E’ in corso lo sgombero della FOA Boccaccio, storica esperienza autogestita monzese.
Info e aggiornamenti link qui (pagina fb F.O.A. Boccaccio)
Cresciamo nei terreni incolti, nelle zone asciutte e sassose, ai bordi dei viottoli
E’ in corso lo sgombero della FOA Boccaccio, storica esperienza autogestita monzese.
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Nel pomeriggio di domenica 4 luglio un gruppo di solidali ha raggiunto il carcere di Santa Maria Capua Vetere per portare solidarietà a Natascia, in sciopero della fame dal 16 giugno, e a tutte le persone detenute.
Vari sono stati gli interventi che hanno espresso forte solidarietà nei confronti della compagna rinchiusa in AS3, che si trova alla terza settimana di sciopero della fame per ottenere il trasferimento da quel carcere. È stato sottolineato come il meccanismo di dispersione dei prigionieri e delle prigioniere attuato dal DAP, attraverso trasferimenti in carceri situate a centinaia e centinaia di chilometri di distanza dai propri affetti, dai propri contesti di vita e di lotta – e nel caso di Natascia rendendo quasi impossibile il confronto con il proprio avvocato a processo già cominciato – sia chiaramente volto a isolare completamente chi è recluso/a e a spezzare le relazioni di solidarietà tra dentro e fuori. Di fronte alla determinazione grande di Natascia, sappiamo che una presenza fuori dalle mura del carcere che la tiene prigioniera non è che un tassello minuscolo di quello che possiamo fare per supportarla nella sua battaglia.
Conosciamo bene anche l’intento punitivo della dispersione, in questi giorni attuato anche nei confronti di molti detenuti di S.M.C.V., in particolar modo del reparto Nilo, la sezione in cui il 6 aprile 2020 sono avvenuti i pestaggi e le torture. A distanza di un anno, in cui torturati e torturatori sono stati tenuti fianco a fianco, avvengono i trasferimenti per volontà del DAP in chiara ottica vendicativa per le misure di sospensione e gli arresti che hanno riguardato la penitenziaria, soprattutto considerato che due delle prigioni di destinazione, Modena e Rieti, sono quelle nelle quali lo Stato ha consumato e poi sepolto la strage del marzo scorso. Le altre destinazioni note sono le carceri di Terni, Perugia, Carinola e Ariano Irpino.
Il giorno in cui i media hanno portato alla ribalta lo “scandalo di SMCV”, nelle sezioni del carcere è stata interrotta l’energia elettrica (le guardie parlano di blackout…), ma tutto lascia immaginare all’intento di far sì che ai detenuti e alle detenute non arrivasse alcun tipo di notizia.
Fuori, intanto, la solidarietà verso i detenuti si è fatta sentire in molte città con messaggi che sconfessano l’esistenza delle cosiddette “mele marce” nel sistema penitenziario, sottolineandone invece la profonda natura marcia e assassina. Il DAP grida allo scandalo e invoca la protezione delle guardie. I giornali parlano anche di un “blocco doloso dei telefoni del penitenziario, causa attentato a una centrale telefonica”.
È stato riportato oltre il muro ciò che giornali e tv stanno raccontando in questi giorni in merito al carcere di Santa Maria, ribadendo però che i toni intrisi di stupore e scandalo di cui i servizi giornalistici sono farciti in questo momento sono puramente ipocriti. La brutalità dei pestaggi del 6 aprile 2020, era già emersa un anno fa dalle testimonianze di detenuti e parenti e la loro voce era rimasta perlopiù inascoltata, fino a quando non sono scattate le misure nei confronti di secondini e vertici della penitenziaria. Agli occhi di chi voleva vedere e alle orecchie di chi voleva sentire, la spirale di violenza e rappresaglia da parte delle guardie e del DAP durante e in seguito alle rivolte del marzo 2020 è stata immediatamente e fortemente percepibile, nonostante il megafono mediatico strillasse unanimemente alla “cieca violenza dei detenuti”.
Le recenti notizie di pestaggi, abusi e violenze da parte delle guardie in tante altre prigioni d’Italia, come per i recenti casi di Foggia, Melfi, Monza, Palermo e altri ancora, non fanno che confermare la natura violenta e vendicativa del carcere e di chi ci lavora.
Questo abbiamo voluto riportare ai detenuti e alle detenute di S.M.C.V. che durante tutto lo svolgimento del presidio si sono fatti sentire con urla (purtroppo non comprensibili da fuori) e forti battiture, dopodiché il gruppo di solidali ha lasciato le mura del carcere dopo una scarica di fuochi d’artificio.
A FIANCO DI NATASCIA IN SCIOPERO DELLA FAME!
CON I DETENUTI E LE DETENUTE DI SANTA MARIA CAPUA VETERE!
LIBERTÀ PER TUTTE E TUTTI!
Di seguito il volantino distribuito nel quartiere adiacente al carcere di Rebibbia e la locandina dell’appuntamento previsto per il 30 giugno pomeriggio.
Il 17 giugno un giudice di Modena ha deciso di archiviare il fascicolo delle indagini aperte sui responsabili della strage avvenuta durante la rivolta dell’8 marzo 2020: 9 i morti tra i detenuti rinchiusi in quel carcere. 14 in totale in Italia.
Lo Stato non processa chi gli è fedele.
Nel frattempo, tanti i processi iniziati contro i detenuti ritenuti responsabili dei seri danneggiamenti all’interno delle galere. Per questi processi nessuna richiesta di archiviazione è stata mai avanzata dalle procure.
Come dimenticare quel marzo 2020? Quel costante susseguirsi di notizie di contagi, ammalati e morti da Covid. Chi è detenuto/a, conosceva bene le gravi mancanze già esistenti del sistema sanitario penitenziario e sapeva che nessun governante avrebbe mosso un dito per mettere in salvo dal contagio chi è rinchiuso dentro le galere. In quei giorni, l’unica decisione presa dal Ministero di Giustizia e dal DAP è stata quella di chiudere l’ingresso del carcere a tutti coloro che non lavorano all’interno. Decisione che come si è visto, e come era ovvio, non ha certo fermato i contagi.
Alla notizia della chiusura dei colloqui con i familiari, la miccia si è accesa.
Chi ha deciso di ribellarsi ha avanzato richieste a difesa della propria e altrui salute, all’interno di un luogo già di per sé malsano e sovraffollato. Ha deciso di agire per far sì che qualcuno si accorgesse della drammatica situazione degli istituti carcerari di questo Paese. E, infatti, qualcosa seppur minima è stata ottenuta. C’è chi è riuscito ad ottenere delle misure alternative, di detenzione domiciliare e prolungamento di permessi e licenze. Nulla di risolutivo, certo. Ma chi rinuncia a lottare ha già perso.
Il 30 giugno nell’aula bunker a pochi passi da qui si aprirà il processo di primo grado contro i 46 detenuti di Rebibbia accusati di devastazione e saccheggio, violenza, sequestro e altro. Tutti reati che prevedono pene molto pesanti.
È la necessità di scongiurare nuove proteste a scatenare questa pesante vendetta dello Stato. Le giuste rivendicazioni vengono messe a tacere con la violenza più feroce. E le morti durante le rivolte parlano chiaro. Raccontano quello che lo Stato è disposto a farci: governare con la paura, ribadire la sua arroganza se alziamo la testa, impedire la solidarietà e vicinanza.
Sì, lo Stato non rinuncia alle sue galere, a quelle mura e a quelle sbarre così alte che hanno un effetto su milioni di esistenze, anche quelle “libere”. Le condizioni di vita di ognuno di noi, se non reagiremo, peggioreranno di giorno in giorno, fatta eccezione per quella strettissima minoranza che continua a far profitto speculando e passando sopra i corpi di tantissime persone. Questo, ad oggi, dovrebbe essere chiaro a tutte e tutti.
E quelle galere sono lì apposta, perché servono da avvertimento: “Abbassa la testa e tira avanti”.
Lo dicono a noi qui fuori, utilizzando come monito migliaia di vite isolate dal resto del quartiere.
Per questo il carcere non può restare un qualcosa di distante dalle nostre vite, una bolla separata da chi abita la città.
Per questo non possiamo permetterci di girare le spalle a chi è imprigionato/a.
Per noi le accuse per cui saranno a processo i 46 detenuti non sono reati ma atti di dignitosa rabbia.
Sempre il 30 giugno, alle 18:30, nel Parco di Aguzzano (entrata alla fine di via Bartolo Longo) davanti il carcere, ci sarà la presentazione del fumetto di Zerocalcare “Lontano dagli occhi – Lontano dal cuore”, sulle rivolte dei prigionieri di Rebibbia lo scorso marzo, con la presenza dell’autore. Sarà un altro momento per incontrarci, conoscerci e parlare di carcere.
L’UNICA SICUREZZA E’ LA LIBERTA’!
Per restare in contatto, potete scrivere a dulceri211@gmail.com
Link: Rete Evasioni
Dalla pagina fb del Comitato lavoratori delle campagne,(qui)
Contro la repressione e il razzismo, solidarietà agli imputati!
Link:
Liberiamo nelle brughiere:
Da un video colloquio di questa mattina con una compagna, Natascia ha fatto sapere che il 16 giugno, di ritorno al carcere di Vigevano dopo l’udienza preliminare per il processo Scintilla in cui è imputata e che si è tenuta a Torino, le è stata misurata la temperatura e subito dopo è stata messa in una cella in isolamento. Quando ha capito che si trovava lì per essere ritrasferita nel carcere di S. Maria Capua Vetere ha dichiarato ufficialmente l’inizio dello sciopero della fame, buttando fuori dalla cella il vitto quando le è stato consegnato.
Liberiamo nelle brughiere un aggiornamento sulla situazione di Belmonte Cavazza.
CONTRO STATO DI TORTURA E MISURE DI SICUREZZA
Pochi giorni fa, Belmonte Cavazza aspettava di varcare la soglia del carcere di Piacenza, andando finalmente incontro alla libertà.
La sua condanna di 19 anni sarebbe dovuta terminare il 19 aprile. Veniva invece trasferito il 23 aprile presso la casa di lavoro di Castelfranco Emilia (MO).
La ragione? Una misura di sicurezza disposta nei suoi confronti nel 2003.
Le misure di sicurezza, introdotte da Mussolini nel ‘30 e ancora in vigore, si basano, analogamente alla sorveglianza speciale (misura di prevenzione), su un giudizio di pericolosità sociale: ciò che rileva è la personalità dell’individuo, le sue abitudini ed il suo profilo.
Queste misure vengono disposte sulla base di un “pregiudizio” giuridico di possibile reiterazione del reato; sulla condotta comportamentale durante la detenzione; sull’essere stato condannato o prosciolto per parziale o totale infermità di mente. Possono essere comminate dal giudice come misure accessorie, diventano cioè eseguibili una volta che la pena, alla quale si è stati condannati, è terminata.
“Ergastolo bianco”, è così che sono state definite tali misure di sicurezza. “L’ergastolo bianco” è rinnovabile all’infinito, non essendo previsti per legge termini di durata massima. Di fatto un’altra pena di morte viva, forse la più dimenticata visto che è opinione diffusa che le case di lavoro non esistano più.
Deputati all’internamento di chi è in esecuzione di una misura di sicurezza, oltre alle case di lavoro, sono le colonie agricole e le REMS (che hanno sostituito i vecchi OPG) destinate a chi viene prosciolto da un reato per infermità mentale. Dentro questi luoghi si trovano rinchiusi gli ultimi degli ultimi dei circuiti detentivi. Persone che non possono contare sul sostegno di una famiglia o di una rete di relazioni.
Nonostante le informazioni su tali luoghi siano difficilmente reperibili, sembra che ad oggi – a seguito della chiusura di quella presente sull’isola di Favignana – in tutta Italia rimangano 3 case lavoro: a Vasto, a Castelfranco Emilia (in cui è presente anche una sezione a custodia attenuata) e ad Isili (Sardegna), dove c’è una sezione denominata “colonia agricola” .
Durante la seconda guerra mondiale il Forte urbano di Castelfranco Emilia fu un luogo di prigionia (casa lavoro) fascista, scenario nel ‘44 di esecuzioni nei confronti di partigiani, antifascisti, disertori alla leva.
La storia a venire non ha riservato a quel luogo un’infamia minore, considerati alcuni dei soggetti che ci hanno messo le mani in pasta.
Nel 2005, vi nasceva la colonia agricola penale per persone tossicodipendenti, la cui gestione veniva affidata, per volere del ministro Castelli, all’associazione di Andrea Muccioli, della Comunità di San Patrignano. Fu sponsorizzata da Carlo Giovanardi e inaugurata alla presenza di Gianfranco Fini, come un nuovo fiore all’occhiello. Il Forte urbano veniva quindi ad assumere due funzioni, quella di casa lavoro per l’esecuzione delle misure di sicurezza degli internati e quella di casa di reclusione a custodia attenuata per detenuti tossicodipendenti. Nel 2017, la gestione interna delle serre per il lavoro agricolo fu affidata a Caleidos, la cooperativa nota per la sua egemonia nel modenese in particolare nella gestione di canili, gattili e centri di accoglienza per richiedenti asilo, descritti dalle stesse persone che li hanno attraversati come luoghi di prigionia, controllo e sfruttamento. Nel 2020, a mettere le mani in pasta nel business legato alla casa lavoro è la cooperativa modenese L’Angolo, a cui è affidata la gestione della lavanderia industriale (così come al Sant’Anna). La cooperativa è nota alle cronache perché, anch’essa nel business dell’accoglienza, dava da mangiare ai migranti che vivevano nelle sue strutture cibo avariato e mordicchiato da ratti che, insieme alla muffa, invadevano letti e stanze.
Ma arriviamo al 2021. A ricoprire l’incarico di direttrice del Forte Urbano di Castelfranco Emilia è Maria Martone, la direttrice pro tempore ai tempi della rivolta nel marzo 2020 – e tutt’ora in forze – del carcere Sant’Anna di Modena. Recentemente è stata elogiata dal Sappe per gli sforzi da lei compiuti nel ripristino e ricostruzione del carcere cittadino dopo la rivolta.
Proprio a proposito di quest’ultimo punto, è bene fare un passo indietro, e ricordare quanto recentemente avvenuto. La risposta immediata dello Stato alle rivolte nelle carceri del marzo 2020 fu una strage di 14 morti tra le persone detenute.
Nel dicembre scorso, cinque tra i detenuti che erano stati trasferiti da Modena ad Ascoli Piceno dopo la rivolta al Sant’Anna, presentarono un esposto alla Procura di Ancona, in quanto testimoni della morte di Sasà Piscitelli nel carcere ascolano. Testimoniarono degli spari, dei pestaggi delle guardie e della mancata assistenza medica prima dei trasferimenti nel carcere Sant’Anna di Modena. Uno di loro è proprio Belmonte.
Pochi giorni dopo, con il pretesto ufficiale di dover essere sentiti dalla Procura di Modena, i cinque furono riportati in quel luogo di strage e tortura. Furono rinchiusi in una stanza liscia, al freddo, con le finestre rotte e privati della possibilità di mettersi in contatto con i propri cari: fu evidente a tutte/i il carattere intimidatorio e di ritorsione che ebbe quel gesto.
Si mobilitarono in molte/i e in breve tempo, la solidarietà fu ampia: dopo qualche giorno furono infine trasferiti altrove, ciascuno verso una diversa destinazione penitenziaria. Dopo diversi giorni, si venne a sapere che Belmonte era stato trasferito a Piacenza, dove a febbraio la magistrata di sorveglianza di Reggio Emilia, su richiesta del carcere di Piacenza, gli notificava il provvedimento di censura di tre mesi sulla corrispondenza.
Oggi a pena finita, si trova internato nella casa di lavoro di Castelfranco, la cui direzione è in mano alla stessa persona che dirigeva, all’epoca dei fatti raccontati dall’esposto, il carcere di Sant’Anna. Non dimentichiamo che nell’inchiesta della Procura modenese sulle morti al Sant’Anna, questa stessa direttrice ha affermato che tutti i detenuti, prima dei trasferimenti, avevano ricevuto assistenza medica presso il presidio sanitario allestito nel piazzale. Peccato che durante e dopo questi trasferimenti, altre 4 persone perderanno la vita. E altre 5 la perderanno proprio dentro il suo carcere.
Nonostante le minacce, le ritorsioni, i pestaggi, le violenze fisiche e psicologiche e i decenni passati dentro le galere il 27 aprile, Belmonte faceva sapere tramite lettera di aver “intrapreso uno sciopero della fame perché da diversi anni mi tengono sequestrato dallo Stato italiano e quindi non ho altre vie per protestare contro questo abuso di potere che ha il nostro ordinamento penitenziario in Italia, mi trattengono con delle normative di Benito Mussolini e poi festeggiano la liberazione dal fascismo…”.
Ad oggi non è stato ancora possibile ricevere notizie sulle sue condizioni di salute e se ha proseguito lo sciopero.
Qui l’indirizzo per scrivergli:
Belmonte Cavazza
via Forte Urbano, 1
41013 – Castelfranco Emilia (MO)
CONTRO LO STATO E I SUOI LUOGHI DI TORTURA,
AL FIANCO DI BELMONTE E DI CHI ALZA LA TESTA
Liberiamo nelle brughiere:
Oggi 14 maggio, mentre nel tribunale di Bolzano si stava pronunciando la sentenza per 63 compagne\i accusate\i di devastazione e saccheggio per il corteo contro le frontiere al Brennero del 7 maggio 2016, per le\i quali l’accusa ha chiesto oltre 300 anni di carcere, un gruppo di compagne è entrato nella stazione di Bologna raggiungendo il binario da cui partiva il treno Obb diretto a Munich, treno che attraversa quella frontiera dove si sarebbe dovuta costruire nel 2016 una barriera anti-immigrati voluta dallo stato italiano e austriaco. Per mesi su quei treni chiunque non avesse una faccia bianca veniva sottoposto ai controlli della polizia. Questa mattina, su quel binario è stato quindi aperto uno striscione e fatto un intervento, mentre venivano distribuiti dei volantini ai passeggeri del treno, per ricordare loro e a tutti che le frontiere continuano ad uccidere e che chi vi si oppone o cerca di attraversarle è duramente represso.