MA CHI HA DETTO CHE NON C’ERAVAMO?

Riceviamo e diffondiamo:

Di santi, fragilità e anarchia: una risposta breve al testo “Da pari a pari. Contro l’autoritarismo identitario” e ad alcuni altri contributi innecessari

“Así Sí Señora! Fuimos Muy Malas y Fuimos Todas! “

Fenoménicas Brujas e Insurreccionalistas (F.B.I)
Ciudad de México, martes 10 de marzo 2020.

Continuare a leggere sproloqui reazionari che pretendono di cancellare le nostre esperienze anarchiche utilizzando semplificazioni degne di qualche youtuber incel con cappellino da cowboy è intollerabile.
Se alcuni soggetti credono sia ora di prendere posizione perché “troppo hanno aspettato”, allora siamo costrettx a pensare che anche noi “abbiamo tardato troppo”.
E diremo qualcosa di cui stiamo iniziando a non essere fiere.
Abbiamo tardato perché in fondo volevamo credere (e non volevamo rinunciare a riconoscerci) nei rapporti di affinità, nelle esperienze comuni, in quella radicalità che ci ha fatto incontrare molte volte, nella solidarietà internazionalista, nelle pratiche condivise, nell’elaborazione teorica che, chi più e chi meno, ci accomuna(va).
Ma, come è risaputo, l’affinità si basa sul principio di libera associazione, pertanto quando ciò che ci accomuna viene irrimediabilmente meno, un pezzo dopo l’altro, l’affinità con “certi soggetti” cessa di esistere.

Il testo che segue è un contributo corale di compagne (senza C maiuscola, grazie, non abbiamo bisogno della vostra sacra approvazione) che vivono fuori e dentro il territorio italiano.
Non è una posizione universale di un settore specifico, che di fatto non esiste come unicità.
Speriamo non si gridi all’infiltrazione esterna. È penoso, come anarchici.
Non solo perché nega di fatto la tanto sbandierata capacità di essere internazionali e internazionalisti, ma perché ci ricorda tanto la modalità dello Stato o, ancora di più, la classica strategia stalinista: ricorrere al fantasma del nemico esterno per giustificare la creazione di più dispositivi di controllo e repressione.
E quindi sì, scriviamo da molti territori, ma vogliamo ricordare a questi soggetti che ci conosciamo, e non è un modo di dire. Abbiamo partecipato insieme in molte piazze, ci siamo scritti e scambiati traduzioni, abbiamo messo in atto azioni di solidarietà che si richiamavano da un territorio all’altro, abbiamo partecipato a dibattiti nella stessa stanza, a chiacchiere e presentazioni. Peccato.

E quindi eccoci qua con alcune puntualizzazioni.

Dominio e liberazione, niente di nuovo sotto il cielo

Quello che ci interessa meno è impantanarci nel segnalare di nuovo le responsabilità di singoli amichetti nel perpetuare la violenza patriarcale nei suoi molti modi possibili con tante sfumature e gradi.
Che noia, questi esercizi petulanti di filosofia e storia antica.
Alcuni di questi amichetti probabilmente sono stati anche i nostri in alcune occasioni (e per fortuna alcuni proprio no), o i nostri compagni, in senso affettivo e politico. Nessuno qui può dirsi salvo perché il problema è strutturale, come tutte le dominazioni contro cui tanto lottiamo. Quindi anche concentrarsi esclusivamente nel difendere un singolo (tra l’altro quasi rasentando il culto della personalità, che fa molto religione e molto poco anarchia) è fuorviante, perché distoglie dalla questione centrale.

Il sistema di dominazione è complesso e a più livelli e chi lotta per la libertà dovrebbe farlo in maniera altrettanto complessa e multipla, non solo concentrandosi su singoli aspetti o su specifiche forme. È ora che questa pulsione radicale per la liberazione totale sia meno di facciata, e investa con la sua capacità distruttiva non solo lo Stato e il Capitale, ma ogni forma di dominio. Patriarcale e coloniale inclusi.
Per fare questo sarebbe necessario abbracciare le proprie contraddizioni, essere critici con noi stessi così come lo siamo con gli altri, abbandonare questo purismo moralista che puzza di vecchio e costruisce chiese ideologiche invece di bruciarle.
E sopratutto non considerarsi immuni dall’essere noi stessi parte del problema.
Patriarcale e coloniale, dicevamo…
Poveri 5 piccoli indiani.
Il virtuosismo della comparazione con la situazione in atto in Palestina e la narrazione genocida dello stato sionista di israele farebbe quasi ridere se non fosse altamente problematico.
È sufficiente un’analisi grossolana per capire che equiparare una narrazione di violenza volutamente islamofoba e vittimizzante di una forza occupante su chi la resiste coraggiosamente fino alla morte con le denunce di compagnx verso dei coglioni aggressori proprio non regge.

Ci sembra che qualcuno abbia iniziato un processo di beatificazione.
E noi santi e beati non ne abbiamo.
Preferiamo ricordare chi lotta anche con i suoi errori, perché è questo che ci permette essere chi siamo.
Quello che ci dispiace notare, però, è che in questo affannarsi per difendere e santificare, si regalino al potere tanti spunti e dettagli di incontri, dibattiti, campagne di solidarietà, cose che nel nostro modus operandi non dovrebbero essere pubbliche né pubblicate. Ups.
E, ancora più grave, assistiamo attonite a un’autoinvestitura dell’autorità morale nel definire chi è dentro e chi è fuori dalla chiesa, riproducendo proprio quegli atteggiamenti che si criticano.
Per quanto ci si dilunghi in inutili astrazioni, a tratti così stirate che rasentano il ridicolo, l’elefante nella stanza continua ad essere la misoginia dei compagnx e il loro potere di definire chi è compagnx chi non lo è e quali lotte sono giuste e meritevoli.
Da una parte viene criticato il potere di definizione di chi subisce o ha subito violenza, ma dall’altra questo potere di definizione viene costantemente esercitato (difeso e tenuto stretto) nella scelta di chi è dentro e chi è fuori, di cos’è la pratica anarchica e cosa non lo è.

Quale internazionale?

Cosa si intende per “americanizzazione?”
(America é un continente un bel po’ grande, deduciamo che i professori si riferiscono agli Stati Uniti);)
Rimane un concetto vago che sembra uscito da un fumetto del vecchio PCI.
Un verdetto che raccoglie un po’ tutto e avvia il processo della nostra scomunica.
Saremo giudicate dall’inquisizione e condannate all’esilio da tutti i percorsi che da anni portiamo avanti, non come queer ma come anarchiche (perché, sorpresa! ci sono tantx di noi che non sono e non amano come il Papa comanda… se ne erano accorti lor signori?)
Verranno castigati i nostri comportamenti “infantili” o “depravati”?
Abbiamo la sensazione, vostro malgrado, che la direzione sarà piuttosto un’altra…
Rispondiamo (senza gioia) a questi sproloqui perché ci stanno a cuore le lotte e perché certi cappellini da cowboy trumpiani ci allarmano, non per chi li porta, ma per quello che stanno facendo delle nostre idee e della loro possibilità di propagarsi.
Ce lo saremmo volentieri risparmiate.
La “teoria del complotto esterno” è ciò che ci ha colpito di più.
Dove è finita l’essenza profondamente internazionalista del nostro essere anarchico, tanto nelle pratiche quanto nelle teorie e nei dibattiti?
Liquidare certi temi come “ingerenze esterne”, accusare chi riflette sull’oppressione di genere di “americanizzare le lotte” addirittura usando termini come “woke” (grazie bro Trump per aver illuminato i nostri Compagni) è una deriva nazionalista reazionaria a dir poco disgustosa. Da quando le nostre idee devono avere una certificazione nazionale?
Ma detto questo, ci chiediamo perché volontariamente si sorvoli sulle molte riflessioni “nostrane”, che non hanno avuto bisogno di input esterni per affilare teoria e pratica, per rispondere radicalmente all’esistente, per spezzare catene. Riflessioni emerse dai confronti tra moltx compagnx, all’interno e all’esterno delle nostre frontiere territoriali, nei dibattiti accesi, nelle esperienze personali, dal carcere fatto di sbarre a quello fatto di leggi, norme e regole sociali a cui abbiamo deciso da decenni di ribellarci.
Come è possibile che non si riconoscano dopo tutti questi anni, le esperienze radicali, in seno ai nostri spazi, teorici e pratici, che molte di noi hanno elaborato?
Forse semplicemente facilita il gioco etichettarle come “esterne”, perché risparmia il lavoro che ci aspetteremmo da ogni compagno, compagna, compagnx: quello del leggere, conoscere, discutere e praticare, tra noi, per noi, contro chi opprime e reprime.

Né liberali né reazionarie, un po’ di noiosa pedagogia

Ci saremmo volentieri risparmiate questo scomodo lavoro di pedagogia, ma a quanto pare è necessario.
Facciamo chiarezza: molte di noi mai si sono rivendicate all’interno degli orizzonti LGBT, e quando si usa per definirci ci sembra di parlare con i genitori che dicevano “spinello” negli anni 90. E no, non ne facciamo una questione di linguaggio.

Riflessioni sull’identitarismo, sulle sue derive liberali, su certi processi interni che finiscono per diventare giustizialisti, sul rischio del riformismo nelle lotte… ne facciamo da un bel po’, non stavamo aspettando lo spiegotto, e lo facciamo non perché abbiamo paura della scomunica ma perché siamo anarchiche e non c’è bisogno di aggiungere che pensieri sinistroidi e riformisti non ci appartengono affatto.
Ma non è forse un rischio di tutte le lotte specifiche?
Lotte tra l’altro in cui, non c’è bisogno di dirlo ma lo diremo, siamo più che attive; purtroppo troppo spesso al vostro fianco, per fortuna sempre meno.
Carcere, frontiere, inclusa la recente ondata di solidarietà con la Palestina, la lotta per la difesa della terra, l’azione contro la guerra e la tecnologia militare…, non hanno forse tutte questo rischio?
È nostro compito, con le nostre pratiche e idee, rompere le righe in questo senso.
Perché dovrebbe essere diverso in questa lotta specifica? O alcuni ritengono di essere gli unici a saperlo fare? Ad avere l’agilità per non scivolare nel fiume in piena del riformismo sociale?
Cosa spiega questa sfiducia verso le potenzialità della lotta specifica queer o transfemminista? Iniziamo a pensare che se non può valere la stessa regola…c’è qualcosa che puzza.

La generalizzazione ci disturba.
Uno perché è tendenziosa. Silenziare con argomenti facili riflessioni necessarie, depotenziandone in partenza il valore, addirittura scomodando le vacche sacre dell’anarchia, ci ricorda nuovamente la propaganda MAGA, anti-woke (che chi cazzo se ne frega del liberal woke poi…ma chi frequentano ‘sti Compagni?), fatta appunto di semplificazioni aberranti tese a uno scopo specifico: disumanizzare e delegittimare i nemici dei valori tradizionali e patrii per annientarli.
Due perché viene da chiederci: cosa temono veramente questi fragili signori (e signore anche)? Ci aspettavamo più sincerità dopo anni di lotte assieme. È solo provocazione? È solo difesa del neosanto Compagno?
Molti studies (scusate non potevamo resistere)sull’incremento delle spinte reazionarie e autoritarie hanno evidenziato il nesso tra l’aumento esponenziale di una mentalità sempre più conservatrice e la paura mal elaborata di certi settori della società di perdere tutto (sopratutto la loro posizione) ed essere dimenticati, con il conseguente asserragliamento nei vecchi confortevoli valori: dio, patria, famiglia.
Coloro che bruciarono al rogo, incarcerarono, urlarono all’untore, diffamarono e diffusero odio generalizzato all’interno delle proprie comunità appartenevano spesso a questi settori: terrorizzati nel 1400 dalla inusuale libertà della comunità gitana o negli anni 2000 dal flusso in aumento di manodopera economica migrante o attualmente nel profondo degli Stati Uniti, da “negri e froci” destabilizzatori della santa patria.

Infine: la forma che il potere e lo Stato spesso usano per giustificare purghe, repressione o pacificazione sociale è attraverso universalizzare i propri valori e omogenizzare il nemico dell’ordine costituito affermando così la propria sacralità.
Di nuovo un po’ di pedagogia: chi di noi ha riflettuto sulle questioni dell’autodifesa, dell’eteropatriarcato, della cultura dello stupro, della transfobia e delle mille forme che ha il dominio per piegarci (sorry, non c’è riuscito lo Stato, dubitiamo nella capacità dei Compagni di addomesticarci) lo ha fatto in molte forme diverse, con rifermenti diversi, strumenti diversi.
Chi scrive questo testo lo fa abbracciando una prospettiva anarchica, come punto di partenza e arrivo. Ma tutto il resto non si può collocare in un unico contenitore.
Alcune rivendicano l’insurrezionalismo come la forma più etica per non scendere a patti con l’esistente, altre credono nella capacità dirompente delle nostre idee, altre si dedicano a scrivere e pensare.
La diversità delle nostre strategie e tattiche è ciò che fa dell’anarchia quello che è.
Ci giudichiamo, allontaniamo, ritroviamo come fa tutta la galassia anarchica, da sempre.
In questo siamo simili.
E proprio anche in questo siamo simili nell’essere diverse, nel portare avanti riflessioni specifiche e multiple sul tema, ahimè, al centro di questi recenti misfatti.
Chi si definisce queer e chi no, chi non ha mai letto Butler e chi ne apprezza l’analisi, chi lotta in spazi misti, chi solo in quelli separati, chi parte dal transfemminismo, chi ha deciso che non ne vale la pena e chi invece, come noi che scriviamo, ancora cerca quell’ultima possibilità di faticosa pedagogia.
Chi non si definisce femminista e chi lo fa da anni.
Non sempre siamo d’accordo. Anzi, spesso non lo siamo, in pratiche e forme.
Perché questa volontà di rinchiuderci in un’ unica entità omogenea se non per facilitare l’attacco inquisitorio?
Rendere massa informe e omogenea il possibile nemico pubblico è, di nuovo, vecchia strategia del potere.

Ma forse come succede con gli attacchi del nemico, che ci fa ritrovare assieme dallo stesso lato della barricata, anche tale vomitevole ultimo capitolo otterrà lo stesso: fare banda tra noi anche se non siamo d’accordo in tutto.
Un “noi” che si fa ogni volta più ampio e che non si riferisce solo a donne e queer ma che, come abbiamo detto all’inizio, si associa liberamente per affinità e sopratutto si ritrova a condividere almeno il ribrezzo provocatoci dalla scuola etero-bianca-cis-vetero anarchica del funesto demiurgo e compagnia.

Non è una minaccia. Le minacce non sono nel nostro ordine di idee. Le cose si fanno o non si fanno, senza avvisare.
Chissà, è piuttosto una proposta.
E non scomodatevi con un altro noioso spiegotto di cosa siamo e cosa non siamo.
Ci vediamo spesso e (mal)volentieri.
E lì, ci troverete, puntuali come sempre.
Il mondo brucia e abbiamo altro a cui dedicare energia. Vi invitiamo a fare lo stesso e smettere di piagnucolare.

Un po’ di compagnx senza C


Qui il pdf del testo: Ma chi ha detto che non c’eravamo

ANARCHIA E’ LOTTA ALL’OPPRESSIONE ETERO PATRIARCALE. (POTETE ANDARE A VITTIMIZZARVI ALTROVE)

Riceviamo e diffondiamo:

Un nuovo testo si aggiunge! Ci sgomenta ma in effetti non ci stupisce, ed è del tutto coerente con lo stato dominante delle cose e col modus operandi del macho al potere: avere un privilegio, manipolare la realtà al fine di mantenerlo a qualunque costo, pur di non incrinare il sistema che lo sostiene.
Autorx ne sono altrx guardianx dell’anarchismo che sentono di doversi difendere e allertarci sul dominio degli “alfieri queer dell’identità di genere”, i nuovi “nemici della libertà”. Sembra un colpo di scena: questx autorx che si firmano “loggia Bakunin” sembrano voler riprendersi un palco. Chissà se si rendono conto che la loro sceneggiatura lx mostra come personaggi le cui maschere da libertari cadono.

L’atteggiamento tipicamente umiliante e beffardo si palesa deridendo queer rinominandolo qwerty, appropriandosi di un vissuto storico come quello della caccia alle streghe storpiandone il senso e i ruoli, straparlando di femminismo e umanesimo, risguazzando nella solfa dell’ideologia globalizzata di matrice accademica-liberista-punivista.
Si racconta che chi lotta contro l’oppressione quotidiana e sistemica dell’eteropatriarcato vuole sopprimere chi vive pratiche erotiche eterosessuate.
Si continua sistematicamente ad attribuire posizioni legaliste e integrazioniste dell’associazionismo lgbtq allx compagnx che, invece, da sempre identificano (anche) quello come nemico.
è chiaro come il sole! Pur di non lavorare sui propri privilegi e autoritarismi (ci sfugge a questo punto, cosa ci rende compagnx?), si sceglie consapevolmente di non ascoltare, distorcere e controattaccare le istanze dellx compagnx che devono difendersi da un’oppressione in più rispetto a chi è etero cis. Perché ci sono cose che a questx templarx della libertà anarchica danno fastidio: il fatto che circolino testi e pratiche, che si prendano momenti e spazi non misti, che si agisca il conflitto verso chi esprime transfobia, che non si tolleri più chi misgendera i nomi o chi vorrebbe – come un qualunque cattolico provita – che tutte le persone riconoscano un valore alla procreazione.
Si manipolano per l’ennesima volta i discorsi e si raggiungono vette fin’ora forse intoccate di vittimismo.
Cercano riconoscimento di alcunx e il conflitto con altrex, questx autorx.
Ma non abbiamo più tempo da perdere.
Qui e ora, con un altro genocidio in corso, lx autori si trastullano con le parole e parlano di “pulizia etica” per argomentare che le soggettività transfobiche ed etero cis sarebbero sempre più in pericolo di vita negli spazi anarchici.
Chi scrive e pensa tutto questo si qualifica da solo .
Glx autorx continuano a riprodurre l’oppressione, pari pari allo stato e ai fascisti. Ci rifletta anche chi crede che questa faccenda non lx riguardi. La pazienza è finita anche per chi dà a questi contenuti agibilità politica o chiama ancora “compagnx” chi li concepisce.
Mentre compagnx queer, che questx autorx definiscono pure borghesi, finiscono in carcere perché continuano a rischiare in strada corpi e vite per far finire la violenza di questo mondo, voi che fate?
Andate pure a vittimizzarvi altrove.

Ci accusate di omologarci e uniformarci ai canoni liberalpink della sinistra istituzionale, quando sappiamo che come sempre è al contrario: è lo stato che strumentalizza le rivendicazioni delle lotte radicali per rendere la dissidenza un prodotto civile, vendibile e controllabile (vedi antispecismo e vegan washing, green washing, anarchismo e trendy estetica col passamontagna da social).
E non vi fate problemi a mettere una grafica antiabortista e ad appropriarvi di un termine, caccia alle streghe, che è per noi simbolo della repressione e della violenza dell’uomo sulle altre soggettività diverse da lui. Che ipocrisia. Ci accusate di essere le nazifemministe che reprimono ed isolano come fa lo stato contro glx anarchicx, eppure le prigioni le ha inventate e le mantiene proprio quell’apparato etero patriarcale e familistico che voi state strenuamente difendendo. Eppure quando un compagnx mena un fascista o uno sbirro è unx grande, ma se mena un uomo che ha agito violenza è sbagliato. Siete voi gli ipocriti che, come lo stato e i suoi servi, se gli viene puntato il dito urlando “VIOLENZA” reagite attaccando e poi negando tutto. Infatti, nelle vostre colte e articolate frasi e parole, ne manca sempre una. Non la nominate mai, violenza.
Forse alcun di voi non l’hanno mai dovuta affrontare. Probabilmente l’avete esercitata, ma avete terrore a riconoscerlo e rifiuto di responsabilizzarvi, altrimenti questo vittimismo non si spiega. Forse non capite cosa si prova quando la violenza degli uomini e del sistema basato sul loro potere segna ogni giorno della nostra vita da quando abbiamo memoria a oggi. Violenza di tutti i tipi, in tutti i luoghi. Forse alcun di voi pensano che se con più o meno giri di parole veniamo accusatx di “essere insidie al senso ontologico della libertà e al suo perseguimento pratico”, questa violenza smisurata verrà dimenticata, nascosta? Il problema sarà ontologico, sarà in che modo possiamo ben giustificare il nostro essere, le nostre anime, in termini filosofici politici così da poterci affermare in mezzo ai compagni maschi? No, il problema rimane sui nostri corpi ogni volta che siamo accanto a esseri violenti.
Quanti giri di paroloni per camuffare che vi rode il culo.
Veniamo giudicate, umiliate, represse e rinchiuse perché quello che proviamo, sentiamo, desideriamo è diverso dal vostro vissuto. È una violenza che anche se non la nominate mai, ci viene ricordata a ogni vostra parola. Che incide come una catena arrugginita e a volte ci toglie il respiro, a volte ci fa urlare a squarciagola e vuole vendetta.
Strano, che questo tipo di dolore non venga empatizzato da chi dice di essere contro ogni gabbia e catena?
Non si hanno problemi a parlare di Violenza quando si tratta di violenza di stato, violenza sbirresca. Invece quando si collettivizzano atti violenti perpetrati da individui di genere maschile nei confronti di individualità altre, ci si deve sistematicamente imbattere in variopinte forme di deresponsabilizzazione, invalidazione, fino alla patologizzazione di posizioni non compiacenti.
Sappiate che queste nostre parole, queste nostre energie, non sono spese per voi che avete scritto quel testo di merda. (E neanche per tutti gli altri maschi che hanno scritto altri testi di merda tipo i tre moschettieri). Queste nostre parole sono sfogo e creatività e crescita in momenti di sorellanza bellissimi che ci arricchiscono, ci fortificano, ci fanno pensare alle nostre antenate streghe e ai veleni che preparavano quando un uomo potente doveva morire per non fare soffrire più un’amica o una comunità.
Non sentiamo il bisogno di spiegarci, di volervi fare capire e volerci fare rispettare da voi. Vogliamo che chi è vicinx a noi sia complice del nostro disgusto per questi infami sproloqui, che non senta il bisogno di difendersi dalle vostre cagate perché sono palesemente pregne di vittimismo machista, che condivida l’ironia di vedere come dei “compagni” si sono smascherati da soli e cosi poterne stare coscienziosamente lontanx.

Ontologicamentə,
alcunə cagnə infertili catanesə

IMOLA: DI DISAGI, COLLETTIVITÀ E VISIONI ANTIPISICHIATRICHE

Diffondiamo:

19 ottobre 2025
al Brigata Prociona, via Riccione 4 (Imola)

DI DISAGI, COLLETTIVITÀ E VISIONI ANTIPISICHIATRICHE
Giornata di confronto e autofinanziamento per la cassa transfemminista queer di sostegno economico per il supporto psicologico.

Apertura alle 14:30

Dalle 15:30, CONFRONTIAMOCI!
Limiti e possibilità della gestione collettiva di situazioni di malessere psicologico/psichiatrizzazione.
Come ci rapportiamo alla diagnosi? Un confronto fra le diverse tensioni: dalla critica antipsichiatrica alla visione della diagnosi come strumento di validazione.

Dalle 20:00 cena vegan con panini e altre sciccherie benefit per la cassa transfemminista queer di sostegno economico per il supporto psicologico.

A seguire concerto con Anafem
Spazio per distro e banchetti per tutta la giornata

NO MACHI NO FASCI NO SBIRRI NO SIONISTI

COS’È LA CASSA TRANSFEMMINISTA QUEER DI SOSTEGNO ECONOMICO PER IL SUPPORTO PSICOLOGICO?

L’idea di questa cassa nasce dalla constatazione che moltx di noi o persone vicine a noi fronteggiano condizioni psicologiche tremendamente precarie e spesso invalidanti. Spesso è difficile trovare strumenti autogestiti per affrontare queste situazioni, specialmente quando lo stratificarsi di traumi e oppressioni sistemiche porta ad un malessere cronico.
Per questo motivo alcunx fanno la scelta di intraprendere percorsi di psicoterapia o di altre discipline che si sentono più vicine. O desidererebbero farlo: i costi sono inaccessibili per moltx. Per questo abbiamo pensato ad una cassa solidale di supporto per questo tipo di spese.

La cassa è transfemminista e queer: si occupa di persone che non siano maschi etero-cis. Siamo partitx da noi, e dalla consapevolezza che l’eterocis patriarcato è un’oppressione sistemica che espone duramente a compromissioni della nostra salute mentale e contemporaneamente ci limita nell’accesso alle risorse economiche.
Siamo consapevoli ce una condizione invalidante della salute psicologica può inficiare e minare la partecipazione alle lotte. Spesso l’ambiente di lotta o le reti amicali non riescono a offrire supporto adeguato con il rischio di lasciare indietro compagnx.

Il nostro pensiero sul professionalismo della cosiddetta salute mentale, e del professionalismo in generale, è estremamente critico. Tuttavia ammettiamo l’utilità e l’efficacia di questi percorsi nel risolvere o alleviare disagi molto profondi e duraturi, quando affrontarli da soli o nella collettività non è possibile. Per noi questo ha anche un valore di prevenzione alla psichiatria, a cui troppo spesso ci si rivolge in assenza di alternative (senza giudizio verso chi vi i rivolge). Questa cassa è un’idea riproducibile, un invito a trovare modalità di presa in cura collettiva.

Vorremmo creare occasioni di incontro e confronto attorno alle iniziative di autofinanziamento, per visibilizzare il tema del disagio all’interno dei movimenti, tradurre le visioni antipsichiatriche in pratica e pratiche, condividere strumenti ed esperienze di autogestione e autoformarci.
Chiunque può sostenere questo progetto organizzando iniziative di autofinanziamento e incontri.

Per info: cassasupportopsi@riseup.net

TRANSFOBIA E CAMPAGNE ANTIGENDER: QUALE ORIGINE?

Pubblichiamo il testo dell’intervento “Transfobia e campagne
anti-gender: quale origine?” presentato alla Fiera dell’editoria e della
propaganda anarchica di Roma del 4-6 aprile 2025. Essendo pensato come
intervento a voce, si è deciso di mantenere nella trascrizione il tono
colloquiale dato dal contesto.

Stiamo assistendo negli ultimi anni a una situazione globale che scivola sempre più verso nuove forme di fascismo: in molti paesi sta prendendo potere l’estrema destra, il controllo dello Stato si fa sempre più stringente sulle nostre vite, vi è un ulteriore incremento della militarizzazione, della repressione, di legislazioni che restringono sempre più i nostri già risicati spazi di libertà, per cui ci troviamo a lottare costantemente per non perdere ulteriormente terreno, oltre a mantenere l’orizzonte sul sovvertimento di questo sistema di dominio nella sua totalità. E’ sempre più evidente il risorgere di forme di nazionalismo, con il loro corollario securitario, che cerchiamo di contrastare con i mezzi in nostro possesso, lottando per esempio contro l’apertura di nuovi carceri e CPR, sostenendo le lotte al loro interno, denunciando le politiche migratorie, i nuovi pacchetti sicurezza, le politiche che aumentano il divario economico e sociale tra la popolazione, e così via.

Quello che però mi stupisce, e che mi pare manchi spesso dall’analisi anarchica sullo stato di cose attuali è come quest’incremento della repressione e della morsa dello Stato vada anche a colpire in altri ambiti rispetto a quelli appena citati. Vada a colpire non solo le persone migranti,
ad esempio, o le persone che si ribellano a questo stato di cose, o le persone povere, aumentando il divario economico tra ricchi e poveri, ma anche, come nei fascismi del passato, tutte quelle persone considerate feccia della società: persone improduttive (tossicodipendenti, persone senza fissa dimora, psichiatrizzate, disoccupati cronici, andando a tagliare tutta una serie di fondi sociali per il sostegno alle persone in difficoltà) o persone il cui genere od orientamento sessuale non è funzionale all’ideale della famiglia bianca borghese che è alla base del nazionalismo (quindi persone frocie e trans, escluse quelle perfettamente integrate negli ideali bianchi borghesi, ma anche donne che reclamano un po’ troppa libertà). […]

Continua qui (PDF): Transfobia e campagne anti-gender

QUELLI CHE BENPENSANO. OVVERO DELLA DIFESA DEL CLAN

Riceviamo e diffondiamo:

Questo non breve testo nasce come replica a “Da pari a pari. Contro l’autoritarismo identitario”, diffuso nel luglio scorso.

Come per i suoi autori, anche per chi scrive sarebbe stato più semplice e conveniente ignorare quest’ennesima uscita e tirare avanti, come in altre occasioni, e ultimamente di occasioni ce ne sarebbero state diverse. Tuttavia, per ragioni che si tenterà di chiarire più sotto, questa volta si è ritenuto valesse la pena buttare giù qualcosa, ritenendo che invece altri scritti dal tenore simile usciti di recente non meritassero risposte più o meno articolate.

Ahinoi, e ahivoi, tante cose vengono purtroppo dette e scritte, alcune sapientemente non in testi diffusi ai quattro venti, concetti chiari come il sole vengono infatti esplicitamente definiti in conversazioni fra anarchici (anche senza “un bicchiere di vino davanti”), durante assemblee di compagni e compagne o più o meno allargate. Per fortuna di tutti/e, almeno non si va più in tv in diretta nazionale a raccontare la propria visione del mondo, più o meno brillante che sia.

Le righe che seguono non conterranno citazioni di maître à penser dell’anarchismo, di figure cardini della filosofia occidentale o di compagni/e prigionieri/e, ma quasi unicamente ciò che scaturisce dai ragionamenti di chi lo ha scritto. Proprio per questo, potrà essere sicuramente opinabile, lacunoso, criticabile da diversi punti di vista.

L’intento, infatti, non è “vincere il confronto”, non convincere né persuadere, non c’è dietro il fine di prendere le difese di alcun singolo/a o di qualsivoglia comunità, tanto meno sfoggiando la lista dei classici letti durante una vita, le proprie nozioni in fatto di storia dell’arte o la propria padronanza della lingua italiana per mezzo di scioglilingua, eccetera.

Non contiene riflessioni originali e, inoltre, analisi e disamine più adeguate, complete ed organiche sui temi di seguito toccati sono già state svolte, più volte, in altri scritti usciti negli ultimi anni.

Postmodernismo?

Tuttavia, neanche “Da pari a pari” contiene a ben vedere nessuna riflessione particolarmente originale, ma si limita a girare attorno ai soliti, triti e ben noti ragionamenti già in passato esposti, presentandone più che altro un collage, anche se, va detto, relativamente più elegante e argomentato del solito.

Differenza di rilievo è la sostituzione del perno attorno al quale ruota quasi tutta l’esposizione. Infatti, al vecchio nemico interno al “movimento” anarchico, il (trans)femminismo, è adesso sostituita la nuova, terribile, letale minaccia, ovvero la filosofia postmodernista di importazione yankee. Le argomentazioni cambiano in parte di conseguenza, ma il ragionamento a queste sotteso è più o meno lo stesso.

Il filo conduttore è appunto una lunga dimostrazione della semi-nuova tesi sull’origine di quasi tutti i mali odierni del “movimento”: l’ideologia postmodernista importata dagli Stati Uniti, il virus scappato – non accidentalmente – “dalle università statunitensi e altri laboratori del potere è penetrato piano piano nell’anarchismo”. Quindi, le cause delle presenti condizioni (qualsiasi lettura se ne voglia dare), non andrebbero ricercate in tutto ciò che potrebbe venire in mente a una più o meno superficiale o approfondita disamina dell’attualità e degli ultimi decenni del “movimento” anarchico informale nostrano e non solo. No, è colpa del postmodernismo (un capro espiatorio un pò fuori tempo massimo, a dir la verità).

Il sabotatore interno, un pò come alcuni dicevano appunto del femminismo negli anni ‘70 e fino all’altro ieri. Infatti, l’altro grande nemico da cui guardarsi con attenzione, l’altro vettore del morbo americano, anche se un pò più in sordina, sarebbe infatti il femminismo intersezionale.

I detective del postmodernismo scandagliano testi e comunicati alla ricerca di parole chiave indicanti la chiara matrice del postmodernismo che li permea in modo latente – che tuttavia non può sfuggire al loro sguardo attento – la foga e l’urgenza di scovare i nipotini di Lyotard e Derrida è grande, vedendosi da ogni parte assediati da essi.

Da ridere per non piangere, ma tant’è, questi sono i nostri veri problemi, ci informano.

Non ci si assume l’impresa di tentare di argomentare contro questa tesi, tanto quanto risulta assai difficile, di solito, argomentare contro le teorie note come “teorie del complotto”.

A parte gli scherzi quindi, andando con ordine e un po’ più sul pratico, il problema del come affrontare fatti di violenza sessuale, i “fatti delicati” come vengono chiamati nel testo (o “fatti di letto fra due persone”, come li ha definiti un osservatore, bisogna ammettere, particolarmente sagace) e le dinamiche di potere a essi legate – non sganciate o separate da questi, ma legate e inseparabili – è in realtà ancora ben lungi dall’essere pienamente assunto anche nel “movimento”, sia a livello di entità e portata della questione che a livello di metodo (o metodi) per non parlare poi del da farsi. Ma il problema, anzi i problemi, sono ancora più a monte.

Sono, ad esempio, nella pretesa di arrivare ad un incontrovertibile “fondatezza” di ciò di cui di volta in volta si discute, a una dimostrazione, che non può avvenire – ci insegna il metodo scientifico – se non in presenza di prove.

Da qui, il primo dei cortocircuiti logici che attraversano “Da pari a pari”, per i quali le stesse accuse che gli autori muovono altrove potrebbero essere facilmente rivolte contro la posizione da loro assunta. In questo caso, si ripudia un atteggiamento inquisitorio verso chi viene riconosciuto come aggressore, non si vogliono i tribunali – e ci mancherebbe! – però si vogliono le prove dalle aggredite. Un modo di procedere, azzardo, di matrice che si potrebbe definire persino scientista.

Perché si vogliono prove? Forse perché si aspira in segreto al ruolo di giudici in un immaginario grand jury anarchico che deciderebbe su queste e altre questioni in maniera “imparziale”? Si spera di no. Perché dietro la pretesa di ottenere delle prove si cela la preoccupazione per la tenuta del gruppo, il timore di rotture irrecuperabili in seno alla famiglia, il terrore di doversi guardare, tutti/e, allo specchio, vedendo così chiaro quello che non si sarebbe mai immaginato dover vedere? Neanche questo…Perché si è tutto sommato intimamente convinti di essere circondati da donne e compagne che si alzano la mattina inventando storie di violenza da loro subita perché non sanno come passare il tempo oppure col fine di calunniare il primo che passa per chissà quale motivo?

Non si vorrebbe credere nemmeno a questo, ma sembrerebbe proprio trattarsi di ciò leggendo alcuni passi come “ascoltare una campana soltanto, acriticamente e per partito preso, non può che dare ad alcune persone il privilegio (questo sì reale) di mentire, poiché le sgrava dall’onere di fare affermazioni credibili”, oppure “a meno che non si sostenga che gli appartenenti a categorie oppresse non possano nutrire secondi fini, e raccontare e finanche raccontarsi frottole – un rischio particolarmente alto in quest’epoca di soggettivismo quasi psichedelico”.

Non occorre essere dotati di particolari strumenti d’analisi per rendersi conto che tutta la società intorno a noi – non quella “postmodernista”, l’altra – ci dà sufficienti evidenze che queste sono argomentazioni insulse e portarle come pretesti per non credere a chi ha subito violenza è veramente agghiacciante.

Concedendomi una scivolata di cattivo gusto, in casi di aggressioni contro i compagni/e o verso migranti o altri marginali, andiamo forse a chiedere la versione dei fatti a fascisti, razzisti o sbirri?

Insomma, il “movimento” anarchico sarebbe pieno di bugiarde e millantatrici e gli/le appartenenti alle “categorie” (che brutta parola) oppresse si sarebbero organizzati per raccontare frottole non solo a loro stessi, ma bensì a tutti/e quanti/e, per farsi passare per “vittime” e ottenere attenzioni conseguenti.

Insomma, si propone un approccio scettico, diffidente, per niente incline alla fiducia verso queste “categorie”, che anzi andrebbero prese molto con le molle per non correre il rischio di farsi abbindolare.

Chi scrive pensa che l’ascoltare più “campane” sia un approccio di buonsenso e valido come metodo di base, alla condizione però che si sia molto ben in grado di discernere ciò che viene sostenuto dalle diverse parti, altrimenti si corre fortemente il rischio di lasciarsi convincere di qualsiasi cosa, di qualsiasi versione dei fatti, di qualsiasi punto di vista, in base ad esempio all’abilità narrativa di chi lo sostiene, alla sua notorietà (conquistata sul campo, s’intende), o magari alla sua autorevolezza e influenza (anche queste, ovviamente, conquistate sul campo). Si rischia insomma di diventare delle banderuole, senza un proprio ordine di pensiero, soggetti a cambiare idea se il primo che passa riesce a farcela cambiare. E questo è ciò che capita, troppo spesso.

Come si può fare a raggiungere un certo grado di discernimento riguardo a temi e questioni di cui, dal momento che nessuno/a nasce imparato/a, si ignora molto o quasi tutto, tanto a livello teorico che pratico?

Senza alcun intento rivelatore, ritengo che un buon inizio sia rendersene conto, realizzare che – per quanto ci possa sembrare assolutamente sconvolgente, inimmaginabile, inaudito – ci mancano dei passaggi d’analisi, la visione d’insieme è lacunosa e parziale, non si è in possesso di un bagaglio teorico-pratico adeguato ad affrontarle, certe questioni. Il secondo, l’autocritica rispetto a questo, anche se di questi tempi, si sa, non va più tanto di moda. Infine, cercare di fare quel che c’è da fare per rimediare.

Da dove la necessità di un atteggiamento autocritico, anche quando si pensa di saper già tutto quel che c’è da sapere mentre tutto il resto è obiettivamente irrilevante?

Non capire, o peggio, reputare non “gravi” livelli di oppressione che non si riescono a mettere a fuoco – a volte semplicemente perché non vissuti – ergersi a “giudici” nel senso di stabilire ordini di priorità, gravità, importanza, denota l’esercizio di una presunta superiorità morale sulla pelle di altre persone la cui sola idea ripugna.

Se non si riesce a farsi una ragione di questo o si preferisce semplicemente scegliere di non farlo – che è esattamente ciò che avviene – secondo il mio modesto parere non si potrà che reiterare e ricadere all’infinito e in ogni occasione nelle solite zavorre mentali e nei soliti atteggiamenti di strenua difesa di una baracca che fa acqua da tutte le parti.

Rincuora la dichiarazione degli autori del testo “Da pari a pari” sulla necessità di mettersi in ascolto di chi ha subito o subisce violenza, ma ahinoi e ahiloro, al di là delle astratte dichiarazioni d’intenti, quello che quasi sempre succede nella realtà – la realtà che abbiamo sotto gli occhi, non le tante realtà potenziali spogliate del principio di verità – è piuttosto il contrario. La tendenza è quella a sminuire, ridimensionare e minimizzare ciò che sostiene la persona che ha subito violenza, ci si precipita piuttosto e più volentieri a sentire cosa ha da dire l’aggressore in sua difesa e giustificazione. Spesso si ha quasi l’impressione che, in un totale quanto assurdo ribaltamento dei fatti e della logica la “vittima” diventi l’aggressore e non piuttosto l’aggredita.

Proprio perché si vogliono prove, dati di fatto. Proprio perché non ci può essere certezza su fatti a cui “nessuno ha assistito” – “se la verità fattuale non esiste o comunque non è rinvenibile” scrivono i 5 indiani – di chi ci si può fidare? Bel problema. Certamente non di compagne infettate dal virus postmodernista e loro solidali, sembrano avvertire.

Più significativamente, “alla veridicità del fatto si sostituisce l’appartenenza a un determinato soggetto” sostengono ancora. Su questo, a dire il vero, hanno ragione. Però qui si manifesta anche il secondo dei cortocircuiti logici, per cui la critica che essi muovono è esattamente applicabile allo stesso atteggiamento opposto e speculare da loro assunto e rivendicato. Se si guarda a quel che succede veramente nella realtà, la veridicità è attribuita sempre e solo solo in un senso, a quello dell’oppressore. Se si è capito bene dalla loro esposizione, tra l’altro, questo modo di procedere è decisamente postmodernista…

A leggere “Da pari a pari”, sembrerebbe a dire il vero che i suoi estensori, a livello puramente teorico, riconoscano e facciano propria la necessità (qualora esistano delle evidenze, naturalmente) di intervenire in certi frangenti in modo drastico. Il problema di questo approccio tutto teorico è che nella pratica non si presenta mai il caso in cui è necessario intervenire, mai. C’è sempre qualcosa che induce a pensare che, in fondo, non si sta parlando proprio di quello, c’è sempre qualcosa che non torna nella storia raccontata dalla persona aggredita, aleggia sempre l’ombra della femmina mentitrice. Le evidenze, di conseguenza, non bastano mai. Il bignamino è stato mandato a memoria, ma nella pratica non si sa che farsene.

Ognuno/a esiste soprattutto su ciò che fa, non tanto su ciò che dice.

Altrimenti si è in presenza, in parole povere, di paraculismo. Per i più colti/e, profonda disonestà politica e intellettuale.

Si viene, ancora, quasi sollevati dalla discreta lista di “Ovviamente siamo consapevoli che…”, “Ci sembra legittimo, ad esempio, che…”, “sarebbe atroce, ad esempio, pretendere…”, “Senza disconoscere che…”, tuttavia, alla fine, si torna sempre al punto di partenza.

Il problema (terzo corto circuito logico), indiani, è che succede che chi aggredisce, violenta, stupra, pensa e sostiene di non aver fatto alcunché di sbagliato, di fuori dal normale, perché non se ne rende nemmeno conto. Lo sostiene perché crede che “alcuni episodi” possono succedere in certi frangenti – svariati stati mentali e condizioni eccezionali vengono usati come alibi, troppo lungo qui elencarli tutti – e che in definitiva, proprio per questo non siano poi così gravi, questi episodi.

Lo pensa e lo sostiene, spesso, anche dopo che gli è stato spiegato. Se se ne fosse reso conto prima, talvolta anche se non sempre, non avrebbe fatto ciò che ha fatto. Se se ne rendesse conto dopo, inizierebbe un’opera di profonda messa in discussione, si assumerebbe un problema. Il che, da ogni individuo che pretende di ragionare in senso politico, è il minimo che ci si debba aspettare.

Certamente, come voi stessi dite bene, presupponendo che costui “non possa nutrire secondi fini e raccontare e finanche raccontarsi frottole”, il che è relativamente probabile “in quest’epoca di soggettivismo quasi psichedelico”.

Banalità di base (I)

Ogni lotta è – potenzialmente – soggetta in tutto o in parte a recupero da parte del sistema di dominio, con le buone o con le cattive. Femminismo, ecologismo, antispecismo, antimilitarismo, lotte territoriali di ogni sorta, le lotte contro il carcere e i Cpr. Tutto è in potenza fagocitabile, digeribile e pacificabile dallo Stato, dai suoi apparati e dalla miriade di soggetti conniventi, dato l’arsenale recuperatorio oggi a disposizione.

Dirimenti sono i metodi e, di conseguenza, le pratiche coerentemente adottate.

Prendere, consapevolmente e strumentalmente, a obiettivo delle proprie critiche solo una parte di un vasto insieme di metodi e pratiche di opposizione generalizzandola al tutto, per poter agevolmente tentare di screditare l’intero insieme, è miserevole.

A simbolo dell’antimilitarismo non prendiamo la marcia per la pace di Assisi, a esempio delle lotte contro i Cpr non ci viene in mente LasciateCIEntrare, a esempio del “movimento” anarchico italiano non prendiamo la corrente della federazione anarchica italiana.

Similmente a quanto talvolta accade in maniera interessata riguardo la storia dell’anarchismo, anche la storia di lotta di alcune correnti (trans)femministe, per fare un esempio, è soggetta a frequenti amnesie, mi riferisco alla sua storia di lotta armata, ecologista, anticarceraria, anticapitalista. Se questa storia non si conosce, è sempre valido il caro vecchio invito ad andare a leggersi qualcosa. Se invece si conosce ma si fa finta di non conoscerla, perché sennò crolla tutto il palco di una critica superficiale quanto strumentale, è un altro discorso.

Personalmente sono favorevole a un inquadramento quanto più preciso e puntale quando si parla di storia dei “movimenti” e di tradizioni di lotta, quando si corre il rischio di fare, come si suol dire, di tutta l’erba un fascio. Esso è preliminarmente utile e doveroso al fine di chiarire a priori di cosa si sta parlando, altrimenti un confronto serio può diventare molto complicato e quel che resta non portare effettivamente da nessuna parte.

Ma se alcuni argomenti vengono usati per denigrare, in modo intellettualmente quanto meno ipocrita e talvolta anche vile e volgare, tutte/i coloro che fanno proprie certe analisi e pratiche, questo è sinceramente irricevibile. Un repertorio costituito da lamentele del tenore di “non si può più tenere le gambe larghe sull’autobus”, “non posso più grattarmi i coglioni in pubblico perché mi diranno che non posso”, “se mi tolgo la maglietta sono un molesto” ne è solo un piccolo esempio. Io credo che grattarsi o meno i coglioni in pubblico sia una questione di eleganza e buone maniere che ovviamente non sono obbligatorie, ci mancherebbe altro. Ma se uno/a ne fa un argomento di discussione politica – ritenendolo addirittura pertinente e indicatore di una tendenza sociale – per attaccare tutto un insieme (e cioè il vero obiettivo della sua critica), è un poveraccio, sia a livello politico, che umano.

Giustamente, un conto sono le chiacchiere da osteria, un conto i contesti di discussione e confronto politico. Sarebbe quindi opportuno tenerli ben separati, c’è già abbondanza di indegni figuri di ogni genere che infestano la nostra quotidianità ripetendo concetti molti simili per mezzo di ogni tipo mass media.

Per chiudere queste abbastanza banali riflessioni, sento di fare un’ultima considerazione.

Anche da qui infatti ci si domanda con sconcerto da quando in qua gli anarchici/e non si organizzano più sulla base di affinità teoriche e pratiche che scaturiscono da analisi e letture dell’esistente condivise, dalla convergenza su metodi e prospettive di intervento su di esso, ma invece pensano e costruiscono, per fare degli esempi, fiere dell’editoria, momenti di discussione, iniziative di qualsiasi genere come fossero convegni di partito, plenarie sindacali o conclavi?

Da quando in qua gli anarchici/e si fanno remore ad escludere chicchessia col quale ritengano non possibile organizzarsi o condividere percorsi di qualsiasi tipo?

Da quando in qua, aver ben chiaro chi non si vuol avere intorno e definirlo in modo netto, è diventato autoritario?

Se le cose in realtà sono sempre andate diversamente e non ce ne si è resi conto, ci si è persi evidentemente qualche pezzo e ne prendiamo atto.

Incazzarsi come vipere, sentirsi offesi e minacciati dalla constatazione di non essere graditi/e – la stessa reazione si manifesta spesso anche nei confronti del separatismo – non è da libertari, ma da quadri di partito, che come tali ragionano. Qui risiedono, latenti o palesi, dinamiche e aspirazioni di potere, indirizzo, controllo..

Considerare propri nemici tutti/e coloro che non sposano la linea e che portano avanti analisi e lotte in modo indipendente, è modo d’azione da Partito, quello dell’unità che vorrebbe agire come una pialla su tutto ciò che percepisce come al di fuori e altro da essa. Quello che ammette gregarismo e delega, non autonomia di pensiero e azione.

Quale classe, quale lotta

Proseguendo nella lettura di “Da pari a pari” si trova l’esposizione – di una superficialità che ha del grottesco (veramente in buona fede?) – di una tesi secondo cui i diversi livelli di articolazione e stratificazione su cui si regge il sistema di dominio, basati su genere, appartenenza etnica, luogo d’origine (per citarne alcuni, mi si perdoni la superficialità), non sarebbero degni di alcuna seria considerazione, ma anzi sostanzialmente irrilevanti, un’invenzione di accademici (americani e francesi, s’intende) iper-sensibili, perché in realtà l’unico, tangibile e concreto piano di dominio è quello dello sfruttamento economico. Uso l’espressione “sfruttamento economico” e non “classe sfruttata” per motivi che proverò a chiarire più avanti.

Ammettere che l’unica (e prima?) forma di oppressione sia quella dello sfruttamento (economico) dell’uomo sull’uomo e che poi, a cascata, sarebbero da questa scaturite tutte le altre forme di oppressione differenziali su determinate “categorie” – e non invece e piuttosto l’inverso – suona come una cantonata, discutibile anche e soprattutto da un punto di vista storico.

Prendendo ad arbitrario riferimento l’emergere e il successivo sviluppo del sistema politico-economico capitalista, l’oppressione delle diverse componenti sociali, l’assoggettamento e la devastazione di popolazioni e territori – sulle basi di quella divisione mondiale del lavoro e dell’estrazione di risorse che tuttora perdura – sono stati assunti a sistema proprio perché era da essi possibile estrarre infinitamente maggiori margini di profitto e di accumulazione, per chi deteneva il monopolio della proprietà e quindi della violenza.

Gli albori e l’affermazione dell’economia e della società capitalistiche ce ne forniscono l’esempio più recente, andandosi a strutturare a partire dai secoli XVI e XVII intorno a tre direttrici, fondamenta principali della cosiddetta “accumulazione originaria”: esproprio delle terre e delle risorse comunitarie delle comunità rurali europee possibile grazie alla cacciata, al tentativo di eliminazione – diretta o indiretta – e infine all’inurbamento delle popolazioni che da essi traevano il loro sostentamento e il loro modo di vita; massacro di migliaia di donne ai fini della cancellazione di saperi e pratiche tradizionali da loro custodite nella cornice di quelle stesse comunità rurali (nota come “caccia alle streghe”) a tutto vantaggio del metodo scientifico e della nuova medicina “professionale” allora emergenti al servizio del capitalismo nascente; colonizzazione e sterminio della popolazioni native delle Americhe e successiva tratta degli schiavi dai territori dell’Africa occidentale verso le colonie europee nel continente americano.

Sfruttamento della natura, dominio patriarcale, schiavitù coloniale. Oppressione e assoggettamento di ben definiti ambiti, umani quanto inorganici.

Lo sfruttamento non ha mai messo tutti gli sfruttati/e sulla stessa barca, il capitale non ha mai sfruttato indifferentemente, né ai suoi albori, né mai.

I 5 indiani sostengono che “un capitalismo senza razzismo, sessismo e persino senza generi e differenze “razziali”, potrebbe, almeno in astratto, esistere”. Forse nelle loro astrazioni sì, nella realtà storica degli ultimi 5 secoli fino all’oggi, no. Questo Marx non l’aveva intravisto e alcuni/e dei suoi seguaci non lo intravedono ancora.

Senza capitale e senza classi, senza padroni e sfruttati/e, si aprirebbe un’era di libertà per tutti/e?

Da quel che è dato sapere, il sistematico sfruttamento economico e l’emergere di “classi” identificabili come tali è stato anticipato di millenni da molteplici forme di oppressione – mai identiche fra loro ed emerse in luoghi ed epoche diverse nel corso della storia – quasi mai stabili nel tempo e nello spazio.

L’assunto poco sopra esposto, appare quindi nella forma di un dogma.

Non è questa la sede in cui addentrarsi in un lungo approfondimento di questi temi, chi vorrà potrà certamente trovare altrove trattazioni assai migliori di quella abbozzata qui. Addirittura, bello o brutto che sia, anche in lavori provenienti dall’accademia, da studies che ben pochi/e metterebbero in questione per il fatto che questi, a differenza di altri, convincono e sono comodi per tutti/e.

A questo punto merita inoltre, a mio modo di vedere, interrogarsi sul concetto di “classe sfruttata”. A quale – si presume omogenea? – classe sfruttata ci si riferisce esattamente?

Una classe è tale solo se ha coscienza di sé, solo se fatta di individui che hanno coscienza di appartenere a un dato insieme (sfruttati/e ma anche sfruttatori/ici, s’intende). Altrimenti, nel caso degli “sfruttati/e” si è solamente, tristemente, di fronte a complici del proprio sfruttamento. Non basta essere accomunati/e dal fatto di vendere il proprio tempo, il proprio corpo, la propria dignità, la propria intera vita per un salario per potersi considerare tutti/e parte di una classe sfruttata.

Sulle basi di una lettura meramente materialistica dei rapporti economici si può assumere che sia così, in presenza di questi sommari criteri la “classe sfruttata” appare definibile, uniforme, omogenea; su di un piano etico-politico, no.

Bisogna avere chiaro, aver coscienza, dei propri nemici di classe e della propria posizione, in opposizione, a questi.

Quando e fino a che punto siamo in presenza di sfruttati/e (coscienti) o invece di complici del proprio sfruttamento?

Nel caso della classe padronale, non si nutrono dubbi sul fatto che i suoi/e componenti, ad ogni livello, siano molto ben consci/e del loro collocamento nella scala della gerarchia sociale ed economica e di quali siano i propri nemici/che, i tempi che corrono sono qui a dimostrarlo.

Quella di complici, più o meno convinti/e e assuefatti/e, del proprio sfruttamento sembra invece essere – alle nostre latitudini – proprio l’odierna condizione di una larga parte delle masse sempre più brutalmente sfruttate e asservite.. Purtroppo – e per ragioni che ancora una volta non è qui il caso di indagare – ci si trova, e non da adesso, di fronte all’adesione a norme, valori, desideri e stili della classe padronale, di quella borghesia in via di rapido immiserimento alla quale, purtuttavia, si guarda ancora e sempre con immutato desiderio di rivalsa e imitazione. Una “classe sfruttata” sempre più attivamente artefice della riproduzione sociale che la stritola ogni giorno di più.

Non sempre e non dappertutto, certamente.

Senza pretese di sapere cose che non so, l’invito ai 5 indiani è di abbandonare per un momento le grandi praterie del pensiero e spostarsi per un pò di mesi in qualche contesto di fabbrica (ma probabilmente quasi ogni altro comparto lavorativo servirebbe allo scopo) per farsi un’idea di che aria tira ai nostri giorni nelle file della cosiddetta “classe sfruttata” – soprattutto ma non unicamente autoctona – capirne le dinamiche, i valori di riferimento, le tensioni, il quadro esistenziale di riferimento.

Risulta per me preoccupante leggere che gli operai vanno sempre sostenuti nelle loro vertenze, persino quando “dicono cazzate” (anche se non si “sacralizzano le mani callose”). Qui non si capisce bene se la tensione è quella all’immolazione sacrificale per la suddetta “classe” in vista della rivoluzione proletaria, a un paternalismo dai connotati infantilizzanti, a una saccenza da supposta avanguardia operaia, o cos’altro. Dall’abolizione del lavoro salariato al sostegno a tutte le vertenze operaie, anche delle “cazzate”.

Forse che il nostro intervento in situazioni di conflittualità dovrebbe avere maggiore costanza, dedizione, incisività, senza troppa puzza sotto al naso? Forse.

La domanda che pongo, prima di tutto a me stesso, è se valga ad oggi veramente la pena investire impegno ed energie in progettualità dirette a (del tutto potenziali) orizzonti di lotta a cui siamo, spesso anche se forse non sempre, estranei. È forse più sensato e urgente dirigere la nostra determinazione, volontà e azione verso tutt’altri obiettivi, con in molti/e peraltro fanno? Secondo me sì.

Assumendomi il rischio di apparire oltremodo retorico, credo che, da anarchici/e, non dovremmo allontanare, quantomeno dalle nostre elaborazioni teoriche e pratiche, e con tutto ciò che questo implica, l’orizzonte dell’insurrezione ingovernabile e dis-ordinata – non dis-organizzata – nella prospettiva della rivoluzione sociale, non con alle spalle una “classe sfruttata” da guidare alla meta (come avanguardia?) ma con affianco quella parte di umanità oppressa che non è ammiratrice in segreto di questo mondo, che non cerca una rivoluzione delle condizioni date, ma il loro sovvertimento, la loro eliminazione, che anela alla distruzione di questo mondo e dei suoi simboli. Che magari prova in tutti i modi a non farsi sfruttare, per la quale la linea di demarcazione tra legale ed extralegale è molto relativa, per cui non esiste scalata sociale e che, cosa forse più importante, ha poco o nulla da guadagnare dalla propria condizione di sottomissione.

A quale umanità potenzialmente pericolosa per il dominio e i suoi progetti guardare?

Secondo me, proprio a quella parte di umanità con cui abbiamo, mi sembra, meno a che fare, quella con cui non sappiamo in realtà granché parlare, a cui non sappiamo bene cosa dire. Quella parte di umanità ai margini, reietta, espulsa, rinchiusa nei ghetti a cielo aperto o scaricata nelle carceri e nei Cpr, quelle vere “eccedenze”, quegli “effetti collaterali” non graditi e non facilmente gestibili coi mezzi della servitù salariata, coi nuovi balocchi elettronici ogni sei mesi, il suv a rate, i pacchetti vacanze dall’altra parte del mondo una volta all’anno.

I “dannati/e della terra”, citati en passant in “Da pari a pari”, non sono preoccupati degli studies venuti dall’America, non lavorano alla Stellantis o nelle ferrovie, di norma non frequentano le nostre assemblee. Piaccia o non piaccia, non condividono la stessa “classe” dello sfruttato/a italiano/a o europeo/a e con questi/e quasi mai si organizza. I “dannati/e” sono quelli che affollano le galere amministrative e penali, i distretti del caporalato agricolo, le periferie delle metropoli, i cui corpi giacciono a migliaia sul fondo del Mediterraneo e a cavallo dei valichi di frontiera.

Si potrebbe obiettare, e a ragion veduta, che le osservazioni fatte sopra a proposito della condizione di una ipotetica “classe sfruttata” siano valide anche quando riferite alle frange sottoproletarie delle campagne e delle città. Certamente, difficilmente sarebbe la maggioranza di questi/e a desiderare la sovversione del sistema di dominio esistente, a condividerne le ragioni e i presupposti, a far proprio un orizzonte senza autorità né sfruttamento. Se non altro perché almeno una fetta di torta, almeno una, la vogliono in molti/e.

Una significativa differenza, secondo me, sta però nel fatto che a queste persone il dominio invece non riserva nemmeno il fantasma di uno stato sociale moribondo da tempo a cui aggrapparsi (come per la popolazione autoctona) al fine di giustificare la propria ragion d’essere, non si preoccupa della loro “integrazione” sociale (o almeno non più), ad essi è consentito lavorare da schiavi/e alla riproduzione del profitto e dell’ordine sociale dato, finire in gabbia oppure morire in mezzo al mare, in un cantiere, in mezzo ai campi, o durante un controllo di polizia.

Come fare ad almeno provare a testare la possibilità di affinità concrete con gli ultimi e le ultime nella gerarchia economica e sociale è e rimane un enorme e serio problema alla cui soluzione qui non si è in grado di tracciare vie certe, ma di cui forse varrebbe la pena occuparsi.

Banalità di base (II)

Se sui muri delle università occupate invece di appelli alla distruzione di questo mondo si trovano cartelli con codici di condotta, o se, purtroppo, per molti/e l’orizzonte di sovvertimento della realtà data consiste principalmente in un’ossessione per il linguaggio e le desinenze (talvolta, peraltro, assumendo solo carattere di posa e ben poco altro) o ancora, se l’organizzazione di qualsivoglia attività deve avvenire via chat oppure non essere, anche questi sono fatti che riguardano tutti/e, non solo alcuni/e.

Sentirsi minacciati/a da questo non ha alcun senso, manifestazioni paranoiche a parte. Dovrebbe semmai impensierire il fatto che oltre a queste espressioni, spesso non si ravvisa molto altro degno di nota.

Il problema della/e identità, in sé e per sé, è un falso problema e in senso assoluto significa poco. Ciò che è dirimente è se questa stessa identità si dà una coscienza, una prospettiva di lotta non gestibile contro l’esistente oppure no, nel qual caso corre il rischio di diventare solo una delle tante forme di alternativismo. Il punto centrale è che cosa essa fa o non fa di sé stessa. Se essa si dà metodi e mezzi di attacco non recuperabili alle condizioni dell’oppressore o se invece finisce per essere stampella e sostegno a queste stesse condizioni. Le lotte indipendentiste che sono lotte anticoloniali o le “battaglie” per insegnare i dialetti nelle scuole pubbliche.

La morsa repressiva che non fa che stringersi da ormai diversi anni a questa parte, con i suoi strascichi di frammentazione, annichilimento di intere realtà, isolamento, scoramento e angoscia, ha sicuramente la sua parte di responsabilità e questi sono, d’altronde, tra gli obiettivi che da sempre la controparte persegue. Ma a mio modo di vedere è sicuramente anche un problema di mancata trasmissione di teorie, metodi, saperi e conoscenze, che non crescono sugli alberi ma dovrebbero continuare a essere passate da una generazione all’altra. Se ora siamo di fronte a quella che a me sembra una sorta “cesura” in via di ampliamento tra “generazioni”, questo è anche da imputare a una certa incapacità – acuita secondo me in particolar modo dal modo di vita digitale in cui tutti/e siamo invischiati/e – di portare avanti nel tempo, di dare continuità, a questa trasmissione di un patrimonio assai ricco e dalla lunga storia, quanto mai necessario e attuale. Sul perché ciò avvenga, ognuno/a avrà la sua idea, posto che essa sia condivisa.

Tuttavia l’urgenza di trovare soluzioni e vie d’uscita a questo stato di cose è forse la prima e fondamentale contromisura alle mosse del nemico, affinché non ci si riduca col tempo a essere in grado di mettere in campo solamente forme di opposizione sì certamente necessarie, ma anche altrettanto simboliche, spettacolari, prevedibili, facilmente spendibili.

Anche alla luce dei semplici ragionamenti fatti fin qui è urgente, a mio modo di vedere, la necessità di darsi, il prima possibile, all’attacco distruttivo contro l’infrastruttura che rende possibili e operanti le gabbie tecnologiche e digitali che mantengono ed espandono il dominio, le vere responsabili, le prime determinanti, dell’annichilimento delle individualità, di quelle potenzialmente ribelli in primis, ma anche di tutte le altre. L’infrastruttura materiale che rende possibile guerre di accaparramento e sterminio altrove, la prospettiva della guerra planetaria in fase di concretizzazione, alienazione pacificata e complicità nei progetti di sottomissione in questa parte di mondo.

Non potrà mai esistere un mondo senza autorità, né insurrezioni che tentino di aprire la via verso la sua realizzazione, in un mondo di relazioni tecnologicamente mediate da macchine “intelligenti”, per un’umanità diminuita e ridotta a complice della sua disperazione ed eliminazione, con chatGPT come sua migliore amica. Un’umanità con la quale, se l’alienazione tecnologicamente mediata continuerà a marciare alla velocità alla quale assistiamo, non sarà solo difficile avere a che fare, quanto piuttosto impossibile.

È la guerra sociale quella in cui dovremmo continuare a mettere i nostri energia e impegno. Non ci servono soldati politici o figuranti economici interessati a trarre il massimo valore dal loro lavoro o a migliorane le condizioni, non mandrie di gregari convinti dalle nostre ragioni.

Non mandrie, ma gruppi di affini.

Per “sabotare la guerra” ci sono un sacco di cose che si possono fare, ci si occupi di quelle.

Un anarchico

UN CALZOLAIO VAL PIÙ DI RAFFAELLO

Diffondiamo sempre a proposito dello scandalo dell’eslcusione e dell’orrido “pamphlet” uscito di recente su qualche sito di area anarchica*:

UN CALZOLAIO VAL PIÙ DI RAFFAELLO[1]

Mi è sempre piaciuta la polemica, la trovo un’attività che sollecita la capacità di riflessione. Se vogliamo siamo anche pertinenti all’argomento tanto caro agli scriventi considerando che il termine deriva dal greco “πολεμικός” che significa “attinente alla guerra”. Ma lasciamo i sofismi agli intellettuali.

Voglio chiarire subito che non mi trovo a dover difendere nessuna Chiesa (non ero tra gli organizzatori/organizzatrici) ma nemmeno nessun Impero (non erano i tre moschettieri  al servizio di Luigi XIII nel romanzo di Dumas? Gli stessi che hanno consegnato Mylady al boia condannandola a morte per poi diventare uno un prete, uno un barone e uno un contadino – scegliete voi, che dite di essere contro la guerra ma vi firmate col nome di coloro che alla guerra partecipavano a fianco del re); preferisco, a livello ideale, appartenere a quel branco di selvaggi e selvagge dell’isola di North Sentinel chiamati dai dominatori Sentinelesi, popolo che nel novembre del 2018 uccise un missionario americano che voleva convertirli al cristianesimo, nel 2006 due pescatori di frodo arenatisi sulla riva delle acque intorno all’isola e che già dalla metà del 1800 rifiutavano i contatti con i funzionari britannici.

Mi pare di scorgere, nello scritto pubblicato, giusto una punta di livore per non essere stati “invitati”, in qualità di autorevoli pensatori in ambito anarchico, al dibattito sulla guerra delle ore 18 di sabato 6 aprile dal titolo _Estrattivismo: pietra angolare del capitalismo europeo in guerra. _Forse il tema per come era trattato, quindi nelle sue caratteristiche qualitative, non soddisfava i criteri della Santa Sede e se un argomento non viene esposto secondo le direttive della Dottrina vigente chiunque ne dibatta in termini differenti può essere tacciato di eresia … Un dubbio sorge: non è che forse sono stati loro stessi ad essersi sentiti esclusi perché hanno frequentazioni con persone responsabili negli ultimi anni   di atti autoritari nei confronti di compagne (alcune delle quali messe alla berlina con scritti indecenti) o loro stessi ne sono autori?

Se il fine non giustifica i mezzi per deduzione logica l’anarchia non può giustificare che certi libri – e i loro editori indicati come autori di violenze – seppur parlino di anarchismo, girino indisturbati in ambienti che hanno la velleità di dirsi anarchici. Immaginiamo però che _il compromesso_ sia una delle contraddizioni con cui questi saggi hanno imparato a convivere fino ad erigerlo ad _etica_. Conviene quindi attaccare chi prova a sollevare il problema della violenza di genere (non come_discriminante fondamentale_ – così suggeriscono Portos, Aramis e Athos – bensì come _presa in carico_ che gli organizzatori e le organizzatrici si assumono nello squarciare il silenzio che da troppo aleggia) invece che partire da sé e porsi la domanda al contrario: chi stiamo escludendo quando ad un’assemblea, un’iniziativa, una presentazione, un corteo è presente una persona che ha usato la violenza come mezzo di sottomissione e oppressione nei confronti di un’altra persona (se evitiamo il genere va meglio?). Chi stiamo escludendo quando non facciamo nulla per allontanare la prima? Che alternativa viene offerta a chi ha subito l’oppressione se non quella di stare nello stesso ambiente di chi l’ha costretta con la forza a subire un atto umiliante o andarsene?

Ed è in questo contesto che non è possibile un dibattito, come sostenete, perchè la vostra interlocutrice è spesso assente per mero spirito di auto-conservazione. E con quale insolenza potete chiedere un confronto (e spero non con i suoi detrattori) quando l’accusa è di infamia e menzogna?  Se concede a _chiunque_ la possibilità di esporne le proprie ragioni, perché non lo fate anche con quegli anarchici che sono interventisti? Perché non ascoltare sfruttatori e oppressori, anche loro avranno la loro buona dose di_ ragioni_ da esporre: quando un detenuto viene picchiato è perché ha aggredito per primo le guardie, quando una persona viene psichiatrizzata è perché è pericolosa per se stessa, quando un animale selvatico viene abbattuto è perché è diventato aggressivo nei confronti degli umani, quando una donna dice di essere stata abusata è un’amante rifiutata … insomma razionalmente hanno tutti le loro buone_ ragioni_, giusto?

Il metodo della Scuola di Atene si baserà sulle _ragioni_ del cervello e della conoscenza – davvero pensiamo sia tutto scibile, soprattutto all’interno di una relazione quando spesso nemmeno le persone direttamente interessate possono spiegare perché hanno tollerato abusi e umiliazioni? – Io preferisco il metodo anarchico fatto di calde viscere e cuori gettati oltre l’ostacolo ma anche di menti brillanti, mai arroganti, che quando è il caso con umiltà sanno ammettere i loro errori.
Cuori e menti aperti al continuo movimento perché sono i vecchi e nuovi poteri (anche anarchici) a voler mantenere l’ordine costituito, la stasi, il ristagno.

Come continuare allora ad essere quel flusso, quella corrente che evita la possibilità di divenire palude? Forse iniziando a chiedersi che ce ne facciamo di un anarchismo che non sa vedere la dominazione (nei casi noti di sesso maschile sul femminile)? Di un anarchismo che grida alle _prove _(purtroppo l’unico caso in cui si era tutti e tutte concordi che lei avesse subito un abuso era documentato da video che gli sbirri avevano trovato nei cellulari dei violentatori)_, _che pubblica _ritagli_ di lettere personali senza nemmeno il consenso di chi le ha scritte (pratica da solerti inquirenti), che mette in dubbio costantemente chi ha subito l’oppressione? Di un anarchismo che si fa forte del branco? Di un anarchismo che usa la parola _infamia_ come fosse senza peso? Di un anarchismo che continuare a servirsi di categorie sociali e non delle reali condizioni di oppressione individuale subite (in fondo siamo tutti anarchici, no? Solo che qualcuno ha abusato di qualcun’altra)? … evidentemente mi sfugge qualcosa … Se il fascismo è guerra lo è anche il sessismo, il patriarcato, lo specismo insomma ogni atto di dominazione è guerra mossa dai dom(in)atori verso i dom(in)ati.

Siete buffi, per non usare altri epiteti, quando riuscite a vedere la violenza di genere per mano dei “mostri sbattuti in prima pagina” nell’intera società civile ma non vi accorgete che ne avete uno seduto a fianco (è proprio il caso di dirlo!). Io credo che vivere da anarchici/anarchiche non sia insegnare agli altri/altre come farlo ma farlo in prima persona.

Già Malatesta nel lontano 1896 in una lettera scrisse _Oggi siamo in tanti a chiamarci anarchici, ma v’è spesso tra un anarchico e l’altro tanta differenza che ogni intesa è impossibile e sarebbe assurda … bisogna innanzitutto dividerci per poi riunire insieme quelli che sono d’accordo ed hanno un terreno comune di azione_. E ancora sulle pagine del giornale «L’Anarchia» si legge _Non pretendiamo che le idee qui esposte siano quelle di tutti gli “anarchici” … e non ci occupiamo nemmeno di sapere se siamo la maggioranza o la minoranza, se siamo molti o pochi. Il nostro scopo è stato quello di esporre le _nostre_ idee. Se questo deve determinare una scissione, che del resto esiste già da anni allo stato più o meno latente, che essa venga presto e sia ben netta, poiché nulla è più dannoso della confutazione e dell’equivoco._

Al netto della frase, che è inserita in un dibattito interno relativo alla questione organizzatori/anti-organizzatori, essa rappresenta una buona sintesi di quello che sta succedendo nel contesto contemporaneo nel territorio dominato dallo Stato italiano.

Ma torniamo alla guerra, quella _buona_ degli anarchici e delle anarchiche che non è contro coloro che non la pensano al medesimo modo ma contro chi favorisce forme di oppressione e chi le pratica, a prescindere che sia anarchico o meno. Non sono le parole che ci definiscono ma le nostre azioni se la nostra bussola è l’anarchia, se non capite quanto questo costituisca un problema di senso come potreste comprendere il resto?

[1] Tratto da un famoso aforisma dei nichilisti: Un calzolaio val più di Raffaello, perchè il primo fa delle cose utili, mentre che l’altro fa delle cose che non sono buone a nulla.


Link utili alla comprensione del testo:

https://ilrovescio.info/2025/07/01/da-pari-a-pari-contro-lautoritarismo-identitario/

https://ilrovescio.info/2025/04/02/lettera-aperta-sullinvito-alla-fiera-delleditoria-e-propaganda-anarchica-di-roma-di-juan-sorroche/

https://rome-anarchistbookfair.espivblogs.net/testo-di-posizionamento/

https://lanemesi.noblogs.org/post/2025/04/07/la-disputa-del-sacramento/


https://brughiere.noblogs.org/post/2025/04/30/qualche-considerazione-sullo-scandalo-dellesclusione/

https://brughiere.noblogs.org/post/2025/07/18/a-due-a-due-finche-non-diventano-dispari/

A DUE A DUE FINCHE’ NON DIVENTANO DISPARI

Diffondiamo:

A proposito di un orrido “pamphlet” uscito di recente su qualche sito di area anarchica*:

A DUE A DUE FINCHE’ NON DIVENTANO DISPARI

Tra il piagnisteo e gli atti osceni masturbatori senza consenso a mezzo stampa compiacente. cosa ci sarebbe di rivoluzionario?

Se ti credi Stirner e finisnisci per sembrare Pio e Amedeo versione giano bi-fronte (scusa la citazione generalista, adesso disambiguo: comici da prima serata di canale cinque divenuti paladini della libertà di abusare verbalmente) non sarà che ti devi ripassare l’analisi logica così la prossima volta riesci a spiegare perchè, in un testo lungo come un’agonia, passi dal mettere in discussione che un abuso sia avvenuto (perchè chi l’ha subito non ha fornito abbastanza PROVE), ad una supercazzola sull’ideologia woke?
non sarà che il borghese sei tu, quando scrivi quattro facciate solo per giustificare a posteriori il tuo diritto a stuprare? e peggio ancora, per avvisare a priori, tra le righe, chi deciderà di esporre gli abusatori di quali forche caudine l’aspettano?
non sarà che il borghese sei tu quando fingi stupore perchè addirittura lo stato, nei tribunali è più garantista verso gli stupratori, dell* compagn*? invertendo, ancora, causa ed effetto. Spero che tu l’abbia fatto intenzionalmente. non sarà che è arrivato il momento di smettere di delegare le tue filippiche e assumerti direttamente la responsabilità di questo logoro arsenale retorico con cui da anni torturi chi ha avuto la sfortuna di incrociare la tua strada, di leggerti, di accordarti fiducia?
non sarà che l’infame è chi, in ripetute comunicazioni tra il pubblico e l’informale, mentre sussurra accuse di estorsione, fornisce tutte le informazioni per identificare la sopravvissuta di un abuso?Dappertutto:”Dalla Questura al West” se fosse il titolo di un filmaccio. non sarà che non è manco la prima volta che ti sfugge una parola di troppo?
non sarà che chi pubblica questi rigurgiti di merda (“riceviamo e pubblichiamo “chapeu, Ponzio Pilato) potrebbe sfruttare meglio la propria propensione a confondere oppressi ed oppressori e ambire a testate più blasonate?

non sarà che addebitare alle persone stuprate e uccise la strumentalizzazione repressiva che il potere mette in campo sulla loro pelle serve a te e agli amici tuoi per fare finta che le lotte femministe e transfemministe non siano state tra le poche ad aver aperto una breccia nella risacca reazionaria, che proprio grazie ai compagni come te ci ha travolto, inermi. mentre te e quelli come te si facevano le pippe sui complottismi degli Illiminati che raccolgono i pompelmi coi droni?
e l’inquisizione che nomini lo sai chi ha sterminato a migliaia? te lo hanno spiegato?
perchè nomini violenze tra persone non etero cis, se si parla di un abuso per mano di un bianco etero e cis?
non sarà la stessa operazione che fa il potere quando giustifica la propria abiezione con la difesa dei più deboli,da cui avrebbe ricevuto mandato in bianco?
cosa ne sai delle alleanze e solidarietà tra il mondo queer e la resistenza palestinese che è riuscita a rompere la narrazione del pink washing di Isreale proprio contro quelli come te. Stavate aspettando con la bava alla bocca di poter ascrivere la complicità al genocidio tra i crimini del Transfemminismo.

come vedi non serve citare gli studies, per nominare tutte le violenze le prepotenze le bugie i ribaltamenti di senso a cui è disposto chi sente scricchiolare il privilegio su cui è appoggiato il proprio culo da teorico del pressappoco. le dita sporche di grasso dell’officina e dell’inchiostro del ciclostile anarchicissimo a macchiare le sudate carte. non frega un cazzo a nessuno di cosa ne pensi delle lotte de* altr* perchè i tuoi giornaletti non hanno cambiato mai una virgola delle ingiustizie di sto mondo, e fino ad ora sono serviti solo a te per dare aria alla bocca.

sai perchè parlo al singolare e mi rivolgo al singolare? perchè sei la macchietta del maschio violento e piagnone e io sono un* e mille. E sei circondato.


* DA PARI A PARI Contro l’autoritarismo identitario –  https://ilrovescio.info/2025/07/01/da-pari-a-pari-contro-lautoritarismo-identitario/

TRENTO: GABBIE NELLE GABBIE

Riceviamo e diffondiamo

5 luglio
Parco delle Coste (Trento)

ore 10
Lettura collettiva: “La Palestina è una questione femminista”

ore 13.12
Pranzo sociale veg: porta piatti, posate e cibo veg da condividere!

ore 15
Presentazione del libro “Carte, forbici, sassi – sfida da e contro le prigioni e il patriarcato” + chiacchierata FLINTA (separata)

ore 19
Aperitiva + Dj Kandeesha

– Il parco è raggiungibile con il 9 (San Vito) e con il 10 (Zeli Marnighe)
– Porta tavoli e sedie da campeggio!

per info: assembleass@tutamail@tutamail.com

CATANIA / PALERMO: PRESENTAZIONE DEL DEL LIBRO “CARTE FORBICI SASSI – SFIDE DA E CONTRO LE PRIGIONI E IL PATRIARCATO”

Diffondiamo

PRESENTAZIONE DEL DEL LIBRO ‘CARTE FORBICI SASSI’

Sfide da e contro le prigioni e il patriarcato

Questo libro è una sfida. Sfida a noi stesse nel partire da sé attraverso il racconto autobiografico di prigioniere. Sfida all’immaginario comune sul carcere femminile. Sfida alle logiche carcerarie e patriarcali. Un insieme di voci di compagne che, ognuna partendo dai suoi interessi ed esperienze personali, contribuisce alla narrazione di cosa è, oggi, concretamente, il carcere femminile, e di cosa è nello specifico per le compagne anarchiche, al fine di creare uno strumento di conoscenza che rompa l’isolamento e ci possa rendere più forti e preparate.
L’immaginario carcerario a cui abbiamo avuto più facilmente accesso  attraverso preziosi racconti orali, autobiografie, analisi e forme artistiche riguarda la sua parte maschile, ma le nostre esperienze nelle istituzioni totali hanno delle specificità che è necessario nominare per non cadere nell’appiattimento attorno al soggetto maschile inteso come universale, in questa esperienza del carcere è possibile trovare la forza di affrontarlo dentro di noi con le nostre idee e il nostro amore per la libertà.

30 MAGGIO a CATANIA – L.U.P.O ORE 18
A seguire live rap by ANAFEM (queer riot rap) e PASSA

2 GIUGNO a PALERMO – Piazzetta Sant’Agata alla Guilla (Capo) ORE 16

CILE: RIVENDICAZIONE DELL’ATTACCO ESPLOSIVO AI LABORATORI ABOTT – RECALCINE, MAGGIO NERO 2025 – CELLULE RIVOLUZIONARIE BELÉN NAVARRETE

Traduciamo e diffondiamo

Rivendicazione dell’attacco esplosivo ai laboratori Abbott-Recalcine, maggio nero 2025.

“I poveri si lamentano, nessuno li ascolta. Usando le armi, adesso li sentono.”

Le donne formano bande! Questa azione non è un atto di protesta né tanto meno di clemenza, è deliberatamente un atto vendicativo. Qualche anno fa la distribuzione di pillole contraccettive difettose da parte dei laboratori Abbott – Recalcine ha causato centinaia di gravidanze indesiderate, di fronte a questa situazione le aziende responsabili hanno proposto un risarcimento di 38.900 pesos, una somma nemmeno vicina alla metà di quanto ci è costato assemblare questo ordigno esplosivo, e anche se moltx non sono d’accordo con il metodo di azione, almeno siamo d’accordo che la somma offerta è una beffa, un’altra ancora da parte della dittatura democratica-aziendale.

I laboratori Andrómaco, Silesia e Abbott continuano a fare di queste pratiche una politica aziendale: continuare a distribuire contraccettivi difettosi. Niente di nuovo comunque. C’era da aspettarsi che, tanto i gruppi di impresari come lo Stato amministrato dal governo pluri-poliziesco-femminista di Boric e dello stupratore Monsalve, rimarranno in silenzio. Gli interessa solo la riproduzione del ciclo della povertà perché, in sostanza, il capitalismo amministra la vita e la morte per la generazione sistematica di ricchezza, indipendentemente dai danni che possono causare.

Unitx dall’affinità e dall’interesse comune per l’azione, organizziamo le nostre volontà nel campo pratico dell’informalità, lontano da tutti i discorsi vittimistici e pacificatori che posizionano l’azione insurrezionale al di fuori delle possibilità della lotta anarchica. È necessario prendere parte all’offensiva antiautoritaria con gli strumenti necessari per rafforzare il nostro progetto di liberazione.

Le nostre bombe sono state realizzate e trasportate anche con l’imperversare della tormenta e nell’oscurità del cielo. Gli attacchi infiammano l’orizzonte e allora, improvvisamente, cade la maschera della società… chi di voi può giudicare il sabotaggio? I valori dell’offensiva anarchica e l’azione rivoluzionaria si scontrano, con convinzione e coraggio, con l’alienazione capitalistica e con coloro che si coprono il volto con il velo della miseria.

Con questo attacco ricordiamo il compagno Mauricio Morales che a 16 anni dalla sua morte continua ad essere presente nell’avanzata della guerriglia urbana anarchica. In questo Maggio Nero, memoria e azione si intrecciano affinché né il tempo né le distanze cedano il passo alla rassegnazione e alla negazione della storia di lotta dei nostri morti.

Marianna, che il dolce profumo della dinamite passi attraverso i muri. Saremo con te fino alla fine!

Onore, memoria e azione per il compagno anarchico Kyriakos Xymitiris.

In solidarietà con i prigionieri anarchici e antispecisti, abbattiamo le mura delle prigioni!

Creiamo 1, 10, 100 cellule d’azione, continuiamo a scrivere con i fatti la nostra storia di lotta!

Per l’attacco in tutte le direzioni, puntiamo le nostre forze sulla creazione di un progetto internazionale!

“Potete distruggere la vita delle persone, non riuscirete a spegnere il pensiero e le pratiche antiautoritarie. Non riuscirete a spezzare la tensione rivoluzionaria, non riuscirete a spegnere l’anarchia.”– Anna Beniamino.

Cellule rivoluzionarie Belén Navarrete – Nuova sovversione


Testo originale: https://lazarzamora.cl/celulas-revolucionarias-belen-navarrete-reivindican-ataque-explosivo-a-laboratorios-abbott-recalcine/