PAROLE CHIARE (détournement di PAROLE SEMPLICI)

Diffondiamo sempre a proposito dello scandalo dell’esclusione e degli scritti usciti di recente su qualche sito di area anarchica:

Chi scrive pensa che la liberazione passi dall’individuo e non dalla brutale collettività, dall’amore per le idee, come dall’odio per qualunque forma di autorità. Agognata è la ricerca della consapevolezza del sé e delle proprie potenzialità e solo la rivolta può demolire la presunta ineluttabilità del mondo che si affronta ogni istante. È agli individui sensibili che si tenta di parlare. I ruoli, le categorie e le identificazioni esistono e vanno distrutti. Il dominio definisce qualunque ruolo per esserci in società. Ogni ruolo ha la sua oppressione e con esso si sviluppa una certa relazione sociale. Ogni clan ha il suo linguaggio, dei gesti specifici e diversi modi di fare che sono propri.

Eccola la prima questione: il tentativo di uniformare forme di versi, come se i vari ostrogoti potrebbero essere recuperati dal primo intellettuale di turno. L’omologazione rimanda ad una istituzione, non al tentativo (oggi impossibile se non si distruggono le basi della civiltà) dell’autonomia individuale; all’ordine delle cose e delle proprie insulse evidenze, non alla scommessa di rivolta anche contro noi stesse e non solo contro il dominio; alle prigioni mentali dell’individuo finito, non alla libertà di quell’individuo fatto della sua storia, dei suoi rimossi e delle proprie torture. La ricerca della libertà o è in estensione con quella di altrx o non è.

Affrontare la problematica di chi disprezza parlare di patriarcato e di violenze di genere è questione fondamentale. Date le molteplici persone di merda che frequentano gli ambienti anarchici il vittimismo a forma di esclusione è diventato attualmente lo strumento cardine per quegli uomini di merda salvati dai kompagni per essersi definiti anarchici, ma profondamente misogini, transfobici e patriarcali: piagnucolano che le compagne anarchiche neanche li degnano di uno sguardo… Poveri narcisi senza il loro specchio, come faranno ad avere un ruolo nell’ambiente sovversivo adesso?

Come faranno, adesso, ad avere la loro platea di gregari?

Il suono del lamento diventa ridondante addirittura quando le compagne non si fermano alla parola ma si vendicano nella pratica. Di solito agli anarchici boriosi piace solo la loro unione di pensiero e azione. Quando essa esce dal loro controllo si turano il naso e non dicono niente. Ormai pochissimx anarchicx difendono le azioni per quello che sono, il complottismo è entrato anche da queste parti. È stato anche fatto un giornale senza motivo per dire che loro sanno quale è l’azione anarchica e quale no. Coglione noi che eravamo rimaste all’azione diretta e al sabotaggio in tutte le forme di libertà possibili e impossibili… Meglio i sex toys che certa stampa anarchica misogina da pari, di giorno e di notte, a pari. Meglio l’ostinazione del nostro immaginario e le compagne con il coltello tra i denti che farsela con chi vuole prendere il posto dell’estrema sinistra stile notav. Meglio tentare la bellezza dell’anarchia che struggersi nella lamentela dell’esclusione dal comitato centrale degli anarchici. Scusate le battute al vetriolo di traverso, ognuna legge quello che vuole ma nessuna porgerà distinti saluti a chi maschera lo stupro con l’agghiacciante archetipo giustificatorio del desiderio maschile.

Spesso le varie questioni si affrontano con l’ottica identitaria di difesa del violentatore di turno, di chi si considera vittima di una cospirazione orchestrata dalle streghe, cioè qualunque individualità al di fuori del maschile. Ora, ciò che non si può accettare è che tale merda stia costringendo a sintomi reazionari e autoritari più che alla libertà, ad una sorta di moralità amicale che produce una avvilente sordità ai mille tentacoli del dominio patriarcale. Non si può dire violenza di genere, ogni gesto contro il patriarcato è tacciato di femminismo accademico alla Butler (qualcunx non se l’è mai cagata quella stronza democratica!!!!!!!!!!!!!!!!), nessun pensiero fuori dal manuale dei comunisti con pose anarchiche può essere detto. O si includono persone di merda e ci si comporta come loro oppure si è tacciati di esclusione, tribunale transfemminista o anarchismo duro e puro. La domanda sorge spontanea: dentro a che cosa? Dall’ansia di tenere la morale della vera idea anarchica che diventa una sorta di polizia storica e del pensiero? Dai retaggi di chi, fondamentalmente, guarda alle persone solo come individui atomizzati senza le loro storie di oppressione? Altro che codici, che ognuna parli come li pare ma che si accolli quello che esprime.

Semplice, come le parole.

È interessante a questo punto fare un parallelo con il modello omologante e stereotipato del dominio. Ogni questione, tranne quella della sua distruzione, viene recuperata dal dominio. Il dominio fagocita (quasi) tutto. Nemici della libertà, si dice oggi, traggono profitto da tutto.

Recupera il femminismo che fa l’occhiolino alla normatività, non quello radicale che sputa su ogni forma di identificazione (che belle stronze queste anarcofemministe sempre incazzate con gli abusanti e i narcisi!). Recupera la questione queer che vuole stare dentro a questo mondo, non quella caotica e antinormazione (a Berlino qualcuno le ha viste, o se non si fanno gli scontri è tutta colpa delle frocie? E poi, ancora con questo sguardo simmetrico del conflitto? Che ovaie!!!) .

Recupera l’autogestione che fa profitto e si allinea a una falsa orizzontalità con gerarchie informali, fino persino a recuperare alcune azioni allo scopo di annacquare i contenuti della radicalità. Al dominio interessa la decrescita felice perché innocua ai suoi piani di sfruttamento, non al possibile ritorno del luddismo. Infine, la parola libertà ormai è il vocabolo più banalizzato di tutti e gli anarcomunisti preferiscono partire insieme e tornare con la stessa congregazione piuttosto che organizzarsi per affinità, fiducia e partire e tornare con chi si vuole, e soprattutto si sceglie, in modo informale.

La tendenza di questa società tecnologica, la quale viene riproposta anche in ambienti cosiddetti sovversivi, è estirpare la singolarità di ognuna. Non da meno, le rivendicazioni tortuose di aver subito delle violenze da parte dei kompagni vengono denigrate perché sono pericolose: fanno saltare il tappo del non detto, dell’abitudine, del codice e della famigliola anarchica. Distruggere la famiglia e i codici rimangono alcune delle tante vie di pensare un mondo di libere e di unici.

Per questo è di distruzione di tutte le oppressioni, anche quella patriarcale che viviamo tuttx, di cui bisognerebbe anche parlare, di diserzione dai ruoli imposti biologicamente e delle categorie conseguenti che vengono appiccicate addosso, di morale introiettata dalla società, di comportamenti che gli individui tendono a riprodurre perché il mondo del dominio è uno con tutte le sue oppressioni latenti. In qualunque ambito si manifesta il potere, anche in quello anarchico ormai pieno zeppo dello spirito comunista, dove è facile scrivere di libertà e urlarlo in piazza, per poi nelle proprie mura domestiche (o negli spazi anarchici) e mentali si continua come se nulla fosse a normalizzarsi nei ruoli di potere. Anormali, sognatrici, creative e ubriachi di stelle ormai non hanno più posto nella quasi totalità degli ambienti anarchici di oggi, quando si parla di confini da sciatta penisola. Si appoggiano i piedi sulla realtà per fortificarla, non sulle nuvole per colpirla. I vetero-normativi con le bandiere rossenere dicono che il problema sia il femminismo, noi, senza nessuna bandiera da difendere, vediamo che la grossa puzza di merda che ristagna nell’anarchismo italico è il prepotente ritorno del comunismo in salsa movimentista del motto mai tramontato “condivisione o stato”.

Se i discorsi sull’oppressione non tengono conto di quanto il patriarcato, ad esempio, abbia inciso e incida ancora sulla determinazione e mantenimento di ruoli ben definiti da cui non si è fatto molto per sfuggire e che si sono reiterati per secoli, come è possibile comprendere ciò che ogni individualità subisce? E come è possibile scardinare il potere, se non si rende il peso necessario, prima di tutto, nelle relazioni quotidiane che viviamo? La critica antiautoritaria o la si fa a tutto il dominio, dalla religione al patriarcato, al capitalismo e alla tecnica, ai ruoli e alla medicalizzazione, alle istituzioni e agli autoritari, ai narcisi e alle bandierine, o diviene recuperabile da chiunque. E ci si chiede: ma come fai a definirti anarchicx se hai atteggiamenti come un qualunque coglionx autoritarix?

Senza l’empatia per le sofferenze altrui, saranno solo le parole del dominio o degli esperti a parlare.

La psicologia è dappertutto: lo è così tanto che qualcuno, per fortificare il proprio Pensiero Unico, scambia l’interrogarsi sugli aspetti emotivi e di cura come comportamenti per controllare gli individui intorno a noi. L’opinione che ne scaturisce è che, in fondo, gli esseri umani sono tutti potenzialmente onnipotenti, non possono aver paura e ansie, soprattutto in una vita ridotta a schermo per esserci, lavoro per sopravvivere e blog o giornali per fomentare le opinioni anarcomuniste. Essere solidali con chi subisce o ha subito un’oppressione vuole dire cercare di sentirla e odiarla per sovvertirla, proprio come chi ha la forza di dire ai propri affetti di aver subito una violenza. Se Adamo ed Eva hanno rappresentato l’immutabilità di una condizione per secoli, Hiroshima e Auschwitz, con le loro conseguenze, sono il mondo di oggi.

Siamo anche il frutto della società in cui viviamo, sarebbe il caso di non nascondersi più anche per chi detiene la fede anarchica (chi è più attuale oggi parla di cultura anarchica, dicendoci quali libri sono fondamentali e quali no, e al bando ogni singolarità, acculturiamoci tuttx, ma come dicono loro!!!!). Oggi alcune e alcuni anarchici sono profondamente antifemministi (che bel termine cognato proprio dai nemici della libertà), credono nell’individuo fatto e finito come fonte di progresso, ma è l’infinito che apre le porte alla libertà. C’è chi si masturba su Kropoktin, c’è chi ci ha propinato che “l’insurrezione che (s)viene” e i suoi autori erano geniali e c’è chi sogna senza limiti con “Il ladro” di Darien. Ad ognuno il suo, in ordine sparso, ma a debita distanza.

E allora è bene dirsi che, comunque vengano presentate, è di questioni personali e sociali che si parla, che il patriarcato e le relazioni che fomenta fanno parte del dominio, e che a furia di non riconoscere gli elementi latenti di oppressione, la critica al mondo e la possibilità della sua demolizione spariscono nel brusio del lamento all’esclusione del solito individuo abusante. Ma se ci pensate bene, ogni individuo può essere soggetto ad avere atteggiamenti oppressivi contro qualcuno di altrx nelle proprie relazioni. Questo modo di relazionarsi lo possiamo riconoscere per tentare di distruggerlo? Non stiamo scrivendo il riformista decostruirlo o destituirlo, ma proprio di demolirlo in noi. E che facciamo, diciamo che le individualità anarchiche vivono fuori dal mondo e che queste cose non possono capitare? Dovremmo elencare la sfilza di relazioni e di incontri occasionali fra anarchicx che si sono rilevati violenti? E l’inclusione delle sopravvissute incazzate che vogliono mettere a ferro e a fuoco il mondo o semplicemente di quelle individue che si sono sentite ascoltate dopo aver subito violenza? Continuiamo a costruire recinti contro le oppresse e le torturate?

Ma è bene anche chiedersi: quali relazioni si stanno costruendo alla luce di dare pacche sulle spalle a chi nelle proprie relazioni amicali, affettive e sessuali usa strumenti autoritari senza neanche riconoscerlo? Esiste ancora qualcosa di intimo, personale, individuale da custodire, che sia irriducibile a qualsiasi categoria che è giocoforza autoritaria?

L’odio e la rabbia provata per le prese di posizione fatte da gente che si è comportata di merda sono una delle fonti che danno senso agli io che vogliono rompere con qualunque pastoia del dominio.

PAROLE, PAROLE, PAROLE.

È una strana sensazione quella provata nel leggere testi tutti uguali, nel deserto del niente, senza emozioni, che non fanno incendiare le menti anche se pieni di parole che divengono slogan mal assemblati. Meccanicismo del cameratismo, altro che parole che osano l’impossibile. L’ossimoro con cui si è deturnato il testo che compare nel titolo è quello che vorremmo sentire nei cuori ardenti, non per dare l’idea di cosa è l’anarchia vera (fanculo gli autorevoli da ricette gastronomiche dell’ordine militante) ma per rendere omaggio a quelle individualità anarchiche (non certamente le uniche, per scardinare ogni mitopoiesi) che hanno dato il loro contributo ad un’idea di anarchia fatta di pensiero, azione e solidarietà contro tutte e tutti. Oggi quell’idea è sempre meno viva: la virtualità ha preso il posto dell’immaginazione, il mito sta uccidendo l’utopia, la realtà sembra un macigno in cui si può solo soccombere e ormai è meglio leggere Bordiga e Gramsci, piuttosto che gli individualisti anarchici.

Quando infatti si diffonde un comunicato in cui usa la parola infame per definire una compagna (metodo trito e ritrito per accusare in modo poliziesco, denigrazione forse imparata da Marx quando dava della spia russa a Bakunin), con all’interno delle minacce contro chi solidarizza con chi ha subito violenza e si mettono per iscritto delle accuse mettendo a rischio le relazioni fra anarchici già ultraparanoici (per dare dell’infame a un individuo bisogna essere sicuri, ogni piagnisteo che giustifica questo modo di comunicare è spazzatura), a che cosa siamo di fronte? Come dovremmo considerare chi mette a rischio l’incolumità delle persone che vivono una vita nell’illegalismo, se non gente con cui non avere nulla a che fare? Noi non ci permetteremmo mai di dare dell’infame senza esserne sicure al cento per cento. Almeno questo dovrebbe essere un concetto scontato; ma se non si riconosce che è inaccettabile dare l’infame a caso, come si fa a rendersi conto di tutti i dispositivi di potere e delle brutture di qualunque mondo che non si voglia liberare di ogni forma di autorità e autorevolezza? Ci si lamenta di nome e cognome su una ristampa di un’autobiografia di un’anarchica, ma non si dice che nello stesso libro c’è una lettera pesantissima di un’altra compagna che racconta di altre violenze subite in una relazione con la stessa persona. Qualunque potere va distrutto, sia quello della censura che della propaganda.

Anarcomunisti delle composizioni di classe con un occhio alla moltitudine desiderante e l’altro all’indifendibile, siete assediati dalle streghe rompigonadi! Avete presente “L’angelo sterminatore” di Buñuel?

Carx compagnx demolitx, vituperatx, offesx, incarceratx, torturatx, sofferentx continuiamo a odiare infinitamente amando senza riserve.

poche ma cattive streghe non tue compagne

P.s.: abbiamo svagato su altre questioni, siamo uscitx dai binari, abbiamo preso a mazzate ciò che ci disgusta perché sappiamo che i problemi dell’autoritarismo nell’anarchismo in questo posto di merda chiamato italia partono da lontano. Ma a noi non ci riguardano, abbiamo già scelto di non respirare neanche l’aria inquinata con certe persone e di assumerci la diserzione, ma sempre con una promessa vitale di sedizione.

Testo in PDF

INTACCANDO L’ARROGANZA DEL PRIVILEGIO

Riceviamo e diffondiamo:

Questo testo è stato inizialmente pubblicato sul n° 2 della rivista Caligine primavera-estate 2021 ed è stato pensato come una risposta all’articolo “Distinti saluti! Alcune riflessioni sul femminismo, sulle dinamiche di ammaestramento e sul tentativo di americanizzazione delle lotte” uscito sul Bollettino n. 4 della biblioteca dello Spazio Anarchico “Lunanera” di Cosenza. Decidiamo di dargli una nuova diffusione alla luce del recente dibattito scoppiato in rete perché crediamo contenga delle riflessioni ancora valide visto il contenuto espresso da alcuni testi recenti. L’articolo che segue è stato leggermente rimaneggiato rispetto alla pubblicazione originaria.


INTACCANDO L’ARROGANZA DEL PRIVILEGIO

 “Nella società borghese, è normale sparlare delle persone alle spalle,
ma mai fare critiche costruttive in faccia; allo stesso tempo,
ognuno resiste sistematicamente all’ammettere
qualsivoglia errore commesso.”

David Gilbert
Amore e lotta
Autobiografia di un rivoluzionario negli Stati Uniti

Se mi spingo a scagliare un’altra pietra contro l’ennesima espressione dell’antifemminismo che si annida in seno all’anarchismo italiano non è certo per il piacere di inoltrarmi nel ginepraio velenoso che sembra diventato ultimamente il dibattito attorno a certi argomenti, nella speranza che un giorno le pietre raccoltesi nel tempo attorno al corpo morto del patriarcato possano costituire le fondamenta di un ponderare sovversivo scevro non solo dai suoi dannosi pregiudizi sessisti, ma anche  da tutti quegli orpelli ideologici di cui è uso diffuso agghindare le sue vesti. Questi costituiscono dei veri e propri feticci attorno ai quali il pensiero gregario si raggruma rinnovando il culto alle peggiori espressioni della cultura dominante, quali sono, solo per citarne alcune delle più note e nocive, il dualismo (come separazione di teoria e pratica, mente-corpo, umano-natura, uomo-donna, etc.), il positivismo (inteso come fede nella ragione e nelle sue capacità di discernere una qualsiasi verità), il progressismo (ovvero quella visione della storia come un procedere verso un indiscusso miglioramento futuro).

Lungi da me il voler trattare così difficili e complessi argomenti in questa sede. Il mio contributo vorrebbe essere di ben più modesta portata. Né tanto meno ho intenzione di esprimermi su faccende strettamente femministe o che riguardano la reazione ad una violenza sessuale e sugli strumenti che ci si dà (o che, a piacere, si decide di non darsi) per affrontarla, né sui temi del consenso o dei modelli sessuali che determinano in qualche modo il desiderio. Sono stati già diffusi a questo proposito testi che dimostrano con abbastanza chiarezza la miseria di quella Reazione che appesta l’aria di questi tempi, così come la degna rabbia che è ormai sul costante punto di tracimare ad ogni suo nauseante sentore.

Da parte mia vorrei invece provare ad apportare qualche riflessione su di un tema particolarmente delicato eppure di estrema importanza per quell’anarchismo che prosegue interrogandosi attorno alla cornice epistemologica in cui sono inseriti i suoi tentativi di sovvertire il mondo del dominio: quello del recupero delle lotte da parte del potere, e della posizione di privilegio che è alla radice di un certo modo di concepire ed intendere quest’ultimo.

Credo di poter affermare, senza troppe precauzioni, che una delle caratteristiche di maggior forza che il sistema statale a sfondo democratico-capitalista ha saputo sapientemente sviluppare per sopravvivere è la capacità di recuperare a proprio favore quelle istanze di liberazione che di volta in volta ne mettono in discussione l’ordinamento. Questo elemento costituisce una differenza considerevole rispetto agli stati generalmente definiti autoritari o totalitari, che preferiscono censurare e reprimere duramente qualsiasi voce o gesto dissidente che si discosti dalla norma su cui essi si poggiano e che raramente sono predisposti a concedere alcunché alle insubordinazioni interne. E posso con forse ugual facilità evidenziare che ogni lotta vincente o sconfitta, non avendo raggiunto l’obiettivo del totale e inequivocabile abbattimento del potere, abbia in qualche modo contribuito a rinsaldarlo. Le istituzioni del potere infatti, mantenute intatte le proprie strutture, raccolgono quasi sempre con maggiore efficienza dei loro nemici la lezione tratta dalle peculiarità dello scontro avvenuto, riuscendo poi a utilizzarla a proprio vantaggio. Ne è un chiaro esempio l’evoluzione che costantemente attraversa gli apparati repressivi dal punto di vista giuridico, tecnologico, tattico e strategico. L’argine che gli stati hanno costruito per contrastare l’ondata ribelle degli anni ‘60 e ‘70, tanto per fare un esempio, fornisce ancora numerosi strumenti che la repressione continua ad utilizzare contro chi osa opporsi all’odierna pace sociale.

Ma non è altresì con altrettanta leggerezza che si può affermare che l’esprimersi di una istanza specifica di liberazione “rinforzi il capitalismo e la democrazia”, né in egual modo credo si possa additare le insufficienze teoriche del movimento rivoluzionario come la causa principale delle sue sconfitte. L’insufficienza dei mezzi (anche teorico-analitici) di cui ci si dota lanciandosi all’assalto del cielo si evince con difficoltà nella bolgia del conflitto, ma quasi sempre a posteriori, quando a bocce ferme si ricostruiscono i fattori che hanno stabilito l’esito dello scontro. Dal momento che i risultati di una lotta si determinano nella realtà degli elementi in gioco e la complessità della loro interazione ci impedisce di elaborare una previsione attendibile sullo sviluppo degli eventi è quantomeno presuntuoso pensare di possedere una corretta impostazione teorica che ci tiene al riparo dai rischi della sconfitta.

Storicamente parlando e semplificando all’estremo, il potere ha sempre risposto con un’attitudine repressiva alle esplosioni sociali che ciclicamente mettono in discussione una o più forme del suo operare. Accanto alla dura e cruda violenza è stata però spesso messa in campo una strategia di cooptazione che, attraverso diversi canali e livelli di mediazione, elargendo cariche, beni o privilegi, ha lo scopo di frammentare il fronte delle forze d’opposizione giocando sulle sue differenti disposizioni e condizioni interne. Le porzioni più radicali che rifiutano di adeguarsi alla ragion pratica del compromesso vengono così da principio individuate e isolate dal resto del corpo ribelle, e successivamente stroncate in maniera esemplare. Ogni sollevazione sociale produce infatti nelle circostanze dello scontro delle componenti che si spostano verso posizioni più inclini alla mediazione con le istituzioni del potere al fine di materializzare dei miglioramenti parziali, valorizzando, a seconda delle circostanze, il rapporto di forza raggiunto o altrimenti cercando di garantire la propria sopravvivenza, rinunciando di fatto alle proprie aspirazioni di liberazione totale. Ciò è avvenuto e avviene anche nel movimento anarchico (basti pensare alla Spagna del ‘36), e non c’è impianto teorico che tenga quando si entra nel vivo della violenza controinsurrezionale. Ed è fuori da ogni dubbio che queste tendenze siano utili allo Stato che le recupera per rafforzare la sua legittimità intaccata dalle lotte e indebolire i movimenti di opposizione interni; credo che possiamo facilmente convenirne.

Questa dinamica della repressione è ben riconoscibile nella storia conosciuta, dai tempi delle sommosse dei vari zek, schiavi e plebei contro i loro odiati padroni ed oppressori, passando per le rivolte millenariste e utopiste dei contadini che hanno infiammato l’Europa durante il Medioevo, ai vasti fronti proletari con aspirazioni rivoluzionarie dei secoli XVII, XVIII, XIX e della prima metà del secolo scorso, fino a quelli del contrasto ai movimenti e alla lotta armata nella storia più recente. La sproporzione delle forze in campo e l’astuzia del potere sono elementi che vanno tenuti a mente e soppesati con attenzione quando si vogliono valutare le cause di una sconfitta nei processi di liberazione, sconfitta che non si può imputare (a posteriori) con leggerezza ad una incorretta formulazione teorico-tattica, o alla recuperabilità delle rivendicazioni espresse. Si voglia, per puro amor della memoria storica e dal momento in cui l’argomento è stato di recente menzionato, ricordare ancora l’immensa mole di sforzi che gli stati hanno messo in atto solo nel periodo della contestazione degli anni ‘60 e ‘70. Negli Stati Uniti, la più grande potenza economica e militare del mondo contemporaneo, il movimento contro la guerra del Vietnam e le disuguaglianze, rapidamente evolutosi in movimento antimperialista e rivoluzionario (sintomo di un’approfondita analisi d’insieme sul funzionamento del capitalismo e dello Stato), si vide contrapporre un elevatissimo livello di violenza espresso da tutti gli apparati della repressione, che andò dalla sanguinosa repressione nelle strade e nei campus universitari di coloro che lottavano per l’autodeterminazione dei popoli, all’omicidio mirato e alla tortura delle individualità rivoluzionarie. Basti pensare agli interventi della polizia all’università di Berkeley nel ’64 (circa 800 arresti) e alla Kent State University nel ’70 (quattro morti da arma da fuoco), solo per citare due eventi famosi, o alle stragi dei gruppi militanti afroamericani, vittime di veri e propri agguati e spesso giustiziati sul posto nel corso dei raid delle forze repressive (come l’omicidio a sangue freddo di Fred Hampton, membro delle Pantere Nere, nel 1969). Le stesse tecniche contro-insurrezionali e di contro-guerriglia vennero poi usate anche in Italia e in Europa per contrastare il movimento e il diffondersi della lotta armata grazie alle collaborazioni sul campo all’interno del cosiddetto “blocco occidentale”.

È sintomatico di una qualsivoglia forma di organizzazione societaria che veda minare le fondamenta della propria legittimità aumentare l’uso della violenza per puro e semplice moto di autoconservazione, violenza che cresce in ferocia tanto più si senta messa alle strette. Essa è infatti l’espressione di persone fisiche che hanno paura quanto chiunque altro di perdere il potere che la propria posizione di privilegio gli fornisce all’interno di un determinato sistema di stratificazione sociale.

E’ in questo clima che il femminismo comincia a diffondersi nel movimento contro la guerra aiutandolo – assieme ai contributi analitici di quelle componenti sociali storicamente escluse dall’amministrazione del potere, come le persone non bianche o non eteronormate – ad ampliare il suo sguardo critico circa i rapporti all’interno della società capitalista e a spingere le sue rivendicazioni verso una più coerente e complessiva prospettiva anticapitalista e rivoluzionaria.

Credo quindi che sia alquanto semplicistico indicare il femminismo “storicamente dato” come complice del “rafforzamento della democrazia e del capitalismo” per sminuirlo, dal momento che questa istanza di liberazione oltre ad aver mobilitato un gran numero di donne nel mondo intero, ha dato un contributo fondamentale alla comprensione del funzionamento del potere nelle sue dinamiche più interiorizzate e normalizzate dagli individui che costituiscono il tessuto di una società. Né si può con tanta superficialità incolpare di questo rafforzamento le sue pratiche poiché, se è indubbiamente vero che una parte del movimento femminista ha agito e agisce in maniera riformista e giustizialista, esso ha dato espressione anche a pratiche ben più radicali, dalle azioni dirette contro negozi e aziende complici della mercificazione dei corpi delle donne, agli attacchi contro medici obiettori di coscienza e strutture sanitarie che effettuavano ricerche biotecnologiche, fino ad esperienze di lotta armata con prospettive rivoluzionarie. È perciò il recupero da parte del potere del femminismo a dover essere osteggiato, e non il femminismo in sé. Sottolineare, facendo un bilancio parziale di un movimento, soltanto il contributo che esso ha dato al rafforzamento del potere vorrebbe dire non riconoscere il valore di tutte quelle lotte che pur non avendo causato un sovvertimento del sistema di potere, hanno comunque comportato un reale miglioramento delle condizioni di vita per migliaia, spesso milioni, di individui, nonché all’arricchimento teorico e pratico del movimento rivoluzionario largamente inteso. La critica radicale anarchica osteggia ogni riformismo perché con esso si permette la perpetuazione della presente organizzazione dello sfruttamento, ma dovrebbe guardarsi dallo scadere in un idealismo elitarista e sprezzante.

Questo atteggiamento è già di per sé sintomo e ignara manifestazione del proprio intrinseco privilegio, basato su condizioni sociali come il benessere economico, la razzializzazione o il genere (e molto spesso, soprattutto quando vengono espressi giudizi tanto duri e trancianti sulle lotte altrui, di tutte queste messe assieme). Parlare di privilegio per l’anarchismo non è, come a volte si è tentato di insinuare, incentivare discorsi o atteggiamenti vittimistici o colpevolizzanti, ma un modo per chiarire il posizionamento preciso nella fitta rete dei rapporti di potere. Dalla propria posizione sociale infatti chiunque perpetua (se non agisce altrimenti) l’oppressione che il suo ruolo rappresenta all’interno di un dato ordinamento societario. Non tenerlo in considerazione porta a sviluppare una concezione assai parziale dei meccanismi di oppressione e di riproduzione del potere nelle società umane, troppo spesso individuati nelle sole istituzioni politiche ed economiche, e a fare di conseguenza una gerarchizzazione dei differenti fronti della guerra sociale. Questa attitudine è una chiara eredità di origine marxista, per la quale tra le diverse contraddizioni del divenire societario la principale a cui fare riferimento per sviluppare un processo rivoluzionario è quella di classe. Se per l’anarchismo la questione centrale è invece quella del potere, non dovremmo permettere alla comprensione delle sue molteplici espressioni di limitarsi alle sole configurazioni dello Stato e del Capitale, quanto considerarla nella sua accezione più intrinsecamente sociale che determina i rapporti quotidiani e le relazioni tra gli individui. Credo infatti che lo spargere sermoni dall’alto della propria posizione, ritenuta con arroganza essere la più coerente ed incisiva, rifletta l’autoritarismo insito in chi propende per una gerarchizzazione delle lotte, mentre un impegno a tutto campo dell’individuo nel contrasto ad ogni forma di potere sia ciò che più si avvicini ad un agire anarchico inteso come antitetico a quel “fare militante” largamente ereditato dalla cosiddetta sinistra rivoluzionaria.

L’assumere una posizione contro ogni rivendicazione parziale è sicuramente ciò che impedisce all’anarchismo di abbracciare una logica gradualista o di riforma del sistema di dominio, nonché di identificarsi completamente con movimenti quali sono quello femminista, ecologista, antispecista. Eppure essi hanno al loro interno espresso dei contenuti che assunti radicalmente comporterebbero le messa in discussione totale dell’attuale organizzazione dell’oppressione. Per questo “semplice” motivo le loro analisi sono state da tempo riconosciute come un contributo prezioso per i modelli di comprensione del funzionamento del potere nella nostra società, permettendo di abbandonare ogni retaggio che costituisca un limite per l’analisi anarchica. Le istanze di liberazione particolari dovrebbero quindi essere al centro della sensibilità anarchica, che rivendica la libera e completa espressione dell’individuo contro qualsiasi tentativo di vederlo relegare in secondo piano da una qualsivoglia priorità teorico-strategica. Esse non sono una riduzione, ma piuttosto un allargamento dello sguardo attraverso il quale si osserva e comprende il mondo. Una libera e completa espressione di sé che non deve essere confusa con quelle concezioni dell’individualismo figlie di una certa interpretazione superomista del pensiero nicciano che porta a giustificare la sopraffazione di un essere umano sull’altro e dell’essere umano sul mondo naturale in nome della sua inviolabile volontà di potenza. Concezioni queste che guarda caso furono fatte proprie dal nazismo e dal fascismo e che tanto bene si sposano con l’individualismo liberale per cui la competizione è la più alta forma di regolazione della vita. Questa maniera di concepire i rapporti tra individui ben si discosta dall’Unione degli Egoisti di cui parla Stirner (anarchicamente intesa) e dovrebbe essere rifiutata con forza da coloro che intendono riflettere su come costruire un rapportarsi vicendevole che rafforzi la lotta contro ogni potere. L’etica anarchica mette infatti al centro della sua riflessione la solidarietà tra gli oppressi attraverso il mutuo appoggio e di conseguenza dovrebbe perseguire il benessere dell’individuo che partecipa all’Unione per il vantaggio dell’Unione stessa. Indi per cui ragionare su come sovvertire le nostre relazioni è una pratica altamente rivoluzionaria perché permette di comprendere il potere come una forza che attraversa, imputridendola fin dalle radici, l’intera società e che coinvolge inevitabilmente anche i gruppi anarchici. È infatti dal riconoscimento delle diverse forme di potere che l’individuo può comprendere l’esperienza dell’oppressione che attanaglia sé stessx e i propri simili e decidere di intessere relazioni il più possibile libere nella comune volontà di secessione dalla società del dominio, oltre che di combattere anima e corpo contro questo mondo di sfruttamento e oppressione che lo incatena.

Credo che la teoria sovversiva non dovrebbe essere utilizzata per innalzarsi su di un pulpito dal quale spargere giudizi sprezzanti, così come la critica assuma una dubbia efficacia se armata di strumenti come la denigrazione o la calunnia al fine di tirare a lucido il proprio ego sovradimensionato. Teoria e critica radicale dovrebbero invece servirci per analizzare il presente e le lotte nell’ottica di rafforzare la guerra sociale, nella consapevolezza che non esiste formulazione teorico-strategica rivoluzionaria che possa condurci con certezza al trionfo e che è necessaria una costante riformulazione dei propri paradigmi per attizzare un conflitto sempre a rischio di soffocamento a causa delle dinamiche di recupero e di rigenerazione del potere. In quest’ottica sarebbe utile che un’analisi di questo tipo si sviluppasse in termini costruttivi sottolineando le proprie mancanze in quanto ad intervento sovversivo (mancanze che si continuano a registrare negli ambienti anarchici, sia a livello pratico che in quanto a comprensione del contingente storico), piuttosto che concentrarsi su quelle altrui con l’obiettivo di screditarne le posizioni in una sorta di competizione di radicalismo o, peggio, per attribuirgli la responsabilità dei propri continui fallimenti. Questi atteggiamenti e comportamenti invece di acuire il pensiero critico, a mio giudizio portano solo scoramento e disillusione. Invece di abbandonarsi ad essi sarebbe più lungimirante e utile investire le proprie energie nel contribuire a migliorare il dibattito con lo scopo di un innalzamento della qualità generale del conflitto sociale, considerando che se il potere un giorno cadrà non sarà con ogni probabilità grazie alla forza soverchiante di una “giusta” e corretta pratica o teoria radicale, ma per la somma dei singoli atti individuali di rivolta. Perciò ben venga la contaminazione e la sinergia delle lotte inserita in una comune ricerca dell’Anarchia piuttosto che qualsiasi forma di “celodurismo” e di purismo, di cui sarebbe bene cominciare a liberarsi in fretta, assieme a tutti gli altri residui di quella cultura machista militante che da troppo tempo ammorba ormai l’anarchismo.

Testo in PDF

CATANIA: PROIEZIONE DEL FILM GRECO “LA TEGOLA” E DIBATTITO

Diffondiamo

Proiezione del film greco Κεραμίδι -“La Tegola” (42 min)

In un futuro prossimo, lo squat, Fabrika Yfanet, verrà sgomberato e l’edificio sarà riutilizzato. Pano, un urbanista che supervisiona il progetto, si troverà ad affrontare una forza incomprensibile.

Questo film auto-autogestito è stato girato nell’aprile 2022, dentro e fuori lo squat Yfanet, con l’intenzione di ripercorrere attraverso una storia di fantasia i sentieri labirintici di una memoria perduta . Allo stesso tempo, è un piccolo contributo allo sforzo di liberare forme di comunicazione ereditate dall’industria dell’intrattenimento.

⛓️‍💥Fabrika Yfanet è uno spazio occupato a Salonicco, in Grecia, dal 2004. Tempo addietro era una fabbrica tessile che cessò l’attività nel 1967. Il 20 marzo 2004 questo spazio fu occupato da centinaia di persone, riaprendo le porte alla città dopo 36 anni di abbandono.

A seguire, chiacchiera sul contesto attuale in cui stanno vivendo gli/le occupanti della Fabbrica Yfanet a Salonicco e uno sguardo necessario sugli sventramenti urbanistici a Catania, che vorrebbero coinvolgere anche il Laboratorio Urbano Popolare Occupato.🐺

📌Inoltre, durante l’evento sarà attiva la raccolta dei beni per i reclusx nei CPR.

Vi aspettiamo il 31 agosto alle ore 18:30
Alla L.U.P.O. Piazza Pietro Lupo 25

SOSTENIAMO IL LIBRO DI CLAUDIO!

Diffondiamo

PER NON DIMENTICARE I MORTI NELLA STRAGE DI STATO NELLE CARCERI DEL 2020, E PER CHI CONTINUA A LOTTARE NELLE GALERE, SOSTENIAMO IL LIBRO DI CLAUDIO

A marzo del 2020, in concomitanza con l’inizio del lockdown, decine e decine di rivolte scoppiarono nelle carceri italiane. Tra evasioni tentate e in parte riuscite e la distruzione di intere sezioni carcerarie, centinaia di persone detenute si ribellavano a quei veri e propri luoghi di sofferenza e morte, che sono le galere dello Stato italiano.

Per sedare questo stato di agitazione che aveva per un frangente messo in crisi quel sistema, lo Stato rispondeva ancora una volta con torture, mancati soccorsi e uccisioni: 14 detenuti morirono tra il carcere Sant’Anna di Modena e i trasferimenti verso altri penitenziari. Nel mondo di fuori, con pochi mezzi ma tanto cuore, un moto di solidarietà verso le persone detenute si è mosso in diverse parti della penisola, tra azioni dirette, presidi, controinformazione e relazioni umane tra persone sconosciute ma unite dal comune orizzonte di abbattimento dei muri delle galere.

Per alcuni frangenti, l’isolamento tra fuori e dentro che lo Stato cerca in ogni modo di difendere è stato spezzato. Non si trattò solo della più grande ondata di rivolte e proteste di detenuti comuni e della più grande strage di stato dal secondo dopoguerra nelle carceri italiane: fu anche un momento storico importante che dobbiamo tenere a mente per comprendere anche il presente della condizione detentiva attuale. A 5 anni di distanza, dopo le archiviazioni di Stato e la rimozione dalla memoria collettiva, c’è chi ancora tiene vivido ricordo di quelle giornate e che vuole estenderne memoria viva, non soltanto per chi ha perso la vita per vigliacca mano di guardie e amministrazione penitenziaria e che impunemente continuano la loro misera vita per complicità di giudici e tribunali, ma anche come monito per tutte quelle persone più giovani cui lo Stato vuole destinare una vita di galera e pena costante.

Infatti, Claudio, uno dei cinque detenuti che per primi decisero di esporsi nel 2020 presentando un esposto in cui denunciavano ciò che lo Stato aveva agito in quei giorni, tuttora detenuto nel carcere di Secondigliano (Napoli), ha scritto un libro che ripercorre dalla sua prospettiva gli accadimenti di quelle giornate e presenta un’analisi della situazione carceraria a partire dalla sua diretta esperienza in diversi penitenziari. La pubblicazione di questo libro, da parte di tutti lx compagni che hanno supportato il suo processo di realizzazione, rappresenta per noi una di quelle fratture al muro di isolamento “tra dentro e fuori” creato dallo Stato e per questo crediamo nell’importanza di sostenerne la più ampia diffusione.

Il libro sta per approdare alla fase di stampa, per cui invitiamo chiunque voglia contribuire economicamente a farlo attraverso questa cena o altre modalità che ritenga opportune. Ci teniamo anche a ricordare che per volontà di Claudio, il ricavato del libro, una volta che sarà pronto per la distribuzione, sarà destinato a sostenere la battaglia per la verità, portata avanti dalle famiglie dei detenuti morti nella strage di Modena. Consapevoli che allo Stato lasciamo le “verità ufficiali”, mentre noi ci teniamo i pezzi di storia raccontati dal lato di chi è oppressi.

CHE LA SOLIDARIETÀ FACCIA MACERIE DI OGNI GALERA
STRAGISTA È LO STATO

 

TERRITORI RESISTENTI – TRE GIORNI CONTRO DOMINIO, CACCIA E COLONIZZAZIONE

Diffondiamo

26/27/28 settembre
Riot Dog – Monte San Pietro (Bologna)

Una tre giorni per porre le basi per una mobilitazione contro la caccia con l’intento di intersecarla in maniera radicale e intersezionale con altre lotte come il colonialismo, il patriarcato e l’ecologismo. Questo perché crediamo che parlare di usurpazione dei territori sia fondamentale in questo momento storico e perché sentiamo la necessità di rilanciare l’attivismo antispecista dal basso.

Il programma si strutturerà su 3 filoni:

TEORICO: Confronto sull’antropocentrismo e sulla caccia come espressione del sistema di dominio, come pratica specista, patriarcale, coloniale, militaresca ed ecocida. Dal confronto ci piacerebbe creare un opuscolo a tema con il contributo di tuttx le individualità coinvolte e con le grafiche realizzate durante l’evento.

STRATEGICO: Portando ricerche e approfondimenti sulle nuove proposte di legge sulla caccia e sui principali attori economici e politici coinvolti nel mondo venatorio vorremmo porre le basi per una mobilitazione nazionale su più fronti da estendere nei diversi territori.

ARTISTICO: Verranno proposti Laboratori pratici, di taglio artistico come stencil, serigrafia, land art tramite cui veicolare messaggi di liberazione nei boschi e nelle città; laboratori sensoriali per persone piccole in cui accompagnarle a sviluppare “altri sensi” e de-antropocentrizzare lo sguardo e le rappresentazioni immaginarie; e altri laboratori ancora da definire.

(Il programma è ancora in fase di definizione. Se vuoi aggiornamenti seguici su Instagram e Facebook. Se vuoi proporre dei laboratori 0 metterti in contatto con noi, puoi scrivere a riotdogonlus@gmail.com)

PER TUTTA LA DURATA DELLA TRE GIORNI:
campeggio libero, banchetti selvaggi e autogestione

Riot Dog è un rifugio libertario antipsichiatrico nato nel 2017 sulle colline di Monte San Pietro (Bo), dove i cani possono sperimentare socialità, autogestione, liberx dal possesso.


PROGRAMMA DI TERRITORI RESISTENTI

VENERDÌ

10:00 ANIM-ACTION!
Laboratorio narrativo e interattivo per persone dai 5 anni in su, con
l’obiettivo di creare un fumetto

13:00 PRANZO

13:45 INTRODUZIONE DELL’INCONTRO

14:00 CHIACCHIERA SULLA NUOVA RIFORMA DELLA CACCIA
Una chiacchiera sulla riforma che non vogliamo. Quando uccidere viene
proposto come una necessità per l’ambiente…

15:30 WORKSHOP: CULTURA DELLA SICUREZZA PER L’ATTIVISMO
Strumenti collettivi per ridurre l’impatto della sorveglianza e della
repressione di Stato verso i movimenti di lotta

18:00 DOCUMENTARIO SULL’ANTISPECISMO IN MAROCCO

20:00 CENA

21:00 PRESENTAZIONE SULLA STORIA E LE TECNICHE DI HUNT SABOTEURS
La caccia alla volpe nel Regno Unito… e come è stata sabotata

SABATO

9:00 DIBATTITO TEORICO SUL TEMA DELLA CACCIA
Discussione a gruppi su caccia e specismo e le loro intersezioni con
patriarcato, colonialismo e sistema agro-industriale

13:00 PRANZO

14:00 COLpevoliDIRETTI
Il ruolo di Coldiretti nella promozione delle T.E.A. (a cura del Gruppo
NO OGM) e della caccia al selvatico (a cura di Terrestra)

16:00 CREAZIONE DI UNA CAMPAGNA CONTRO LA CACCIA
Condivisione di informazioni sui principali attori del mondo venatorio e
ideazione di una mobilitazione ad ampio raggio contro la caccia

20:00 CENA

21:00 CONCERTO FTA CREW (punk)
22:30 CONCERTO ANAFEM (rap militante)

DOMENICA

9:00 ART-ATTACK: CHIAMATA ALLE ARTI!
Arte come forma di espressione nella lotta: chiacchiere e laboratori per
la creazione di gruppi di arte urbana e land art

13:00 PRANZO

14:00 CERCHIO FINALE
Feedback, conclusioni e appuntamenti futuri


LOGISTICA e ACCESSIBILITÀ’

L’evento si svolgerà presso il rifugio Riot Dog situato a 30km a
sud-ovest di Bologna. Riot Dog è un rifugio per cani antispecista, antipsichiatrico e libertario dove i cani possono sperimentare socialità libere.

Durante la 3 giorni troverete:
-tanti cani
-spazio all’aperto per chiacchiere in condivisione, laboratori, concerti
e videoproiezioni
-natura per campeggiare
-cucina by vascello vegano
-distro e materiali informativi
-possibilità di esporre il banchetto del proprio collettivo (tavoli ed
eventuale gazebo sono da portare)
-baretto benefit dalle 19,00

Se vieni accompagnat* da un amico cane assicurati che viva bene un contesto affollato con tanti cani e persone e che non metta in difficoltà gli altri cani presenti o quelli ospitati nella struttura.

L’evento si svolgerà interamente all’aperto, con la possibilità di uno spazio al chiuso casalingo se dovesse piovere. L’ambiente che troverete è naturale, con qualche dislivello e poco cemento, pertanto la fruibilità a persone in sedia a ruote è assolutamente possibile ma con una serie di accortezze. In tal caso non esitate a contattarci! Il bagno è al piano terra della casa e accessibile anche in sedia a ruote. Non ci sarà uno spazio specifico di decompressione trovandoci all’aperto con possibilità di passeggiate per raggiungere luoghi isolati e silenziosi. Per dormire ci si deve organizzare autonomamente con la tenda e tutto il necessario per campeggiare. Se avete esigenze (reali!) di un posto letto in camerata al piano superiore contattateci che cerchiamo di organizzarci.

Lo spazio si trova in via Lombardia 2 a Monte San Pietro (1 km sotto a Montepastore), in fondo ad uno stradello sterrato sgangherato e bucolico. Il posto NON ha uno spazio parcheggio adeguato al numero di persone che ci aspettiamo, pertanto vi chiediamo di parcheggiare in paese a Montepastore (dista 15 min a piedi) oppure scriveteci a riotdogonlus@gmail.com per inserirvi nel canale telegram dei passaggi, noi faremo un percorso segnalato per raggiungerci con una piacevole passeggiata in discesa. Vorremmo tenere il parcheggio per chi avesse esigenze specifiche di mobilità, per i camper (o altri mezzi utilizzati per dormirci dentro) e per chi ha un banchetto da scaricare. Il parcheggio in paese è quello della chiesa all’inizio di via Varsellane, altrimenti in via Valle d’aosta. C’è un parcheggio molto comodo anche in via Borgotto, quasi in paese ma ATTENZIONE! è senso unico quindi dovete prendere via Borgotto dal fondo valle, non dal paese!!

Per raggiungerci con i mezzi pubblici invece dovete guardare gli orari della corriera 686 che parte dall’autostazione di Bologna oppure prendere il treno TPER da Bologna centrale in direzione Vignola e scendere a Pilastrino (20 min di viaggio), e dalla stazione di Pilastrino di Zola prendere poi il bus 686. Sul bus dovete chiedere all’autista di farvi scendere all’agriturismo “Cà del buco”, a quel punto salite per via Lavino 150 mt e prendete via Lombardia sulla destra, per poi percorrerla tutta.

La partecipazione all’evento è gratuita! Colazioni, pranzi e cene benefit a offerta libera. Contatta il Vascello Vegano per eventuali intolleranze e allergie: vascellovegano@libero.it
Per contattarci: riotdogonlus@gmail.com

INIZIATIVA IN SOLIDARIETÀ AD ALFREDO CONTRO IL BLOCCO DELLA POSTA

Da diffondere il più possibile!

Per rompere l’isolamento a cui l’anarchico Alfredo Cospito* è sottoposto tramite il blocco praticamente totale della corrispondenza, rilanciamo qui la chiamata a mandargli cartoline e lettere… in questo periodo di spostamenti vacanzieri, ecc. potrebbe arrivare corrispondenza a lui diretta da molte amene località!
Questa ennesima chiamata a scrivere al nostro compagno è motivata anche dagli aggiornamenti che ci giungono da Bancali, visto che Alfredo valuta estremamente opportuno continuare e incrementare l’invio di corrispondenza a lui diretta: anche senza tracciabilità, anche solo cartoline con o senza mittente… se ne arrivassero in numero considerevole darebbero un bell’impegno a chi è preposto a bloccargli la posta.
Si è valutato poi che in questo momento la tracciabilità della corrispondenza a lui destinata non sia necessaria quanto lo è stata fino ad ora visto che Alfredo ha accumulato più di 30 trattenimenti di corrispondenza certificata su cui deve esprimersi il Magistrato di Sorveglianza, che però sta tardando a farlo (normale per quanto riguarda Bancali, a detta dell’avvocato che assiste numerosi reclusi in quell’istituto).
Infine, a margine della questione “corrispondenza”, il prossimo 14 settembre ci sarà un’udienza inerente al “giudizio di ottemperanza” nei confronti del carcere di Bancali: si tratta di un procedimento in cui il magistrato valuta se il carcere non è in grado di fare rispettare un’autorizzazione concessa ma che non viene realmente resa possibile. Si tratta dell’accesso di Alfredo alla biblioteca dell’istituto, che era stata autorizzata senza che però ne abbia potuto beneficiare. Se danno ragione ad Alfredo il giudice designerà altra figura differente dal personale penitenziario per fare sì che l’autorizzazione venga rispettata.

Facciamo anche nostra la proposta di “Iniziativa in solidarietà ad Alfredo contro il blocco della posta” formulata dai/dalle compas di S’Idea Libera di Sassari per dare ulteriore sviluppo  al tentativo di inceppare uno dei dispositivi di isolamento applicati nei confronti di Alfredo: un’occasione in più perché, superata questa “fase estiva” di invio di cartoline e lettere senza modalità coordinate, si provi a dare continuità sul lungo periodo all’impegno nel dimostrare ai suoi carcerieri che Alfredo non sarà mai solo!

INIZIATIVA IN SOLIDARIETÀ AD ALFREDO CONTRO IL BLOCCO DELLA POSTA.

In relazione alla situazione di censura, blocco e isolamento di Alfredo in 41 bis a Bancali, vorremmo condividere questa proposta di iniziativa.
Nel tempo sono state diverse le occasioni in cui, in forma individuale o organizzata, si è cercato di rompere l’isolamento tramite la corrispondenza. In questo momento, in cui ci sembra importante battere il ferro con costanza, abbiamo pensato a un’iniziativa che abbia come obiettivo quello di sostenere Alfredo tramite la corrispondenza e dargli un po’ di continuità per avere un certo impatto, o provare ad averlo.

La proposta è la seguente: ogni realtà, collettivo o individuale, che abbia voglia di aderire si prende l’impegno di inviare almeno 7 cartoline ad Alfredo in una determinata settimana. In questo modo, quante più adesioni ci saranno, tanto più riusciremo a garantire una “copertura” nel tempo con una certa continuità.

Proponiamo questa modalità organizzativa:

1. le realtà, individuali o collettive, possono mandare la propria disponibilità alla mail evaliber2@inventati.org entro l’1 settembre.
2. sulla base delle disponibilità butteremo giù un calendario, per cui a ogni realtà sarà data una settimana di riferimento in cui inviare le cartoline/lettere ad Alfredo.

L’indirizzo per scrivere ad Alfredo è:
Alfredo Cospito
C.C. “G.Bacchiddu”
Strada Provinciale 56, n°4
Località Bancali
07100 Sassari

Rompiamo l’isolamento!

Spazio Sociale S’Idea Libera (Sassari)
Cassa AntiRep delle Alpi occidentali

* Alfredo Cospito è un compagno anarchico in carcere dal 2012. Inizialmente arrestato e condannato per il ferimento dell’Amministratore Delegato di Ansaldo Nucleare, sta ora scontando una condanna a 23 anni di reclusione emessa nell’ambito del processo “Scripta Manent” in cui sono stati imputati (e alcune e alcuni tra loro anche condannati) vari anarchici e anarchiche. Dopo la sua assegnazione al regime detentivo del 41bis nella primavera del 2022, Alfredo ha intrapreso uno sciopero della fame durato 6 mesi contro il 41bis e l’ergastolo ostativo che, grazie anche all’energica mobilitazione internazionale che ha accompagnato la sua iniziativa, ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica l’aberrazione di questo regime carcerario e della condanna a morire in carcere rappresentata dall’ergastolo ostativo.
Alfredo è tuttora rinchiuso nel 41bis di Bancali (Sassari), e il rinnovo o meno della sua assegnazione a tale regime avverrà la prossima primavera. La finalità del 41bis è chiara: annientare fisicamente e psicologicamente gli individui che ci finiscono. Nel caso di Alfredo è evidente una progressiva limitazione nelle già esigue possibilità di vivibilità stabilite per tale regime detentivo: blocco della corrispondenza da/per l’esterno, impossibilità di accedere alla biblioteca interna (autorizzazione che Alfredo aveva avuto dalla Direzione), blocco dei libri regolarmente acquistati in libreria tramite il carcere (come prevede il regime del 41-bis) e di altri beni, come farina o indumenti, di uso quotidiano.

ps: Per chi fosse interessat*, sono state stampate delle cartoline contro il 41bis che si possono richiedere alla mail: cassantirepalpi@autistici.org

CPR DI PALAZZO SAN GERVASIO: NUOVE RIVOLTE E NUOVA REPRESSIONE

Riceviamo e diffondiamo:

Il 5 agosto 2025 un gruppo di solidali si è trovato sotto il Cpr di Palazzo San Gervasio (PZ) in solidarietà alle persone detenute nel lager e per ricordare, a un anno dalla sua morte, Oussama Darkoui, ucciso dalla violenza razzista dello stato e della sua macchina repressiva.

All’arrivo sotto il cpr, alcune persone detenute erano già  sui tetti dei moduli: una protesta era in corso per gridare contro le pietose condizioni in cui riversa il centro (la gestione negli scorsi mesi è stata affidata nuovamente ad Officine Sociali, per segnare un’interruzione e un nuovo inizio, l’ente gestore ha cambiato nuovamente la direzione, così come avvenuto anche lo scorso anno a seguito della morte.)

Nelle celle le temperature superano i 40 gradi, è estate e alle persone detenute, in nome del controllo, è stata negata la possibilità di stare all’aperto nella gabbia arancione in più di tre, ci sono persone che non escono dalla cella da giorni.

Le persone detenute hanno raccontato del caldo, del costo dell’acqua, dell’inaccessibilità a beni primari, dei pasti somministrati in ritardo. La rivolta, iniziata verso ora di pranzo, è durata parecchie ore, tra il fuoco, le rivendicazioni, le pietre e la solidarietà del presidio esterno.

La protesta del 5 è stato uno dei momenti più accessi di giorni di proteste, iniziati la settimana precedente e che ha visto l’alternarsi di varie fasi, fino alla reazione dopo il 5.
Le forze dell’ordine dentro hanno soffocato la rivolta, all’esterno hanno alimentato la solita narrazione di essere vittime invece che carnefici.

Al calare del sole, le persone detenute sono state fatte scendere dal tetto e sono iniziate le procedure di trasferimento e deportazione.
Oggi sappiamo che:
– due persone sono state arrestate in flagranza
– sette sono state arrestate in flagranza differita dopo l’analisi delle immagini delle videocamere e delle foto scattate dalla polizia. Questa procedura è stata applicata in base alle disposizioni del Decreto Sicurezza 2025 : dal 4 giugno 2025 è possibile estendere la flagranza differita per manifestazioni pubbliche. Questa è una delle prime volte in cui viene applicata: come sempre, i CPR si confermano laboratori della repressione statale.

Le minacce e la violenza fisica da parte delle forze dell’ordine hanno soffocato anche il presidio all’esterno, nonostante qualche tentativo di interferire con gli arresti e i trasferimenti delle persone in rivolta, e impedendo di conoscere i provvedimenti che sarebbero stati presi da lì a qualche ora.

Sappiamo che una sola persona è stata individuata come “promotore della rivolta” e ora, successivamente alla convalida del Gip della procura di Potenza, è stata applicata alla sua persona una misura cautelare: oggi si trova detenuto nel carcere di Potenza.
Le altre persone sono state portate nuovamente in Cpr: tra Palazzo, Bari e Brindisi, in attesa del processo sui fatti del 5 agosto che si aprirà a settembre.

Il 5 agosto è stata una giornata di rivolte e repressione.
Solidarietà alle persone detenute.
Contro ogni barriera, frontiera, carcere e cpr. Contro la repressione e i Lager di stato.

SETTIMANA INTERNAZIONALE DI SOLIDARIETÀ CON LX PRIGIONIERX ANARCHICX [23-30 AGOSTO]

Diffondiamo

Contro la società carceraria, creiamo legami.

Quando ci troviamo davanti a una prigione, ci troviamo di fronte alla dura realtà dell’alienazione e della separazione: un muro, una recinzione, torri di guardia, telecamere, cemento e gabbie d’acciaio progettate per tenere gli imputati e i condannati isolati dal resto della società.

Concetti come “riabilitazione” e “pentimento” sono costruiti dalle ideologie degli Stati per sostenere il loro potere, mantenere i territori sotto un’identità nazionale e punire chi si discosta da ciò che considerano legale, progresso o moralità capitalista. Ma una volta fuori dalle mura, possiamo vedere che non sono altro che costruzioni tangibili. È un muro, è materia. Coloro che lo fanno funzionare sono esseri viventi. Sì, la prigione ci isola, ma solo se le diamo quel potere. Quando accettiamo la separazione, i muri diventano permanenti. Per chi sta dentro, l’oblio non è possibile: ogni giorno affrontano la durezza della reclusione. Finché esisteranno gli Stati, ci saranno prigioni e noi saremo dentro le loro mura.

Nella memoria di coloro che ci hanno preceduto manteniamo viva la lotta, dando continuità alle idee e alle azioni di coloro che sono stati segregati dietro sbarre e cemento. Le lotte aldilà delle sbarre fanno parte della memoria collettiva della resistenza.

Dalle dittature più brutali alle “democrazie” dove la violenza di Stato ha un altro volto, ogni Stato cerca di soffocare l’insubordinazione. Anche le idee che sfuggono ai suoi schemi sono perseguitate.

La solidarietà assume molte forme: connessioni, amicizie, scambio di idee, dialoghi e momenti di attacco condivisi. Lx nostrx compagnx non sono isolatx: sono parte viva delle nostre lotte.

In solidarietà con coloro che attraversano le frontiere, con lx fuggitivx, lx esiliatx, lx detenutx in isolamento e coloro che sono caduti nel corso dell’azione o sono stati incriminati.

Contro tutte le prigioni.
Abbiamo scelto una vita di tensione e insubordinazione per cercare una connessione reale.
La forza della vita non può essere sepolta!

https://lapeste.org/semana-internacional-en-solidaridad-por-lxs-presxs-anarquistas-23-al-30-agosto/

LEONARDO S.P.A. FABBRICA DI MORTE [CORTEO 13/9/25]

Riceviamo e diffondiamo:

A Ronchi dei Legionari sotto la bandiera dello Stato italiano vengono progettati e prodotti strumenti di morte, venduti all’estero senza alcuno scrupolo. Acclamato come eccellenza locale, lo stabilimento di Leonardo S.p.A. di Ronchi è specializzato in veicoli privi di pilota. Spesso spacciati alla stampa come dispositivi dalle mille possibilità di utilizzo, di fatto lo scopo di questi droni è quello di uccidere.

Con l’obiettivo di incrementare la produzione di queste armi, nel marzo 2025 è stata avviata una joint venture tra Leonardo e Baykar, azienda turca e fiore all’occhiello di Erdogan, che rifornisce principalmente Qatar, Emirati ed esercito ucraino. Fra gli stabilimenti coinvolti in questo accordo c’è anche quello di Ronchi.

Tra i vari prodotti di Leonardo troviamo sistemi di puntamento per caccia, venduti all’entità sionista e genocida, utilizzati da ormai quasi 2 anni per bombardare indiscriminatamente il popolo palestinese a Gaza e aggredire i popoli circostanti che si oppongono alla prepotenza coloniale e sanguinaria di Israele. Lo Stato italiano difende gli interessi di chi sta portando avanti il genocidio dei palestinesi.

Il capitalismo crea crisi di cui si nutre, gli investimenti bellici sono fra i più redditizi a livello globale. Più di 60 aziende tra Pordenone, Gorizia e Trieste si sono dichiarate pronte ad una conversione ad industria per la produzione bellica.

Contro l’orrore di Gaza e l’oppressione che si diffonde ovunque, resistiamo come i palestinesi, organizziamoci, mobilitiamoci anche qui, fermiamo questa fabbrica, non restiamo complici!

Assemblea No Leonardo / leonardo.assassina@proton.me

QUELLI CHE BENPENSANO. OVVERO DELLA DIFESA DEL CLAN

Riceviamo e diffondiamo:

Questo non breve testo nasce come replica a “Da pari a pari. Contro l’autoritarismo identitario”, diffuso nel luglio scorso.

Come per i suoi autori, anche per chi scrive sarebbe stato più semplice e conveniente ignorare quest’ennesima uscita e tirare avanti, come in altre occasioni, e ultimamente di occasioni ce ne sarebbero state diverse. Tuttavia, per ragioni che si tenterà di chiarire più sotto, questa volta si è ritenuto valesse la pena buttare giù qualcosa, ritenendo che invece altri scritti dal tenore simile usciti di recente non meritassero risposte più o meno articolate.

Ahinoi, e ahivoi, tante cose vengono purtroppo dette e scritte, alcune sapientemente non in testi diffusi ai quattro venti, concetti chiari come il sole vengono infatti esplicitamente definiti in conversazioni fra anarchici (anche senza “un bicchiere di vino davanti”), durante assemblee di compagni e compagne o più o meno allargate. Per fortuna di tutti/e, almeno non si va più in tv in diretta nazionale a raccontare la propria visione del mondo, più o meno brillante che sia.

Le righe che seguono non conterranno citazioni di maître à penser dell’anarchismo, di figure cardini della filosofia occidentale o di compagni/e prigionieri/e, ma quasi unicamente ciò che scaturisce dai ragionamenti di chi lo ha scritto. Proprio per questo, potrà essere sicuramente opinabile, lacunoso, criticabile da diversi punti di vista.

L’intento, infatti, non è “vincere il confronto”, non convincere né persuadere, non c’è dietro il fine di prendere le difese di alcun singolo/a o di qualsivoglia comunità, tanto meno sfoggiando la lista dei classici letti durante una vita, le proprie nozioni in fatto di storia dell’arte o la propria padronanza della lingua italiana per mezzo di scioglilingua, eccetera.

Non contiene riflessioni originali e, inoltre, analisi e disamine più adeguate, complete ed organiche sui temi di seguito toccati sono già state svolte, più volte, in altri scritti usciti negli ultimi anni.

Postmodernismo?

Tuttavia, neanche “Da pari a pari” contiene a ben vedere nessuna riflessione particolarmente originale, ma si limita a girare attorno ai soliti, triti e ben noti ragionamenti già in passato esposti, presentandone più che altro un collage, anche se, va detto, relativamente più elegante e argomentato del solito.

Differenza di rilievo è la sostituzione del perno attorno al quale ruota quasi tutta l’esposizione. Infatti, al vecchio nemico interno al “movimento” anarchico, il (trans)femminismo, è adesso sostituita la nuova, terribile, letale minaccia, ovvero la filosofia postmodernista di importazione yankee. Le argomentazioni cambiano in parte di conseguenza, ma il ragionamento a queste sotteso è più o meno lo stesso.

Il filo conduttore è appunto una lunga dimostrazione della semi-nuova tesi sull’origine di quasi tutti i mali odierni del “movimento”: l’ideologia postmodernista importata dagli Stati Uniti, il virus scappato – non accidentalmente – “dalle università statunitensi e altri laboratori del potere è penetrato piano piano nell’anarchismo”. Quindi, le cause delle presenti condizioni (qualsiasi lettura se ne voglia dare), non andrebbero ricercate in tutto ciò che potrebbe venire in mente a una più o meno superficiale o approfondita disamina dell’attualità e degli ultimi decenni del “movimento” anarchico informale nostrano e non solo. No, è colpa del postmodernismo (un capro espiatorio un pò fuori tempo massimo, a dir la verità).

Il sabotatore interno, un pò come alcuni dicevano appunto del femminismo negli anni ‘70 e fino all’altro ieri. Infatti, l’altro grande nemico da cui guardarsi con attenzione, l’altro vettore del morbo americano, anche se un pò più in sordina, sarebbe infatti il femminismo intersezionale.

I detective del postmodernismo scandagliano testi e comunicati alla ricerca di parole chiave indicanti la chiara matrice del postmodernismo che li permea in modo latente – che tuttavia non può sfuggire al loro sguardo attento – la foga e l’urgenza di scovare i nipotini di Lyotard e Derrida è grande, vedendosi da ogni parte assediati da essi.

Da ridere per non piangere, ma tant’è, questi sono i nostri veri problemi, ci informano.

Non ci si assume l’impresa di tentare di argomentare contro questa tesi, tanto quanto risulta assai difficile, di solito, argomentare contro le teorie note come “teorie del complotto”.

A parte gli scherzi quindi, andando con ordine e un po’ più sul pratico, il problema del come affrontare fatti di violenza sessuale, i “fatti delicati” come vengono chiamati nel testo (o “fatti di letto fra due persone”, come li ha definiti un osservatore, bisogna ammettere, particolarmente sagace) e le dinamiche di potere a essi legate – non sganciate o separate da questi, ma legate e inseparabili – è in realtà ancora ben lungi dall’essere pienamente assunto anche nel “movimento”, sia a livello di entità e portata della questione che a livello di metodo (o metodi) per non parlare poi del da farsi. Ma il problema, anzi i problemi, sono ancora più a monte.

Sono, ad esempio, nella pretesa di arrivare ad un incontrovertibile “fondatezza” di ciò di cui di volta in volta si discute, a una dimostrazione, che non può avvenire – ci insegna il metodo scientifico – se non in presenza di prove.

Da qui, il primo dei cortocircuiti logici che attraversano “Da pari a pari”, per i quali le stesse accuse che gli autori muovono altrove potrebbero essere facilmente rivolte contro la posizione da loro assunta. In questo caso, si ripudia un atteggiamento inquisitorio verso chi viene riconosciuto come aggressore, non si vogliono i tribunali – e ci mancherebbe! – però si vogliono le prove dalle aggredite. Un modo di procedere, azzardo, di matrice che si potrebbe definire persino scientista.

Perché si vogliono prove? Forse perché si aspira in segreto al ruolo di giudici in un immaginario grand jury anarchico che deciderebbe su queste e altre questioni in maniera “imparziale”? Si spera di no. Perché dietro la pretesa di ottenere delle prove si cela la preoccupazione per la tenuta del gruppo, il timore di rotture irrecuperabili in seno alla famiglia, il terrore di doversi guardare, tutti/e, allo specchio, vedendo così chiaro quello che non si sarebbe mai immaginato dover vedere? Neanche questo…Perché si è tutto sommato intimamente convinti di essere circondati da donne e compagne che si alzano la mattina inventando storie di violenza da loro subita perché non sanno come passare il tempo oppure col fine di calunniare il primo che passa per chissà quale motivo?

Non si vorrebbe credere nemmeno a questo, ma sembrerebbe proprio trattarsi di ciò leggendo alcuni passi come “ascoltare una campana soltanto, acriticamente e per partito preso, non può che dare ad alcune persone il privilegio (questo sì reale) di mentire, poiché le sgrava dall’onere di fare affermazioni credibili”, oppure “a meno che non si sostenga che gli appartenenti a categorie oppresse non possano nutrire secondi fini, e raccontare e finanche raccontarsi frottole – un rischio particolarmente alto in quest’epoca di soggettivismo quasi psichedelico”.

Non occorre essere dotati di particolari strumenti d’analisi per rendersi conto che tutta la società intorno a noi – non quella “postmodernista”, l’altra – ci dà sufficienti evidenze che queste sono argomentazioni insulse e portarle come pretesti per non credere a chi ha subito violenza è veramente agghiacciante.

Concedendomi una scivolata di cattivo gusto, in casi di aggressioni contro i compagni/e o verso migranti o altri marginali, andiamo forse a chiedere la versione dei fatti a fascisti, razzisti o sbirri?

Insomma, il “movimento” anarchico sarebbe pieno di bugiarde e millantatrici e gli/le appartenenti alle “categorie” (che brutta parola) oppresse si sarebbero organizzati per raccontare frottole non solo a loro stessi, ma bensì a tutti/e quanti/e, per farsi passare per “vittime” e ottenere attenzioni conseguenti.

Insomma, si propone un approccio scettico, diffidente, per niente incline alla fiducia verso queste “categorie”, che anzi andrebbero prese molto con le molle per non correre il rischio di farsi abbindolare.

Chi scrive pensa che l’ascoltare più “campane” sia un approccio di buonsenso e valido come metodo di base, alla condizione però che si sia molto ben in grado di discernere ciò che viene sostenuto dalle diverse parti, altrimenti si corre fortemente il rischio di lasciarsi convincere di qualsiasi cosa, di qualsiasi versione dei fatti, di qualsiasi punto di vista, in base ad esempio all’abilità narrativa di chi lo sostiene, alla sua notorietà (conquistata sul campo, s’intende), o magari alla sua autorevolezza e influenza (anche queste, ovviamente, conquistate sul campo). Si rischia insomma di diventare delle banderuole, senza un proprio ordine di pensiero, soggetti a cambiare idea se il primo che passa riesce a farcela cambiare. E questo è ciò che capita, troppo spesso.

Come si può fare a raggiungere un certo grado di discernimento riguardo a temi e questioni di cui, dal momento che nessuno/a nasce imparato/a, si ignora molto o quasi tutto, tanto a livello teorico che pratico?

Senza alcun intento rivelatore, ritengo che un buon inizio sia rendersene conto, realizzare che – per quanto ci possa sembrare assolutamente sconvolgente, inimmaginabile, inaudito – ci mancano dei passaggi d’analisi, la visione d’insieme è lacunosa e parziale, non si è in possesso di un bagaglio teorico-pratico adeguato ad affrontarle, certe questioni. Il secondo, l’autocritica rispetto a questo, anche se di questi tempi, si sa, non va più tanto di moda. Infine, cercare di fare quel che c’è da fare per rimediare.

Da dove la necessità di un atteggiamento autocritico, anche quando si pensa di saper già tutto quel che c’è da sapere mentre tutto il resto è obiettivamente irrilevante?

Non capire, o peggio, reputare non “gravi” livelli di oppressione che non si riescono a mettere a fuoco – a volte semplicemente perché non vissuti – ergersi a “giudici” nel senso di stabilire ordini di priorità, gravità, importanza, denota l’esercizio di una presunta superiorità morale sulla pelle di altre persone la cui sola idea ripugna.

Se non si riesce a farsi una ragione di questo o si preferisce semplicemente scegliere di non farlo – che è esattamente ciò che avviene – secondo il mio modesto parere non si potrà che reiterare e ricadere all’infinito e in ogni occasione nelle solite zavorre mentali e nei soliti atteggiamenti di strenua difesa di una baracca che fa acqua da tutte le parti.

Rincuora la dichiarazione degli autori del testo “Da pari a pari” sulla necessità di mettersi in ascolto di chi ha subito o subisce violenza, ma ahinoi e ahiloro, al di là delle astratte dichiarazioni d’intenti, quello che quasi sempre succede nella realtà – la realtà che abbiamo sotto gli occhi, non le tante realtà potenziali spogliate del principio di verità – è piuttosto il contrario. La tendenza è quella a sminuire, ridimensionare e minimizzare ciò che sostiene la persona che ha subito violenza, ci si precipita piuttosto e più volentieri a sentire cosa ha da dire l’aggressore in sua difesa e giustificazione. Spesso si ha quasi l’impressione che, in un totale quanto assurdo ribaltamento dei fatti e della logica la “vittima” diventi l’aggressore e non piuttosto l’aggredita.

Proprio perché si vogliono prove, dati di fatto. Proprio perché non ci può essere certezza su fatti a cui “nessuno ha assistito” – “se la verità fattuale non esiste o comunque non è rinvenibile” scrivono i 5 indiani – di chi ci si può fidare? Bel problema. Certamente non di compagne infettate dal virus postmodernista e loro solidali, sembrano avvertire.

Più significativamente, “alla veridicità del fatto si sostituisce l’appartenenza a un determinato soggetto” sostengono ancora. Su questo, a dire il vero, hanno ragione. Però qui si manifesta anche il secondo dei cortocircuiti logici, per cui la critica che essi muovono è esattamente applicabile allo stesso atteggiamento opposto e speculare da loro assunto e rivendicato. Se si guarda a quel che succede veramente nella realtà, la veridicità è attribuita sempre e solo solo in un senso, a quello dell’oppressore. Se si è capito bene dalla loro esposizione, tra l’altro, questo modo di procedere è decisamente postmodernista…

A leggere “Da pari a pari”, sembrerebbe a dire il vero che i suoi estensori, a livello puramente teorico, riconoscano e facciano propria la necessità (qualora esistano delle evidenze, naturalmente) di intervenire in certi frangenti in modo drastico. Il problema di questo approccio tutto teorico è che nella pratica non si presenta mai il caso in cui è necessario intervenire, mai. C’è sempre qualcosa che induce a pensare che, in fondo, non si sta parlando proprio di quello, c’è sempre qualcosa che non torna nella storia raccontata dalla persona aggredita, aleggia sempre l’ombra della femmina mentitrice. Le evidenze, di conseguenza, non bastano mai. Il bignamino è stato mandato a memoria, ma nella pratica non si sa che farsene.

Ognuno/a esiste soprattutto su ciò che fa, non tanto su ciò che dice.

Altrimenti si è in presenza, in parole povere, di paraculismo. Per i più colti/e, profonda disonestà politica e intellettuale.

Si viene, ancora, quasi sollevati dalla discreta lista di “Ovviamente siamo consapevoli che…”, “Ci sembra legittimo, ad esempio, che…”, “sarebbe atroce, ad esempio, pretendere…”, “Senza disconoscere che…”, tuttavia, alla fine, si torna sempre al punto di partenza.

Il problema (terzo corto circuito logico), indiani, è che succede che chi aggredisce, violenta, stupra, pensa e sostiene di non aver fatto alcunché di sbagliato, di fuori dal normale, perché non se ne rende nemmeno conto. Lo sostiene perché crede che “alcuni episodi” possono succedere in certi frangenti – svariati stati mentali e condizioni eccezionali vengono usati come alibi, troppo lungo qui elencarli tutti – e che in definitiva, proprio per questo non siano poi così gravi, questi episodi.

Lo pensa e lo sostiene, spesso, anche dopo che gli è stato spiegato. Se se ne fosse reso conto prima, talvolta anche se non sempre, non avrebbe fatto ciò che ha fatto. Se se ne rendesse conto dopo, inizierebbe un’opera di profonda messa in discussione, si assumerebbe un problema. Il che, da ogni individuo che pretende di ragionare in senso politico, è il minimo che ci si debba aspettare.

Certamente, come voi stessi dite bene, presupponendo che costui “non possa nutrire secondi fini e raccontare e finanche raccontarsi frottole”, il che è relativamente probabile “in quest’epoca di soggettivismo quasi psichedelico”.

Banalità di base (I)

Ogni lotta è – potenzialmente – soggetta in tutto o in parte a recupero da parte del sistema di dominio, con le buone o con le cattive. Femminismo, ecologismo, antispecismo, antimilitarismo, lotte territoriali di ogni sorta, le lotte contro il carcere e i Cpr. Tutto è in potenza fagocitabile, digeribile e pacificabile dallo Stato, dai suoi apparati e dalla miriade di soggetti conniventi, dato l’arsenale recuperatorio oggi a disposizione.

Dirimenti sono i metodi e, di conseguenza, le pratiche coerentemente adottate.

Prendere, consapevolmente e strumentalmente, a obiettivo delle proprie critiche solo una parte di un vasto insieme di metodi e pratiche di opposizione generalizzandola al tutto, per poter agevolmente tentare di screditare l’intero insieme, è miserevole.

A simbolo dell’antimilitarismo non prendiamo la marcia per la pace di Assisi, a esempio delle lotte contro i Cpr non ci viene in mente LasciateCIEntrare, a esempio del “movimento” anarchico italiano non prendiamo la corrente della federazione anarchica italiana.

Similmente a quanto talvolta accade in maniera interessata riguardo la storia dell’anarchismo, anche la storia di lotta di alcune correnti (trans)femministe, per fare un esempio, è soggetta a frequenti amnesie, mi riferisco alla sua storia di lotta armata, ecologista, anticarceraria, anticapitalista. Se questa storia non si conosce, è sempre valido il caro vecchio invito ad andare a leggersi qualcosa. Se invece si conosce ma si fa finta di non conoscerla, perché sennò crolla tutto il palco di una critica superficiale quanto strumentale, è un altro discorso.

Personalmente sono favorevole a un inquadramento quanto più preciso e puntale quando si parla di storia dei “movimenti” e di tradizioni di lotta, quando si corre il rischio di fare, come si suol dire, di tutta l’erba un fascio. Esso è preliminarmente utile e doveroso al fine di chiarire a priori di cosa si sta parlando, altrimenti un confronto serio può diventare molto complicato e quel che resta non portare effettivamente da nessuna parte.

Ma se alcuni argomenti vengono usati per denigrare, in modo intellettualmente quanto meno ipocrita e talvolta anche vile e volgare, tutte/i coloro che fanno proprie certe analisi e pratiche, questo è sinceramente irricevibile. Un repertorio costituito da lamentele del tenore di “non si può più tenere le gambe larghe sull’autobus”, “non posso più grattarmi i coglioni in pubblico perché mi diranno che non posso”, “se mi tolgo la maglietta sono un molesto” ne è solo un piccolo esempio. Io credo che grattarsi o meno i coglioni in pubblico sia una questione di eleganza e buone maniere che ovviamente non sono obbligatorie, ci mancherebbe altro. Ma se uno/a ne fa un argomento di discussione politica – ritenendolo addirittura pertinente e indicatore di una tendenza sociale – per attaccare tutto un insieme (e cioè il vero obiettivo della sua critica), è un poveraccio, sia a livello politico, che umano.

Giustamente, un conto sono le chiacchiere da osteria, un conto i contesti di discussione e confronto politico. Sarebbe quindi opportuno tenerli ben separati, c’è già abbondanza di indegni figuri di ogni genere che infestano la nostra quotidianità ripetendo concetti molti simili per mezzo di ogni tipo mass media.

Per chiudere queste abbastanza banali riflessioni, sento di fare un’ultima considerazione.

Anche da qui infatti ci si domanda con sconcerto da quando in qua gli anarchici/e non si organizzano più sulla base di affinità teoriche e pratiche che scaturiscono da analisi e letture dell’esistente condivise, dalla convergenza su metodi e prospettive di intervento su di esso, ma invece pensano e costruiscono, per fare degli esempi, fiere dell’editoria, momenti di discussione, iniziative di qualsiasi genere come fossero convegni di partito, plenarie sindacali o conclavi?

Da quando in qua gli anarchici/e si fanno remore ad escludere chicchessia col quale ritengano non possibile organizzarsi o condividere percorsi di qualsiasi tipo?

Da quando in qua, aver ben chiaro chi non si vuol avere intorno e definirlo in modo netto, è diventato autoritario?

Se le cose in realtà sono sempre andate diversamente e non ce ne si è resi conto, ci si è persi evidentemente qualche pezzo e ne prendiamo atto.

Incazzarsi come vipere, sentirsi offesi e minacciati dalla constatazione di non essere graditi/e – la stessa reazione si manifesta spesso anche nei confronti del separatismo – non è da libertari, ma da quadri di partito, che come tali ragionano. Qui risiedono, latenti o palesi, dinamiche e aspirazioni di potere, indirizzo, controllo..

Considerare propri nemici tutti/e coloro che non sposano la linea e che portano avanti analisi e lotte in modo indipendente, è modo d’azione da Partito, quello dell’unità che vorrebbe agire come una pialla su tutto ciò che percepisce come al di fuori e altro da essa. Quello che ammette gregarismo e delega, non autonomia di pensiero e azione.

Quale classe, quale lotta

Proseguendo nella lettura di “Da pari a pari” si trova l’esposizione – di una superficialità che ha del grottesco (veramente in buona fede?) – di una tesi secondo cui i diversi livelli di articolazione e stratificazione su cui si regge il sistema di dominio, basati su genere, appartenenza etnica, luogo d’origine (per citarne alcuni, mi si perdoni la superficialità), non sarebbero degni di alcuna seria considerazione, ma anzi sostanzialmente irrilevanti, un’invenzione di accademici (americani e francesi, s’intende) iper-sensibili, perché in realtà l’unico, tangibile e concreto piano di dominio è quello dello sfruttamento economico. Uso l’espressione “sfruttamento economico” e non “classe sfruttata” per motivi che proverò a chiarire più avanti.

Ammettere che l’unica (e prima?) forma di oppressione sia quella dello sfruttamento (economico) dell’uomo sull’uomo e che poi, a cascata, sarebbero da questa scaturite tutte le altre forme di oppressione differenziali su determinate “categorie” – e non invece e piuttosto l’inverso – suona come una cantonata, discutibile anche e soprattutto da un punto di vista storico.

Prendendo ad arbitrario riferimento l’emergere e il successivo sviluppo del sistema politico-economico capitalista, l’oppressione delle diverse componenti sociali, l’assoggettamento e la devastazione di popolazioni e territori – sulle basi di quella divisione mondiale del lavoro e dell’estrazione di risorse che tuttora perdura – sono stati assunti a sistema proprio perché era da essi possibile estrarre infinitamente maggiori margini di profitto e di accumulazione, per chi deteneva il monopolio della proprietà e quindi della violenza.

Gli albori e l’affermazione dell’economia e della società capitalistiche ce ne forniscono l’esempio più recente, andandosi a strutturare a partire dai secoli XVI e XVII intorno a tre direttrici, fondamenta principali della cosiddetta “accumulazione originaria”: esproprio delle terre e delle risorse comunitarie delle comunità rurali europee possibile grazie alla cacciata, al tentativo di eliminazione – diretta o indiretta – e infine all’inurbamento delle popolazioni che da essi traevano il loro sostentamento e il loro modo di vita; massacro di migliaia di donne ai fini della cancellazione di saperi e pratiche tradizionali da loro custodite nella cornice di quelle stesse comunità rurali (nota come “caccia alle streghe”) a tutto vantaggio del metodo scientifico e della nuova medicina “professionale” allora emergenti al servizio del capitalismo nascente; colonizzazione e sterminio della popolazioni native delle Americhe e successiva tratta degli schiavi dai territori dell’Africa occidentale verso le colonie europee nel continente americano.

Sfruttamento della natura, dominio patriarcale, schiavitù coloniale. Oppressione e assoggettamento di ben definiti ambiti, umani quanto inorganici.

Lo sfruttamento non ha mai messo tutti gli sfruttati/e sulla stessa barca, il capitale non ha mai sfruttato indifferentemente, né ai suoi albori, né mai.

I 5 indiani sostengono che “un capitalismo senza razzismo, sessismo e persino senza generi e differenze “razziali”, potrebbe, almeno in astratto, esistere”. Forse nelle loro astrazioni sì, nella realtà storica degli ultimi 5 secoli fino all’oggi, no. Questo Marx non l’aveva intravisto e alcuni/e dei suoi seguaci non lo intravedono ancora.

Senza capitale e senza classi, senza padroni e sfruttati/e, si aprirebbe un’era di libertà per tutti/e?

Da quel che è dato sapere, il sistematico sfruttamento economico e l’emergere di “classi” identificabili come tali è stato anticipato di millenni da molteplici forme di oppressione – mai identiche fra loro ed emerse in luoghi ed epoche diverse nel corso della storia – quasi mai stabili nel tempo e nello spazio.

L’assunto poco sopra esposto, appare quindi nella forma di un dogma.

Non è questa la sede in cui addentrarsi in un lungo approfondimento di questi temi, chi vorrà potrà certamente trovare altrove trattazioni assai migliori di quella abbozzata qui. Addirittura, bello o brutto che sia, anche in lavori provenienti dall’accademia, da studies che ben pochi/e metterebbero in questione per il fatto che questi, a differenza di altri, convincono e sono comodi per tutti/e.

A questo punto merita inoltre, a mio modo di vedere, interrogarsi sul concetto di “classe sfruttata”. A quale – si presume omogenea? – classe sfruttata ci si riferisce esattamente?

Una classe è tale solo se ha coscienza di sé, solo se fatta di individui che hanno coscienza di appartenere a un dato insieme (sfruttati/e ma anche sfruttatori/ici, s’intende). Altrimenti, nel caso degli “sfruttati/e” si è solamente, tristemente, di fronte a complici del proprio sfruttamento. Non basta essere accomunati/e dal fatto di vendere il proprio tempo, il proprio corpo, la propria dignità, la propria intera vita per un salario per potersi considerare tutti/e parte di una classe sfruttata.

Sulle basi di una lettura meramente materialistica dei rapporti economici si può assumere che sia così, in presenza di questi sommari criteri la “classe sfruttata” appare definibile, uniforme, omogenea; su di un piano etico-politico, no.

Bisogna avere chiaro, aver coscienza, dei propri nemici di classe e della propria posizione, in opposizione, a questi.

Quando e fino a che punto siamo in presenza di sfruttati/e (coscienti) o invece di complici del proprio sfruttamento?

Nel caso della classe padronale, non si nutrono dubbi sul fatto che i suoi/e componenti, ad ogni livello, siano molto ben consci/e del loro collocamento nella scala della gerarchia sociale ed economica e di quali siano i propri nemici/che, i tempi che corrono sono qui a dimostrarlo.

Quella di complici, più o meno convinti/e e assuefatti/e, del proprio sfruttamento sembra invece essere – alle nostre latitudini – proprio l’odierna condizione di una larga parte delle masse sempre più brutalmente sfruttate e asservite.. Purtroppo – e per ragioni che ancora una volta non è qui il caso di indagare – ci si trova, e non da adesso, di fronte all’adesione a norme, valori, desideri e stili della classe padronale, di quella borghesia in via di rapido immiserimento alla quale, purtuttavia, si guarda ancora e sempre con immutato desiderio di rivalsa e imitazione. Una “classe sfruttata” sempre più attivamente artefice della riproduzione sociale che la stritola ogni giorno di più.

Non sempre e non dappertutto, certamente.

Senza pretese di sapere cose che non so, l’invito ai 5 indiani è di abbandonare per un momento le grandi praterie del pensiero e spostarsi per un pò di mesi in qualche contesto di fabbrica (ma probabilmente quasi ogni altro comparto lavorativo servirebbe allo scopo) per farsi un’idea di che aria tira ai nostri giorni nelle file della cosiddetta “classe sfruttata” – soprattutto ma non unicamente autoctona – capirne le dinamiche, i valori di riferimento, le tensioni, il quadro esistenziale di riferimento.

Risulta per me preoccupante leggere che gli operai vanno sempre sostenuti nelle loro vertenze, persino quando “dicono cazzate” (anche se non si “sacralizzano le mani callose”). Qui non si capisce bene se la tensione è quella all’immolazione sacrificale per la suddetta “classe” in vista della rivoluzione proletaria, a un paternalismo dai connotati infantilizzanti, a una saccenza da supposta avanguardia operaia, o cos’altro. Dall’abolizione del lavoro salariato al sostegno a tutte le vertenze operaie, anche delle “cazzate”.

Forse che il nostro intervento in situazioni di conflittualità dovrebbe avere maggiore costanza, dedizione, incisività, senza troppa puzza sotto al naso? Forse.

La domanda che pongo, prima di tutto a me stesso, è se valga ad oggi veramente la pena investire impegno ed energie in progettualità dirette a (del tutto potenziali) orizzonti di lotta a cui siamo, spesso anche se forse non sempre, estranei. È forse più sensato e urgente dirigere la nostra determinazione, volontà e azione verso tutt’altri obiettivi, con in molti/e peraltro fanno? Secondo me sì.

Assumendomi il rischio di apparire oltremodo retorico, credo che, da anarchici/e, non dovremmo allontanare, quantomeno dalle nostre elaborazioni teoriche e pratiche, e con tutto ciò che questo implica, l’orizzonte dell’insurrezione ingovernabile e dis-ordinata – non dis-organizzata – nella prospettiva della rivoluzione sociale, non con alle spalle una “classe sfruttata” da guidare alla meta (come avanguardia?) ma con affianco quella parte di umanità oppressa che non è ammiratrice in segreto di questo mondo, che non cerca una rivoluzione delle condizioni date, ma il loro sovvertimento, la loro eliminazione, che anela alla distruzione di questo mondo e dei suoi simboli. Che magari prova in tutti i modi a non farsi sfruttare, per la quale la linea di demarcazione tra legale ed extralegale è molto relativa, per cui non esiste scalata sociale e che, cosa forse più importante, ha poco o nulla da guadagnare dalla propria condizione di sottomissione.

A quale umanità potenzialmente pericolosa per il dominio e i suoi progetti guardare?

Secondo me, proprio a quella parte di umanità con cui abbiamo, mi sembra, meno a che fare, quella con cui non sappiamo in realtà granché parlare, a cui non sappiamo bene cosa dire. Quella parte di umanità ai margini, reietta, espulsa, rinchiusa nei ghetti a cielo aperto o scaricata nelle carceri e nei Cpr, quelle vere “eccedenze”, quegli “effetti collaterali” non graditi e non facilmente gestibili coi mezzi della servitù salariata, coi nuovi balocchi elettronici ogni sei mesi, il suv a rate, i pacchetti vacanze dall’altra parte del mondo una volta all’anno.

I “dannati/e della terra”, citati en passant in “Da pari a pari”, non sono preoccupati degli studies venuti dall’America, non lavorano alla Stellantis o nelle ferrovie, di norma non frequentano le nostre assemblee. Piaccia o non piaccia, non condividono la stessa “classe” dello sfruttato/a italiano/a o europeo/a e con questi/e quasi mai si organizza. I “dannati/e” sono quelli che affollano le galere amministrative e penali, i distretti del caporalato agricolo, le periferie delle metropoli, i cui corpi giacciono a migliaia sul fondo del Mediterraneo e a cavallo dei valichi di frontiera.

Si potrebbe obiettare, e a ragion veduta, che le osservazioni fatte sopra a proposito della condizione di una ipotetica “classe sfruttata” siano valide anche quando riferite alle frange sottoproletarie delle campagne e delle città. Certamente, difficilmente sarebbe la maggioranza di questi/e a desiderare la sovversione del sistema di dominio esistente, a condividerne le ragioni e i presupposti, a far proprio un orizzonte senza autorità né sfruttamento. Se non altro perché almeno una fetta di torta, almeno una, la vogliono in molti/e.

Una significativa differenza, secondo me, sta però nel fatto che a queste persone il dominio invece non riserva nemmeno il fantasma di uno stato sociale moribondo da tempo a cui aggrapparsi (come per la popolazione autoctona) al fine di giustificare la propria ragion d’essere, non si preoccupa della loro “integrazione” sociale (o almeno non più), ad essi è consentito lavorare da schiavi/e alla riproduzione del profitto e dell’ordine sociale dato, finire in gabbia oppure morire in mezzo al mare, in un cantiere, in mezzo ai campi, o durante un controllo di polizia.

Come fare ad almeno provare a testare la possibilità di affinità concrete con gli ultimi e le ultime nella gerarchia economica e sociale è e rimane un enorme e serio problema alla cui soluzione qui non si è in grado di tracciare vie certe, ma di cui forse varrebbe la pena occuparsi.

Banalità di base (II)

Se sui muri delle università occupate invece di appelli alla distruzione di questo mondo si trovano cartelli con codici di condotta, o se, purtroppo, per molti/e l’orizzonte di sovvertimento della realtà data consiste principalmente in un’ossessione per il linguaggio e le desinenze (talvolta, peraltro, assumendo solo carattere di posa e ben poco altro) o ancora, se l’organizzazione di qualsivoglia attività deve avvenire via chat oppure non essere, anche questi sono fatti che riguardano tutti/e, non solo alcuni/e.

Sentirsi minacciati/a da questo non ha alcun senso, manifestazioni paranoiche a parte. Dovrebbe semmai impensierire il fatto che oltre a queste espressioni, spesso non si ravvisa molto altro degno di nota.

Il problema della/e identità, in sé e per sé, è un falso problema e in senso assoluto significa poco. Ciò che è dirimente è se questa stessa identità si dà una coscienza, una prospettiva di lotta non gestibile contro l’esistente oppure no, nel qual caso corre il rischio di diventare solo una delle tante forme di alternativismo. Il punto centrale è che cosa essa fa o non fa di sé stessa. Se essa si dà metodi e mezzi di attacco non recuperabili alle condizioni dell’oppressore o se invece finisce per essere stampella e sostegno a queste stesse condizioni. Le lotte indipendentiste che sono lotte anticoloniali o le “battaglie” per insegnare i dialetti nelle scuole pubbliche.

La morsa repressiva che non fa che stringersi da ormai diversi anni a questa parte, con i suoi strascichi di frammentazione, annichilimento di intere realtà, isolamento, scoramento e angoscia, ha sicuramente la sua parte di responsabilità e questi sono, d’altronde, tra gli obiettivi che da sempre la controparte persegue. Ma a mio modo di vedere è sicuramente anche un problema di mancata trasmissione di teorie, metodi, saperi e conoscenze, che non crescono sugli alberi ma dovrebbero continuare a essere passate da una generazione all’altra. Se ora siamo di fronte a quella che a me sembra una sorta “cesura” in via di ampliamento tra “generazioni”, questo è anche da imputare a una certa incapacità – acuita secondo me in particolar modo dal modo di vita digitale in cui tutti/e siamo invischiati/e – di portare avanti nel tempo, di dare continuità, a questa trasmissione di un patrimonio assai ricco e dalla lunga storia, quanto mai necessario e attuale. Sul perché ciò avvenga, ognuno/a avrà la sua idea, posto che essa sia condivisa.

Tuttavia l’urgenza di trovare soluzioni e vie d’uscita a questo stato di cose è forse la prima e fondamentale contromisura alle mosse del nemico, affinché non ci si riduca col tempo a essere in grado di mettere in campo solamente forme di opposizione sì certamente necessarie, ma anche altrettanto simboliche, spettacolari, prevedibili, facilmente spendibili.

Anche alla luce dei semplici ragionamenti fatti fin qui è urgente, a mio modo di vedere, la necessità di darsi, il prima possibile, all’attacco distruttivo contro l’infrastruttura che rende possibili e operanti le gabbie tecnologiche e digitali che mantengono ed espandono il dominio, le vere responsabili, le prime determinanti, dell’annichilimento delle individualità, di quelle potenzialmente ribelli in primis, ma anche di tutte le altre. L’infrastruttura materiale che rende possibile guerre di accaparramento e sterminio altrove, la prospettiva della guerra planetaria in fase di concretizzazione, alienazione pacificata e complicità nei progetti di sottomissione in questa parte di mondo.

Non potrà mai esistere un mondo senza autorità, né insurrezioni che tentino di aprire la via verso la sua realizzazione, in un mondo di relazioni tecnologicamente mediate da macchine “intelligenti”, per un’umanità diminuita e ridotta a complice della sua disperazione ed eliminazione, con chatGPT come sua migliore amica. Un’umanità con la quale, se l’alienazione tecnologicamente mediata continuerà a marciare alla velocità alla quale assistiamo, non sarà solo difficile avere a che fare, quanto piuttosto impossibile.

È la guerra sociale quella in cui dovremmo continuare a mettere i nostri energia e impegno. Non ci servono soldati politici o figuranti economici interessati a trarre il massimo valore dal loro lavoro o a migliorane le condizioni, non mandrie di gregari convinti dalle nostre ragioni.

Non mandrie, ma gruppi di affini.

Per “sabotare la guerra” ci sono un sacco di cose che si possono fare, ci si occupi di quelle.

Un anarchico