CASSA TRANSFEMMINISTA QUEER DI SOSTEGNO PER PERCORSI PSICOLOGICI

Riceviamo e diffondiamo:

L’idea di questa cassa di sostegno per percorsi psicologici nasce dalla
constatazione che moltx tra di noi o in generale persone molto vicine a
noi si ritrovano a fronteggiare condizioni psicologiche tremendamente
precarie e spesso invalidanti. Spesso è difficile trovare strumenti
autogestiti per fronteggiare queste situazioni, specialmente nei casi in
cui il proprio benessere psicoemotivo è minato da uno stratificarsi di
traumi vissuti e oppressioni sistemiche che hanno portato a una
condizione di malessere cronico. Per questo motivo alcunx fanno la
scelta di intraprendere percorsi di psicoterapia con psicologx formatx.
O desidererebbero farlo: il fattore economico però è determinante, i
costi sono alti se non inaccessibili per moltx, per questo abbiamo
pensato che poteva essere interessante e utile creare una cassa di
supporto per questo tipo di spese.

Considerando che un percorso per essere efficace deve essere
continuativo e che per questo necessita di un investimento economico
notevole, abbiamo pensato di occuparci del sostegno mirato ad una
situazione per volta di cui siamo a conoscenza, partendo dalle
situazioni più vicine a noi, organizzando raccolte fondi fino a
raccogliere i soldi necessari per supportare un accesso alla
psicoterapia che sia continuativo e considerato adeguato dalla persona
direttamente interessata, per poi passare alla persona successiva che ne
avesse bisogno.

La cassa è transfemminista nel senso che vuole occuparsi del sostegno di
persone che non siano maschi eterocis, perché è indubbio che le persone
che subiscono l’etero-cis-patriarcato e/o altri tipi di oppressioni
sistemiche siano più soggette a questioni di salute mentale e allo
stesso tempo abbiano meno accesso alle risorse economiche necessarie. A
chi si sente coinvoltx nel tema proponiamo di organizzare raccolte
fondi, cene o altre iniziative benefit o qualunque altro metodo per
rimpinguare la cassa e sostenere le amicizie attorno a noi che hanno
bisogno di percorsi di sostegno per provare a stare meglio.

Al momento la cassa non dispone di un conto. Per chi volesse
contribuire, avere informazioni e in generale contattarci può scrivere
alla seguente mail: cassasupportopsi@riseup.net

SALUTO ALLX DETENUTX TRANS DEL CARCERE DI IVREA

Riceviamo e diffondiamo:

Qualche settimana fa abbiamo portato solidarietà allx detenutx trans del carcere di Ivrea nel contesto di un saluto fuori dalle mura del cacrere.
Quello di Ivrea è uno dei carceri in cui è presente una sezione dove le donne trans vengono segregate, costrette ad aver a che fare con secondini uomini, con spesso poco accesso agli spazi comuni e alla salute. La detenzione è una merda per tuttx, la solidarietà l’abbiamo portata a tuttx, ma ci tenevamo a fare un saluto speciale a persone come noi, per cui le condizioni detentive risultano ancora più vessatorie.
Riteniamo, come persone trans*, urgente e necessario uscire dalle proprie bolle di privilegio anche con dei gesti semplici, che facciano luce su una realtà (quella della detenzione trans e le condizioni degradanti in cui relega le persone) che spesso rimane sommersa, e che speriamo porti del calore a qualcunx con cui condividiamo una fetta di oppressione, di bisogni, desideri e rivendicazioni. Oltre a Ivrea, le sezioni con donne trans e persone transfem si trovano nelle sezioni maschili dei carceri di Roma Rebibbia, Como, Reggio Emilia, Belluno e Napoli Secondigliano. Altre sono attualmente recluse in sezioni con sex-offender, uomini gay e detenuti uomini ritenuti sessualmente “inoffensivi”. Gli uomini trans e le persone transmasc non hanno neanche delle sezioni apposite e si trovano soggettx a condizioni ancor più aleatorie e discrezionali, nelle sezioni femminili.
Come se questo non bastasse, le persone trans detenute si trovano spesso in una doppia morsa di natura istituzionale-sanitaria dove da una parte c’è uno scarso accesso alla salute trans-specifica, e dall’altra parte il diffusissimo problema della “detenzione chimica” (i.e. L’impiego di larga manica di sedativi e modulatori dell’umore) che diventa ancor più gravoso quando va a colpire una popolazione già indebitamente patologizzata e psichiatrizzata.
Per portare della solidarietà da fuori non serve molto, non eravamo molte persone, né stavolta, né qualche mese fa quando abbiamo portato della solidarietà ad un detenuto trans recluso nella sezione femminile del carcere di Rebibbia di Roma, di cui ci era arrivata voce. Come persone che vivono sulla propria pelle dinamiche di esclusione e segregazione, ci auguriamo che sempre più persone intessano reti non solo tra chi è fuori, ma anche con chi è dentro, per portare sempre più solidarietà nei confronti di chi vive quelle dinamiche in modo ancor più gravoso, per eroderle, per immaginare un mondo senza trattamenti speciali e degradanti, senza galere per le persone come noi e per tuttx.

Un gruppo di frocie trans*

Per chi volesse entrare in contatto potete scriverci all’indirizzo tuttxliberx@riseup.net

MA QUALE RIVOLTA? (OVVERO VIETATO CALPESTARE L’AIUOLA)

Riceviamo da Bologna e diffondiamo:

Premesse

Vorremmo indirizzare queste parole non solo alla rete di Rivolta Pride, con cui già ci siamo confrontat3 in diverse occasioni sia interne al percorso di costruzione del Pride sia esterne (come l’assemblea chiamata dalla CAT), ma anche a tutte le altre realtà e soggettività queer che sono parte del movimento ma fuori da questo specifico contesto o che ancora non hanno cercato e/o trovato un posto al suo interno. Vorremo quindi provare a spostare il piano della discussione al di fuori del semplice noi-contro-loro, cercando di avviare una riflessione più ampia e di coinvolgere tutte quelle persone che non si sentono rappresentate da questa “rivolta”, o che attivamente cercano di navigare e comprendere un movimento che forzatamente vuole riconoscersi in quei moti rivoltosi, invece di ammettere di essere stanco, stagnante, autoreferenziale e inadeguato rispetto ai bisogni di molt3.

La critiche che muoviamo oggi non sono rivolte a specifiche realtà e/o persone: nomi e cognomi sono stati già trattati in altre sedi e non ci teniamo a dare nuovamente la possibilità di sviare la discussione su ciò. Ribadiamo infatti che la responsabilità ricade su tutte le associazioni, collettivi e singol3 che di quella rete fanno parte, che, conniventi, non sono stat3 in grado di allontanare e/o difendersi da concezioni e comportamenti che in quel luogo non dovrebbero trovare il minimo spazio. Parliamo di connivenza perché, come abbiamo già detto altrove, i fatti sono stati denunciati in presenza di quella stessa rete; e se ci si vuol attribuire il reato di non aver partecipato interamente al percorso politico (l’obbligo di firma non ci era stato comunicato), rispondiamo che lo abbiamo fatto perché, alla luce di frizioni su tematiche politiche per noi dirimenti e immobilità organizzativa, non ritenevamo possibile un cambiamento sostanziale che partisse dall’interno di quella stessa assemblea. Al contrario, come in tant3 in questi anni abbiamo visto e vissuto sulla nostra pelle, c’è una sistematica invisibilizzazione di istanze e pratiche alternative a quelle egemoniche. Abbiamo quindi deciso di sottrarci a quel gioco politico imbrigliante e di decidere noi e per noi, dove possiamo avere davvero spazio decisionale.

La lentezza e inadeguatezza nel rispondere a quella che è la situazione materiale attuale degli spazi che attraversiamo ha nuovamente visto, come conclusione, il manifestarsi di un’ondata di violenze che hanno attraversato il corteo dal pomeriggio fino ad arrivare ai party sponsorizzati della sera. Ci interroghiamo quindi nuovamente su quel tentativo di responsabilizzarci, mentre siamo di fronte a un’assemblea che non solo rallenta i tentativi di attivazione reale di pratiche di gestione delle molestie e presa in carico collettiva di cura e autodifesa, ma tace sulle suddette violenze. Riteniamo anche che i discorsi sulla “politica dal basso” e sull’autogestione delle persone all’interno del corteo siano in questo caso vuoti e nocivi; delegare l’autodifesa, di qualsiasi tipo, senza convididere collettivamente prima degli strumenti è sintomo di una visione che non riesce ad andare oltre al proprio privilegio.

Chi siamo

La nostra rete – la Crisalide – è nata spontaneamente in seguito all’assemblea pubblica chiamata dalla CAT per il 24 giugno (“QUESTA NON E’ RIVOLTA”). Quella data ha fatto sì che un gruppo sciolto e sparso di compagn3 TFQ si mettesse in contatto, cospirasse insieme e agisse direttamente.

Siamo crisalidi perché aspiriamo e tendiamo a sfarfallare in un mondo libero da Stato, capitalismo e patriarcato.

Siamo crisalidi perché autodifes3 da strati autoprodotti e resistenti; perché autogestit3.

Siamo crisalidi perché mimetich3; la nostra sopravvivenza è garantita dall’informalità in cui operiamo e dalla multiformità dei nostri involucri, che si adattano in base al contesto.

Sui fatti del 6 luglio 2024 e la nostra incompatibilità

Come Crisalide, abbiamo cercato di trovare uno spazio per le nostre voci, all’interno della dimensione del Pride, con modalità antagoniste, conflittuali e di critica aperta, ma che non mettessero in pericolo né noi né le persone che nel corteo si muovevano. Abbiamo deciso quindi di aprire uno striscione per ogni porta attraversata, con messaggi diretti alle politiche di gentrificazione e cementificazione della città, alla speculazione sui corpi trans*, alle violenze insabbiate e allo sgombero di spazi queer autogestiti. Per ogni striscione aperto qualcunx volantinava e poco prima dell’arrivo del corteo ai Giardini Margherita abbiamo piazzato un gazebo al piazzale Jacchia, con altri volantini e un banchetto di Riduzione dei Rischi in compagnia del Lab57. Eravamo tutt3 consc3 della portata dei messaggi e di quella che sarebbe stata la loro posizione, a livello logistico. Eravamo anche preparat3 a eventuali contestazioni, ma non ci saremmo mai aspettat3 un attacco violento partito dalla testa del corteo, e di questo ci sentiamo in dovere di parlare.

All’apertura dell’ultimo striscione, che recitava “Ma quale rivolta…con chi sgombera spazi queer autogestiti”, posizionato davanti alla storica sede di Atlantide, un gruppo di persone si stacca dalla testa del corteo per raggiungere l3 due compagn3, sol3, che reggevano lo striscione. La discussione è stata inizialmente intrisa di paternalismo e nonnismo, con domande quali “Voi c’eravate quando noi eravamo dentro/quando è stata sgomberata?”. Alla fermezza dell3 compagn3, che hanno cercato di portare la discussione sul piano politico, sono seguiti, con modalità molto più aggressive, insulti personali, strattoni (volti anche a togliere lo striscione dalla presa dell3 compagn3) e riprese col cellulare ai volti. Tutto questo ha anche attirato l’attenzione di una manciata di sbirri; francamente fatichiamo a non pensare che, in seguito a un’ipotetica escalation, avrebbero fermato l3 due compagn3 dal momento che in quell’istante erano loro “l3 intrus3” e ci stupiamo, ma neanche troppo, che nessunx tra l3 aggressor3 si sia preoccupatx di ciò.

Ci domandiamo come uno striscione che denuncia la legittimazione di sindaco e sbirri all’interno del Pride possa causare un’aggressione simile verso due compagn3. Se è vero che lo striscione è stato aperto in Porta Santo Stefano anche, come detto prima, per un fattore simbolico, è altrettanto vero che Atlantide è solo uno dei tanti spazi che negli ultimi anni hanno vissuto sgomberi per mano di giunte sempre più repressive.

Rigettiamo le logiche proprietarie e autoreferenziali rispetto alle pratiche di autogestione. Le occupazioni sociali sono spazi in cui creare campi di possibilità nuovi e di rottura con l’esistente, non luoghi atti a riprodurre sbilanciamenti di potere tra chi ha avuto la possibilità di vivere determinate stagioni politiche e chi no. Negli anni, il progressivo assorbimento dell’autogestione nei perimetri legislativi ha determinato l’impoverimento generale delle esperienze politiche in città. Noi tante esperienze non abbiamo avuto la possibilità di viverle proprio per le scelte che altr3 prima di noi hanno fatto, determinando la desolazione dai tratti “partecipativi” a cui assistiamo oggi.

Ci piacerebbe anche riflettere su una domanda che ci è stata posta durante l’aggressione: “Sapete cosa vuol dire trigger?”. Sappiamo bene cosa significa. Lo sapevamo, e lo sapevate, quando abbiamo raccontato le nostre esperienze in privato all3 compagn3 e alle assemblee. Lo abbiamo vissuto durante il corteo, vedendo sfilare allegramente quelle stesse realtà e persone di cui vi avevamo parlato. Lo abbiamo vissuto quando ci avete ignorat3, quando avete auspicato un confronto ma poi avete accettato a braccia aperte la loro presenza appena la nostra è svanita. Lo abbiamo vissuto quando le compagne transfem hanno subito attacchi transmisogini e nessunx ha detto niente. Lo abbiamo vissuto quando abbiamo visto sfilare molesti e violenti nonostante li avessimo segnalati più volte, difesi strenuamente perché “fatti così” o perché (fintamente) “decostruiti”. Lo abbiamo vissuto quando abbiamo assistito all’ennesima passerella di un sindaco legittimato a partecipare dopo aver sguinzagliato sbirri contro ogni tipo di dissenso. È sempre comodo nascondersi dietro allo slogan “cura transfemminista” quando riguarda solo voi, no?

Se già prima criticavamo il Rivolta Pride a causa delle dinamiche e degli elementi interni, oggi non possiamo che notare e sottolineare l’incompatibilità dei nostri percorsi. L’aggressione e la posizione di difesa che l’assemblea ha assunto verso la stessa sono solo l’ennesimo anello nella catena delle pratiche prevaricanti ed escludenti che fermentano indiscusse al suo interno. E dato che, per quanto i fiori e l’erba siano cambiati, è ancora vietato calpestare quell’aiuola, allora ne andremo a costruire una nuova, un po’ più in là.



Di seguito il testo di un volantino diffuso durante il Rivolta Pride:

Forse sono passati troppi anni dai Moti di Stonewall.

Forse è passato troppo tempo da quando la polizia picchiava e arrestava trans* e frocie, lesbiche e drag queen, perché ritenute dalle istituzioni pericolose e offensive. C’è stato un momento in cui la nostra comunità è insorta e con rabbia ha rivendicato il suo diritto ad esistere, in maniera strana e non conforme, in maniera caotica e spaventosa.

Oggi questa storia sembra essere stata dimenticata.

Certo, la prima volta fu rivolta, ma questo capitalismo estrattivista e patriarcale ci ha messo poco a capire la pericolosità sovversiva dei nostri corpi non normati e si è mosso velocemente per blandirli e spegnerli, per raggiungere un compromesso che garantisse la sopravvivenza di entrambi.

Oggi anche i corpi diversi diventano normali.

Puoi essere gay, lesbica, trans* o quello che vuoi, il potere patriarcale ti ha concesso degli spazi in cui poter esistere senza nasconderti: in quasi ogni città italiana sorgono locali, vie e a volte perfino quartieri dedicati alle persone queer, in cui la stranezza che ci portiamo addosso può essere tranquillamente ingaggiata in un lavoro o può essere spesa per aiutare a far girare l’economia. Finalmente essere frocie è normale e in ogni dove il Pride che fu rivolta si trasforma in una grande festa. Rigorosamente a giugno (o al massimo una settimana prima/dopo) carri su carri sfilano nelle grandi città esibendo al mondo tutti i modi per essere diverse… o forse tutti i modi normali per essere diverse.

In Italia il Pride è diventato un’istituzione sponsorizzata dalle grandi multinazionali e dai palazzi del potere: a Milano vedi cantare Elodie con Elly Schlein sul carro, a Roma incontri perfino Giuseppe Conte, al Toscana Pride la polizia manganella gruppi di persone queer radicali su richiesta degli organizzatori e a Bologna… a Bologna va in scena la più ipocrita delle carnevalate.

Il Rivolta Pride si presenta come auto-organizzato dal basso, come portatore di istanze radicali e come rappresentante dell’intera comunità queer, ma chiunque abbia provato a partecipare al suo pecorso di costruzione sa che queste sono solo belle parole. Nelle assemblee sono evidenti delle gerarchie precise che decidono cosa si può dire e cosa si può fare, sono presenti associazioni che spesso usano una pretesa apoliticità per nascondere posizioni liberali e apertamente a sostegno delle forze dell’ordine, sono presenti locali che non hanno nessun interesse al di fuori della spendibilità dei nostri corpi, sono presenti persone notoriamente violente e moleste protette dai loro collettivi. Manca l’autogestione, manca l’orizzontalità, mancano l’inclusività e la trasparenza delle scelte che si prendono. Manca lo spazio per un qualsiasi confronto che metta in discussione lo status quo che si è formato in città.

Dopotutto all’interno della bolla di questa comunità sembra che a Bologna essere queer sia facile, che il sindaco sia amico, che la polizia ci protegga, che le associazioni facciano tutto il necessario e che dopotutto abbiamo guadagnato abbastanza privilegi da poterci accontentare.

Al di fuori di questa bolla però i nostri corpi continuano ad essere abusati, a non trovare casa, a perdere il lavoro. Continuano a doversi nascondere per paura, rinunciano ai momenti di socialità perchè gli unici posti in cui è okay essere/essere vestite in un certo modo ti chiedono 20/30 euro per entrare. C’è chi interrompe il percorso di affermazione di genere perchè gli ormoni costano troppo, perché sono troppo difficili da trovare o perchè la patologizzazione che i centri di transizione – chiamati anche non a caso “transifici” – portano sistematicamente avanti è umiliante e a tratti direttamente transicida.

Fuori dalla bolla di questa comunità restano abbandonate a loro stesse le persone povere, le persone arrabbiate, le persone abusate e quelle politicamente schierate contro il sistema capitalistico. Restano fuori da questa comunità perchè chi ha potere al suo interno non le vuole. Restano abbandonate a loro stesse perchè sembra che mettano in pericolo i privilegi guadagnati con anni e anni di compromessi al ribasso.

Noi non ci stiamo.

Condanniamo i compromessi accettati da altri che ci vengono imposti come inevitabili.

Sputiamo su chi, protetto da accordi istituzionali, continua a prendere parola e spazio nelle piazze marginalizzando per l’ennesima volta i corpi non conformi che già vivono il disagio della povertà e della discriminazione.

Ci dissociamo dalle retoriche svilenti di chi godendo del suo privilegio bianco e borghese rifiuta di supportare chi ha bisogno di spazio e visibilità.

Sappiamo che non c’è orgoglio in un Pride e in una bolla che protegge stupratori e molesti senza alcun tipo di autocritica, responsabilizzazione o giustizia trasformativa.

Oggi ci prendiamo il nostro spazio all’interno di un corteo che troviamo misero in quanto a contenuti e coerenza e pericoloso nel modo in cui continua a depotenziare pratiche che nascono e si sviluppano nella sovversione dello status quo.

Faremo sentire le nostri voci furiose e coltiveremo le nostre relazioni avendo cura di rispettare i nostri tempi e i nostri bisogni.

Non abbiamo fretta perchè sappiamo di star combattendo contro dinamiche secolari e ben radicate.

La comunità gay che si fonda su pratiche predatorie, le varie associazioni mitemente liberali disposte a svendere qualsiasi coerenza in cambio di uno spazio, i vari locali che lucrano sui nostri momenti di socialità privatizzandoli e rinchiudendoli in 4 mura sorvegliate da qualche guardia, tutto questo è nel nostro mirino. Si godano quest’ultima festa perchè non tollereremo ancora per molto la strumentalizzazione svilente e violenta che agiscono su di noi.

Oggi ripartiamo dal nostro territorio, il nostro corpo, per risanarlo e dargli la forza e la possibilità di essere coltivato nei prossimi giorni e nei prossimi mesi. All’inizio dell’autunno raccoglieremo i frutti del nostro lavoro e ci riprenderemo le strade e le piazze di Bologna per essere apertamente orgogliose in tutti i modi che il Rivolta Pride ha cercato di boicottare.

Guardiamoci in faccia, parliamo tra di noi e continuiamo a cospirare.

Non c’è lotta senza lotta di classe, non c’è speranza senza un’ecologia pratica dei territori e delle relazioni, non c’è movimento senza gli strumenti di cura transfemminista. Non c’è liberazione sessuale se non si contrasta la normalizzazione/assimilazione avanzante.
Contro ogni norma e ogni stereotipo rivendichiamo il nostro essere mostruos3 e ci poniamo nella tradizione di Pandora: tremate perchè siamo pront3 a scoperchiare ogni vostro vaso.

Link canale Telegram: https://t.me/Crisalidetfq 

BOLOGNA: SUGLI STUPRI IN VIA CARRACCI 63

Riceviamo e diffondiamo:

Qualche settimana fa ci siamo svegliatx con l’ennesima notizia terrificante: una donna ha subito degli stupri all’interno di un’occupazione abitativa a Bologna. Immediatamente è stata tolta centralità al vissuto della donna ed è iniziato un susseguirsi di ulteriori violenze: strumentalizzazioni, narrazioni stigmatizzanti, invisibilizzazione, negazione dello stupro, colpevolizzazione della vittima.

Contro la retorica giornalistica, non temiamo di dire che ci posizioniamo nettamente al fianco di chi sceglie di occupare sottraendo stabili abbandonati dallo stato o dai privati a un inevitabile decadimento e ci opponiamo all’inasprimento delle pene (come il decreto sicurezza approvato nel novembre 2023 che impone fino a 7 anni di carcere per le occupazioni abitative). Per questo lo vogliamo gridare chiaramente: RIFIUTIAMO L’USO STRUMENTALE DELLA VIOLENZA DI GENERE PER ATTACCARE LE PERSONE CHE VIVONO IN CONDIZIONI DI POVERTÀ E CHE SCELGONO DI AUTODETERMINARSI ATTRAVERSO LA PRATICA DELL’OCCUPAZIONE.

Lo scenario che si è aperto è il seguente.

Da una parte i giornali hanno riportato il fatto con toni razzisti e stigmatizzanti sia rispetto alle pratiche dell’occupazione sia rispetto alla precarietà che gli occupanti vivono a causa di un sistema capitalistico e classista. Hanno negato l’autodeterminazione delle persone razzializzate non servili che esprimono la propria rabbia in modalità che sfuggono al controllo e per questo ritenute pericolose.

Dall’altra parte, la Destra non ha esitato a manipolare ancora una volta la violenza di genere: lo stupro diventa un cavallo di troia perfetto per la politica razzista e classista che non ci pensa due volte a rendere mostro chi non ha una casa e, davanti alla negazione del diritto all’abitare che il progressismo finge di concedere, decide di prendersi ciò che gli spetta.

In una logica perversa, se la donna che subisce violenza è anche una donna che subisce razzializzazione, ciò che avviene è un attacco diretto alla comunità di riferimento. Una narrazione che ben conosciamo, profondamente coloniale e fascista, in cui la donna risulta essere nulla più che uno strumento utile alla riproduzione dello stato nazione. Il nemico è sempre fuori di noi, che sia una persona povera, nera, che viva in occupazione.

La nostra lotta solidale per il diritto all’abitare – anche e soprattutto quando questa decide di oltrepassare le forme legaliste – non può però farci tacere di fronte all’ennesimo caso in cui , ancora una volta, chi costruisce politica basandola sempre sulla cultura degli uomini non è solidale con noi, donne, trans e froc3 che subiscono quotidianamente sulla loro pelle una rete complessa di violenze. Perché se si parla di diritto all’abitare, vogliamo che venga presa in considerazione la complessità che viviamo nelle nostre vite e le violenze che possiamo subire all’interno delle nostre case perché, come ben sappiamo, spesso lo stupratore ha le chiavi di casa.

Quanto successo ci pone di fronte alla contraddittorietà dei tempi in cui viviamo – anche se non vogliamo –  e a come le riproduciamo profondamente, a quanto siano vive in noi.

Ciò che risulta più sconcertante e non può in alcun modo essere taciuto è che la dichiarazione che i giornali rilasciano da parte dell’avvocata di riferimento di PLAT – mai smentite – è che le violenze sono false, una vendetta per l’allontanamento della donna da parte dellx compagnx dall’occupazione per il suo uso di sostanze. Una donna di cui si ricorda solo la dipendenza da sostanze e la maternità, fattori che, se congiunti, immediatamente diventano deterrenti per creare l’immagine di una donna inattendibile e con lei le sue parole.

Allora ci chiediamo: com’è possibile che l’assunzione di sostanze basti per non credere alla donna che ha subito violenza e anzi, al posto di darle sostegno, viene colpevolizzata, ulteriormente stigmatizzata e lasciata sola? Com’è possibile che se è l’uomo violento ad averle assunte, le sostanze diventano la perfetta giustificazione?  Non ci siamo ripetutx per anni nelle piazze che l’uomo violento non è malato ma è il figlio sano del patriarcato? E invece, in questa interrelazione tra violenza di genere e proibizionismo, la colpa è ancora una volta della donna.

Com’è possibile che dopo anni di lotta transfemminista venga ancora portata avanti la retorica che una donna è valida solo se è una brava madre, mentre se fa uso di sostanze viene improvvisamente meno la sua credibilità?

Per questo riteniamo l’atteggiamento del movimento coinvolto proibizionista, sessista ed estramamente violento. Ancora una volta, non solo dalla Stato e dai Giornali, ma anche dai “compagni”, vediamo agire vittimizzazione secondaria contro le nostre sorelle solo perché non sono le vittime perfette, perché rompono i piani, reagiscono a ciò che subiscono, perché non si arrendono al potere maschile e alla normalizzazione della società.

Abbiamo atteso per settimane una smentita di tali orrende dichiarazioni, un passo indietro su ogni singola parola pronunciata, ma al suo posto c’è stato solo un sordido silenzio. Al contrario, siamo state costrette a leggere un testo di lancio all’iniziativa di oggi, 18 luglio, di PLAT, un comunicato strabordante di paroloni e vuota retorica in cui, ancora una volta, non si prende parola sullo stupro e sulle dichiarazioni che negano e sminuiscono la voce della donna che ha subito gli stupri, agendo ulteriore violenza, questa volta da parte della comunità.

Quel testo è per noi solo una vetrina in cui si è voluto mostrare la propria bravura e dedizione alla causa e che, in barba a ogni analisi e pratica transfemminsita, osa appropriarsi dello slogan “Sorella io ti credo”. Ma settimane fa non ci era stato invece detto che non solo non le si credeva, ma che il suo era un tentativo di ritorsione?

Si crede alle sorelle solo quando queste risultano utili per proteggere interessi altri – che non contemplano la cura delle soggettività femminilizzate – ma che vogliono solo tutelare i “compagni” e le loro lotte.

Per questo siamo chiamat3 a dirlo di nuovo, forte e chiaro: LA RESPONSABILITÀ POLITICA DI QUESTA DINAMICA È ANCORA UNA VOLTA COLLETTIVA. Uno stupro che avviene all’interno di una comunità è qualcosa di profondamente drammatico e doloroso, non solo per la donna che ha subito le violenze, ma anche per il suo contesto di prossimità. Non banalizziamo il dolore e la fatica: anche noi abbiamo avuto vicino persone violente e sappiamo quanto sia straziante stare a contatto con ciò che lo stupro porta con sé. Ma il punto è la presa in carico collettiva che si fa davanti alle violenze.

In un gruppo politico che dovrebbe rappresentare un luogo trasformativo rispetto a certi processi si fischietta l’antico motivetto che fa da colonna sonora allo Stato: bisogna difendere la società.

Davanti a un trauma enorme che ha prodotto una frattura così significativa, con buona pace del nostro sentire rivoluzionario, si riproduce in una perenne continuità quotidiana la brutalità patriarcale.

Le narrazioni portate avanti e le azioni agite mettono in evidenza la problematicità delle strutture organizzative chiuse che millantano l’intersezionalità delle lotte, ma che in realtà settorializzano la collettività nelle loro pratiche e quando serve a salvarsi la faccia la strumentalizzano, stigmatizzando in maniera proibizionista le individualità che attraversano i loro spazi…null’altro di diverso dai metodi narrativi di Stato e media.

Salvarsi la faccia e negare le proprie responsabilità vuol dire anche considerarsi esenti dalle dinamiche del sistema patriarcale, negarne la pervasività, negare la possibilità di poterle facilmente riprodurre.

Risulta chiaro ad oggi che la violenza di genere è qualcosa di profondamente divisivo, anche all’interno dei contesti che dichiarano di contrastarla quotidianamente.

Intenti e politiche si mostrano anche nel riconoscere la possibilità che avvenga una violenza, prenderne atto e non invisibilizzarla. Dichiararsi transfemministi e rivendicarne i principi non basta! Cavalcare slogan e date non ci rende impermeabili al patriarcato. Portare avanti due campagne di mobilitazione all’anno non rimedia alle violenze agite ogni giorno. Non basta supportare alcune soggettività o vissuti, solo quando sono vicini a noi o ci sono utili, mentre in questo caso la tutela e il sostegno della persona sopravvissuta passa in secondo piano rispetto alla causa dei “compagni”.

Si sovrappongono dunque più piani di stigma che si incarnano nel genere, nel razzismo, nel classismo e nel proibizionismo.

Se da una parte sono i giornali a mettere tra parentesi l’esistenza di una donna facendo della violenza avvenuta uno strumento per colpire l’occupazione abitativa; dall’altra parte,  i compagni, preoccupati nel salvarsi la faccia, negano e invisibilizzano la violenza cercando di colpire direttamente la donna, colpevolizzandola e screditandola. Si alimenta così una visione distorta della donna, la cui identità e storia vengono sballottate tra giudizi screditanti e poi buttate in strada come strumento per il comodo di tutti fuorché per sostenerla. Di nuovo, una donna che ha subito violenza e il fatto che si sappia, diventano un ostacolo per chi la vuole sotto controllo. Di nuovo, denunciare la violenza rivela la possibilità quasi certa di subirne altre.

Lo diciamo a gran voce: sorella, che tu venga definita drogata, madre snaturata, ragazza difficile o ingrata, noi ti crediamo.

Alla donna che ha subito tutto questo va la nostra più sincera vicinanza.

Cagnacce rabbiose complici e solidali

ARGENTINA: SUL MASSACRO DI BARRACAS

Riceviamo e diffondiamo. Da scaricare, distribuire e stampare.

**QUESTO TESTO CONTIENE VIOLENZA FISICA ESPLICITA E LESBODIO\FOBIA*

Fonte: https://lazarzamora.cl/?p=12429

È stato lo scorso 5 Maggio alle 23:30 a Barracas ( Argentina ) l’assassino lesbicida e aggressore, Justo Fernando Barrientos di 67 anni, compie un esecuzione lesbo odiante contro le sue vicine:
Pamela Cobbas e Mercedes Roxana Figueroa, coppia che condivideva la stanza con Andrea Amarante y Sofía Castro Riglos altra coppia di lesbiche che stava vivendo temporaneamente con loro nel hotel/dormitorio di Barracas. Quella notte l’aggressore, apre la porta della stanza, butta combustibile, e lancia dentro un esplosivo artigianale mentre dormivano, dando fuoco e provocando un grande incendio.

Dopo l’attacco le donne sono state ospitalizzate. Pamela e Mercedes sono morte nelle ore successive all’attacco. Andrea è morta domenica. Sofía è fuori pericolo di vita -resta ospedalizzata con bruciature sul viso e le mani. Secondo i medici risponde bene alle cure.

UCCISE PERCHÈ LESBICHE

Secondo le dichiarazioni dei vicini: Pamela 52 anni, vendeva cosmetici e dolci, viveva apertamente il suo lesbismo, visibilizzando sui social  la lotta le lotte delle dissidenze sessuali. Viveva con Roxana Mercedes anche lei 52 anni, e entrambe “se la cavavano come potevano vendendo cosette”.

Andrea, la terza a morire aveva 43 anni, era sopravvissuta al massacro nel locale República di Cromañón ( concerto del gruppo Callejeros nel quale un incendio aveva ucciso 194 persone e fatto 1400 feriti nel 2004). La “Coordinadora Cromañón” ha denunciato che Andrea non aveva mai potuto beneficiare del “Programma per le vittime di Cromañón” ne di nessun aiuto dopo il massacro. Evidenziano anche che Andrea aveva vissuto in strada una parte della sua vita, vivendo povertà e precarizzazione, cosa che inevitabilmente l’asposta alla violenza.

Il femminicida, secondo i vicini, esprimeva apertamente la sua rabbia ” perchè erano lesbiche”. Altre volte, aveva già agito violenza su un uomo in quanto gay, che aveva finito per andarsene del dormitorio. Nella stessa maniera il lesbicida le aveva già aggredite verbalmente in precedenza, con isulti lesbodianti, grassodianti\fobici, e minacce di morte.

(…)

Sofía, oggi è l’unica sopravvissuta al massacro brutale e lesbodiante in Barracas e ha bisogno del massimo aiuto possibile per poter guarire, ricostruirsi e trovare un nuovo posto dove vivere. Se volete supportare infondo trovate i dati per i bonifici.

Le organizzazioni e\o attiviste della diversità sessuale e di genere di Puelmapu sostengono che ci sono varie angoli e intersezioni in questo orribile e brutale crimine e triplo lesbicidio. Per nominarne qualcuna, la classe, la povertà, la precarizzazione  nel quale si trovano i corpi esclusi dal sistema e dai loro familiari. Il silenzio e la banalizzazione di questo tema nei mezzi di comunicazione ( questo caso come quello del massacro in Palestina dovrebbero essere un putiferio ed uno scandalo mondiale) oltre che essere la conseguenza del rinforzarsi dei discorsi di odio grazie al governo di Javier Milei, conservatore, ultraneoliberale e odiatore delle diversità. Nel corso della sua presidenza è salito del 10% il numero di crimini di odio contro le donne, dissidenti sessuali e di genere, rispetto all’anno precedente.

Lo stato ha storicamente denigrato e scartato i corpi che non riproducono l’eterosessualità, sia progressiste o fascista come è il caso del governo argentino, che concentra i suoi obbiettivi nel rinfozare il capitalismo esterno, l’eterosessualità obbligatoria e l’eteronorma, mettendo a rischio le donne e tutte le persone lgbtiqa+.

A prima vista si nota come il conservatori e il fondamentalismi religiosi tornano ad apparire, dopo anni di lotta e resistenza dei gruppi marginalizzati, come nel caso dei corpi lesbici, delle donne e della dissidenza sessuale. In questo caso il corpo lesbico resta completamente invisibilizzato e categorizzato nella scala più bassa della società per via dei discorsi patriarcali macisti e retrogradi, qualificando come “inrazionali”, malatx,(…).

Collettività, individalità e organizzazioni argentine hanno manifestato in differenti territori per dare visibilità al massacro, denunciando la complicità dello stato con la violenza patriarcale. In altre parti del mondo come: Bolivia e $ile stanno organizzando incontri e manifestazioni per denunciare l’orrendo attacco. Chiamiamo ad agire in tutti i territori e con differenti forme.

Abbiamo bisogno di dire che le lesbiche e lesbichx esistono, che dietro ogni vita ci sono dei sogni, figlx, progetti, amori, tristezza. È necessario mantenerci organizzate, organizzare la nostra autodifesa, esprimersi, appoggiarsi, incontrarci e ritualizzare tanto la morte come la vita, condividere possibilità di sussistenza, coordinandoci contro la precarizzazione delle nostre vite senza mendicare allo sato.

E continuare a prendere parola per quelle, quellx e quelli che non ci sono più.

Per solidarizzare economicamente con Sofía.
Alias transferencia: ACIVIL.NIUNA.MENOS
Asunto: lesbianas.
CBU: 1910027855002701341732
Numero de CC 191027013417/3
Da fuori dal paese:  paypal pcortesntref.edu.ar.
PER ULTERIORI INFORMAZIONI @presenteslatam instagram

Ascolta anche l’approfondimento radio: https://www.ondarossa.info/redazionali/2024/06/triplo-lesbicidio-e-sopravvissuta

“CHI SPUTA SULLA CAUSA”? – SULLA VIOLENZA MASCHILE NEI MOVIMENTI… DI NUOVO

Riceviamo e diffondiamo:

“CHI SPUTA SULLA CAUSA”? – SULLA VIOLENZA MASCHILE NEI MOVIMENTI…DI NUOVO

Prendiamo parola per denunciare gli ennesimi episodi di violenza agiti all’interno di spazi di movimento.

Mentre la zona universitaria e le piazze di Bologna vengono invase da una forte ondata di lotte di solidarietà, succede – ed è successo di nuovo – che negli ambienti che attraversiamo vengano agite e poi coperte le violenze subite da compagne, che rimangono inascoltate e per di più emarginate.

Nei cosiddetti spazi di intersezionalità politica che in questi mesi ci hanno unite nella lotta della diaspora palestinese, alcuni dei gruppi della nostra città che partecipano alla mobilitazione riproducono, nascondono e normalizzano violenza maschile e molestie nei loro spazi e nelle loro assemblee, mettendo a tacere e allontanando le compagne che hanno provato a denunciare questi fatti.

Siamo furios3 e stuf3 di sentir parlare degli ennesimi maschi violenti che si decostruiscono in poco tempo e che continuano ad attraversare i nostri spazi nella più totale sicurezza, forti del proprio potere patriarcale.

Siamo furios3 e stuf3 di sentirci dire che I PANNI SPORCHI SI LAVANO IN FAMIGLIA.

Siamo furios3 e stuf3 di essere private di spazi che dovrebbero essere di liberazione e che invece diventano luoghi di oppressione.

Sappiamo bene che chi parla di giustizia trasformativa usando in maniera impropria e superficiale gli strumenti che ci siamo date per difenderci e contrattaccare la violenza maschile, li priva del loro portato politico e del fine per cui sono stati pensati.

La giustizia trasformativa, se non vuole essere una retorica vuota e strumentale, va agita fuori dagli spazi dove si sono perpetrate le violenze, spazi che vengono condivisi e attraversati da chi quelle violenze le ha subite e le subisce.

“Ascoltare tutte le voci” e “ascoltare entrambe le versioni” sono due mantra che ci vengono costantemente ripetuti, dando per scontato che sia la compagna che denuncia la violenza a mentire. Le fanno credere che in fondo è esagerata, che in fondo è colpa sua, perché ha avuto comportamenti promiscui, che in fondo “se l’è cercata”.

Non siamo più disposte a  tollerare violenza psicologica e manipolazione emotiva delegittimante!
Lo diciamo senza se e senza ma: SORELLE, NOI VI CREDIAMO!

Le collettività miste che si nascondono dietro al linguaggio dell’intersezionalità delle lotte, svuotandolo del loro significato rivoluzionario, sono le prime a riprodurre la cultura dello stupro. La violenza di genere non è mai una priorità nei movimenti, vige sempre una gerarchia di lotte: con questa scusa la violenza maschile viene invisibilizzata e le compagne che ne parlano isolate. Ci si preoccupa della reputazione sociale dell’uomo violento, della sua fragilità che ogni tanto lo fa “cadere in errore”, del suo benessere psichico, facendo ricadere sulla compagna che denuncia non solo la violenza subita e le sue conseguenze psicologiche ma anche il peso del doversi preoccupare per l’incolumità e la serenità dell’uomo violento. Dopo aver subito, ci ritroviamo anche a doverci fare carico della cura del violento e del suo fantomatico “percorso”.

Chi dice che dobbiamo reprimere i nostri desideri e piaceri perché “pericolosi”, che siamo noi a dover stare attente e non “provocare”, riproduce la morale sociale che vede i nostri corpi inseriti nella dicotomia violenta di puttana/buona vittima (o buona militante!).

La buona vittima, come la buona militante, deve essere moralmente ineccepibile. È colei che non mette al centro il suo corpo femminilizzato “provocatore”, che potrebbe distrarre i bravi compagni, non espone il movimento al rischio della sua frammentazione e non chiede con troppa insistenza di attuare pratiche transfemministe.

E se la nostra sessualità e ogni nostro singolo gesto vengono usati per gettare addosso a noi un’ulteriore violenza e vittimizzazione secondaria, condita di slutshaming e victimblaiming, lo urliamo con forza: Siamo tutte puttane.

Puttane, esagerate, deviate, pazze e guastafeste: siamo pronte a essere l’imprevisto che non avevate considerato, mentre reggiamo, troppo silentemente, il peso di fare politica in queste comunità terribili che la cultura degli uomini si ostina a costruire.

Se di fatto DIVENTIAMO MERITEVOLI DI SOLIDARIETÀ SOLO DA MORTE AMMAZZATE – quando possiamo rappresentare le martiri dell’ennesimo uomo di merda – noi gridiamo che della vostra solidarietà non ce ne facciamo niente.

Ed è vizioso chi suggerisce che denunciare pubblicamente dei fatti gravi di violenza reiterata, individuali e collettivi, significhi tradire la causa.

Noi stiamo incondizionatamente dalla parte della Palestina e della sua resistenza. Non accettiamo che si infici la potenza delle piazze decoloniali per comportamenti omertosi riguardo ad abuser.

Il ricatto dello “sputare sulla causa” ogni qual volta si faccia emergere una violenza nel movimento è soltanto una scusa per ripulire la facciata politica di quest’ultimo. Non accettiamo che per proteggere uomini violenti si strumentalizzino le lotte in cui investiamo anima e corpo. Chi indebolisce le lotte sono proprio coloro che insabbiano la violenza dei maschi, riaccogliendoli a braccia aperte poco tempo dopo l’ultimo abuso. Quando rivediamo i violentatori alla testa del corteo, forti di una larga agibilità politica, risulta palese quanto siano fragili e superficiali i percorsi politici transfemministi di cui tante realtà si fanno forza.

Condanniamo con decisione questo modo di costruire la comunità politica come “famiglia”, riproponendo in svariate dinamiche il nucleo eteropatriarcale e le sue ideologie repressive. Prima fra tutte è l’omertà: ogni qual volta emerga una violenza di genere, si chiede di tenerla esclusivamente all’interno del proprio gruppo politico. A violenza si aggiunge violenza: non solo subiamo, ma dovremmo anche stare zitte, rimanere sole, senza la possibilità di creare reti di sorellanza femminista.

Lo diciamo chiaro e tondo: a sputare sulla causa non sono le persone che subiscono violenza o prendono parola per questo, ma i maschi violenti che la agiscono, insieme alla collettività che li protegge. Se per la comunità diventa più importante proteggere il proprio sedicente compagno nel suo agire violenza, allora stiamo reiterando gli stessi meccanismi patriarcali che diciamo di voler abbattere.

Sappiamo che questi uomini hanno agito violenze più volte e su più persone. Sappiamo che la comunità politica afferente ne era largamente informata. Sappiamo che la decisione di insabbiare queste violenze e allontanare invece chi le ha subite è stata totalmente deliberata.

Dove non c’è responsabilità collettiva c’è violenza di gruppo. 
Una violenza di gruppo che riproduce perfettamente le dinamiche di potere e le gerarchie sociali che diciamo di combattere e da cui ci sentiamo esenti, una violenza di gruppo di cui non ci libereremo mai se si continuano a nascondere le cose sotto al tappeto pur di non mettere in discussione noi stess3 e la nostra collettività e di mantenere limpida e immacolata la sua “reputazione”.

Le compagne sanno e dopo queste ennesime violenze non lasceremo gli spazi politici a stupratori e picchiatori: vogliamo tutto un altro genere di comunità politiche, tutto un altro genere di lotte.

Non staremo zitte e non ci faremo da parte.
Per la Palestina libera, per le lotte decoloniali, per donne, froc3 e trans liber3.

CONTRO LA VIOLENZA MASCHILE
LA MIGLIOR DIFESA E’ L’ATTACCO!

Gatte randagie complici e solidali

UDINE: QUESTA NON E’ CULTURA, E’ PINKWASHING!!

Riceviamo e diffondiamo dalla Laboratoria Transfemminista Queer di Udine:

Mercoledì 8 maggio siamo andatx a dire la nostra all’evento organizzato da Vicino/Lontano, un festival che si tiene a Udine, intellettualoide e sinistroide, su cui avremmo anche tanto altro da dire a proposito di “recupero” e assimilazione di temi conflittuali, masticati e risputati come cibo digeribile per radical chic e borghesi annoiatx.
Ma torniamo ai fatti di mercoledì.
L’evento in questione consisteva nella proiezione del film/doc autobiografico di Paul B. Preciado, “Orlando. My Political Biography”. Abbiamo deciso di andarci e di prendere parola, naturalmente non per il contenuto del film che sentiamo “nostro”, ma per il luogo in cui veniva ospitato, ovvero una delle sale cinematografiche cittadine gestite dal “CEC-centro espressioni cinematografiche”,istituzione culturale cittadina, che qualche mese fa ospitava senza remore, anzi rivendicandolo, il noto “generale V.” e il suo “Il mondo al contrario”.
Riteniamo le due cose semplicemente incompatibili e siamo andatx a dirlo. Le nostre vite non possono essere usate come vernice rosa per ripitturare alcuna reputazione o coscienza.
Abbiamo preso parola appena terminata l’introduzione alla serata, che era già cominciata male, definendo la transizione un “tema disturbante” e chiusa con una sciorinata di ringraziamenti al CEC, che riserva sempre spazi e occasioni anche per temi di questo tipo (…).
Sono stati aperti degli striscioni, volantinato il nostro testo e al termine del nostro intervento ce ne siamo andatx, dichiarando che quella non era una sede idonea per vedere questo film e che lo guarderemo piuttosto collettivamente nei nostri spazi.
Non conosciamo il prosieguo della serata e non ci interessa.
Di sicuro per noi è stato importante esserci, contestare la scelta del luogo e il pinkwashing in corso e andarcene via, ma anche cogliere l’occasione per rendere nota tutta una serie di attacchi che la comunità trans* sta subendo OGGI in Italia e, senza andare troppo lontano, anche nella nostra regione.
Siamo stufx di essere “oggetti” funzionali all’intrattenimento culturale, che riempiono sale e teatri, ma poi, quando c’è da abbandonare il privilegio cis ed etero di fronte a problemi seri come gli attacchi che stiamo subendo, rimaniamo solx a prendere posizione e veniamo definitx un “tema disturbante”.

Infine vogliamo aggiungere, perchè sia chiaro, che l’”occasione” di prendere parola ce la siamo presa, non ci è stata gentilmente messa a disposizione nè dal CEC nè da Vicino/Lontano.

LE VITE DELLE PERSONE TRANS* SONO PIU’ IMPORTANTI DELLE OPINIONI DELLE PERSONE CIS e del loro intrattenimento!

In allegato il volantino distribuito, leggibile anche al post sul blog al link: https://laboratoriatfqudine.noblogs.org/post/2024/05/09/udine-questa-non-e-cultura-epinkwashing/

QUESTA NON E’ CULTURA, E’ PINKWASHING!!

Siamo presenti oggi al Visionario come rete di persone trans, queer e transfemministe per porre l’attenzione sui gravi attacchi che la comunità trans sta subendo in questo momento storico, in Italia e nel mondo. Vogliamo approfittare di questa occasione e di questo pubblico, che immaginiamo alleato, per riappropriarci di una visibilità che solitamente ci viene negata, anche quando si parla di noi.

Vogliamo partire dalla constatazione che questo spazio che ci ospita non è lo spazio giusto, e non è nemmeno uno spazio safe.

A gennaio di quest’anno, Roberto Vannacci, reazionario, omofobo, transfobico, misogino e razzista, presentava il suo sedicente libro al cinema Centrale di Udine, spazio gestito dal CEC, lo stesso ente che ospita oggi questa proiezione. In quell’occasione, mentre una parte di cittadinanza udinese sollevava quesiti e indignazione, il CEC si lavava le mani da ogni responsabilità, scegliendo di non assumere alcuna posizione politica sulla faccenda e tirando in ballo i tanto abusati concetti di “democrazia” e libertà di opinione (a sproposito come fa Vannacci, del resto).
A nostro parere, quelle di Vannacci non sono opinioni che possono essere democraticamente esposte, bensì violenti e pericolosi attacchi d’odio verso la comunità trans e queer, contro le persone razzializzate e l’autodeterminazione delle donne. Lasciare spazio e parola a posizioni di questo tenore è altrettanto grave e ingiustificabile.
Ci teniamo a ribadire che le vite delle persone trans e queer e le loro scelte non sono e non devono essere oggetto di opinione, né da parte delle istituzioni, né da parte di ridicoli figuri del calibro di Vannacci, né da parte di alcuna persona eterosessuale e cisgender.

Vogliamo anche ricordare che il CEC, lo stesso ente che all’inizio dell’anno ospitò Vannacci e che oggi ospita il film di Paul B. Preciado, in occasione del Trans Day of Rememberance 2023 negò le sue sale all’ associazione Euphoria trans FVG, che si occupa dei diritti della comunità trans in regione. Ad ottobre l’associazione prese accordi con il CEC per proiettare al Visionario un documentario, con lo scopo di sensibilizzare la cittadinanza sul tema. A novembre, a ridosso della data prevista, il CEC si “volatizzò”, ignorando le chiamate e i messaggi da parte dell’associazione, che si trovò improvvisamente, ad una settimana dall’evento programmato, senza più lo spazio dove poterlo fare e senza alcun preavviso.
Quindi va bene dare spazio alle tematiche LGBTQIA+, purché ci sia un lauto tornaconto?

A questo punto ci sembra evidente che l’unico criterio di cui si avvale il CEC per valutare a chi dare agibilità nei propri spazi è quello del vile profitto: la vergognosa presenza del generale al Centrale, che la nostra ridente cittadina ha frettolosamente dimenticato, ne è stato l’esempio più clamoroso. Più che di un’istituzione culturale stiamo parlando quindi di una sala a noleggio che non si fa alcuno scrupolo a rendersi disponibile ai fascisti che pagano bene.
Non stupisce che stasera invece ci si ritrovi qui, all’insegna della stessa libertà di opinione di cui sopra, che noi invece chiamiamo pinkwashing. Ci chiediamo cosa ne penserebbe Preciado di questa ospitata. Dal canto nostro, alla luce di quanto successo, non consideriamo il CEC una realtà safe e accogliente per le dissidenze di genere e troviamo a dir poco ipocrite e opportuniste queste scelte di programmazione cosiddette “democratiche”.

Il razzismo e i discorsi discriminatori, misogini, transfobici e omofobi, va ribadito chiaramente, non hanno nulla a che vedere con la libertà di espressione e la democrazia. Non basta una lavata di faccia con qualche evento culturale trans*friendly a mettere la pezza che rimane in ogni caso più grande del buco.

Difendiamo l’autodeterminazione delle persone trans*!

Sapendo che in questa sala sono presenti persone alleate e solidali vogliamo anche a rendere noti una serie di attacchi che la comunità trans sta ricevendo in Italia (e non solo).

A dicembre 2023 Gasparri, senatore di Forza Italia, ha depositato un’interrogazione parlamentare che attaccava la struttura medico-ospedaliera del Careggi di Firenze, una delle poche realtà in Italia che prende in carico persone trans* giovani e adolescenti.
L’interrogazione – a cui hanno fatto seguito una violenta petizione della rete anti-abortista e anti-scelta denominata Pro Vita e diversi interventi pubblici da parte di Fratelli d’Italia e Forza Italia – aveva al centro le terapie ormonali e una presunta assenza di servizi psicologici e psichiatrici a supporto delle persone giovani e delle loro famiglie. A seguire è stata effettuata un’ispezione al Careggi, i cui esiti ufficiali confermano una volontà politica di attacco ai servizi, e una virata verso una sempre maggiore patologizzazione delle persone trans.

La retorica di protezione dell’infanzia non è nuova per le destra e le ultra-destre, con un linguaggio paternalista, patologizzante e infantilizzante. Il Careggi è probabilmente al centro dell’attacco – temiamo come primo tassello di un disegno più ampio – perché è forse il centro con un approccio più solidale e meno patologizzante ai percorsi di affermazione di genere. Questo si iscrive in un quadro più vasto che vede lo smantellamento dei servizi pubblici rispetto al diritto alla salute delle persone trans* da parte delle ultra-destre conservatrici in stretta alleanza con le TERF. Così è già avvenuto in UK, a cui stanno facendo seguito altri paesi.

Per chiarire le questioni in gioco, innanzitutto non vengono somministrati ormoni alle persone trans* giovani o adolescenti, ma nei casi in cui si ritiene necessario e su richiesta della stessa persona coinvolta, con un supporto psicologico e psichiatrico, vengono forniti i cosiddetti sospensori della pubertà. L’obiettivo dei farmaci sospensori non è una transizione precoce irreversibile, nè ovviamente la “castrazione chimica”- eterno incubo ricorrente della narrazione patriarcale – o un tentativo di influenzare le scelte delle giovani persone trans* o delle famiglie ma, invece, dar loro tempo per poter effettuare scelte più mature e ponderate in seguito, tra cui anche quella di non effettuare alcuna terapia ormonale. La somministrazione dei sospensori in adolescenza può consentire alle persone giovani di genere non conforme di evitare lo sviluppo di disturbi dell’ansia, depressione, stress, difficoltà psicologiche e pensieri suicidari. Immaginate le conseguenze di un attacco che mira alla chiusura dell’unico servizio in Italia che prende effettivamente in carico queste persone!

Dell’eventuale somministrazione dei sospensori della pubertà lx genitori (o tutorx) sono sempre informati, tramite consenso informato secondo le normative attuali inerenti ai soggetti minorenni (art. 3 della legge n. 219/2017). Questi farmaci sono prescritti come da Determina AIFA n. 21756/2019 del 25 febbraio 2019 (dopo parere favorevole del Comitato Nazionale di Bioetica in data 13 luglio 2018) solo dopo attenta valutazione multiprofessionale, con il contributo di una équipe multidisciplinare e specialistica, composta da neuropsichiatri dell’infanzia e dell’adolescenza, psicologi dell’età evolutiva, bioeticisti ed endocrinologici. Gli effetti dei sospensori della pubertà si interrompono quando si smette di assumerli e lo sviluppo puberale riprende organicamente. I sospensori della pubertà sono considerati sicuri dalla comunità scientifica internazionale.

Il farmaco di cui si parla così tanto, la triptorelina, è impiegato per modulare la produzione di ormoni sessuali endogeni (quelli prodotti dal corpo) in modo reversibile, sia nelle persone in pubertà che in quelle post-puberali. Appartiene ad una classe di farmaci chiamati GnRHa. Si tratta di farmaci off label, cioè di farmaci pensati inizialmente per essere utilizzati per altri scopi, come tanti altri usati nelle terapie ormonali per le persone T*. Si tratta di una condizione molto comune in una medicina che non è neutrale e non investe allo stesso modo in tutti i campi di ricerca e sviluppo. Confrontata con gli altri farmaci impiegati per la gestione degli ormoni sessuali endogeni, la triptorelina presenta un buon profilo di sicurezza. Purtroppo ad impiegarla sono pochissimi ambulatori e solo in casi eccezionali, con la conseguenza che molte persone trans* si trovano esposte a una più vasta gamma di potenziali effetti collaterali quando ad essa vengono preferiti – come è quasi sempre il caso nella popolazione trans* adulta – gli altri farmaci impiegati per la gestione del testosterone endogeno.

Il discorso si inserisce in un quadro più ampio di attacchi alla salute trans* anche rispetto a un altro farmaco per la terapia sostituitiva ormonale, il Sandrena, declassato recentemente con delibera AIFA da classe A a classe C e di fatto più che raddoppiando il suo costo per chi, per qualsiasi motivo, non è seguitx dagli ambulatori endocrinologici pubblici. Dal momento che Sandrena è uno dei farmaci estrogenici di più ampio uso nell’ambito dei percorsi ormonali di affermazione di genere delle persone transfem*, ci risulta difficile non leggerla come l’ennesima aggressione contro i già pochi diritti delle persone trans*.

In questo quadro rientra la polemica mediatica scatenatasi attorno al caso di Marco, il ragazzo trans rimasto incinto di cui hanno parlato i giornali a gennaio 2024. Marco ha scoperto della gravidanza durante gli esami di controllo per l’isterectomia: il dibattito che ne è seguito è stato violento e sopprimente dei diritti riproduttivi delle persone trans*. Nonostante non ci siano ricerche mediche in tal senso, le persone trans* possono riprodursi. Mentre per le donne cis la gravidanza viene di fatto obbligata ostacolando pratiche abortive, per le persone trans* l’interruzione di gravidanza viene data per scontata come unica opzione. Del resto, fino al 2015, in Italia la sterilizzazione era necessaria per accedere alla rettifica dei documenti anagrafici.

Un altro segnale molto allarmante arriva dall’apertura, all’interno dell’ospedale privato Gemelli di Roma, di un “Ambulatorio multidisciplinare per la disforia di genere”, operativo dal 14 marzo, e indirizzato principalmente alle persone minorenni che si stanno interrogando assieme alle loro famiglie. L’ambulatorio si occupa di “supporto” psicologico e psichiatrico, ma tutti gli elementi a nostra disposizione fanno ipotizzare trattarsi di vere e proprie “terapie riparative” per il ritorno all’auspicata “normalità” dei ruoli di genere. Gli esperti in questione sono infatti tutti professori dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, molti dei quali si sono già distinti pubblicamente per le loro dichiarazioni reazionarie: tra questi, Maria Luisa Di Pietro, incaricata di “Bioetica e Famiglia” nel Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, che nel 2017 in un incontro sulla teoria gender nella parrocchia San Tommaso Moro affermava che «è impossibile pensare di poter essere staccati dal proprio corpo» eppure «si fanno passare idee che mirano ad appiattire il pensiero e a spegnere le coscienze», e Federico Tonioni, che sostiene l’esistenza di differenze di genere identificabile tra menti maschili e femminili. Nella presentazione dell’ambulatorio sul sito del Gemelli, la disforia di genere viene paragonata ai disturbi dell’apprendimento e al fenomeno degli hikikomori e ricondotta a una conseguenza della pervasività di internet nella nostra era, con una prospettiva decisamente patologizzante.

Parlando inoltre di quanto avviene in regione, le liste per le operazioni chirurgiche presso l’ospedale Cattinara a Trieste sono state bloccate senza nessuna spiegazione. Nonostante questa sia stata più volte richiesta e sollecitata, attraverso lettere di interrogazione al consiglio regionale, tutto tace. Sempre in sordina e senza spiegazioni, sono passati da gratuiti a pagamento i processi che permettevano la conservazione della fertilità della persona trans, prima che questa iniziasse la terapia ormonale (che come si sa, a lungo andare, rende la persona non più fertile).

Quest’epoca storica vede le persone trans* in Italia e nel mondo subire attacchi pervasivi e quotidiani, alimentati da una presenza sempre più frequente delle destre al governo, che trovano su questi temi alleanze con le forze cattoliche ultraconservatrici e una parte del femminismo radicale nella sua corrente TERF (Trans Exclusionary Radical Feminism): tutto questo si riversa su un piano mediatico di disinformazione e divulgazione transfobica.

Il”terfismo”, che si propone come ideologia femminista contrapposta a transfemminismo e teorie queer, è essenzialmente una negazione del genere in quanto realtà separata dal sesso: per le terf, il binarismo è insito nella biologia, i ruoli di genere sono una realtà che emana dai cromosomi con cui nasciamo, e chiunque cerchi di porsi oltre e contro questo rigido schema essenzialistico viene accusatx di essere un pericolo sociale, particolarmente nei confronti di donne e bambinx. Non è difficile capire quale terreno comune le TERF trovino con la destra reazionaria patriarcale.

In queste ultime settimane stiamo assistendo a un susseguirsi di atti depositati alla Camera che attaccano il modello affermativo di genere italiano (che già viene applicato a discrezione), non soltanto da parte di partiti come Fratelli d’Italia o Forza Italia, ma anche da parte di Europa Verdi e dal Partito Democratico.
Il rischio concreto è che si retroceda ulteriormente su alcuni diritti minimi già acquisiti con un ritorno alla violenza coercitiva sulle persone trans* (sterilizzazione forzata, impossibilità di procurarsi i farmaci salvavita, difficoltà estreme di accesso al diritto alla salute e riproduttiva).

A fronte di questa situazuione allarmante, i movimenti LGBTQIA+ e femministi stanno cercando urgentemente di contrastare gli attacchi e le strumentalizzazioni.

Chiediamo a tuttx di unirsi a noi nella lotta, per fronteggiare e opporsi a questo clima di odio e mistificazione e per ribadire la necessità di disporre liberamente dei nostri corpi, oggi come domani!

TRIESTE: LE CHECCHE SCHECCANO

Riceviamo e diffondiamo:

Martedì 27 febbraio, con i nostri corpi e le nostre voci abbiamo portato disordine a un evento al Caffè San Marco a Trieste, che dovrebbe essere tutt’altro che ordinario: la presentazione di due libri, scritti da Silvia Guerini e Costantino Ragusa, che riportano contenuti estremamente transfobici e complottisti sulla stessa esistenza delle persone trans e queer.

Nel libro “Dal corpo neutro al cyborg postumano. Riflessioni critiche all’ideologia gender”, Silvia Guerini, sedicente anarco-ecologista radicale, sostiene che le rivendicazioni transfemministe e LGBTQ+ non trattino dei diritti di una parte di popolazione repressa, ma facciano parte di un’agenda più ampia e potente (ah ah, magari) con al vertice le Big Tech e vari padroni globali.

Gli autori incolpano il capitalismo e lo stato della diffusione della cosidetta “teoria gender” e contestano con pratiche violente la medicalizzazione dei corpi, in particolare dei minorenni che decidono di intraprendere un percorso di affermazione di genere. A marzo 2023, presso l’azienda ospedaliero-universitaria Careggi di Firenze, queste stesse persone hanno organizzato un presidio per denunciare “le conseguenze irreversibili dei bloccanti della pubertà”: un tentativo violento di sovradeterminare le scelte e i percorsi individuali delle persone trans*, invalidandone l’esperienza. Secondo le loro narrazioni, i percorsi di affermazione di genere sarebbero troppo facilmente accessibili. Peccato che gli iter serratissimi, con liste d’attesa infinite, ambienti discriminatori e pratiche istituzionali violente, dobbiamo affrontarli noi e non loro. E che i corpi medicalizzati, psichiatrizzati e messi continuamente in discussione, siano i nostri e non i loro.

Questa visione del mondo è indicativa di quanto i soggetti che la diffondono siano funzionali alla riproduzione dello stato di marginalizzazione e sfruttamento che viviamo: narra un ribaltamento dei rapporti di potere che racconta una realtà in cui froc3 e trans* sono una sorta di classe obbediente e funzionale al capitalismo, che trae guadagno e giovamento dall’attuale organizzazione della società e da chi la governa. Tutto ciò è ridicolo: alla violenza e alla discriminazione che subiamo ogni giorno sui nostri corpi (come accaduto anche martedì!) si somma l’ulteriore marginalizzazione sul piano economico, sociale, sanitario e su ogni aspetto materiale delle nostre vite.

La serata del 27 è stata l’ennesima occasione in cui persone cis-etero hanno tentato di schiacciarci, dettando regole da applicare sui nostri corpi e sulle nostre esistenze, vittimizzandosi e sostenendo che la sofferenza, l’autodeterminazione e la libertà siano retoriche che usiamo per “trasformare i nostri capricci in diritti umani”.

Il potere che queste persone hanno di spingere all’odio e alla queerfobia, di influenzare il pensiero di menti non informate, è pericoloso e mette a rischio la nostra libertà. Troviamo inaccettabile che gli sia stato messo a disposizione un luogo in cui farlo: il Caffè San Marco, che paradossalmente tra i suoi “punti forti” su google indica l’essere queer-friendly, ha concesso a queste persone uno spazio all’interno di uno dei locali storici di Trieste per diffondere messaggi di discriminazione e disinformazione.

Le parole d’odio risuonano se ci sono appoggio e ascolto, ed è per questo che abbiamo deciso di portare disturbo con la nostra presenza, di esprimere la nostra rabbia, di contestare con la nostra stessa esistenza di persone trans* quanto sostenuto da Guerini, Ragusa e Boscarol. Le checche hanno scheccato, abbiamo interrotto questo triste spettacolo di falsa informazione e contenuti queerfobici portando la nostra esperienza, la nostra rabbia, urlando assieme che “l’uomo violento non è malato, ma figlio sano del patriarcato”, nel momento in cui Ragusa ha alzato le mani su più compagn3, dimostrando in azione l’atteggiamento violento e machista che queste persone hanno verso la nostra esistenza, dimostrando che la loro intenzione è di decidere sui nostri corpi, di negarne l’esistenza e la validità.

Siamo dissidenti, siamo indecoros3, le nostre voci non saranno silenziate, i nostri corpi non saranno schiacciati, le nostre esistenze non saranno minate.

QUEER RAGE

Per approfondire lasciamo i link ad articoli di compagnx:
https://infernourbano.altervista.org/sulla-deriva…/

Postscriptum al testo “Sulla deriva reazionaria di alcuni/e “compagni/e”…”

NUOVA EDIZIONE ANARCOQUEER “COME STORMI DEL CAOS. Un progetto queer nichilista e insurrezionale”

Diffondiamo:

“COME STORMI DEL CAOS. Un progetto queer nichilista e insurrezionale”

Una rivisitazione in chiave anarchica delle teorie queer antisociali, per un progetto insurrezionale e nichilista di attacco all’esistente.

128 pagine, 8 euro a singola copia, 5 euro da cinque copie in su Collana Le Affinità Elettive.

Per ordinare il libro: anarcoqueer@riseup.net

Dalla prefazione:

[…] “Come stormi del caos” trae ispirazione da un filone particolare delle teorie queer, quello cosiddetto “antisociale”, pescando in particolare da autori e collettivi come Lee Edelman, Jack Halberstam, Guy Hocquenghem e il FHAR, ma anche da autori e autrici già riconosciutx per la validità della loro critica sociale, anche se non ascrivibili a un ambito anarchico, come Silvia Federici, Jacques Camatte e Walter Benjamin, in particolare per quanto riguarda le loro riflessioni più riuscite sul capitalismo, la domesticazione, il corpo e la storia; non facendo, in questa operazione, distinzioni tra analisi prodotte in ambito accademico e analisi provenienti da ambienti militanti, ma saccheggiando apertamente quegli aspetti della teoria che possono essere declinati in una prospettiva anarchica e scartando quello che invece è ritenuto superfluo o non condivisibile.
La prospettiva insurrezionale dell’attacco, in contrapposizione con una visione attendista che investe energie nella crescita del movimento in vista di una futura ipotetica “rivoluzione sociale”, si accompagna qui a un approccio nichilista di critica a tutti quei progetti “positivi” di riformismo, inclusività o creazione di alternative alle storture sociali, in quanto facilmente recuperabili dal potere e, anzi, materiale utile per la ristrutturazione in chiave “progressista” (e quindi ancora più totalizzante) del sistema capitalista e dello Stato.
Da qui l’idea di una queerness che, per esprimere al meglio il suo potenziale, rivendica la propria negatività, trasformando in una promessa quell’accusa reazionaria che la vede come prodromo e sintomo del disfacimento dell’ordine sociale. Una queerness che dev’essere quindi anti-politica, perché proprio la politica, nel suo progettare il futuro per garantire la sopravvivenza dell’ordine sociale, è il luogo principale della riproduzione di quell’ordine. Nel suo incrinare l’ideologia del “futurismo riproduttivo”, una queerness che si rivendica come puramente negativa va a spezzare quelle norme che rendono possibile l’assetto sociale assieme a tutti i suoi ruoli, non solo quelli di genere ma anche quelli militanti e rivoluzionari, che nella loro astrazione tentano di rendere intelligibile il soggetto del rifiuto, mantenendolo nell’alienazione e censurando la sua ricerca di gioia immediata, di conflitto, di godimento. Il futuro come ideologia, come luogo-trappola, che secondo le parole di Bædan “assicura il sacrificio di ogni energia vitale per la pura astrazione del proseguimento idealizzato della società”. […]


Ricordiamo che sono ancora disponibili le uscite precedenti delle
edizioni Anarcoqueer:

* “STREGHE ISTERICHE UNTRICI. Il ruolo della medicina nella repressione delle donne”. 172 pagine, 10 euro a singola copia, 7 euro da cinque
copie in su

* “Guerriglia Frocia. Testi di Ed Mead e Rita “Bo” Brown sulla George Jackson Brigade e il collettivo gay anticarcerario Men Against Sexism
(1975-1978)”. 112 pagine, 8 euro a singola copia, 5 euro da cinque copie
in su

* “DECOLONIZZARE LA PALESTINA. La Palestina attraverso la storia e il
rainbow washing di Israele”. 164 pagine, 9 euro a singola copia, 6 euro
da cinque copie in su

DECOLONIZZARE LA PALESTINA – La Palestina attraverso la storia e il rainbow washing di Israele

Riceviamo e diffondiamo:

“DECOLONIZZARE LA PALESTINA. La Palestina attraverso la storia e il rainbow washing di Israele”

Mentre è in corso l’ennesima tappa della guerra condotta dallo Stato di Israele contro la popolazione palestinese per la conquista dei suoi territori, pubblichiamo i testi di due persone palestinesi che ripercorrono la storia della colonizzazione delle loro terre e la propaganda di rainbow washing di Israele.

164 pagine, 9 euro a singola copia, 6 euro da cinque copie in su. Parte del ricavato del libro sarà benefit per un’organizzazione queer palestinese.

Per ordinare il libro: anarcoqueer@riseup.net

Dalla prefazione:

Al momento della compilazione di questo libro è in corso l’ennesima tappa della guerra condotta dallo Stato di Israele contro la popolazione palestinese per la conquista dei suoi territori. Una guerra che non ha avuto inizio nel 1948, ovvero l’anno della dichiarazione di indipendenza dello Stato di Israele, come ritengono erroneamente molte persone, ma è nata con lo sviluppo dell’ideologia sionista alla fine del XIX secolo, che scelse il territorio palestinese come destinazione del futuro Stato per il popolo ebraico. La migrazione di massa del popolo ebraico verso quelle terre cominciò quindi già alla fine dell’Ottocento, ma il fenomeno acquisì poi consistenza con la fine della prima guerra mondiale, quando la Gran Bretagna acquisì il controllo di quei territori strappati all’Impero Ottomano e si adoperò per sostenere con forza le aspirazioni del movimento sionista. Da allora, il popolo palestinese non ha conosciuto pace. Guerre e ribellioni si sono susseguite, ma la colonizzazione israeliana, con la conquista e il controllo di sempre nuove fette di territorio palestinese, avanza ogni giorno di più, lasciandosi dietro una scia di sangue che non è possibile ignorare. […] Con questo modesto contributo, che prevede la traduzione e la pubblicazione di alcuni testi che ripercorrono la storia della colonizzazione della Palestina e la propaganda di rainbow washing di Israele, tratti da un sito creato da due persone palestinesi residenti in Cisgiordania, speriamo di offrire un piccolo segnale di solidarietà che getti luce su quello che accade realmente in quella piccola porzione di territorio sotto costante assedio.

Prossima uscita delle edizioni Anarcoqueer prevista per gennaio 2024.

“Come stormi del caos. Un progetto queer nichilista e insurrezionale”