Ferrara: rider in coma. L’azienda: “caso risolto, la pratica è stata gestita”

03 Aprile 2021

Fonte: https://bologna.repubblica.it/cronaca/2021/04/03/news/ferrara_rider-294908967/

FERRARA  – E’ caduto mentre in bicicletta stava effettuando una consegna e ora è ricoverato all’ospedale ferrarese di Cona in coma farmacologico. Protagonista della vicenda, un rider 23enne di origine pakistana che adesso – lamenta la fidanzata  – si trova a combattere anche con la burocrazia del lavoro: per aprire la pratica di infortunio, infatti l’azienda per cui effettua consegne, Deliveroo, chiede che sia comunicato il suo codice identificativo. Che solo lui conosce e che non può essere comunicato a voce, essendo in coma. […] Il caso è stato reso noto dall’appello, lanciato su La Nuova Ferrara, dalla fidanzata del giovane fattorino: è risultato inutile fornire nome, data di nascita, fotocopia del documento, visto che, dice, “questi ragazzi sono ridotti a un numero“, il cosiddetto ‘Id Rider’ […] I fatti risalgono al primo pomeriggio di martedì scorso quando il 23enne stava pedalando per lavoro lungo le vie di Ferrara e, per evitare un’auto, è caduto. Portato in ospedale, svolte le analisi e gli accertamenti del caso, il ragazzo è tornato a casa ma poi, continuando a stare male, è stato portato dal 118 all’ospedale di Cona dove hanno scoperto una perforazione intestinale, operata d’urgenza. […] Dall’azienda, che fornisce tutela in caso di infortuni durante le consegne, è stato detto alla fidanzata che, per l’apertura della pratica, non si può fare nulla senza il codice Id del rider. Un inghippo burocratico che fa riemergere le condizioni di scarse tutele in cui lavorano i ciclofattorini. La pratica si è poi mossa. Caso risolto, ora c’è solo da sperare che le condizioni del rider migliorino. […] “La pratica infortunistica è stata gestita e trasmessa all’Inail in linea con quanto previsto dalla normativa: il ‘rider id’ non è un dato necessario per avviare la pratica. Il rider è assicurato e confermiamo che la pratica è stata gestita – comunica l’azienda in una nota.


“Nessuna risposta e nessuna assistenza umana.” Tra le dichiarazioni rilasciate dalla ragazza.
Insomma una società a portata di click dove a 23 anni per alzare due soldi finisci a fare un lavoro pericoloso senza nessuna forma di tutela. In coma farmacologico senza nessuna assistenza o contatto da parte dell’azienda, che infine, posta sotto i riflettori, risolve tutto con lo stesso click: “la pratica è stata gestita”.

Una lettura per riflettere su questo particolare “inghippo burocratico”, come viene definito nell’articolo senza nemmeno provare vergogna.

“Consegne a domicilio, anzi, in qualsiasi domicilio geolocalizzabile, di qualsiasi merce immaginabile. Questa era vera libertà! Che magnifico periodo! Ma poi qualcosa cominciò a guastarsi. Dapprima sembravano semplici errori locali, disturbi del tutto puntuali di un sistema sempre più preciso ed efficiente. Poi, improvvisamente ma decisamente, la situazione peggiorò. “

“Prima ancora, cominciò a diventare difficile dimostrare di essere se stessi, perché, per timore di furti di identità, odiatori e altre spiacevoli evenienze, i sistemi di sicurezza cominciarono a farsi sempre più esigenti. Non si limitavano a chiedere un numero di cellulare aggiuntivo, il nome da nubile della mamma o la conferma di almeno tre amici, nome, cognome e indirizzo, per resettare la password. Cominciarono a chiedere scansioni della retina. Riconoscimento facciale per punti di densità. DNA della cacca del cane con cui vivi, del gatto, di altri eventuali animali di compagnia. E nessuno fu più certo di poter accedere ai propri profili disseminati in Rete… nei cloud, nelle nuvole… “

Da: https://ima.circex.org/storie/0-intro/index.html
Agnese Trocchi ~ Internet Mon Amour ~ CC 4.0 (BY-NC-SA)

Carcere: Rompiamo il silenzio

da Assemblea parenti e solidali delle persone detenute.

CHI HA DIFESO LA PROPRIA VITA NON SI PROCESSA!

Un anno fa le persone detenute hanno indicato l’unica soluzione possibile per evitare il contagio di massa in celle sovraffollate: svuotare le galere.

Alle proteste e alle richieste di salute e libertà lo Stato ha risposto con pestaggi, trasferimenti punitivi, morti e torture: strano modo di tutelare la salute delle persone…

Il tracollo sanitario che ha trasformato le carceri in focolai era in corso già da tempo, così come il sovraffollamento. Quanto sta accadendo in queste settimane nella sezione femminile di Rebibbia, al pari di altre carceri, ne è una terribile conseguenza: ad oggi si parla di 40 donne contagiate e sono le stesse detenute a raccontare del mancato ricovero per chi è in gravi condizioni, della mancanza di mascherine e di tamponi, dell’isolamento totale cui sono costrette tra la chiusura dei colloqui e l’obbligo di stare in cella 24 ore su 24.

L’8 aprile, 54 detenuti di Rebibbia verranno processati in aula bunker per la rivolta del 9 marzo 2020. Altre 20 detenute sono sotto indagine per una protesta avvenuta in contemporanea nella sezione femminile.

Noi siamo al loro fianco e vogliamo che la nostra solidarietà arrivi forte e chiara. Chi ha protestato aveva ragione: l’unica sicurezza contro il contagio non può che essere la libertà.

GIOVEDÌ 8 APRILE – ORE 9:30
presidio davanti l’aula bunker di Rebibbia (via del Casale di San Basilio 168)

VENERDÌ 9 APRILE – ORE 17
a un anno dalla morte di Salvo, compagno che ha lottato dentro e fuori le carceri fino all’ultimo respiro, in via dei Volsci, sotto la sede di Radio Onda Rossa

DOMENICA 11 APRILE – ORE 10:30
presidio con microfoni aperti davanti alla sezione femminile di Rebibbia (pratone) per portare i nostri saluti alle detenute

Chiunque abbia voglia di contattarci, può farlo a uno di questi indirizzi:

Punto Solidale, via Augusto Dulceri 211 – 00176 Roma
indirizzo mail: dulceri211[at]gmail.com

Assemblea parenti e solidali delle persone detenute

Link: Rete evasioni

Senza luoghi alternativi non esistono pensieri alternativi

“Senza luoghi alternativi non esistono pensieri alternativi, senza spazi dove praticare altri modi di vivere, di organizzarsi e ipotizzare mondi diversi non e’ possibile cambiare l’esistente.”

Tutto oggi ci dice: voi non dovete esistere.
Ciò che esprimete, deve essere soppresso o recuperato/normalizzato.
Ciò che sostenete deve essere considerato ‘criminoso’ o ‘anormale’.
Chi lotta non deve avere spazi per autorganizzarsi, esistere.

Decoro e gentrificazione, speculazione, repressione e sgomberi.

Mentre i tagli alla sanità e le trasformazioni urbane violente in nome dei profitti privati si stanno abbattendo sulle fasce sociali più deboli in tutte le città, accentuando contraddizioni e disuguaglianze, nei quartieri assistiamo all’accellerarsi dei processi gentrificatori e di svendita, e all’annullamento di tutti gli spazi di intersezione, prossimità, solidarietà e autodeterminazione dal basso.

A Bologna la bolognina è stata sottratta a chi la abita e trasformata in territorio di conquista e speculazione.

Il PD e l’amministrazione in città hanno spianato la strada alle destre xenofobe e si sono fatti braccio del neoliberismo più spinto infiocchettato di ipocrisia.

E’ indispensabile, oggi più che mai, un’assunzione di responsabilità collettiva affinchè l’emergenza sanitaria non si trasformi in un’occasione per lo Stato per  eliminare definitivamente chi da sempre lo insidia dai bassifondi suburbani.

E’ necessario riappropriarsi di luoghi e pratiche fuori dal campo normativo dell’istituzione per opporsi alle logiche della produzione industriale massiva e omologante che ci vuole oggetti de-umanizzati, sfruttabili, alienati, divisi, inservibili e inoffensivi, per costruire forme di solidarietà diretta, per sostenere lotte, iniziative, progetti, collettivi, ed estendere la resistenza alla violenza quotidiana imposta e mantenuta, di una normalità, che non ci è mai piaciuta.

Opuscolo: Considerazioni sull’autogestione della salute

Un opuscolo autoprodotto a Bologna in cui sono raccolte alcune riflessioni e considerazioni sull’autogestione della salute nel contesto attuale.

Considerazioni sull’autogestione della salute – FR
Considerazioni sull’autogestione della salute – IT


 

Non crediamo né giusto né efficace delegare ai decreti del governo e all’apparato repressivo dello Stato la tutela della nostra salute. Le informazioni contraddittorie e le linee guida dettate preminentemente dalla salvaguardia degli interessi dei padroni, spesso poco chiare, contrastanti e volutamente ambigue, lasciano ampio arbitrio e copertura agli abusi delle guardie nell’applicarle.

Il virus, il lockdown, le condizioni materiali e le possibilità di curarsi non sono uguali per tutti. Non siamo mai stati sulla stessa barca dei politicanti e dei padroni e men che meno lo saremo di questi tempi. Questo implica ANCORA DI PIU’ un esercizio di responsabilità e di autonomia, è necessario non sacrificare in primis la nostra capacità di decidere per noi stessi e con gli altri quali comportamenti tenere.

Tutelare la nostra salute significa, oggi più che mai, contestare il potere che lo Stato esercita sulle nostre vite servendosi anche della medicina. Abbiamo deciso di scrivere qualche idea su come agire nel contesto in cui ci troviamo a vivere, e alcune questioni su cui pensiamo sia utile ragionare.

Presumendo che con questa
situazione faremo i conti ancora a lungo, può essere utile stabilire alcuni riferimenti e standard di precauzione che siano anche sostenibili, affinché i costi di ciò che si mette in campo per tutelarsi dal virus non superino i benefici, consapevoli delle diverse trame e dimensioni che compongono la nostra salute, fatta anche di intimità, relazioni e affettività. Il virus esiste e per qualcuna ammalarsi può essere peggio che per qualcun’ altro.

COME GESTIAMO IL RISCHIO DEL CONTAGIO?

In primo luogo basando le nostre relazioni sul consenso, tenendo a mente che ciò vale anche in assenza di pandemie.

Un’ipotesi più articolata potrebbe essere ragionare per cerchi concentrici: esiste un gruppo di persone più ristretto nei confronti delle quali il livello di precauzione che si decide di tenere è il più basso. Lo Stato ha individuato nel nucleo familiare e nei rapporti lavorativi questo gruppo di persone. Decidiamo noi le persone che sentiamo più vicine e di cui più ci fidiamo e che vogliamo includere in questa cerchia più affine, aumentando progressivamente la disponibilità ad ampliare le tutele man mano che ne ‘usciamo’. Consideriamo le persone coinvolte rimanendo disposti a ridiscutere le modalità delle nostre interazioni con l’evolversi dei bisogni e dei desideri individuali che emergono.

Qualora ci si ammali con il ragionevole dubbio di aver contratto il virus si può decidere di rivolgersi al medico di base o di guardia per prenotare un tampone oppure autogestire la propria salute e il proprio periodo di precauzione.

Se si hanno i sintomi e non si fa il tampone, è importante tenere in considerazione la situazione delle persone con cui si è venuti in contatto, che potrebbero avere invece la necessità di sapere se sono positive o meno.

Nelle procedure per tracciare i contatti dei positivi potrebbero esserci richiesti nomi da parte dell’asl di conviventi o contatti stretti. Sapendolo è bene informare prima le persone in questione e regolarsi, finché è possibile, sulla base del consenso. Qualcuno potrebbe avere necessità di fare il tampone e quindi fornire il nome all’asl diventerebbe la scelta migliore o al contrario qualcuna potrebbe preferire gestire autonomamente le precauzioni da prendere, non dare per scontata nessuna delle due ipotesi.

Qualora si renda necessario un tampone privato, considerare la possibilità di gestire insieme la spesa.

A fronte di una positività al virus sarà importante non considerare la malattia e il conseguente isolamento fisico come qualcosa di ‘neutro’, ma prendersi cura di sé stesse e delle altre in tutti i sensi. In questo mondo, quando ci ammaliamo e abbiamo paura di soffrire e di morire siamo spesso trattati alla stregua di macchine da aggiustare per ritornare al massimo dell’efficienza nel minore tempo possibile. Sappiamo invece di dover tenere in considerazione un equilibrio molto più complesso che coinvolge la nostra intimità, l’affettività e le nostre relazioni, con gli altri e con l’ambiente.

Attenzione a non cadere nella trappola di additare “l’untore”: essere contagiati involontariamente da qualcuno della nostra cerchia ristretta è già un peso che la persona coinvolta si porta dietro.

Nel caso in cui alcuni comportamenti ci sembrassero leggeri o irresponsabili chiederne conto è giusto, dare per scontate le motivazioni di chi li ha tenuti invece non lo è.

Considerare sempre che le informazioni sulla salute sono informazioni delicate e che farle circolare in modo improprio può avere effetti e ricadute sulla vita delle persone, è sempre utile porsi il problema di come trattarle.

Non tutti potrebbero essere nelle condizioni di lasciare il proprio nome, la raccolta di liste dei nomi di partecipanti ad un’iniziativa al fine di tracciare possibili contagi può essere problematica.

I PADRONI E LO STATO NON HANNO MAI SMESSO DI FARCI LA GUERRA A CAUSA DEL COVID, CHE ANZI SI STA RIVELANDO UN’OCCASIONE EPOCALE DI ATTACCO ALLE CONDIZIONI DI VITA DI MILIONI DI SFRUTTATI. QUINDI, PER CHI HA DECISO DI LOTTARE PER LA PROPRIA LIBERTÀ E L’AUTODETERMINAZIONE, PER CHI È IN CARCERE, IN UN CPR, AL LAVORO, PER CHI NON HA SOLDI PER CURARSI O PER MANGIARE, NON HA UNA CASA, ORGANIZZARSI NON È UNA QUESTIONE RIMANDABILE A TEMPI MIGLIORI.

OGNI ESPERIENZA, E ANCHE LA ‘MALATTIA’, PUÒ TRASFORMARSI IN UN’OCCASIONE DI ALIENAZIONE O RIAPPROPRIAZIONE E COSÌ OGGI, ANCHE PER NOI, QUESTA SITUAZIONE, PUÒ DIVENTARE UN’OCCASIONE DI ALIENAZIONE O RIAPPROPRIAZIONE

Bologna, 2021 pescifuordacqua at paranoici.org

Chi ha compagnx non morirà, ciao Sante.

Ciao Sante,
noi lo sappiamo
che le loro prigioni,
sono sempre per noi.

Oggi abbiamo una responsabilità in più,
sulla memoria, su tutto.
Chi ha compagni non morirà.

“Non ho nulla da vendere. Ci ho messo 50 anni a diventare Comunista. E 20 anni 8 mesi ed 1 giorno di prigione. E 11 anni di carcere di massima sicurezza. E cinque anni di celle punitive. E la posta censurata. E i vetri divisori ai colloqui (per 3 anni non ho potuto accarezzarti, Severina). E le cariche dei carabinieri nei cortili delle prigioni. E il sangue nelle celle. E il sangue dal naso. E il sangue dalla bocca. E i denti rotti. E la fame all’Asinara. E il silenzio obbligatorio al bunker della Centrale, a Cala d’Oliva. E i racconti dei torturati. E i colpi contro le porte per non farti dormire. E i colloqui respinti senza un motivo. E la posta sottratta. E il linciaggio del vicino di cella. E il vivere col cuore in gola. E la pressione che sale. E il cuore che senti ingrossare. E il compagno che se ne va con la testa. E le divisioni a cinque unità nei cortili. E le rotture politiche. E le divisioni che teoricamente avrebbero dovuto rafforzarci. E il dilagare del soggettivismo. E i vetri infranti ai colloqui. E le rivendicazioni coi pugni chiusi. E la ritirata strategica. E gli scioperi della fame condannati. E i sorrisi spariti. E i soggettivisti sconfitti. E gli odi tra i compagni. E le demolizioni personali. E la disgregazione umana. E le perquisizioni anali. E le sei diottrie perse. E l’assalto coi cani nelle celle. E i compagni colpiti da schizofrenia. E i primi tradimenti. E la massa dei dissociati. E l’isolamento politico. E l’isolamento umano. E la piorrea che avanza. E gli anni che passano e i giorni che conti. E i silenzi, i silenzi, i silenzi.
Questo, tutto questo ho pagato. Questo e altro ancora ho da difendere”

“Liberi dal silenzio” Sante Notarnicola

Rastrellamenti a Catania, violenza poliziesca nel quartiere San Berillo

Rastrellamenti sulle marginalità oppresse,  guerra ai poveri sempre più violenta.

Fonte: lasiciliaweb.it

“Gravissima violenza a San Berillo: lavoratrici del sesso massacrate dalla polizia”

CATANIA: “Ieri nel quartiere abbiamo assistito a una dimostrazione di spropositata e gratuita violenza poliziesca” Racconta lo Sportello sociale San Berillo, associazione dello storico quartiere catanese.

“Alcune lavoratrici della zona sono state buttate a terra e percosse coi manganelli da numerosi poliziotti contemporaneamente. E’ solo un miracolo che nessuna sia rimasta gravemente ferita”

L’associazione spiega che “da mesi, oramai, il quartiere, colpevole di ospitare comunità di migranti e lavoratrici sessuali, è soggetto a quotidiane incursioni delle forze dell’ordine. Ma se di solito questo accanimento viene esercitato con l’intimidazione che chi veste una divisa può agevolmente esercitare nei confronti di individui che la nostra società spinge ai margini, stavolta le forze dell’ordine hanno voluto mostrare i muscoli. Sono stati violentemente picchiati gli abitanti del quartiere, colpevoli di avere osato riprendere col cellulare l’operato delle forze dell’ordine”.

In particolare, prosegue il racconto, “si è assistito a tre poliziotti che si accanivano sul corpo di una donna trans e la madre che disperata tentava di filmare quello che vedeva non potendo fare altro. Ma questo, evidentemente, non è bastato alle squadre di polizia che, per cancellare le prove di quanto appena fatto, hanno cominciato a fare irruzione e a perquisire, senza alcun mandato, la casa di una lavoratrice sessuale, all’interno della quale hanno continuato a picchiare chiudendo le imposte che davano sul balcone di fronte da cui si sarebbe potuto vedere”.

Inoltre, secondo l’associazione, “sono stati portati in questura anche i semplici passanti, ai quali sono stati sequestrati i cellulari. Abbiamo assistito a una sospensione dei diritti gravissima”.

Manifestino: il carcere uccide

Liberiamo nelle brughiere un manifestino da diffondere.

IL CARCERE UCCIDE

Cure negate
Contenzione psicologica, farmacologica, meccanica e fisica
Deprivazione, spersonalizzazione e pestaggi
SONO TORTURA

Dove non arrivano ad ammazzare il sistema giudiziario e le guardie,
arrivano la psichiatria e l’omertà degli operatori sanitari.

DENTRO LE CARCERI ESISTONO ANCORA ‘REPARTINI’ E CELLE LISCE
Trattamenti sanitari obbligatori
A DISCREZIONE DI GUARDIE E DIREZIONE

(nella foto: la ‘stanza 150’, cella liscia, carcere di Torino)

STATO ASSASSINO

Femminismo, transfemminismo e lotta anticarceraria

In una civiltà ultra-capitalista dove la giustizia è nelle mani di chi detiene i maggiori privilegi economici, la questione del carcere, ingranaggio centrale del modello eteropatriarcale societario imposto e mantenuto, non può che essere una questione che riguarda tutte e tutti noi.

Nelle carceri sono reclusi prevalentemente uomini ma questo dato non deve sorprendere, lo Stato patriarcale ha per le donne e le soggettività non cisgender tutta una specifica rete di oppressioni, gabbie e meccanismi di disciplinamento che permeano l’intero arco e contesti di vita dall’infanzia all’età adulta per reprimere lo scontro con l’autorità. Ci sono già il marito, la famiglia, il misconoscimento costante, le oppressioni, le violenze, la psichiatria…

La donna subisce spesso il carcere anche quando il carcere non lo vive direttamente sulla propria pelle. Donne, madri, mogli, sorelle, cui spesso è scaricato il lavoro di cura della famiglia, dei figli, oltre che il compito di sostenere fratelli, compagnx, mariti e padri detenuti, con lo sfinimento che implicano le visite, il pregiudizio della società, della famiglia, dei vicini, le lunghe attese, i controlli e le ispezioni corporali, gli interminabili viaggi di andata e ritorno, le spese sistematiche ed elevate, la perdita della propria vita privata,  le ripercussioni sul proprio lavoro, dei propri sogni e progetti.

E’ ormai evidente come il  carcere non  solo non protegga nessunx dalle oppressioni, ma  come sia in verità un ingranaggio centrale nel riprodurle sulle classi subalterne, non solo su uomini migranti e poveri, ma anche e soprattutto sulle donne (cisgender e trans), gli uomini trans, le persone di genere non binario e/o intersessuali.

Chi subisce una violenza e si rivolge al sistema legale non trova protezione alcuna. A volte la polizia allontana l’aggressore per alcuni giorni ma ciò non ferma la violenza. A volte i tribunali emettono un’ordinanza restrittiva, un pezzo di carta che l’aggressore palesemente  ignora.  A  volte  la  polizia  non fa nulla. A volte l’aggressore fa parte della polizia stessa.

Il carcere ha fallito nel proteggere dalla violenza poichè perpetua il ciclo della violenza piuttosto che interromperlo.

Rinchiudere un partner violento può fermare la violenza soltanto temporaneamente, ma non affronta il problema alla radice e crea altre forme di violenza e di abuso.

Lo stesso sistema legale che non è riuscito a proteggere le persone come ‘vittime’, le punisce quando sopravvivono alle aggressioni: numerose  vittime  di  violenza  domestica sono incarcerate  per  essersi  difese. Le  sopravvissute  alla violenza tra le mura domestiche piuttosto che sui luoghi di lavoro o per strada  sono spesso  ritraumatizzate  dalla  vita  in carcere,  in  modo particolare  quando  vengono sottoposte alle aggressioni, alle mancanza di cure mediche, all’isolamento o  alla separazione  dalle proprie  famiglie. La violenza subita all’interno delle mura domestiche si riproduce con la violenza dell’esperienza in prigione.

In carcere le donne (cisgender e trans), gli uomini trans, le persone di genere non binario e intersessuali reclusx soffrono continui abusi sessuali e maltrattamenti sia per mano di altri detenuti, che da parte delle forze dell’ordine o per colpa delle umilianti pratiche quotidiane come la perquisizione corporale, vissuta da molte come forma di stupro.

Le persone transessuali sono tra le comunità più criminalizzate e vulnerabili in carcere: «Le persone transgender non entrano nella classificazione binaria uomo/donna che il carcere stesso produce e consolida socialmente» sottolinea Angela Davis.

Persone queer, trans e gender-variant, proprio   perché   visibili   nella   loro  differenza   di   genere, hanno difficoltà nel trovare lavoro, subiscono allontanamenti da parte delle famiglie, persecuzioni, aggressioni, nelle scuole, per strada, che portano ad esclusione ed emarginazione, aumentando la loro vulnerabilità e il rischio di incriminazione, quindi la probabilità che una persona di genere non binario sia fermata dalla polizia, perquisita, arrestata, accusata, condannata, e che sconti un periodo di carcere.

La detenzione risulta inevitabilmente discriminatoria per queste soggettività.

Persone trans  e  queer oltre a vedersi negato un  adeguato  percorso  medico  sia  per quanto riguarda l’operazione chirurgica che per le cure ormonali, sono  ad  alto rischio  di  aggressioni  sessuali  e  abusi  in  carcere, in commissariato e nei centri di permanenza temporanea, non-luoghi dove spesso vengono richieste prestazioni sessuali in cambio di “protezione”.

In alcune carceri vi sono sezioni dedicate all’interno degli istituti maschili mentre in altre sono adiacenti alle sezioni femminili. In altre carceri invece le persone transessuali e transgender vengono inserite nei reparti precauzionali insieme ai sex offenders, ai collaboratori di giustizia e agli ex appartenenti alle Forze dell’ordine, con tutto quello che ne può comportare.

Anche le sex-worker subiscono la repressione del sistema giudiziario e sono soggette alle stesse vulnerabilità.

Con la ‘lotta al degrado’ e all’immigrazione irregolare le città hanno imparato subito ad applicare il Daspo urbano con l’obiettivo di riportare il ‘decoro’ nelle strade e allontanare persone sgradite alla collettività: diverse sex worker sarebbero state allontanate con questo sistema.

Le istituzioni hanno il potere di emanare facilmente il daspo urbano anche a chi viene sorpreso in strada con loro. La criminalizzazione dei clienti rientra appieno nel sistema di vittimizzazione e alienazione delle lavoratrici del sesso, considerate tutte persone da salvare, cui viene negata l’autodeterminazione della propria esistenza e che, oltre a subire lo stigma che colpisce chi lavora nel settore del sesso,  ora rischiano ulteriore  emarginazione a causa delle politiche securitarie sempre piu dure.

L’isolamento dei luoghi dove sono spinte le lavoratrici le rende inoltre più facilmente soggette a controllo e violenze da parte di polizia e clienti.

Il sistema penitenziario e il carcere sono l’asse portante del controllo patriarcale attraverso cui si perpetra la riduzione strumentale e svilente delle persone a oggetti. Una macchina repressiva sempre più specializzata in ogni luogo che zittisce e neutralizza le contraddizioni sociali prodotte dal capitalismo, rinchiudendo e castigando quelle soggettività che queste contraddizioni esprimono e subiscono sottoforma di molteplici oppressioni.

Pensare che il carcere sia necessario non è nient’altro che quel che ci hanno fatto credere.

Il giustizialismo prescinde dalle cause e considera i crimini esclusiva responsabilità delle persone che li commettono, per cui le uniche contromisure che si adottano in merito sono basate sul castigo.

Il punire individualmente e nella maniera più dura, si scontra frontalmente con l’obiettivo di lavorare a intersezioni che agiscano nei conflitti sociali in maniera proficua e vitale.

Se parliamo della violenza maschilista come una serie di problemi individuali scollegati fra loro otterremo soltanto l’invisibilizzazione della loro reale causa: la struttura eteropatriarcale.

Combattere  per  un  mondo oltre il carcere, dove  siamo  tutti  e  tutte  libere dalla violenza, dalla povertà, dal razzismo, dagli abusi e da ogni forma di oppressione, non può prescindere dalla riflessione transfemminista.

Per riprendere la Davis, fervente abolizionista del sistema carceraio, più che porre l’accento su chi perpetra la violenza, bisognerebbe interrogarsi sulla violenza come istituzione,  sull’istituzionalizzazione  dei  meccanismi  di violenza  e  sulle discriminazioni di genere che le istituzioni incarnano tramite l’intervento paternalista e patriarcale.

La violenza di genere non e’ un problema di ordine pubblico, è necessario stravolgere in modo radicale e nel profondo la cultura patriarcale e machista che ancora oggi tiene in piedi questo sistema basato sullo sfruttamento che si riproduce nelle relazioni individuali e collettive.

E’ necessaria una critica integrale e radicale alle fondamenta della violenza e dell’oppressione razziale, di classe e di genere su cui si appoggiano le nostre società, e con queste le carceri, ed è proprio il rifuto di ogni binarismo che oggi ci ispira alla ricerca di formule nuove per esprimere i rapporti di forza e oppressione: contro ogni autorità, contro ogni forma di sfruttamento,  contro le carceri e contro il dominio patriarcale, di qualsiasi genere.

Carcere: “articolazioni salute mentale”

Ma Opg e ‘repartini’ nelle carceri esistono ancora?

Alla Dozza, carcere bolognese, è presente una sezione ‘FEMMINILE ARTICOLAZIONE SALUTE MENTALE’

Si parla di salute mentale, ma è di psichiatria in mano ai carcerieri che si tratta.

A Bologna per altro solo femminile, perchè alla donna è sempre riservato un posto d’onore nella persecuzione e nella stigmatizzazione psichiatrica: nei luoghi di reclusione, nei reparti femminili degli istituti manicomiali, le donne sono sempre state oggetto di un maggior accanimento da parte di medici, infermieri, e del potere costituito.

Ma cosa sono?

Le ‘Articolazioni salute mentale’ sono sezioni speciali per quelle detenute e quei detenuti definiti “rei folli”, cioè con una valutazione psichiatrica sopravvenuta (successiva) alla detenzione.

In sintesi il carcere crea la menomazione, produce sofferenza, esaspera la tenuta psichica di chi vive la reclusione sulla pelle, e poi vuole contenere i ‘comportamenti problema’ (definizione amata da psichiatri ed educatori) reprimendoli ancora di più in ‘speciali repartini’.

Bisogna sapere che gli Opg contenevano tutte le autrici e gli autori di reato con diagnosi psichiatrica, sia quelli dichiarati non imputabili per ‘vizio di mente al momento del fatto’, e perciò prosciolti e rinchiusi in OPG in quanto ‘socialmente pericolosi’, sia quelli condannati a pena detentiva e ‘colpiti’ da ‘disturbi mentali gravi’ durante la permanenza in carcere.

Con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari in Italia (31 marzo 2015) l’istituzione totale dell’ospedale psichiatrico giudiziario veniva sostituita da più piccole istituzioni di reclusione non molto diverse nella sostanza, le cosiddette «residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza» (Rems), luoghi destinati a recluse e reclusi giudicati incapaci di intendere e volere al momento del giudizio e non successivamente.

Le ‘articolazioni salute mentale’ riguardano perciò  detenute e detenuti che non possono essere accolti nelle residenze sanitarie per l’esecuzione delle misure di sicurezza istituite dopo la chiusura degli Opg.

In Italia ci sono 47 Atsm in 36 penitenziari per un totale di 303 celle in cui a inizio 2019 erano presenti 318 detenuti (Fonte Relazione del ministero sull’amministrazione della giustizia 2018).

Come sono e cosa si sa?

Queste sezioni carcerarie sono sotto la responsabilità dell’Amministrazione Penitenziaria ma ‘a prevalente gestione sanitaria’, che non si capisce cosa significhi.

A quanto emerge non presentano nè una reale copertura giuridica, nè un qualsiasi tipo di chiarezza circa la ‘gestione’ delle articolazioni stesse e che tipo di aspetti ‘sanitari’ siano tenuti in considerazione e in che termini.  ‘Chiarezza’ poi, sappiamo non ce ne sarà mai finchè esisteranno quelle mura, ma se già ciò che avviene nelle sezioni non deve essere detto, ciò che avviene dentro i repartini, non deve essere detto ancora di più. Che cosa si intende con ‘a prevalente gestione sanitaria’?

La Magistratura di sorveglianza è stata chiamata a pronunciarsi su un caso di differimento pena, inviato nell’articolazione psichiatrica della Dozza di Bologna dopo la chiusura dell’OPG. Il responso è stato che la persona non poteva stare lì perché l’articolazione non aveva niente di sanitario.

Nel 2016 a Bologna sindacati e compagnia bella si opponevano all’apertura del repartino femminile per la sempre vittimistica carenza di organico e per le condizioni strutturali del luogo.

Quanto tempo vengono trattenute le persone nell’articolazione femminile della Dozza? Quale tipo di regolamentazione e ‘gestione’ vige e in che tipo di condizione?

Il garante nel 2018 dice che le tre donne detenute nell’articolazione salute mentale del carcere di Bologna  sono tenute in estremo isolamento.
“I numeri esigui, però, e la collocazione fisica di questi ambienti detentivi, collocati al piano terra, comportano un significativo stato di isolamento per queste donne detenute.”

“All’interno delle articolazioni si trovano infatti le persone che non possono essere curate e assistite nelle sezioni ordinarie, la maggior parte delle quali, giuridicamente, in “osservazione psichiatrica” (un periodo di 30 giorni prorogabile, in cui viene valutata la compatibilità dello stato di salute psicofisico e la detenzione). L’ingresso e l’uscita avvengono su decisione interna dell’amministrazione sanitaria e penitenziaria, ed è ‘prorogabile’ senza alcuna previsione di un controllo giurisdizionale (che avviene invece nel caso di ricovero in luogo esterno al carcere).”

Significa che direzione e guardie possono usare questo strumento e relative proroghe discrezionalmente e che la reclusa e il recluso non hanno gli stessi ‘diritti sanitari’ dei liberi come si millanta nelle varie norme e riforme.

L’ultimo rapporto di Antigone riporta la raccapriciante storia di M. presso l’articolazione salute mentale “Il Sestante” della Casa Circondariale di Torino.

La stanza 150 : “Il rispetto dei diritti della persona è spesso violato. Si segnalano casi di contenzione e si è rilevata (nella Casa Circondariale di Torino, anche filmata, l’esistenza di ‘celle lisce’ spoglie e senza suppellettili.”

“nonostante infatti formalmente venga dichiarato che la permanenza nella stessa dura generalmente qualche ora, in realtà vengono registrati in alcuni casi la permanenza di soggetti per periodi superiori a venti giorni.”

Eppure la Sentenza della Corte  Costituzionale  n.99/2019 ha stabilito  che,  se  durante  la  carcerazione  sopravviene  una  grave  ‘infermità psichica’,  si  potrà  disporre  che  la  persona  detenuta  venga  ‘curata’  fuori  dal carcere,  applicando  la  misura  alternativa  della  detenzione  domiciliare o in luogo di ‘cura’, così come già dovrebbe accadere per le gravi malattie di tipo fisico.

Una cosa importante da sapere è che dal 14 giugno 2008 le prestazioni/funzioni sanitarie fino ad allora svolte dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dal Dipartimento della Giustizia Minorile del Ministero della Giustizia sono state assimilate integralmente al Servizio Sanitario Nazionale. Assieme alle funzioni, sono state trasferite al Fondo sanitario nazionale e ai Fondi sanitari regionali le risorse, le attrezzature, il personale, gli arredi e i beni strumentali afferenti alle attività sanitarie nelle carceri. Il personale sanitario che ad oggi opera nelle carceri italiane è dunque inquadrato contrattualmente quale dipendente dell’usl e non più del DAP.
Questa riforma poneva il principio  della  parità  tra detenuti e soggetti liberi, soprattutto nella tutela del diritto alla salute e, quindi, del diritto  a  godere  di  prestazioni  sanitarie  celeri  ed  efficienti,  in  ottemperanza  al ‘problema  medico  che  si  presenta  nel  caso  concreto’.

Sappiamo invece come questo non sia assolutamente vero, le persone muoiono in carcere e di carcere, con o senza ‘patologie’, oggi come ieri, ne parliamo inoltre ad un anno dalla strage di Stato nelle carceri e dall’esplosione dell’emergenza sanitaria, che ha messo in evidenza l’omertà degli operatori sanitari e come la reclusione sia strutturalmente in antitesi con qualsiasi concetto di salute.

Suicidi in carcere

Le statistiche mostrano che i suicidi sono in continuo aumento, e tra i piu giovani. Emerge inoltre che la popolazione detenuta muore per suicidio esponezialmente di più rispetto la popolazione libera.

Nel 2020 sono stati 61 i suicidi, dall’inizio dell’anno 2021 già 6.


La sofferenza si traduce in isolamento, contenzione fisica, farmacologica e psicologica,
aggravata dall’annientamento, dalla violenza e dalla repressione carceraria.

La reclusione genera disturbi e menomazione (da problemi psichici, a problemi cardiovascolari e metabolici sino a malattie infettive), patologie e fragilità che spesso esordiscono in carcere e si protraggono anche dopo la scarcerazione.

La riflessione sulla contenzione della sofferenza mentale e della dissidenza ci deve mettere in guardia, la strumentalizzazione del disagio si traduce in termini ancora piu repressivi: dove non arriva il sistema giudiziario e il carcere, arriva la psichiatria,.

Oggi, oltre al profondo buio che circonda queste ‘articolazioni salute mentale’,  sindacati e guardie tornano a chiedere anche ‘particolari sezioni agitati’  per stringere una morsa repressiva ancora maggiore intorno a chi è reclusa e recluso in carcere e si ribella.

Il carcere è intrinsecamente non solo la negazione di qualsiasi concetto di salute, ma della vita e dell’esistenza stessa.

Rompere l’omertà che avvolge quelle mura e abbattere ogni prigione, qualsasi prigione, è una responsabilità di tutte e tutti.

Appunti sulla psichiatrizzazione e sulla contenzione della dissidenza

Qualcuno volo sul nido del cuculo di Milos Forman 1975
Foto di scena della Fantasy Film and United Artists Corporation USA


“Quadro di personalità allarmante”
“Inclinazione alla violenza”
“Sintomatico di una personalità incapace di controllare l’impulso criminale”

Queste sono le parole usate di recente dal Gip per descrivere i fatti di Torino.

Lo Stato risponde alle sollevazioni di malcontento prospettando anni di carcere e guai per qualche vetrina del lusso in frantumi confermando il suo cieco ruolo di tutore dell’ordine e garante dei privilegi: i poveri devono rimanere poveri, chi è ai margini deve rimanere ai margini a guardare le scintillanti vetrine.

Si parla di ‘punire’ le famiglie delle persone coinvolte con la sospensione del reddito di cittadinanza e non si esita a psichiatrizzare il comportamento individuale.

Rompere una vetrina diventa “Sintomatico di una personalità incapace di controllare l’impulso criminale”.

La psichiatrizzazione del comportamento considerato ‘oppositivo’ ha origini lontanissime, l’estensione capillare che oggi viene fatta del paradigma psichiatrico in  ogni ambito della vita – vedi la medicalizzazione dell’infanzia nelle istituzioni scolastiche – viene ad assumere una valenza enorme che riporta al centro del discorso collettivo la contenzione, la medicalizzazione e la stigmatizzazione psichiatrica dei comportamenti, paradigmi e pratiche coercitive e spersonalizzanti che vanno  a sostenere ‘profili criminosi’ e ‘quadri di personalità’ usati come arma per togliere di mezzo il dissenso.