto la chiusura degli OPG (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) e ha previsto l’ entrata in funzione delle REMS (Residenze per l’Esecuzione Misure Sicurezza) su tutto il territorio nazionale. La misura di affidamento ai servizi sociali e sanitari, anziché a quelli giudiziari, costituisce un passo in avanti nella riduzione delle misure reclusive totalizzanti, ma, mantenendo inalterato il concetto di pericolosità sociale, non cambia l’essenza della questione.

Come si finisce in una REMS ? In Italia, in caso di reato, se vi sia sospetto di malattia mentale, il giudice ordina una perizia psichiatrica; se questa si conclude con un giudizio di incapacità di intendere e di volere dell’imputato, lo si proscioglie senza giudizio e se riconosciuto pericoloso socialmente, lo si avvia ad un percorso in una REMS o in una struttura residenziale psichiatrica per periodi di tempo definiti o meno, in relazione alla pericolosità sociale.

La legge 81/2014 non ha intaccato il sistema del “doppio binario”: quello che riserva agli autori di reato – se dichiarati incapaci di intendere e di volere per infermità mentale – un percorso giudiziario speciale, diverso da quello destinato agli altri cittadini. Chiudere i manicomi criminali senza cambiare la legge che li sostiene vuol dire creare nuove strutture, forse più pulite, ma all’interno delle quali finiscono sempre rinchiuse persone giudicate incapaci d’ intendere e volere. Una carenza che non ha reciso la logica sottesa al trattamento dei “folli rei”, quella del mancato riconoscimento di una piena dignità alle persone, anche attraverso l’attribuzione della responsabilità per i propri atti.

Per superare realmente il modello manicomiale occorre non riproporre i criteri e i modelli di custodia e metter mano a una riforma degli articoli del codice di procedura penale che si riferiscono ai concetti di pericolosità sociale del “folle reo, di incapacità e di non imputabilità”, che determinano il percorso di invio alle REMS.

Al contrario con le REMS viene ribadito il collegamento inaccettabile cura-custodia riproponendo uno stigma manicomiale. Ci si collega a sistemi di sorveglianza e gestione esclusiva da parte degli psichiatri, ricostituendo in queste strutture tutte le caratteristiche dei manicomi. La proliferazione di residenze ad alta sorveglianza, dichiaratamente sanitarie, consegna agli psichiatri la responsabilità della custodia, ricostruendo in concreto il dispositivo cura-custodia, e quindi responsabilità penale del curante-custode. Tradotto significa l’inizio di un processo di reinserimento sociale infinito, promesso ma mai raggiunto, legato indissolubilmente a pratiche e percorsi coercitivi, obbligatori, e contenitivi.

Il manicomio non è una struttura, bensì un criterio; la continua ridenominazione di tali strutture, infatti, non può nascondere la medesima contraddizione di fondo: l’isolamento del soggetto dalla realtà sociale per la sua incapacità di adattamento nei confronti di un mondo su cui nessuno muove mai alcuna questione e che nessuno mette mai in discussione. Sarebbe essenziale superare il modello di internamento, non riproporre gli stessi meccanismi e gli stessi dispositivi manicomiali. Il manicomio non è solo una questione di dove e come lo fai, se c’è l’idea della persona come soggetto pericoloso che va isolato, dovunque lo sistemi sarà sempre un manicomio.

Non ci aspettiamo che lo Stato cancelli l’articolo che istituisce la pericolosità sociale, visto che negli ultimi anni è stato utilizzato molto dalla magistratura per colpire e reprimere le lotte.

Nelle REMS la durata della misura di sicurezza non può essere superiore a quella della pena carceraria corrispondente al medesimo reato compiuto. Spesso invece accade che le persone che hanno già scontato in carcere tale pena finiscano nelle REMS e non vengano liberati subito e senza condizioni. Infatti la normativa in vigore effettua questa equiparazione solo per la misura di sicurezza definitiva ma questo non vale per le persone che hanno la libertà vigilata con affidamento ai servizi di salute mentale che può estendersi all’infinito. Sono molti anche i pazienti psichiatrici non imputabili detenuti in carcere in attesa di andare nelle REMS, attesa che può richiedere mesi o addirittura anni, con la conseguenza di tenere dietro le sbarre senza limiti di tempo soggetti che non  dovrebbero starci. La soluzione non è certo costruire nuove REMS né aumentarne la capienza.

Le condizioni delle carceri italiane continuano ad essere pessime: le strutture sono fatiscenti, il cibo insalubre, le docce e acqua calda carenti e esiste un sovraffollamento perenne. A tutto questo è da aggiungere annientamento, deprivazione, contenzione fisica, farmacologica, violenza fisica e psicologica.  La reclusione genera disagi, patologie e fragilità che spesso esordiscono in carcere e si protraggono anche dopo la scarcerazione. Nel 2019 sono stati 53 in totale i suicidi negli istituti penitenziari italiani (dato confermato sia dalla fonte del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria che da Ristretti Orizzonti) a fronte di una presenza media di 60.610 detenuti ovvero un tasso di 8,7 su 10.000 detenuti mediamente presenti. Per quanto riguarda gli atti di autolesionismo, nel 2019 svetta il carcere di Poggioreale a Napoli con 426 atti (18,79 su 100 detenuti); mentre il valore più alto ogni 100 detenuti lo detiene l’istituto penitenziario di Campobasso con 110,43 atti ogni 100 detenuti, seguito da quello di Belluno che sfiora quota 100 (98,72).

La salute nei luoghi di reclusione è inesistente, manca personale medico e infermieristico , non si trova un banale farmaco per il mal di stomaco ma i detenuti possono avere accesso a svariati psicofarmaci.

Più di un detenuto su 4 è in terapia psichiatrica, con una media del 27,6%. In alcuni istituti addirittura quasi tutti i detenuti sono in terapia psichiatrica: nel carcere di Spoleto risulta psichiatrizzato il 97% dei reclusi, a Lucca il 90% mentre a Vercelli l’86%.

Noi crediamo nel bisogno e nella costruzione di reti sociali autogestite e di spazi sociali autonomi, in grado di garantire un sostegno materiale, una vita senza compromessi di invalidità o Amministratori di Sostegno che gestiscono le esistenze delle persone seguite dalla psichiatria, nonché un reddito e un lavoro non gestiti dai servizi socio-sanitari, bensì autonomamente dal soggetto.

Un concreto percorso di superamento delle istituzioni totali passa necessariamente dallo sviluppo di una cultura non segregazionista, largamente diffusa, capace di praticare principi di libertà, di solidarietà e di valorizzazione delle differenze umane contrapposti ai metodi repressivi e omologanti della  psichiatria.

Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud-Pisa

per info e contatti:
Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud
via San Lorenzo 38 56100 Pisa
antipsichiatriapisa@inventati.org
www.artaudpisa.noblogs.org / 335 7002669

BASTA MORTE NEI REPARTI PSICHIATRICI!! ABOLIAMO LA CONTENZIONE!

Volantino distribuito davanti all’ospedale San Camillo di Roma, a seguito dell’ennesima morte di TSO.


BASTA MORTE NEI REPARTI PSICHIATRICI!!
ABOLIAMO LA CONTENZIONE!!

Abdel Latif, ragazzo tunisino di 26 anni. Era arrivato in Italia tramite una delle tante navi che cercano di approdare, fortunate per non essere state respinte. L’ “accoglienza” che gli è stata riservata, a lui come a tanti/e altre, è stata quella di essere rinchiuso in un CPR, un centro di detenzione per migranti nel quale vieni portato per un reato terribile: non avere il documento “giusto”.
Abdel rimane nel CPR svariati giorni; a un certo punto, da quanto appreso dai giornali, gli viene diagnosticato un disturbo psichiatrico (di cui non aveva mai avuto segni in Tunisia) e gli vengono dati dei farmaci. Dopo pochi giorni la “cura” pare vada rafforzata e Abdel viene trasferito al reparto di psichiatria prima del Grassi di Ostia, poi al San Camillo.
Qui viene tenuto legato al letto per 3 giorni, dal 26 al 28 novembre giorno in cui muore.
Le autorità mediche parlano di arresto cardiaco, non facendo alcun riferimento né ai farmaci somministrati né al fatto che fosse stato contenuto per almeno 72 ore.
Questa storia ci riporta a due verità purtroppo già note: nei reparti psichiatrici italiani si continua a morire di contenzione meccanica, sia in regime di degenza che durante le procedure di TSO. IL CPR è un luogo di detenzione e come tale si fonda sulla violenza e sulla sopraffazione.
La morte di Abdel non è una storia isolata, molti/e hanno subito la sua stessa sorte. Citiamo solo gli ultimi di cui siamo a conoscenza: Guglielmo Antonio Grassi morto nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Livorno; Elena Casetto, arsa viva perché legata… sempre in un reparto psichiatrico.
Ma la l’elenco sarebbe lungo nonostante di molte persone non si conoscano neanche i nomi.
Contenzione meccanica e farmacologica sono pratiche diffuse anche nei CPR, nelle carcere, nelle strutture che ospitano persone anziane e/o non autosufficienti, negli ospedali. In nessun caso la carenza di personale può giustificare il ricorso a pratiche coercitive. La logica dei “motivi di sicurezza”, dello “stato di necessità” o delle “persone aggressive”, a cui sovente si fa appello nei reparti, deve essere respinta poiché fondata sul pregiudizio ancora diffuso della potenziale pericolosità della “pazzia”. Molti ritengono, per atteggiamento culturale o per formazione, che sia giustificabile sottoporre persone diagnosticate come “malate mentali” a mezzi coercitivi, che sia nell’ordine delle cose e corrisponda al loro stesso interesse (!), rimuovendo dal loro orizzonte il valore imprescindibile della libertà della persona. Tanto più rilevante quanto più attinente alle libertà minime, elementari e naturali, come quella di movimento.
Oltre al ricorso alla contenzione meccanica e farmacologica, continua ancora oggi a prevalere nei servizi psichiatrici un atteggiamento custodialistico e l’impiego sistematico di pratiche e dispositivi manicomiali: obbligo di cura, porte chiuse, grate alle finestre, sequestro dei beni personali, limitazione e controllo delle telefonate e di altre relazioni e abitudini. Lo stato di pandemia ha inoltre rafforzato l’isolamento e la distanza tra chi è tenuto rinchiuso/a e chi non lo è, accrescendo le violenze perpetrate all’interno di quelle mura (siano esse del carcere, del CPR, dei reparti di psichiatria).
Ribadiamo la necessità di eliminare, senza alcuna eccezione, la contenzione meccanica nelle istituzioni sanitarie, assistenziali e penitenziarie italiane.
Continueremo a lottare con forza contro ogni dispositivo manicomiale e coercitivo (obbligo di cura, trattamento sanitario obbligatorio, uso dell’elettroshock, contenzione meccanica, farmacologica e ambientale, ecc.) e per il superamento e l’abolizione di ogni pratica lesiva della libertà personale.
Continueremo a lottare contro i respingimenti, i rimpatri, le espulsioni, le frontiere, per la libera circolazione di tutte le persone.

PER UN MONDO SENZA FRONTIERE, SENZA PSICHIATRIA, SENZA COERCIZIONI

senzanumero.noblogs.org/
hurriya.noblogs.org/

PRESIDIO A LIVORNO: BASTA MORIRE DI CONTENZIONE

Due giorni antipsichiatrica a Livorno

Sono ancora scarse le informazioni riguardanti la morte della persona, originaria della Val di Cornia, ricoverata nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Livorno deceduta a inizio aprile di quest’anno dopo essere stato legata al letto per oltre una settimana. Le generalità non sono ancora state rese pubbliche. Non sappiamo se è stata fatta un’autopsia e se c’è un indagine della magistratura in corso. Non sappiamo quante contenzioni vengono fatte nel reparto di Livorno.

Di sicuro nei reparti psichiatrici italiani si continua a morire di contenzione meccanica, sia in regime di degenza che durante le procedure di TSO.

Il 13 agosto del 2019, nel reparto psichiatrico dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo è  morta durante un incendio Elena Casetto, 19 anni, bruciata viva nel letto al quale era legata: la contenzione non le ha permesso di fuggire. A oggi per quel terribile evento sono indagati solo i due addetti della ditta che aveva in appalto il servizio antincendio dell’ospedale.
Un episodio simile era accaduto nel Manicomio Giudiziario di Pozzuoli nel 1974, quando Antonia Bernardini morì per le ustioni riportate dopo l’incendio che l’aveva avvolta nel letto di contenzione al quale era stata legata ininterrottamente per 43 giorni.
Il 4 agosto del 2009 Francesco Mastrogiovanni è morto per edema polmonare dopo 87 ore consecutive di contenzione nel reparto di psichiatria dell’Ospedale di Vallo della Lucania, provincia di Salerno. Era stato ricoverato in TSO, trattamento sanitario obbligatorio, senza rispettare le procedure previste dalla legge; sedato e legato con fascette ai polsi e alle caviglie, è rimasto senza mangiare, senza bere e senza nessuno che si preoccupasse di lui fino alla morte.

Nel caso Mastrogiovanni la Corte di Cassazione ha definito l’uso della contenzione meccanica un presidio restrittivo della libertà personale che non ha né una finalità curativa né produce l’effetto di migliorare le condizioni di salute del paziente. La contenzione non è un atto medico e non ha alcuna valenza terapeutica: è un evento violento e dannoso per la salute mentale e fisica di chi la subisce; offende la dignità delle persone e compromette gravemente la relazione terapeutica.

Purtroppo contenzione meccanica e farmacologica sono praticate diffusamente anche nelle strutture che ospitano persone anziane e/o non autosufficienti. In nessun caso la carenza di personale e di strutture può giustificare il ricorso a pratiche coercitive. Anche la logica dei “motivi di sicurezza”, dello “stato di necessità” o delle “persone aggressive” a cui sovente si fa appello nei reparti, deve essere respinta poiché fondata sul pregiudizio ancora diffuso della potenziale pericolosità della “pazzia”. Molti ritengono, per atteggiamento culturale o per formazione, che sia giustificabile sottoporre persone diagnosticate come “malate mentali” a mezzi coercitivi, che sia nell’ordine delle cose e corrisponda al loro stesso interesse. Chi condivide questa opinione non considera adeguatamente, sia in termini esistenziali che giuridici, il valore imprescindibile della libertà della persona, tanto più rilevante quanto più attinente a libertà minime, elementari e naturali, come la libertà di movimento.

Oltre al ricorso alla contenzione meccanica e farmacologica, continua ancora oggi a prevalere nei servizi psichiatrici un atteggiamento custodialistico e l’impiego sistematico di pratiche e dispositivi manicomiali: obbligo di cura, porte chiuse, grate alle finestre, sequestro dei beni personali, limitazione e controllo delle telefonate e di altre relazioni e abitudini.
Sappiamo inoltre, di numerose esperienze in Italia e all’estero dove viene evitata la contenzione. In solo 15 reparti italiani su 320 viene praticata la terapia no restraint, la contenzione è stata abolita e le porte sono aperte.

Sappiamo che questi dispositivi sono strutturali ai luoghi di reclusione e abbandono, ma ribadiamo la necessità di proibire, senza alcuna eccezione, la contenzione meccanica nelle istituzioni sanitarie, assistenziali, penitenziarie italiane e in tutti i luoghi di reclusione.
Continueremo a lottare con forza contro ogni dispositivo manicomiale e coercitivo (obbligo di cura, trattamento sanitario obbligatorio, uso dell’elettroshock, contenzione meccanica, farmacologica e ambientale, ecc) e per il superamento e l’abolizione di ogni pratica lesiva della libertà personale.

BASTA MORIRE DI CONTENZIONE !! STOP ALLA CONTENZIONE!!

Sabato 6 Novembre:
– PRESIDIO CONTRO LA CONTENZIONE piazza Damiano Chiesa davanti l’Ospedale nel pomeriggio dalle ore 16
–  alle ore 20 PIZZATA + MUSICA  all’ Ex Caserma Occupata in via Adriana 16

Domenica 7 novembre:
– ore 10 all’ Ex Caserma Occupata inizio assemblea antipsichiatrica
– ore 13 Pranzo a cura di Cucina IppoOasi
nel pomeriggio proseguimento assemblea

ALCUNE CONSIDERAZIONI SU ATTUALITÀ E PANDEMIA

Questo scritto prova a raccogliere alcune riflessioni emerse nel contesto pandemico attuale. Non ha la pretesa di essere esaustivo ma solo di tracciare qualche considerazione che tenga conto di alcune complessità.

(PDF)




UNA PREMESSA NECESSARIA

Il consumo di immagini, emozioni forzate, informazioni e disinformazioni alimentato dai media mainstream è ormai talmente accelerato, quasi parossistico, che ogni notizia che può fare scalpore diventa pervasiva, spingendo la gente a prendere partito (quale che sia), ad esprimere opinioni (quali che siano), consensi, applausi o dissensi ed indignazioni. In un brevissimo lasso di tempo la “notizia” scivola via, slegata dalla vita reale, facendosi sfondo, rappresentazione, teatro a cui si può assistere, vetrina per l’ego atomizzato di ognunx, aliena ad elaborazioni  complesse, come da social network.

E’ stato relativamente difficile non rincorrere l’instant-book del momento, ma non abbiamo mai smesso di dire in modo fermo e determinato quanto l’attualità sia solo quella dei soggetti e non quella del tempo preconfezionato, cello-phanato e distribuito dallo Stato. Per questo abbiamo rifuggito dal farci anche noi attrici e attorx di un triste teatrino sulla pelle deglx ultimx, che è la nostra, e piuttosto che alimentare un dibattito infruttoso, ci siamo preoccupate di non abbandonare le strade e di lottare accanto a chi scelta e voce non è ha, contro chi sfrutta e opprime, come abbiamo sempre fatto.

Come prima cosa ci siamo postx delle domande su come autogestirci e autotutelarci dal virus oltre la burocrazia statale, da un punto di vista pratico e antiautoritario, individuando aspetti da considerare e alcunx possibili criteri basati sul consenso.

Dall’inizio della pandemia in troppx hanno rinunciato ad una riflessione critica  che tenesse conto delle complessità legate al contesto emergenziale che si è venuto a creare. Questo ha lasciato campo libero a fratture che si sono insidiate nei gruppi, spianando la strada a sterili dicotomie (salute, cura – sorveglianza, sicurezza / si vax – no vax…) che ricalcano la propaganda di Stato e fanno solo il gioco delle destre e dei padroni.

Se da una parte è emersa una tendenza diffusa ad esasperare gli aspetti allarmisitico-distopici legati alla pandemia senza il minimo discernimento, dall’altra si è evidenziata invece una generalizzata minimizzazione degli effetti drammatici dei cambiamenti che stiamo vivendo che riflette un attendismo che non rassicura.
Questo processo di polarizzazione è legato a doppio filo con la pervasività di una comunicazione interpersonale sempre più tecnologicamente mediata: le relazioni faccia a faccia diminuiscono sempre più, la conoscenza e le relazioni diventano sempre più filtrate da piattaforme digitali commerciali che influenzano la percezione delle informazioni e dei messaggi, ostacolando rielaborazioni critiche.

In molti contesti ‘compagni’ la componente dei vissuti, delle esperienze, la componente affettiva ed emotiva della vita e delle relazioni che ci animano è stata trascurata generando conflitto e ulteriore sofferenza, facendo sentire le persone ancora più isolate.

E’ emersa una certa indifferenza diffusa per quanto riguarda il prendersi cura di sè e dell’altrx anche nei contesti antiautoritari e di lotta, colonizzati ancora da dinamiche di esclusione, produttività o consumo, e sono sempre meno gli spazi in cui ricercare reciproca soggettivazione nella ricerca comune di liberazioni che siano anche ‘pratiche’.

È UNA GUERRA TRA POVERX QUELLA CHE CI ASPETTA?

Stato, destre e padroni stanno cavalcando la pandemia riducendo le complessità e le relazioni tra le diverse oppressioni per separarle, renderle inoffensive, manipolabili e sfruttabili ai fini produttivo-capitalistici.

Mentre sinistra e Confindustria speculano sulle nostre vite, da oltre un anno assistiamo all’estendersi di derive razziste, abiliste, xenofobe e sessiste, che dal regno del pregiudizio tornano ad affermarsi attraverso un principio di determinazione aspecifico che strizza l’occhio ad uno spietato darwinismo sociale travestito da libertà, volto a naturalizzare le ingiustizie sociali.

Intimamente convintx che in un sistema che genera morte, malattia, disuguaglianza e alienazione come il capitalismo, una malattia non sia solo un’etichetta diagnostica ma sia frutto di interazioni e connessioni tra cultura, società, umanità e ambiente, crediamo sia necessario non smettere di interrogarci sulle contraddizioni, sui dubbi, sugli interessi, sulle oppressioni in campo legate al nuovo contesto che stiamo vivendo.

SU CURA E SALUTE NEL CONTESTO CAPITALISTA


La pandemia ha messo in luce quanto siamo disabituatx a considerare i concetti di ‘salute’, ‘malattia’, ‘cura’, in modo critico, quindi in relazione all’attuale organizzazione socio-economica.

Mentre gli ambienti di vita e di lavoro diventano sempre più piccoli, ristretti e atomizzati, aumenta e si amplifica a dismisura la varietà della divisione del lavoro e dello sfruttamento. La drastica riduzione degli spazi fisici di soggettivazione ha spostato l’alienazione dei Tempi moderni di Chaplin, dalle fabbriche all’individuo.

Si tratta di nuovi paradigmi produttivi meno fondati sulla fabbrica e più sui servizi: la merce sei tu.

Anche la salute è sempre più individualizzata. Divenuta di pertinenza esclusiva di una medicina organizzata definitivamente come corpo separato, la dimensione della ‘cura’ riflette l’organizzazione del corpo sociale a partire dalla divisione del lavoro e dalla divisione in sfere sempre più isolate e mercificate di tutti i fenomeni umani.

Di quel ‘sistema sanitario’ tanto celebrato eredità delle lotte e delle agitazioni dei movimenti degli anni ’70, rimane poco e niente, un’azienda tra le aziende annientata dalle violente privatizzazioni.

Mentre aumenta il potere delle industrie farmaceutiche, la maggior parte dell’insieme di attenzioni e cure necessarie per il sostentamento della vita è lavoro salariato al ribasso, ultra-proletarizzato e fortemente connotato in termini di genere e razza. Quanto non è compreso dai ‘servizi’ rimane tombato nelle case, schiacciato in quel privato alienato che esprime gli stessi meccanismi patriarcali di Stato.

Da controaltare a questo isolamento dei corpi sempre più stringente, un sistema di sfruttamento capillarizzato e in costante crescita.

L’assenza di culture dal basso in merito ai temi della ‘salute’, della ‘malattia’ e della ‘cura’ ha determinato la delega ai tecnici, totale e assoluta, e lasciato campo libero agli interessi del Capitale di espropriare le fasce oppresse della popolazione da scelte e da possibili processi di autodeterminazione in merito.

L’infantilizzazione che lo Stato sta attuando sul corpo sociale è lo specchio del livello di delega che il corpo sociale ha concesso allo Stato e al Capitale.

Irrompono nel dibattito collettivo le problematicità legate alle tecnologie della comunicazione e dell’informazione, al capitalismo della sorveglienza, al mercato delle tecnologie legate alla salute, al corpo e alle relazioni in mano a grandi multinazionali, nonchè l’ambiguità di una scienza mercificata e subordinata al profitto. Emerge come la tecnologia industriale si sia servita del lavoro di milioni di lavoratrici e lavoratorx per creare la ricchezza della ‘classe dirigente’ che aliena, sfrutta e tortura, mentre i corpi oppressi sono ridotti ad oggetti e funzioni in relazione a chi detiene i maggiori privilegi sociali ed economici.

Ma una riflessione critica alla scienza e alla cura nel contesto capitalista che sia realmente antiautoritaria non può sedersi sul proprio privilegio e ridursi ad un’amputazione ideologica della realtà, la trama complessa dei contesti di sfruttamento è infatti composta da molteplici oppressioni che altrimenti rischiano di essere invisibilizzate.

Si tratta quindi di impegnarsi nello svelare le interellazioni tra le diverse oppressioni che stanno attraversando la vita di milioni di persone in un contesto di sfruttamento sistemico, globalizzato e interconnesso.


QUALCHE RIFLESSIONE SU OBBLIGO VACCINALE E TUTELA DAL VIRUS


E’ la prima volta che vaccini basati sulla tecnologia a mRNA vengono sperimentati e non ci sono garanzie sul comportamento a lungo termine: già solo questo dovrebbe bastare nel considerare qualsiasi obbligo, ricatto o pressione, moralmente sbagliato.

Per questa campagna vaccinale il dubbio, che pure costituisce il motore dello stesso metodo scientifico, non è ammesso. La medicina, intesa nella sua applicazione tecnico-farmacologica, si erge a scienza esatta rinnegando le stesse basi filosofiche che la animano. 

Lo stesso Stato che ha compiuto impunemente stragi, cerca di costruire un nemico unico e perfetto, scaricando l’emergenza su chi non risponde prontamente ad una scelta che ha tutto il diritto di essere ponderata.

Oscillare tra carità e punizione, polarizzare le posizioni, serve a scaricare le responsabilità, ad individualizzare le colpe, a livellare le contraddizioni e ad abbattere tutto ciò che non si conforma al ritmo stabilito dal Capitale.

Se da una parte è necessario lottare per l’accesso a possibilità di cura per tutti e tutte, contro i brevetti e i profitti delle multinazionali sulla pelle di chi soffre, dall’altra legittimare l’imposizione di una vaccinazione sperimentale con coercizione e ricatto rappresenta un pericoloso precedente che non riguarda esclusivamente la minoranza relativa di coloro che non vogliono/non possono vaccinarsi.

E’ importante considerare che il rifiuto dei farmaci o dei vaccini non si configura solo come privilegio, rimane aperto il tema del rapporto tra medicina e culture, tra medicina occidentale e colonialismo medico, fermo restando le disparità di accesso alla salute in un sistema globalizzato di sfruttamento dove le diseguaglianze hanno stretti legami di interdipendenza.

Quindi se un discorso pro o contro la vaccinazione in astratto è un cortocircuito costruito e fasullo buono solo a coprire le falle di un sistema che inizia a fare acqua da tutte le parti e in modo evidente, è chiaro come il nemico rimanga uno Stato paternalista che ha bisogno di infantilizzare il corpo sociale per tutelare esclusivamente i propri interessi economici.

Essere contro la coercizione e l’obbligo vaccinale non ci ha impedisce di interrogarci sulla necessità di tutela di contagio dal virus, soprattutto per quanto riguarda chi è piu esposto e vulnerabile nei luoghi di reclusione e dello sfruttamento di massa, dove le relazioni sono imposte e non volute. E’ evidente che dove non c’è spazio per la soggettivazione e la cura reciproca, per la relazione e il consenso, si fa strada la burocrazia e la coercizione, e che a pagarne il prezzo, oggi come ieri, saranno sempre e comunque tutte quelle vite già discriminate, considerate di scarso valore o ritenute ‘improduttive’.

Se è vero che la vaccinazione stia risultando efficace nell’abbassare i ricoveri, le morti e la pressione sul sistema sanitario, è vero anche che la campagna vaccinale portata avanti dal governo a reti unificate ha spinto moltx a non tenere nessuna precauzione circa reazioni avverse anche gravi che potevano essere evitate.

É importante considerare che la ‘protezione’ al momento si riferisce ad un minore rischio di infettarsi, quindi di contrarre la malattia in modo grave e di trasmettere il virus. Non tutela davvero dalla possibilità di contagiarsi e contagiare, ma diminuisce la probabilità che soggetti fragili contraggano la malattia, o la contraggano in modo grave.

Mentre tuttx fuori, rassicurati dai proclami di Stato, si sono completamente disinibitx per quanto riguarda qualsiasi misura di prevenzione di base – perchè è arrivato il vaccino e basta il green pass – è evidente invece che il dispositivo tecnico della vaccinazione non basterà.

Appellarsi ad un senso di ‘comunità’ nella società neoliberista assume caratteri farseschi quando tre quarti del mondo non ha accesso a livelli di salute minimi.

Prevenzione, riduzione del danno, redistribuzione delle risorse non se ne vedono, rapporti di forza per mettere in discussione un sistema al collasso che si ostina a tirare dritto nonostante tutto e tutti, nemmeno.

Intanto le case farmaceutiche produttrici di vaccini a mRNA – quelli che si stanno rivelando statisticamente più efficaci  – alzano il prezzo dei farmaci.

Si procede per ricatti, e saranno sempre di più.

SU GREEN PASS

Ed è così che si arriva al green pass, un’escamotage che lo Stato sta trovando per scaricare di nuovo su gli individux le proprie responsabilità: si ricattano le persone con un documento che le metterà all’angolo per poter accedere a molte attività al chiuso, esasperando ulteriormente differenze e certificando nuove discriminazioni.

Una misura che non ha niente a che vedere con la tutela della salute e con qualsiasi concetto di prevenzione. Chi diventerà lo sbirro di chi?

Potrebbe diventare obbligatorio per trasporti a lunga percorrenza, per la scuola e per il lavoro. Opporsi a questo ricatto non solo è giusto, ma necessario.

Scegliendo deliberatamente di lavarsi la coscienza, lo Stato sta sancendo un’ulteriore frattura tra un’umanità di serie A e un’umanità di serie B per tutelare gli interessi dei soliti noti, liberi si, ma di tornare a sfruttare, mentre le disuguaglianze che hanno segnato la pandemia sin dall’inizio continueranno a farlo.

CHI HA PAGATO FIN’ORA E CHI PAGHERÀ?

A ogni latitudine sono state le fasce della popolazione più svantaggiate – all’interno delle quali si trovano la maggior parte dei migrantx e dei non bianchx – a essere colpite dalla pandemia.

Le frontiere hanno mostrato tutta la loro violenza evidenziando come a questo mondo muri e confini esistano sempre e soltanto contro i poveri, mentre merci ed economie assassine possono girare indisturbate.

La diffusione globale del virus ha viaggiato infatti in business class alla stessa velocità dei numeri in borsa, non annegando sui barconi nel mediterraneo. Ma le morti contano solo se hanno effetto sui mercati, le vite valgono soltanto se è possibile metterle a profitto.

L’ultimo anno ha messo in luce tutta la ferocia che sottende al mantenimento di questo sistema di sfruttamento:

La strage nelle carceri ha svelato la violenza strutturale su cui si fondano tutti  i luoghi di reclusione, oltre che l’omertà dell’intervento sanitario nelle galere italiane, dove l’eccezione non è la ‘malasanità’, ma trovare un medico non connivente con le guardie. Il silenzio di medici e infermieri è stato assordante rispetto gli abusi compiuti in quei giorni e rispetto agli abusi che si perpetuano ogni giorno in tutte le carceri: la salute nei luoghi di reclusione è isolamento, annientamento, deprivazione, contenzione fisica, farmacologica, psicologica, violenza e repressione sistemica. La reclusione genera disturbi e menomazione, patologie e fragilità che spesso esordiscono in carcere e si protraggono anche dopo la scarcerazione. A questo si aggiungono la fatiscenza strutturale degli ambienti, l’insalubrità del cibo, l’assenza di docce, e il trito e ritrito affollamento, buono soltanto come scusa per mantenere intatto il meccanismo.

Negli ospedali, nelle residenze per anziani, nelle strutture sociosanitarie si é consumata una strage silenziosa e taciuta: operatrici e operatori sbattuti in reparti covid senza formazione e protezioni adeguate, lavoratorx ‘usa e getta’ obbligatx a lavorare pure se positivx fino alla comparsa dei sintomi, protocolli fatti di tachipirina e vigile attesa e persone murate in casa senza alcuna cura o visita medica e condannata alla morte. Mentre il numero dei morti saliva il ricatto salute/lavoro ha visto tutelati i profitti dei padroni prima ancora della salute delle persone, come osservato drammaticamente in Lombardia, dove ospedali e luoghi di lavoro hanno continuato ad alimentare inesauribili il serbatoio dei positivi.

Deroga su deroga si sono continuate a tenere aperte le grandi fabbriche per volere di Confindustria costringendo le persone ad andare a lavoro sui mezzi pubblici,  mentre si chiedeva in parlamento uno scudo penale bipartisan per proteggere imprenditori e manager delle aziende pubbliche.

Anche l’istituzione scolastica ha mostrato tutta la sua ipocrisia: milioni di euro per l’acquisto di banchi a rotelle per la didattica digitale ‘a seduta innovativa’ spacciati come misura anticovid, mentre la sofferenza di bambini e bambine è scomparsa per decreto.

La morte è stata rimossa, strumentalizzata, spettacolarizzata, per essere piegata ad una propaganda del terrore che ha impedito qualsiasi processo collettivo di socializzazione del lutto e di condivisione del dolore.

Lo stesso Stato che ha sempre tutelato solo e soltanto gli interessi dei padroni, tenta oggi d’un sol colpo di pulirsi la coscienza sbandierando un’ipocrita volontà di proteggere i più fragili, quando l’eccezionalità della pandemia nel contesto capitalista ha reso evidente quanto i profitti legati alle merci siano sempre venutx prima delle persone.

Tutto questo è sempre stato vero, non è arrivato oggi col covid e non andrà via con un vaccino.

CONCLUSIONI

L’isolamento imposto durante il lockdown si è insediato su una condizione di profonda miseria umana e materiale che ha sterilizzato rapporti e legami e impedito elaborazioni critiche dei vissuti e della realtà, mostrando come questo sistema capitalista sia il vero responsabile dell’alineazione e della povertà che solca a tutti i livelli le nostre relazioni e le nostre possibilità di autodeterminazione e riappropriazione, oltre che il principale attore della frammentazione/atomizzazione che ci attraversa.

CHE FARE?

Intanto ricostruire un tessuto umano in grado di rimettere in campo rapporti di forza, riappropriarsi dei quartieri, di bisogni e desideri, tessere alleanze e intersezioni, costruire solidarietà, riprendersi zone autonome e indipendenti dal potere statale, farla pagare a chi sfrutta e opprime.

Non sappiamo bene “che fare”, domanda antica, forse ci sono tante cose da fare, vediamo bene però, un passo alla volta, dove tutto sta andando.

 Agosto 2021, Bologna

 


Link: Considerazioni sull’autogestione della salute

Psichiatria: basta morti in contenzione

Il collettivo Artaud invita ad un volantinaggio antipsichiatrico
Sabato 29 maggio a LIVORNO in PIAZZA DAMIANO CHIESA
dalle ore 10:30 alle ore 12:30.

BASTA MORTI IN CONTENZIONE NEL REPARTO PSICHIATRIA!!
ABOLIAMO LA CONTENZIONE!!

Non si sa ancora niente del paziente originario della Val di Cornia ricoverato nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Livorno e morto a inizio aprile di questo anno dopo essere stato legato al letto per una settimana. Ciò che sappiamo è che nei reparti psichiatrici italiani si continua a morire di contenzione meccanica, sia in regime di degenza che durante le procedure di TSO.

Il 13 agosto del 2019, nel reparto psichiatrico dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo è  morta durante un incendio Elena Casetto, 19 anni, bruciata viva nel letto al quale era legata: la contenzione non le ha permesso di fuggire. A oggi per quel terribile evento sono indagati solo i due addetti della ditta che aveva in appalto il servizio antincendio dell’ospedale.
Un episodio simile era accaduto nel Manicomio Giudiziario di Pozzuoli nel 1974, quando Antonia Bernardini morì per le ustioni riportate dopo l’incendio che l’aveva avvolta nel letto di contenzione al quale era stata legata ininterrottamente per 43 giorni.
Il 4 agosto del 2009 Francesco Mastrogiovanni è morto per edema polmonare dopo 87 ore consecutive di contenzione nel reparto di psichiatria dell’Ospedale di Vallo della Lucania, provincia di Salerno. Era stato ricoverato in TSO, trattamento sanitario obbligatorio, senza rispettare le procedure previste dalla legge; sedato e legato con fascette ai polsi e alle caviglie, è rimasto senza mangiare, senza bere e senza nessuno che si preoccupasse di lui fino alla morte.

Nel caso Mastrogiovanni la Corte di Cassazione ha definito l’uso della contenzione meccanica un presidio restrittivo della libertà personale che non ha né una finalità curativa né produce l’effetto di migliorare le condizioni di salute del paziente. La contenzione non è un atto medico e non ha alcuna valenza terapeutica: è un evento violento e dannoso per la salute mentale e fisica di chi la subisce; offende la dignità delle persone e compromette gravemente la relazione terapeutica.

Purtroppo contenzione meccanica e farmacologica sono praticate diffusamente anche nelle strutture che ospitano persone anziane e/o non autosufficienti. In nessun caso la carenza di personale e di strutture può giustificare il ricorso a pratiche coercitive. Anche la logica dei “motivi di sicurezza”, dello “stato di necessità” o delle “persone aggressive” a cui sovente si fa appello nei reparti, deve essere respinta poiché fondata sul pregiudizio ancora diffuso della potenziale pericolosità della “pazzia”. Molti ritengono, per atteggiamento culturale o per formazione, che sia giustificabile sottoporre persone diagnosticate come “malate mentali” a mezzi coercitivi, che sia nell’ordine delle cose e corrisponda al loro stesso interesse. Chi condivide questa opinione non considera adeguatamente, sia in termini esistenziali che giuridici, il valore imprescindibile della libertà della persona, tanto più rilevante quanto più attinente a libertà minime, elementari e naturali, come la libertà di movimento.

Oltre al ricorso alla contenzione meccanica e farmacologica, continua ancora oggi a prevalere nei servizi psichiatrici un atteggiamento custodialistico e l’impiego sistematico di pratiche e dispositivi manicomiali: obbligo di cura, porte chiuse, grate alle finestre, sequestro dei beni personali, limitazione e controllo delle telefonate e di altre relazioni e abitudini.
Sappiamo inoltre, di numerose esperienze in Italia e all’estero dove viene evitata la contenzione. In solo 15 reparti italiani su 320 viene praticata la terapia no restraint, la contenzione è stata abolita e le porte sono aperte.

Ribadiamo la necessità di proibire, senza alcuna eccezione, la contenzione meccanica nelle istituzioni sanitarie, assistenziali e penitenziarie italiane.
Continueremo a lottare con forza contro ogni dispositivo manicomiale e coercitivo (obbligo di cura, trattamento sanitario obbligatorio, uso dell’elettroshock, contenzione meccanica, farmacologica e ambientale, ecc) e per il superamento e l’abolizione di ogni pratica lesiva della libertà personale.

Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud-Pisa
antipsichiatriapisa@inventati.orgartaudpisa.noblogs.org

Fano: tso su studente

A Fano è stato fatto un Tso ad un ragazzo di diciotto anni per una protesta contro l’obbligo di mascherina.

Link qui


In una società frenetica e senza respiro, non ci può essere spazio per la relazione e una sincera messa in discussione del quotidiano.

La violenza è ammessa come istituzione e prassi irrununucabile, la sorveglianza si sostituisce all’ascolto, la sicurezza all’apertura, l’assistenza alla compagnia, la terapia alla vita.

La contenzione e il ricovero obbligatorio diventano la risposta. La psichiatria arriva dove lo Stato non può, spacciandosi per ‘terapia’, ‘cura’.

Non esistono prove che l’abuso del ricovero coatto porti benefici a chi lo subisce, è certo invece che tale coerzione risulti traumatica e lesiva, e tenda ad avviare un processo vizioso che conduce la persona verso la completa dipendenza assistenziale dal servizio psichiatrico, creandole problematiche ulteriori che possono aggravare il suo stato.

Ricoverare obbligatoriamente una persona è una pratica crudele e disumanizzante, doppiamente crudele in quanto inutile.

Che sia stato fatto a scuola, è un fatto ancora più aberrante.

Il collettivo Artaud sui recenti fatti del reparto di psichiatria di Livorno

Liberiamo nelle Brughiere un comunicato del collettivo Artaud di Pisa

Comunicato del Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud di Pisa sui recenti fatti del reparto di psichiatria a Livorno

” Le nostre strade sono sconnesse,
I nostri figli ridotti in schiavitù ,
i nostri cuori senza amore.
Ho paura di restare. ”

Terra de Bandidos  di Elena Casetto

Dopo aver appreso dalla stampa della morte di un paziente ricoverato nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Livorno, il collettivo Antonin Artaud di Pisa, attivo da quindici anni nell’ascolto e nella vicinanza nei confronti di chi ha subito e vissuto lo stigma della malattia mentale, che troppo spesso si traduce in abusi anche durante il proprio percorso terapeutico, esprime cordoglio e vicinanza alla famiglia e agli affetti più cari. Il nostro augurio è quello che su questa vicenda, di cui alcuni aspetti non sono affatto chiari, si possa fare luce quanto prima.

Abbiamo deciso di aprire questo nostro intervento partendo da un componimento poetico, già premiato, di Elena Casetto. Il 13 agosto 2019, nel reparto psichiatrico dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo è divampato un incendio di cui non si conoscono ancora le cause. Elena, che aveva 19 anni, è morta bruciata viva nel letto al quale era stata legata: la contenzione non le ha permesso di fuggire. Ad oggi per quel terribile evento sono indagati solo i due addetti della ditta che aveva in appalto il servizio antincendio dell’ospedale. Un identico episodio era già accaduto nel Manicomio Giudiziario di Pozzuoli, quando Antonia Bernardini morì per le ustioni riportate dopo l’incendio che l’aveva avvolta nel letto di contenzione al quale anche lei era stata legata ininterrottamente per 43 giorni. Il collettivo Antonin Artaud ha anche seguito la vicenda umana e giudiziaria del Maestro più alto del mondo: il 4 agosto del 2009 Francesco Mastrogiovanni è morto per edema polmonare dopo 4 giorni di contenzione, legato per più di 87 ore consecutive nel reparto di psichiatria dell’Ospedale di Vallo della Lucania in provincia di Salerno. Era ricoverato in TSO, trattamento sanitario obbligatorio che si è scoperto poi essere stato effettuato in maniera illegale e senza il rispetto delle procedure previste dalla legge 180. Mastrogiovanni, sedato e legato con delle fascette ai polsi e alle caviglie, è rimasto senza mangiare, senza bere e senza che nessuno gli parlasse o si preoccupasse delle sue condizioni di salute per tutto il tempo del ricovero. Il medico del reparto ha negato perfino alla nipote il diritto di fargli visita in ospedale. La Sentenza della Corte di Cassazione sul caso Mastrogiovanni ha definito l’uso della contenzione meccanica un presidio restrittivo della libertà personale che non ha né una finalità curativa né produce l’effetto di migliorare le condizioni di salute del paziente.

Possiamo testimoniare che nei reparti psichiatrici ospedalieri o SPDC (Servizi Psichiatrici Diagnosi e Cura) continua a prevalere un atteggiamento custodialistico e un impiego sistematico di pratiche e dispositivi manicomiali come l’obbligo di cura, le porte chiuse e le grate alle finestre, il sequestro dei beni personali, la limitazione e il controllo delle telefonate e di altre relazioni e abitudini, il ricorso alla contenzione meccanica e farmacologica.
Dunque, oggi nei reparti psichiatrici si continua a morire di contenzione meccanica, sia in regime di degenza che durante le procedure di TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio).
La contenzione non è un atto medico e non ha alcuna valenza terapeutica: è un evento violento e dannoso per la salute mentale e fisica di chi la subisce; offende la dignità delle persone e compromette gravemente la relazione terapeutica. Solo in 15 reparti viene praticata la terapia no restraint, la contenzione è stata abolita e le porte sono aperte.

Ricerche condotte in Europa hanno fatto emergere l’esistenza di un gran numero di reparti psichiatrici ospedalieri aperti, in contraddizione con quanto rilevato nel nostro Paese dove circa l’80% degli SPDC prevede porte d’ingresso chiuse a chiave e il ricorso quotidiano alla contenzione. Già nella metà dell’Ottocento lo psichiatra inglese Conolly sosteneva la necessità e la possibilità di una no restraint psychiatry, una psichiatria che non ricorre a mezzi di contenzione. Ancora oggi invece, contenzione meccanica e farmacologica sono praticate diffusamente nei reparti psichiatrici e nelle strutture che ospitano persone anziane e/o non autosufficienti. Denunciamo inoltre come l’impossibilità di fare visita alle persone ricoverate in ospedale a causa dell’emergenza sanitaria in corso abbia reso complicato poter verificare le condizioni di chi si trova in stato di degenza. Difficoltà che riguarda non solo i familiari e gli amici ma anche gli operatori e le strutture sanitarie stesse. Questo avviene quando proprio, anche a causa di tale situazione emergenziale, il ricorso al ricovero in reparto psichiatrico si è fatto più frequente. Ma in nessun caso la carenza di personale e di strutture può giustificare il ricorso a pratiche coercitive. Obbligare una persona al ricovero, limitarne la libertà personale per sottoporla a pratiche violente e dannose, costituisce, oltre che un intollerabile abuso, un’amara beffa: la logica dei “motivi di sicurezza”, dello “stato di necessità” o delle “persone aggressive” a cui sovente si fa appello nei reparti, deve essere respinta poiché fondata sul pregiudizio, purtroppo ancora assai diffuso e duro a morire, di una potenziale pericolosità della persona sofferente psicologicamente.
Nell’aprile del 2016 la Regione Toscana ha approvato una mozione in merito al divieto della pratica della contenzione negli SPDC regionali, che impegnava la Giunta Regionale “a provvedere a emanare disposizioni puntuali alle aziende sanitarie per il divieto di pratiche di contenzione meccanica” e “a promuovere buone pratiche attivando la commissione per il monitoraggio e l’eliminazione della contenzione meccanica, farmacologica, ambientale e delle cattive pratiche assistenziali”. Visto il protrarsi ancor oggi in Toscana delle pratiche di contenzione meccanica, non ci sembra che tale mozione sia stata applicata, e tuttavia ci si appella ai protocolli che ancora la prevedono ignorando quanto già conquistato in ambito di riconoscimento della dignità delle persone ricoverate.

Molti ritengono, per atteggiamento culturale o per formazione, che sia ovvio sottoporre le persone diagnosticate come malate mentali a mezzi coercitivi, che ciò sia nell’ordine delle cose, che corrisponda al loro stesso interesse. Forse chi condivide questa opinione non considera adeguatamente, sia in termini esistenziali che giuridici, il valore imprescindibile della libertà della persona. Valore tanto più rilevante quanto più attinente a libertà minime, elementari e naturali, come la libertà di movimento. Sappiamo, per le molte esperienze ormai fatte, che è possibile evitare la contenzione; occorre allora chiedersi perché la contenzione sia tuttora lecita, e soprattutto occorre superarla.

L’applicazione del TSO non autorizza in alcun modo il ricorso a pratiche di coercizione. C’è sempre un’alternativa, è possibile fare a meno della contenzione meccanica senza sostituirla con quella farmacologica o ambientale. Ribadiamo la necessità di proibire, senza alcuna eccezione, la contenzione meccanica nelle istituzioni sanitarie, assistenziali e penitenziarie italiane. Continueremo a lottare con forza contro ogni dispositivo manicomiale coercitivo: TSO, obbligo di cura, elettroshock, contenzione. Il superamento e l’abolizione della contenzione e delle pratiche lesive della libertà personale è possibile.

Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud-Pisa
antipsichiatriapisa@inventati.orgartaudpisa.noblogs.org/


Link:

**Psichiatria Livorno, la denuncia dell’ex direttore: “Pazienti legati ai letti, ormai è una procedura standard da quando c’è il Covid ” La lettera di Mario Serrano, ex responsabile dei servizi di Salute mentale di Livorno: “Malgrado la legge 180, sono tornate le contenzioni. E un paziente sarebbe addirittura morto dopo una settimana con le fascette”
https://www.livornotoday.it/attualita/morto-paziente-legato-psichiatria-livorno-denuncia.html

**Legati al letto in psichiatria, la replica di Asl: “Procedure corrette anche con il paziente deceduto. In un anno solo 14 contenzioni”
https://www.livornotoday.it/cronaca/morto-paziente-legato-ospedale-livorno-replica.html

**Livorno: “Paziente legato al letto muore dopo 7 giorni in psichiatria”. La denuncia di Mario Serrano, ex responsabile dei servizi di salute mentale, ora in pensione. La Asl: “La contenzione c’è stata, ma non continuativa”. Romano (Pd): “Il ministro ordini un’ispezione”
https://firenze.repubblica.it/cronaca/2021/04/16/news/livorno_psichiatria_paziente_legato_al_letto_muore_dopo_7_giorni_in_psichiatria_-296688342/