MESSAGGI PROIBITI: IL BAVAGLIO DIGITALE DEL QUESTORE DI BOLZANO CONTRO IL DISSENSO

Diffondiamo

Se negli ultimi mesi la Questura di Bolzano ci ha abituato al fatto di sfruttare in modo spregiudicato tutte le armi a sua disposizione per mettere a tacere le mobilitazioni in città (divieti di manifestare, denunce come quella per “invasione di terreni” per una tendata analoga a quelle di tante altre città, uso disinvolto di avvisi orali e fogli di via – da ultimo contro un compagno bolzanino residente in un comune limitrofo e con molti legami in città), ora estrae dal cilindro un provvedimento di cui non ricordiamo precedenti contro ambiti “politici”.

Nei giorni scorsi a due compagni bolzanini sono state notificate “prescrizioni aggiuntive” all’avviso orale che era stato loro consegnato a marzo con l’intimazione di “cambiare condotta” – e la minaccia in caso contrario della richiesta di sorveglianza speciale (sorta di arresti domiciliari motivati non da uno specifico reato ma da una generica “pericolosità sociale”). Come previsto dal codice antimafia, oltre a divieti grotteschi evidentemente tarati su tutt’altro genere di soggetti (come quello di possedere “mezzi di trasporto blindati”), si vieta di possedere o utilizzare “programmi informatici ed altri strumenti di cifratura o crittazione di conversazioni e messaggi”, ma soprattutto, per uno dei due si propone al Tribunale di vietare, per due anni, di possedere o utilizzare il cellulare, altri dispositivi connessi a internet e qualsiasi tipo di social network, mentre all’altro, con lo stratagemma di permettergli di usare il cellulare di vecchio tipo, non connesso a internet, si vieta direttamente, senza passare per il Tribunale, di possedere o utilizzare “gli smartphone, i tablet, i laptop che consentano connessioni dati via WI-FI o con SIM”, ed essendo legato all’avviso orale quest’ultimo divieto non ha una durata determinata, ma è potenzialmente a vita. Contravvenire ai divieti comporta “la reclusione da uno a tre anni” oltre a multe per migliaia di euro e alla confisca dei dispositivi, che saranno “assegnati alle Forze di polizia”.

Quali sono le motivazioni (almeno quelle ufficiali) di un provvedimento del genere, oltre a non aver cambiato condotta dopo aver ricevuto l’avviso orale? Nel primo caso, aver diffuso messaggi offensivi nei confronti del Questore (trasformati dalla stessa Questura e dai giornali al suo servizio in “minacce di morte”) e in generale “anti-istituzionali” (definiti “eversivi”), oltre a mantenere contatti con compagne e compagni di questa e di altre province. Nel secondo caso, “organizzare” e “convocare con strumenti telematici” manifestazioni nel corso delle quali verrebbero “sistematicamente” violate le prescrizioni della Questura e commessi reati: praticamente, la Questura ritiene che l’organizzare e il pubblicizzare iniziative peraltro regolarmente preavvisate faccia parte di un disegno criminoso che però non si deve preoccupare di dimostrare in Tribunale, adottando direttamente “misure in grado di ridurre la capacità di commettere reati”. Da rilevare che, fra i precedenti citati con tono più allarmato, figurano quello del corteo entrato in stazione per denunciare l’accordo Leonardo-Rete Ferroviaria per i trasporti militari, provocando una temporanea interruzione del traffico ferroviario – e per il quale un compagno roveretano ha ricevuto un foglio di via per quattro anni – e quello di un saluto solidale durante una battitura, che avrebbe “istigato” i detenuti “con il rischio concreto che si innescassero disordini e rivolte” come quelle in altre carceri.

A Bolzano, dall’arrivo del Questore Paolo Sartori, ci troviamo di fronte a uno scenario inedito: un nuovo podestà che si sostituisce contemporaneamente al Sindaco, ai politici di maggioranza e di opposizione, al Tribunale e ai giornalisti, scatenando contro marginali e dissidenti una guerra a colpi di misure amministrative (avvisi orali, sorveglianze speciali, fogli di via, espulsioni, revoche dei permessi di soggiorno, Daspo urbani…) la cui produzione industriale rivendica in conferenze stampa pressoché quotidiane, riuscendo a diventare il protagonista perfino dei commenti da bar (“Questo Questore ha le palle”…).

Al di là dell’allucinante situazione bolzanina, però, va colto il significato più generale di misure come queste: con la guerra alle porte, impegnato ad armarsi e compattarsi, lo Stato non può più tollerare nemmeno la parola dissonante. Per questo, com’è successo a Como, si arriva a vietare di nominare il sionismo. Per questo sempre più inchieste per terrorismo riguardano la sola diffusione di scritti. Le “garanzie democratiche”, senza una forza reale che contrasti questa deriva, cadono una dietro l’altra; lo Stato mostra ogni giorno di più il suo volto autentico.

I modelli nei quali intravedere il futuro che si avvicina non mancano: dalla democrazia tedesca, in cui solidarizzare con la Palestina è di per sé criminalizzato, a quella israeliana, interamente militarizzata oltre che costruita sulla volontà di annientare una popolazione in eccesso, a quella ucraina, che dà la caccia in tutta Europa ai propri giovani per usarli come carne da cannone per conto della Nato, alla Cina, dove grazie alla digitalizzazione si è instaurata una vita a punti in cui a chi non dimostra continuamente di aderire alle norme sociali può essere automaticamente impedita qualsiasi attività.

Di fronte a un orizzonte che non potrebbe essere più cupo, per non farsi definitivamente annichilire tocca scommettere sulla possibile, inattesa vulnerabilità di un nemico che si presenta come fuori portata, rilanciando, allargando e intensificando le lotte, al fianco della resistenza palestinese, contro la guerra, contro il controllo sociale…

Per chiudere tornando al nostro piccolo bolzanino, ad ogni modo, i Questori passano, la passione per la libertà resta.

ULTIMA UDIENZA E SENTENZA DEL PROCESSO CONTRO ZAC [11 LUGLIO]

L’11 luglio si terrà l’ultima udienza del processo contro Zac per 280bis (atto di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi) e 270quinques (autoaddestramento). Dalle ore 9.30 avranno luogo prima la requisitoria del pubblico ministero e poi le arringhe degli avvocati. Dopodiché la corte si riunirà in camera di consiglio ed emetterà la sentenza.

Zac è accusato di un attacco al Consolato greco di Napoli avvenuto il 4 marzo 2021, che l’accusa ha ricondotto alla matrice anarchica e inserito nella campagna di solidarietà a Dimitri Koufontinas, prigioniero greco che nel 2021 era entrato in sciopero della fame per molti mesi, rischiando la morte, per contestare la riforma penitenziaria in atto in quel periodo che implicava un netto peggioramento delle condizioni di carcerazione. Nel corso delle udienze si è manifestata tutta l’inconsistenza dell’impalcatura accusatoria, rendendo evidente la natura puramente politica di questo processo, che si basa più sulla personalità dell’imputato che sui fatti contestati. Tant’è che Zac è rimasto sottoposto alle misure cautelari ed “eletto” (senza candidarsi!) alla sorveglianza speciale.

La richiesta di quest’ulteriore misura da parte della questura, prontamente accettata dal tribunale di sorveglianza, conferma l’accanimento politico contro il compagno. A noi appare evidente che in questo caso, come per altre operazioni di repressione del dissenso politico, si è trattato di un modo per ottenere un qualche risultato al di là dell’esito del processo. In generale, è diventato uno strumento sempre più diffuso come mezzo di prevenzione e di controllo sociale.

Insomma, dato che il vero collante dell’accozzaglia di ipotesi investigative e burocrazia poliziesca portati in sede processuale è l’appartenenza del compagno al movimento anarchico, possiamo dire che ciò che viene messo sotto accusa è una determinata identità politica e che il vero obiettivo è la criminalizzazione di tutte le lotte contro il sistema carcerario e la solidarietà ai detenuti in lotta. Non è un caso che la presunta pericolosità di Zac e il suo arresto siano stati motivati dal contesto della mobilitazione contro il 41 bis e in solidarietà ad Alfredo Cospito in sciopero della fame, con l’obiettivo di prevenire possibili coinvolgimenti in una eventuale “escalation” della lotta. Questa operazione si inserisce in una strategia repressiva più ampia che con le stesse caratteristiche ha colpito numerosi compagni e compagne nell’ultimo anno.

Non riconosciamo nessuna forma di distinzione tra colpevolezza e innocenza, che è puro arbitrio di una logica processuale mai neutrale e pieno riflesso dei valori dominanti in un sistema di guerra globale, massacro di popoli e incarcerazione di oppressi e dissidenti. Ciò che invece ci rivendichiamo sono gli ideali, le pratiche, l’identità politica del compagno accusato in cui ci riconosciamo pienamente. Crediamo sia importante rafforzare la solidarietà in un momento di intensificazione della repressione, che nell’attuale contesto di guerra colpisce in maniera sempre più estesa. Per questo invitiamo a una presenza massiccia all’ultima udienza per rendere palese che se l’obiettivo era quello di isolare il compagno non ci sono riusciti e che non c’è rassegnazione tra chi sostiene la lotta contro ogni forma di oppressione.

Anarchice e anarchici

Link PDF: Zac-ultima-udienza-1

UDINE: NO ALLA SMART CITY E AL CAPITALISMO DELLA SORVEGLIANZA

Riceviamo e diffondiamo:

DA VENEZIA A UDINE, NO CONTROL ROOM. No alla smart city e al capitalismo della sorveglianza!

Martedì 30 aprile ore 20:30, Spazio autogestito via De Rubeis 43, Udine.

Da marzo 2024, anche Udine, come Venezia, Trento, Bolzano, Milano e altre città entra in una progettualità di smart city. Un videowall di ultima generazione, una parete di 20 metri quadri composta da 12 monitor che trasmette le immagini in costante aggiornamento che provengono dalle telecamere di sorveglianza, che per mezzo di un software integrato da algoritmi di intelligenza artificiale, incrocerà dati come ad esempio il luogo, l’orario, il colore degli indumenti, i dettagli dei veicoli, dalle immagini raccolte in diversi contesti dalle telecamere. Tutto ciò nella Control Room del Comando di Polizia Locale di via Girardini a Udine.
Questa sala operativa permette di incrociare i dati ottenuti tramite le 190 videocamere di sorveglianza poste sul territorio udinese, con un totale di 496 obiettivi montati sulle telecamere stesse, cui andranno ad aggiungersi altre 86 ottiche montate su 26 nuovi apparecchi di videosorveglianza, che vanno sommati ai 18 dispositivi per il riconoscimento delle targhe delle vetture, dislocati nei principali nodi di traffico della città.
Nella realizzazione di queste politiche ultra tecnologiche di sorveglianza di massa, l’ente locale non è solo, si avvale infatti della collaborazione dell’Università di Udine – Dipartimento di Scienze matematiche, informatiche e fisiche che sta lavorando a Progetti di videosorveglianza predittiva con l’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale in partenariato con MD Systems, ditta leader nei sistemi di sicurezza e sorveglianza.
Inoltre il Comune di Udine ha appena varato un Protocollo di sicurezza partecipata che prevede un sistema gerarchizzato di delazione di quartiere, in diretto contatto con le forze dell’ordine, atto a distruggere ogni possibile forma di solidarietà spontanea tra vicini di casa (e di classe sociale) per affrontare i problemi di vita di ognuno e a potenziare la criminalizzazione della povertà e della diversità dai canoni dominanti della società. La Regione FVG ha poi votato un nuovo regolamento che permette l’acquisto di droni, videocamere e fototrappole per contrastare l’immigrazione clandestina e il pericolo terrorismo e blindare ulteriormente il confine italo-sloveno, ora che il trattato di Schengen è sospeso. Questi dispositivi potranno essere acquistati anche dalle forze dell’ordine non di frontiera e impiegati nelle città e nei territori.
La smart city è un luogo che integra i sistemi fisici, digitali e umani nelle reti e nei servizi tradizionali (ad esempio nei sistemi pubblici di mobilità).
La prima ricaduta negativa sulla popolazione di questo modello urbano riguarda la privacy e la sorveglianza. Nell’ambiente della smart city, il sistema Internet delle cose – tra cui sensori, telecamere e Wi-Fi – modifica in modo radicale la consapevolezza situazionale e interferisce con la quotidianità delle persone attraverso il controllo totale e la polizia predittiva. Negli attuali scenari urbani la tecnologia non è una cosa a sé, ma è un soggetto che regola l’ambiente in cui si vive e che viene presentato come lo strumento necessario per la sicurezza, intesa come priorità in uno stato di emergenza permanente. Oggi la necessità di “difesa”, viene perseguita attraverso dispositivi di separazione e canalizzazione: le persone, diventate utenti della città, possono essere filtrate in funzione della legittimità riconosciuta alla loro presenza nel dato luogo da securizzare. La NATO richiede il proprio coinvolgimento nelle aree urbane in quanto “le città stanno diventando sempre più i bersagli principali di attacchi militari, politici e terroristici e sono ambienti di violenza e conflitto”. Molti investimenti nel settore della digitalizzazione delle città italiane arrivano dal PNNR, che prevede lo stanziamento di diversi miliardi di euro per la digitalizzazione e la trasformazione di territori vulnerabili in smart city, attraverso il recupero del ruolo dei Comuni e la promozione dei partenariati pubblico- privati. La cooperazione su cui si basano le smart city, vede infatti come soggetti gli enti territoriali regionali e locali, le istituzioni culturali e accademiche, le grandi aziende, i cittadini e i “city users”, cioè coloro che si recano in città per usufruire di un servizio.
In questo scenario una città che si contraddistingue è Venezia, che ha inaugurato una Smart Control Room nel settembre 2020, una vera e propria torre di controllo che ha sede nella sede della polizia municipale al Tronchetto, realizzata e gestita in collaborazione tra Comune, Venis S.p.A., Polizia locale e TIM. La data di nascita della Smart Control Room veneziana non è casuale, il 2020 infatti è l’anno in cui la gestione dell’emergenza Covid -19 criminalizza l’idea di folla e dà inizio ad un disciplinamento di massa attraverso dispositivi di controllo e identificazione che permettono spostamenti e accessi solo alle persone in possesso del Green Pass. Non troppo dissimile è il funzionamento del nuovo contributo d’accesso necessario per visitare Venezia, previsto per aprile 2024.

NAPOLI: SORVEGLIANZA SPECIALE, SORVEGLIANZA SOCIALE

Riceviamo e diffondiamo:

Lo Stato ha individuato il nemico interno nelle frange dissidenti e nella parte più emarginata del tessuto sociale. Contro di esse viene dispiegato un apparato repressivo sempre più pervasivo, utilizzando decreti legge, pacchetti sicurezza e misure di prevenzione, con la finalità di una
carcerazione di massa.

Ne discuteremo assieme ad alcune avvocate.

Domenica 3 marzo  alle 18 a Santa Fede Liberata, in via S. Giovanni Maggiore Pignatelli 2, Napoli.

AL FIANCO DI ZAC, COMPAGNO ANARCHICO DETENUTO A TERNI IN AS2 E RAGGIUNTO DALLA MISURA DELLA SORVEGLIANZA SPECIALE

NAPOLI: ALCUNI TESTI DIFFUSI DURANTE LO SCIOPERO GENERALE DEL 23 FEBBRAIO

Riceviamo e diffondiamo alcuni testi diffusi durante lo sciopero generale del 23 febbraio

– Palestina, aiutiamoli a casa nostra.
– Contro la militarizzazione della società
– Mappa campana delle complicità dello stato italiano nel genocidio palestinese.
– Sorveglianza sociale, sorveglianza speciale

PALESTINA: AIUTIAMOLI A CASA NOSTRA

Che sia in atto un genocidio dei palestinesi da parte degli israeliani è fuori dubbio, come è fuori dubbio che questo sia iniziato molto prima del 7 ottobre (almeno dal 1948) con l’appoggio diretto degli Stati Uniti e dei governi europei.

La mobilitazione che si è generata in Europa in sostegno alla Palestina ha sicuramente avuto un ruolo importante nel far emergere un racconto differente da quello propinato dai media oltre a rendere palese la distanza tra le politiche governative e il sentire comune della gente, tuttavia non hanno potuto rallentare la macchina di morte dello stato israeliano né tanto meno intaccare le relazioni che i vari governi hanno stretto o stanno stringendo con esso.

Per quanto riguarda l’Italia, innanzitutto, è stata tra i primi paesi a riconoscere il neonato stato ebraico nel 1949 e da allora i rapporti con Israele sono stati vivificati con frequenti scambi diplomatici e affari commerciali. Ha sostenuto fin dall’inizio il diritto alla difesa di Israele, si è astenuta nella risoluzione per l’immediato cessate il fuoco, ha tenuto incontri bilaterali con Netanyahu e ha impedito l’apertura dei corridoi umanitari. Inoltre, non ha mai esitato a fornire armi, infatti la marina israeliana monta cannoni della Oto Melara (Leonardo) con i quali bombarda quotidianamente la striscia di Gaza e, attraverso l’Eni, sfrutta giacimenti di gas in acque territoriali palestinesi.

Altro ruolo fondamentale lo stanno ricoprendo i mass media di regime che attraverso una narrazione a senso unico, che vede il popolo israeliano vittima dei feroci attacchi dei “terroristi di Hamas”, tentano di creare le condizioni etiche che possano giustificare l’annientamento della popolazione palestinese.

Siamo stanchi della quotidiana conta dei morti a Gaza, della retorica dell’antisemitismo che tenta di bloccare qualsiasi forma di dissenso verso lo stato israeliano, dei benpensanti ottusi che vedono in Israele un avamposto democratico in un territorio popolato da “feroci barbari”, come siamo stanchi di ascoltare una propaganda ad uso di decerebrati che parla di bambini decapitati, stupri di massa e massacro di civili inermi israeliani.

Non siamo disposti a tollerare ulteriormente questa situazione. Coscienti della difficoltà di aiutare materialmente la popolazione di Gaza e della Cisgiordania nella loro terra, possiamo e dobbiamo intraprendere dei percorsi di lotta radicale che mettano in luce le responsabilità criminali del governo italiano, oltre che tentare di bloccare i meccanismi, basati sul mero interesse economico e strategico, che alimentano questo stato di cose.

Bloccare la macchina tecno­industriale che lavora nella produzione di strumenti civili e militari oltre che i progetti che varie università italiane portano avanti con aziende israeliane, ribaltare la narrazione dei pennivendoli di stato è possibile oltre che necessario.

Anarchici/e per la resistenza palestinese

Testo in PDF


CONTRO LA MILITARIZZAZIONE DELLA SOCIETA’

Militarizzazione significa ampliare il campo dell’azione militare, tanto in forma teorica quanto in forma concreta in un territorio e nella società, ed è quello che negli ultimi anni stiamo vivendo in forma sempre più evidente.
I recenti conflitti dall’Ucraina al genocidio che Israele sta attuando in Palestina e i conseguenti effetti in medio oriente, passando per altri conflitti accesi ma meno conosciuti e presenti nei media, hanno spinto gli Stati ad armarsi in forma sempre maggiore. Per diversi paesi occidentali in questi anni gli investimenti bellici sono cresciuti raggiungendo livelli che non si vedevano dalla fine della guerra fredda. Basti pensare che l’Italia spende mediamente 74 milioni di euro al giorno in spese militari e che queste cifre sono considerate ancora poco dagli alleati della Nato.
Questa corsa agli armamenti, non si manifesta solo attraverso la compravendita di armi e i conflitti in paesi “lontani”, ma si esercita anche nei nostri territori e nelle nostre vite, contro i nemici interni, che sono di volta in volta i derelitti più sacrificabili in nome della sicurezza: poveri, migranti, dissidenti.
Qui a Napoli è da anni che lo Stato risponde a qualsiasi problema di natura sociale aumentando la presenza di polizia e militari nelle strade, basti pensare all’operazione Strade Sicure che dal 2008 prevede una massiccia presenza di pattuglie che ormai nell’indifferenza più totale della popolazione controllano strade e quartieri della città.
Una grande salto in avanti in questo senso è stato fatto durante la pandemia da Covid-19, di nuovo nell’indifferenza della maggior parte, il governo ha disposto polizia e militari nelle strade mentre terrorizzava con una funzionale propaganda di guerra chiunque disertasse dalla linea dettata.
Un’altra forma in cui la militarizzazione dei territori si manifesta è nell’investimento in infrastrutture che hanno come scopo quello di facilitare la mobilità per le truppe e gli armamenti. Tentativo cioè di adattare la geografia della penisola allo scacchiere di guerra globale, esempio di questo ne è, fra gli altri, la costruzione del ponte sullo stretto, che come è stato appurato, dovrebbe rientare nel Trans European Transport Network TEN-T il cui scopo dichiarato è quello di creare una rete in grado di soddisfare “un piano di azione sulla mobilità militare 2.0”
La volontà dello stato di portare la disciplina di guerra ovunque ha trovato un grande laboratorio nelle scuole e nell’università. Da un lato sempre più scuole indottrinano giovani menti alla disciplina militare invitando militari a mettersi in cattedra. Dall’altro le caserme diventano sempre più luogo ideale per portare bambine e ragazze in gita. A spianare la strada a questo processo, l’uso sempre piu’ normalizzato del linhuaggio bellico nella vita quotidiana.
La questione del sapere e della ricerca universitaria funzionale alla guerra è poi un grande tema.
Infatti il doppio uso delle tecnologie e delle ricerche prodotte dalle università in ambito civile che poi vengono trasmesse all’ambito militare e viceversa è una grande questione aperta dai tempi della bomba atomica. Il fatto che le università collaborino con industrie belliche, come sempre di più sta succedendo, non solo permette una maggiore permeabilità nello scambio di ricerche fra civile e militare, ma contribuisce ad una sempre maggiore legittimazione del campo militare.
Il fatto che la militarizzazione permei la societa’ civile e la corsa agli armamenti sia sempre piu’ evidente rendono chiaro quanto uno scenario di guerra alle nostre latitudini sia sem- pre piu’ possibile.

FUORI LA GUERRA DALLE UNIVERSITA’, DALLE SCUOLE, DAI TERRITORI E DALLE NOSTRE VITE! LA GUERRA E’ OVUNQUE E CONTRO TUTTI, ESCLUSO CHI NE TRAE PROFITTO… QUINDI GUERRA ALLA GUERRA!

Testo PDF


Lo stato italiano è complice di Israele nel genocidio palestinese. La guerra che vediamo in televisione si produce qui. 


SORVEGLIANZA SOCIALE E SORVEGLIANZA SPECIALE

A dicembre il tribunale di sorveglianza di Napoli, su richiesta firmata dal questore di Napoli Maurizio Agricola, ha disposto l’applicazione della misura di sorveglianza speciale per Zac (ora prigioniero nel carcere di Terni) per due anni e sei mesi con le seguenti restrizioni: di non allontanarsi dall’abitazione senza preventivo avviso dell’autorità di sorveglianza, di non uscire prima delle 7 e non rientrare dopo le 20, di non associarsi “abitualmente” a persone condannate o preposte a misura di prevenzione o sicurezza, di non accedere a esercizi pubblici e di pubblico trattenimento, vivere onestamente rispettando le leggi, non detenere né portare armi, darsi alla ricerca di un lavoro, non partecipare a pubbliche riunioni, di portare sempre con sé la carta di permanenza, di presentarsi ogni domenica, o comunque a ogni invito, all’autorità preposta alla sorveglianza. A ciò si aggiunga una cauzione di 3000.00 euro da versare come garanzia, ma frazionabile in cinque comode rate.

La misura sarà eseguita non appena Zac uscirà dal carcere, a prescindere dall’esito del processo per 280 bis e 270 quinques, che intanto continua.

Ad oggi, la guerra contro il nemico interno si è sovrapposta irrimediabilmente a quella contro il nemico esterno, in un unico movimento per l’accumulo di predominio politico, economico e culturale che va innanzitutto a svantaggio delle popolazioni e degli oppositori.

In questo quadro l’accorpamento della magistratura antimafia e antiterrorismo (2015) ha generato una macchina strapotente che si autoalimenta con sempre nuove inchieste e mezzi a disposizione per sorvegliare sempre più persone o far credere di farlo, con l’obiettivo di instillare la paura e fare il vuoto intorno a chi viene colpito più direttamente.

Contro ogni distinzione tra colpevoli e innocenti, che è puro arbitrio dell’inquisizione democratica, sostenere le ragioni della rivolta e le identità messe sotto attacco, è una questione di autodifesa collettiva. Gli strumenti repressivi sempre più duri che vengono usati contro determinate categorie di persone sono destinati ad espandersi. L’ampliamento del regime del 41 bis, la storia recente dello strumento repressivo del 270 (associazione sovversiva), l’imputazione di Zac per 270 quinquies (autoaddestramento), il pacchetto sicurezza, il decreto Caivano, l’estensione della sorveglianza e della carcerazione a tutti i livelli, ne sono un esempio. Su questa stessa scia, i sindacati autorganizzati vengono accusati di associazione a delinquere, la lotta dei disoccupati organizzati diventa estorsione, gli scontri in strada puniti con l’aggravante camorristica, le pubblicazioni o gli striscioni censurati con l’accusa di istigazione a delinquere o apologia di terrorismo.

Anche l’estensione delle misure di prevenzione e del dispositivo della “sorveglianza speciale” – storicamente usate per punire poveri, briganti e antifascisti – è una delle tante conseguenze della fusione di apparati antimafia e antiterrorismo e della necessità di equiparare l’armamentario di guerra contro la criminalità organizzata e quello (mediatico, giuridico, linguistico) contro i dissidenti. Non è un caso che nell’odierno stato di emergenzialità permanente queste misure vengano richieste e elargite automaticamente e parallelamente all’accusa di terrorismo – come nel caso di Zac – o anche ben prima. Basta essere costretti in una delle categorie costruite, col linguaggio e col diritto, come “socialmente pericolose”, per vedere le proprie residuali “libertà”, già di per sé forme illusorie del sistema democratico, ulteriormente ristrette dalla sfilza di obblighi e divieti prescritti dalle misure di prevenzione. Questo sistema è storicamente espressione di una radicata cultura del sospetto e della tendenza, fin dalla colonizzazione del Sud Italia, a trasformare le questioni sociali, gli ideali e le lotte in problemi giudiziario-criminali.

Fino ai nostri giorni, quando l’obbligo di dimora, il domicilio coatto, il coprifuoco, il divieto di frequentare luoghi pubblici e di intrattenimento, che sono l’armamentario dispiegato dalle misure di prevenzione, sono stati oggetto di una sperimentazione di massa in tempi di guerra contro un nemico invisibile, quando il terrorista era un virus, e tutti indiscriminatamente, dovevano mettersi al riparo seguendo le regole di distanziamento sociale, umano e politico.

La morale securitaria che connota il XXI secolo e il terrorismo di Stato che opera attraverso l’apparato mediatico e giudiziario antiterroristico porteranno all’estensione su scala sempre più ampia di questi strumenti già impugnati contro gli oppositori del passato, grazie all’indeterminatezza costitutiva della norma e all’attuale momento storico. Tradendo i presupposti dello stesso (raccapricciante) diritto borghese, nato sul principio (comunque di impossibile applicazione se laddove c’è Stato non c’è libertà) che il corpo dovesse restare “libero” fino all’accertamento in sede processuale di una presunta colpevolezza (che non è già vero nel caso della carcerazione preventiva), le misure di prevenzione avvinghiano alle loro catene di carta intere categorie di persone senza alcun bisogno di processare degli atti come reati, perché a essere “rea” è già solo la personalità, l’ambiente, la condotta, l’idea. Questi dispositivi di psicopolizia, del resto, non sono volti a punire “reati”, ma a evitare che possano verificarsi, perciò impongono sequele di processi alle intenzioni, o meglio, ai pensieri potenzialmente trasformabili in atti… prima che si trasformino in atti. La sorveglianza speciale, quindi, è potenzialmente elargibile a chiunque, persino (si veda il decreto Caivano) a degli adolescenti. Un mezzo strapotente.

La criminalità organizzata di Stato che ha ipotecato le nostre vite al capitale sembra avere campo sempre più largo per reprimere il dissenso e per poter eseguire il prelievo necessario alla ristrutturazione capitalistica in corso, resa possibile dalla transizione digitale. Questa neoschiavitù, in cui ogni corpo è diventato una miniera da cui estrarre dati, è la più infame delle estorsioni.

Ma una cosa è certa. Quando pandemia, guerra e “transizione” digitale richiedono una sorveglianza sempre più estesa e la rendono possibile affiancando le catene di carta che ci legano al controllo poliziesco-giudiziario con le catene di fibra ottica che ci connettono alla rete del controllo elettronico, diventa sempre più visibile e tangibile quanto l’intera società sia ora più che mai un carcere a cielo aperto. Tra strumenti di carcerazione preventiva e luoghi di carcerazione punitiva, la distinzione, benché concreta, diventa sempre più sfumata nella testa di quanti vivono con insofferenza la proliferazione di catene multiple, e di quanti hanno come orizzonte la libertà.

La repressione poliziesco-giudiziaria selettiva contro anarchici e dissidenti, e la repressione culturale e digitale contro intere popolazioni si somigliano sempre più nei fini quanto nei mezzi, per un mondo di deradicalizzati da memoria, personalità e idee. In un mondo diviso da sempre più sbarre fisiche e digitali, chi potrà dire di non essere un sorvegliato speciale?


IL FRONTE INTERNO DELLA GUERRA

Questa società non ha più nulla da offrire se non malattie, morte, guerre.

E ottuso realismo politico, il più meschino nemico dei sogni. La vittoria del realismo contro l’utopia cercherà sempre più di far quadrare i conti in un’equazione senza scampo, di farci credere che la vita in ogni suo aspetto è totalmente sotto vigilanza, che il controllo totale può esistere a dispetto di ogni imprevisto.

Dalla fine della seconda guerra mondiale, la ghigliottina nucleare sospesa sulle nostre teste è stata un attacco senza precedenti alle possibilità di autodeterminazione di popoli e individui, perché la morte collettiva è diventata un bottone da premere. Un ricatto senza se e senza ma.

Oggi, l’intelligenza artificiale che sta per pervadere ogni infrastruttura sociale, economica e politica è una rivoluzione senza confini, se non quelli che le nostre coscienze e mani sapranno porre, perché finirà per eliminare anche la necessità ultima dell’operatore umano che preme quel dannato bottone. Al suo posto, un banale algoritmo. Quello stesso algoritmo che in un futuro prossimo si sostituirà nelle aule di tribunale al meccanismo già diabolico delle (im)perizie tecno-scientifico-industriali (un vero e proprio business) che ad oggi decide della libertà di migliaia di persone incarcerate.

È davvero questa la banalità del male, un insieme di ripetitive, automatiche e cieche procedure tecniche che attraverso software di elaborazione dei dati secondo parametri arbitrari pretendono di costruire verità inconfutabili in questa parte del mondo e massacri altrove. Se non vogliamo che in un domani non troppo remoto sia un algoritmo a decidere della vita e della libertà, è necessario attaccare il paradigma tecno-scientifico-industriale che domina tanto nella società, nelle aule di tribunale e sui campi di guerra, col suo ventaglio di mezzi (dalla videosorveglianza, alla videoconferenza, ai droni).

Più il male è banale, ancora più banale dell’impiegato burocrate, banale quanto una macchina robotica, più si cercherà di banalizzarlo: l’intelligenza artificiale, in fondo, è solo una soluzione tecnica ai problemi dell’umanità – non importa quanto questi siano il prodotto di scelte tecniche passate. E poi permetterà di curare malattie incurabili, di vincere la guerra, di costruire città più sicure e funzionali alla frenesia del nostro tempo. Non importa quanto i ritmi del lavoro e della competitività diventeranno insostenibili per gli esseri umani che non vorranno collaborare, o peggio, assimilarsi alla macchina. Non importa quanto la creazione di immagini false ma assolutamente verosimili ci renderà totalmente incapaci di informarci e irrimediabilmente diffidenti verso le nostre possibilità di comprendere qualcosa del mondo e di intervenire su di esso, azzerando ogni prospettiva che guardi al futuro e mettendoci all’angolo con la sensazione di essere caduti nella trappola di un controllo totale. È contro questo realismo che rischia di imporre una volta per tutte la più orribile delle distopie, che è fondamentale andare al sodo, selezionando le sole informazioni che contano davvero per metterci di traverso a un futuro fatto di isolamento, infelicità e ingiustizia.

L’accumulazione capitalistica di miliardi dati per far funzionare le tecnologie che servono a combattere la guerra, nel dominio di poche multinazionali che stringono accordi con le università finanziandone la ricerca, sarebbe impensabile senza i data-center localizzati che li conservano. Una guerra per il controllo delle materie prime e delle risorse che servono a realizzare le tecnologie che governeranno il futuro non può essere combattuta senza fabbriche di armi, senza le infrastrutture che servono al flusso di informazioni e uomini; senza la ridefinizione giornalistica e accademica dei nuovi nemici interni e esterni; senza il pacifico consenso del fronte interno dell’opinione pubblica all’economia di guerra che ci hanno imposto col rincaro dei generi primari (cibo e energia); e alla cultura dell’odio tra sfruttati.

Perciò, non possiamo avere paura di estendere l’idea che abbiamo della guerra. È necessario prendere atto dell’impossibilità di distinguere la guerra al nemico interno dalla guerra contro il nemico esterno, tra i tempi di guerra e i tempi di pace, così come tra produzione e ricerca tecnologica militare e civile, perché fino a che esisterà, lo Stato è e sarà sempre uno strumento di guerra: contro altri stati, contro popoli e territori colonizzati, contro la natura e gli individui in rivolta. L’accumulo e il mantenimento di potere nelle mani di pochi a danno dei più è una guerra permanente combattuta quotidianamente con tutti i mezzi necessari, dallo sfruttamento senza confini sui luoghi di lavoro alla cascata di bombe sui cieli di interi territori. Il pericolo di distruzione dei posti di lavoro legato all’intelligenza artificiale è direttamente proporzionale al pericolo di distruzione materiale della sua applicazione alle tecnologie militari. Questo stato di guerra a tutti i gradi si esprime all’interno dei confini nazionali con la riabilitazione del lavoro minorile per mezzo dell’alternanza scuola-lavoro, con la militarizzazione dei quartieri, delle scuole, del conflitto sindacale. Per quanto non sia mai esistita una scuola neutrale, la sua attuale militarizzazione le rende sempre più luogo di arruolamento forzoso, di uniformazione per accettare l’esistenza dell’uniforme, della forza armata che tiene l’umanità divisa tra oppressi e oppressori e che si oppone a ogni tentativo di liberazione.

Mentre piovono bombe dai cieli d’Israele, da questa parte del mondo siamo bombardati dalla frenesia violenta di un flusso di notizie in cui è impossibile distinguere ciò che importa. La nostra coscienza diventa muta davanti a questa difficoltà di comprensione e di immaginazione, il nostro sguardo cieco a ogni prospettiva futura. Come possiamo ripartire dall’utopia per combattere la resa a questo destino dominato dalla razionalità del meno peggio? Il realismo politico vuole intimidirci col ricatto che due o tre guerre piccole contro gruppi terroristi e Stati canaglia siano meglio di una grande guerra da cui si potrebbe anche uscire sconfitti. In parte ci sono già riusciti, paralizzando ogni movimento di solidarietà internazionalista tra oppressi che potesse ostacolare l’invio di armi e imporre dal basso il cessate il fuoco, con l’operazione mediatica che ha beceramente assimilato la resistenza ucraina alla lotta partigiana contro il nazi-fascismo.

Ma se continuiamo a sentirci “al sicuro” perché “tanto la guerra è lontana”, abbiamo fatto davvero male i conti. L’assassinio, o, ancora peggio, il suicidio di ogni etica non conforme alla logica realista di un mondo dominato da guerra e intelligenza artificiale significa la vittoria di una logica di conquista e mantenimento del potere di pochi, in fondo talmente irrazionale, da rischiare il massacro dell’intera umanità.

Come soli antidoti: disfattismo rivoluzionario e solidarietà a chi si ribella! rendendo impossibile la percezione e la realizzazione di un sistema di guerra e controllo totale.

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BOLOGNA: IN STRADA CONTRO LA SCHEDATURA GENETICA

LUNEDÌ 19 FEBBRAIO ORE 17 in PIAZZA DEL TEATRO TESTONI a Bologna.


CONTRO LA SCHEDATURA GENETICA SOLIDARIETÀ AI COMPAGNI E ALLE COMPAGNE COLPITE

In questi giorni a Bologna alcune/i compagnx sono stati raggiunti dalla disposizione di prelievo coatto del DNA, braccati sul proprio luogo di lavoro o nelle loro case, altrx compagnx rischiano di andare incontro alle medesima sorte nei prossimi giorni.

Questa operazione si inserisce nell’ambito di un’inchiesta per 270 bis (associazione con finalità di eversione dell’ordine democratico) che vede coinvolti 19 compagnx: inchiesta che prende le mosse dalla mobilitazione in solidarietà allo sciopero della fame di Alfredo Cospito, contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo.

Durante lo sciopero della fame di Alfredo, a Bologna come in tante altre città, la solidarietà è stata ampia e trasversale: non stupisce perciò questa disposizione generalizzata di prelievo coatto del DNA, che concretizza la possibilità di schedare geneticamente chiunque, anche solo per l’accusa di aver partecipato o portato solidarietà ad un presidio!

E’ interessante notare come nonostante si cerchi la corrispondenza con tracce biologiche appartenenti a un individuo di sesso maschile, rinvenute su di un accendino trovato in prossimità del luogo dove erano stati incendiati alcuni ripetitori, fatto per cui sono indagatx solo 5 persone; il prelievo del DNA sia stato disposto per tuttx lx 19 indagatx, poiché, come si legge nell’ordinanza siglata dalla GIP, si rende necessario verificare “se l’accendino rivenuto sul luogo dell’attentato incendiario sia riconducibile direttamente o indirettamente (per le donne) agli attuali indagati o agli altri soggetti appartenenti alla galassia anarco-insurrezionalista che ha rivendicato l’attentato”.

Ci troviamo di fronte a un cambio di paradigma della procedura repressiva: se prima si dovevano avere delle prove da associare a dei presunti sospettati, adesso si trovano dei sospettati predeterminati su cui cucire le prove.

Una vera e propria schedatura genetica su base ideologica, che colpisce non solo le individualità anarchiche e le loro azioni, ma anche chi ha inteso portare la propria solidarietà sostenendo, ciascuno secondo il proprio sentire e con le proprie modalità, lo sciopero della fame di Alfredo e la lotta contro il regime di tortura del 41 bis.

Ribadiamo la nostra solidarietà alle persone indagate, braccate dagli sbirri e costrette a farsi prelevare il DNA. Ribadiamo che aldilà dei fantasiosi castelli inquisitori e delle fantomatiche associazioni eversive, in quei giorni nelle strade e nelle piazze al fianco di Alfredo, a dire che il 41 bis è tortura e che il carcere uccide c’eravamo tutte e tutti…

Più forte dell’amore per la libertà c’è solo l’odio per chi ce la toglie

Compagne solidali

REPRESSIONE A BOLOGNA: CAMPIONAMENTO GENETICO DEL DISSENSO

Estratti dalla puntata del 18 dicembre 2023 di Bello Come Una Prigione Che Brucia

Torniamo a parlare delle strategie repressive messe in atto contro compagne e compagni anarchici a Bologna (operazione che coinvolge anche Lombardia e Trentino), soffermandoci sull’approvazione del prelievo coatto di DNA: per cercare una corrispondenza rispetto a un campione genetico riconducibile a una persona di sesso maschile, il giudice ha approvato la schedatura genetica di 19 individui, tra le quali persone di sesso femminile o imputate di aver partecipato a un presidio.

Grazie al contributo di una compagna di Bologna approfondiamo questi eventi e la cornice tecno-repressiva in cui si inseriscono:

BOLOGNA: CAMPIONAMENTO GENETICO DEL DISSENSO – 41BIS – PSICOFARMACI

BOLOGNA: CONTRO LO STATO, CONTRO LA SCHEDATURA GENETICA

Diffondiamo un intervento portato al presidio che si è svolto oggi contro il prelievo coatto del DNA a cui saranno sottoposti 19 compagnx.

CONTRO LO STATO, CONTRO LA SCHEDATURA GENETICA

La mobilitazione che l’anno scorso ha sostenuto il compagno Alfredo Cospito in sciopero della fame contro il regime di 41-bis e l’ergastolo ostativo ha coinvolto moltissime persone in tutti i continenti, persone con convinzioni ed esperienze politiche anche diverse, ma che, ognuna con le proprie pratiche, si sono mosse per squarciare il muro di silenzio, ipocrisia e omertà sulla tortura del carcere duro.

Anche a Bologna in tantə si sono attivatə in questa lotta accanto ad Alfredo, contro il proposito dello Stato di murare il nostro compagno in una tomba per vivi sperando così di tappargli definitivamente la bocca: non sono mancati momenti collettivi, momenti di piazza, azioni, presidi, cortei, street parade… E’ giusto perciò restituire pubblicamente cosa sta accadendo a 19 compagnx, che nei prossimi giorni saranno sottopostx a prelievo coatto del DNA.

Per farlo bisogna partire da un’indagine per associazione con finalità di eversione dell’ordine democratico aperta in città per colpire la solidarietà che si è mossa, vivace e trasversale, un’ipotesi associativa che vedrebbe coinvolte 11 persone, più altre 8.

Un’operazione che si è articolata in modo inconsueto, connotata fin da subito da tecniche di indagine pseudo-scientifiche:
– nessuna roboante richiesta di misure cautelari
– perquisizioni a diversi mesi dalla notifica di apertura delle indagini
– accertamenti tecnici irripetibili su materiale repertato, che necessitano, per essere seguiti, di costosi periti
– disposizione generalizzata di prelievo coatto del DNA, anche a persone che hanno portato la loro solidarietà solo ad un presidio.

Parliamo di quella stessa pseudo-scienza con cui oggi il potere cerca di irregimentare la sua forza in ogni campo, ammantandola di oggettività.

Un’indagine che riflette un cambio di paradigma della procedura repressiva: se prima si dovevano avere delle prove da associare a dei presunti sospettati, adesso si trovano dei sospettati predeterminati su cui cucire delle prove.

É evidente che questa richiesta di prelievo coatto si inserisce nella progressiva e sempre più pervasiva necessità di sorveglianza da parte dello Stato: se a livello internazionale massacri, guerre e genocidi si intensificano, a livello locale aumenta lo sfruttamento, il disciplinamento e il controllo sociale.

Lo Stato teme le idee anarchiche perché c’è un contesto che sempre più ne da’ ragione!

In ogni città sfratti e sgomberi sono all’ordine del giorno, le lotte per la casa, così come quelle ambientali ed ecologiste, vengono duramente represse! La scuola mostra sempre più il suo volto di agenzia al soldo del potere, volta a selezionare la nuova classe dirigente e la nuova classe da sfruttare, sempre più territorio di conquista militare. Ciò che rimane della sanità pubblica e territoriale viene inesorabilmente smantellato e privatizzato, per privilegiare paradigmi discrezionali di stampo classista e autoritario. Dentro le carceri, nei cpr, alle frontiere, si muore, mentre all’esterno vivere diventa sempre più difficile per moltx.

Un mondo che assomiglia sempre più ad un carcere a cielo aperto, dove mentre nelle stanze ai piani alti tecnici e padroni ingrassano, ai piani inferiori sfruttatx e oppressi muoiono di solitudine, povertà, deprivazione e isolamento.

Siamo di fronte al tentativo di schedare coloro che non fanno mistero di manifestare la loro ostilità a un sistema capitalista e patriarcale sempre più predatorio che annienta l’esistenza di individui, comunità e territori.

Una schedatura genetica su base ideologica che oggi colpisce le anarchiche e gli anarchici, e chi ha portato loro solidarietà, e domani chissà!

Non si tratta perciò solo di banale violazione della privacy, istanza che piace molto a progressisti e sinceri democratici, ma di una raffinata tecnica di controllo di massa che ha lo scopo di spaventare, annichilire e contrastare tutti coloro che non hanno intenzione di rassegnarsi a questo stato di cose, né di smettere di portare avanti piani di conflittualità.

Se tenteranno di spaventarci e dividerci, risponderemo ancora più unitx! Fanculo al prelievo del DNA, fanculo alla schedatura genetica.

ALESSANDRIA: PRESIDIO SOLIDALE SOTTO AL CARCERE

PRESIDIO SOLIDALE AL CARCERE DI ALESSANDRIA – SAN MICHELE
Mercoledì 1 novembre dalle ore 15

L’estensione dei regimi detentivi speciali ai reati contro la libera espressione di pensieri sovversivi, conferma la natura politica della differenziazione penitenziaria. Una prigionia politica che per alcuni rivoluzionari dura da più di 40 anni.

Da qualche settimana il compagno anarchico Gino Vatteroni – accusato di avere violato le prescrizioni della detenzione domiciliare a cui era sottoposto – è rinchiuso nella sezione AS2 del carcere di Alessandria – San Michele. Gino si trovava ai domiciliari perché accusato di aver collaborato alla pubblicazione del giornale anarchico internazionalista Bezmotivny.

PER UN MONDO SENZA GALERE
PER LA LIBERTA’

IMOLA: VERSO L’UTOPIA

Diffondiamo:

Qual’è il mondo contro cui lottiamo? Qual’è il mondo per cui lottiamo?

Dibattiti e presentazioni di libri su tecnologia, estrattivismo, transizione ecologica e guerra.
Concerti benefit.

VENERDÌ 29 settembre
SABATO 30 settembre
DOMENICA 1 ottobre

Al Brigata, via Riccione 4 – Imola.
[Qui il programma dettagliato.]