DI FAVE, MICROFONI, FUMOGENI E OMBRELLI

Dal campo di fave, sulle mobilitazioni in Sardegna contro carcere e 41bis.

Mentre la procura di Sassari apre un’inchiesta per sanzionare la mobilitazione in solidarietà alla lotta di Alfredo Cospito, nelle carceri italiane le condizioni di vita sono in continuo peggioramento, come dimostrano i 22 suicidi dall’inizio dell’anno (1) e i sempre più frequenti scioperi della fame intrapresi dalle persone recluse.
Due di queste sono decedute a poche settimane di distanza, tra aprile e maggio, nel carcere di Augusta (SR), mentre portavano avanti questa forma di protesta estrema nel silenzio più totale del Ministero, del DAP e dei media (2). Nel carcere di Bancali Domenico Porcelli, recluso a cui è stato applicato il regime di 41 bis, si trova in condizioni di salute sempre più critiche per lo sciopero della fame iniziato il 28 febbraio.

In questi ultimi mesi abbiamo deciso di appoggiare la lotta di Alfredo Cospito contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo, vere e proprie forme di tortura. Riteniamo inoltre che il sistema carcerario sia funzionale al mantenimento dell’ordine sociale basato sullo sfruttamento capitalista, per questo le iniziative di questi mesi si sono indirizzate anche “contro il carcere e la società che lo rende necessario”.
Prima ci siamo presx le strade e le piazze della città di Sassari per far uscire la sua voce, affinché tutte e tutti sapessero quello che stava succedendo a pochi chilometri dalle nostre case. Poi ci siamo datx appuntamento in diverse giornate sotto le mura del carcere di Bancali per rompere l’isolamento imposto ad Alfredo, amplificando musica, leggendo saluti, comunicazioni e aggiornamenti sulle azioni di solidarietà nei confronti di questa lotta.

A fine gennaio Alfredo è stato trasferito al carcere di Opera (MI), e solo in aprile, dopo sei mesi, ha interrotto lo sciopero della fame in seguito alla sentenza della corte costituzionale che ritiene “illegittimo il divieto per il giudice di ritenere prevalenti le circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata in caso di reati puniti con la pena dell’ergastolo”. Tradotto nel concreto, per la prima volta, un organo di stato apre alla possibilità che Alfredo non sia per forza condannato all’ergastolo; non solo, questa sentenza si applicherà a tutti i casi analoghi al suo. A essere ‘contraddetta’ è proprio la giurisprudenza tutta in materia di reati che prevedono l’ergastolo come unica pena. Il che è davvero un fatto “storico”.

La solidarietà espressa in varie forme durante i sei mesi di sciopero della fame di
Alfredo è riuscita nell’impresa di portare all’attenzione pubblica, seppur per un tempo limitato, le terribili condizioni di vita delle circa 750 persone poste in 41 bis. La lotta iniziata da Alfredo contro questo regime e l’ergastolo non è terminata con la fine del suo sciopero della fame, e lui è ancora sottoposto a 41 bis. Continuano le lotte, le iniziative di solidarietà e continua, di contro, la repressione.

Oggi diverse procure italiane presentano il conto, aprendo inchieste volte a reprimere le diverse azioni intraprese negli scorsi mesi. L’obbiettivo come sempre è quello di intimorire e scoraggiare chi ha deciso di prendere parola e agire concretamente. Non a caso i reati maggiormente contestati nell’inchiesta sassarese sono proprio quelli di manifestazione non autorizzata, in molti casi aggravata dall’aver pronunciato discorsi, aver letto testi e aver cantato in sostegno ad Alfredo.

Questa inchiesta ed altre azioni
giudiziarie attivate in Sardegna contro chi si oppone alle varie forme di colonizzazione del territorio (occupazione militare, colonialismo energetico, trasformazione della Sardegna in un’immensa colonia penale tra carceri di massima sicurezza e CPR) nei fatti criminalizzano la solidarietà e ci proiettano in un clima repressivo poco rassicurante.

La repressione non fermerà le nostre lotte.

Alcunx indagatx del campo di fave


TESTO PDF: Di fave, microfoni, fumogeni e ombrelli

(1) http://www.ristretti.it/areestudio/disagio/ricerca/
(2) https://www.radiondadurto.org/2023/05/12/carcere-due-detenuti-in-sciopero-della-fame-morti-nel-carcere-di-augusta/

 

CATANIA: DENUNCE PER LE MOBILITAZIONI CONTRO IL 41BIS

Centro Sociale Autogestito Officina Rebelde:

Nelle scorse settimane, ad alcun@ attivist@ e frequentator@ del C.s.a. Officina Rebelde, oltre che di altre realtà, sono state notificate delle denunce per avere “disobbedito agli ordini delle autorità”. I fatti contestati riguarderebbero le mobilitazioni a sostegno della lotta contro il 41-bis ed intraprese in solidarietà ad Alfredo Cospito ed al suo sciopero della fame, in particolare un corteo non autorizzato che avrebbe sfilato per le strade della città.

Come collettivo politico abbiamo deciso di sostenere la lotta di Alfredo perché lottiamo contro le ingiustizie carcerarie: dentro questo assetto sociale neoliberista ed autoritario, il carcere opprime soprattutto gli appartenenti alle classi popolari ed il carcere duro è stato spesso usato per piegare i prigionieri “politici” come Alfredo.

La repressione non ci fermerà: non l’ha fatto in passato e non lo farà oggi, queste denunce ci rafforzano soltanto nella convinzione di essere nel giusto e sono una grande dimostrazione di debolezza da parte di istituzioni che non sono più abituate a fronteggiare il dissenso. Noi proseguiremo nelle nostre lotte a fianco di chi è ingiustamente carcerato, vittima di discriminazioni razziali o di genere, per il reddito, contro il futuro di sfruttamento, guerra e devastazioni ambientali che le élite globali vorrebbero imporci.
Attivisti del csa “Officina Rebelde” e di altre realtà sociali di Catania sono colpiti da denunce per le mobilitazioni a sostegno della lotta contro il 41bis e in solidarietà ad Alfredo Cospito in sciopero della fame.

https://www.osservatoriorepressione.info/catania-denunce-le-mobilitazioni-41bis/

CONTRIBUTI SULL’ALLUVIONE IN EMILIA ROMAGNA

Abbiamo deciso di raccogliere in questa pagina scritti e contributi sull’alluvione che ha colpito l’Emilia Romagna. Voci dai territori, esperienze e riflessioni

Sull’alluvione in Emilia Romagna
Pensieri di un compagno il giorno dopo l’alluvione
Alluvione, la mia solidarietà è selettiva
Con l’acqua alla gola

Qui le traduzioni dei testi in castigliano.
Per inviare testi e contributi: brugo@autistiche.org


SULL’ALLUVIONE IN EMILIA ROMAGNA – Brughiere

20 maggio 2023

È il tempo delle emergenze e delle catastrofi, oltre che delle narrazioni traumatiche per amministrare il disastro, magari con la sottomissione sostenibile delle masse, in particolare quelle povere e sacrificabili. Disastri che assumono sui media l’aspetto di calamità, nonostante siano drammaticamente annunciati e tragicamente frutto di questo modello di sviluppo insensato. Mentre l’Emilia Romagna viene devastata dall’alluvione, sui media si sprecano gli appelli istituzionali alla solidarietà e all’unità da parte degli stessi responsabili del danno. Una solidarietà che dalle poltrone di chi governa questa Regione suona un po’ “pelosa” per non dire sfacciatamente ipocrita. Si tratta infatti degli stessi che hanno sempre avvantaggiato palazzinari e speculatori a scapito di chi non arriva alla fine del mese. Gli stessi che hanno promosso la cementificazione selvaggia dei territori, la costruzione su aree “protette”, zone a pericolo di frana, intorno ad aree alluvionali. Gli stessi che permettono la predazione di ogni angolo di territorio con scellerati progetti di “riqualificazione” , sempre rigorosamente “green”.

Tutta la nostra solidarietà a chi, magari già in difficoltà prima, sta vivendo in queste ore ulteriore solitudine e disperazione. Non dimentichiamo chi sono i responsabili. Sosteniamoci e sosteniamo la solidarietà dal basso che si sta muovendo.


PENSIERI DI UN COMPAGNO IL GIORNO DOPO L’ALLUVIONE:

Mentre ancora i fiumi in Emilia e in Romagna sono in piena, molti paesi e città della pianura alluvionati e il fango continua a muoversi verso valle, sento l’esigenza di esprimere qualche riflessione a caldo su quello che sta succedendo nei territori in cui da qualche anno vivo. La quantità di acqua piovuta in questi giorni è senza dubbio eccezionale, eppure sappiamo da tempo, e con sempre maggiore certezza, che gli eventi atmosferici estremi sono e saranno sempre più frequenti. Ciò nonostante, toccare con mano le conseguenze di una pioggia così forte e concentrata in poche ore, è qualcosa che mi coglie impreparato, emotivamente e materialmente. Mi sono trovato a scambiare messaggi e chiamate continue per avere aggiornamenti sulla situazione che varie persone intorno a me stanno vivendo, guardando con preoccupazione verso il cielo, i versanti di colline e montagne che rilasciano detriti ad ogni acquazzone, i letti di torrenti di solito amichevoli, sempre più gonfi e minacciosi. L’estate scorsa ci si diceva questa frase, un po’ come scherzo,per sdrammatizzare, un po’ no: “è l’estate più calda che ho mai vissuto. Ma è anche la più fresca tra quelle che vivrò”. Se traspongo questo discorso pensando alla pluviometria, mi vengono i brividi. Brividi di paura, perché in gioco c’è l’incolumità e la sicurezza di persone care. E brividi di rabbia, perché so che c’è già chi si sfrega le mani pensando ai soldi che si farà con la ricostruzione. E sono gli stessi che ingrassano in un sistema in cui io e chi mi circonda ci arrabattiamo per la mera sopravvivenza materiale, quando va bene. Il simulacro della sicurezza e dell’invulnerabilità è qualcosa che voglio distruggere e lasciarmi alle spalle, ma per fare spazio ad un diverso modo di vivere, di intessere legami e fare compromessi con l’imprevedibilità dell’ambiente in cui sono immerso. Non per garantire a chi riproduce un mondo basato sul dominio di ingrassare tranquillo. E allora impedire quel cantiere, quell’allargamento dell’autostrada, quell’impianto di risalita, quella diga, diventa qualcosa di molto più urgente, perché in ballo non c’è qualcosa di futuro, di immaginario, di simbolico, di ideale. È nel presente che quei progetti agiscono la loro furia omicida. E in gioco ci sono già le nostre vite. Ora che questo mi è più chiaro, forse mi serve meno coraggio per buttare il cuore oltre l’ostacolo.


ALLUVIONE, LA MIA SOLIDARIETÀ È SELETTIVA
Articolo uscito su “Betzmotivny”, anno III, numero 10

A partire più o meno da martedì 16 maggio e sulla scia dell’emergenza alluvione che ha colpito parte della Regione Emilia-Romagna, i vertici di alcune organizzazioni politiche sedicenti antagoniste del territorio bolognese e alcuni gruppi di persone riunitesi spontaneamente hanno deciso di dar vita a delle Brigate di solidarietà aventi lo scopo di “autogestire” interventi di aiuto alle popolazioni emiliano-romagnole colpite dall’alluvione di cui si continua a parlare molto. Di come se ne parli di questa alluvione che non costituisce certo un’eccezione, una calamità inaspettata, ma che si inserisce nella catena di catastrofi prodotte dal modo di produzione che devasta le vite ed i luoghi di vita di miliardi di sfruttati e altri esseri, nonché dagli uomini e dalle donne aventi specifiche responsabilità politiche, tecniche e decisionali a livello comunale, regionale e nazionale; sulle modalità mediante le quali le maggiori testate giornalistiche ed i media di regime affrontano l’alluvione, con quali toni (piuttosto pacati) e mediante quali contenuti (volti a non mettere seriamente in discussione la società che produce queste catastrofi ed a salvare la faccia ai responsabili in carne ed ossa delle stesse), non è forse il caso di soffermarsi in questa sede.
Lungi dal giudicare negativamente le svariate persone (non importa se compagne o meno) che spontaneamente hanno deciso di darsi da fare per tentare di aiutare coi propri mezzi, anche e soprattutto individualmente piuttosto che organizzandosi informalmente con propri amici, cioè senza dar vita ad organismi di carattere parapolitico (perché effettivamente legati ad organizzazioni politiche e/o sindacali – più o meno istituzionali – preesistenti), voglio invece riflettere polemicamente su quelle organizzazioni (senza perdere tempo a riportare le loro sigle) che hanno cavalcato da subito la disponibilità di non poche persone effettivamente non colpite direttamente dall’alluvione, ad attivarsi nell’organizzazione di iniziative di solidarietà generica, se così la vogliamo chiamare.
Ed è così che su un gruppo telegram di coordinamento ed organizzazione degli aiuti legato ad una di queste organizzazioni ”antagoniste” veniva manifestata – nei giorni immediatamente successivi agli eventi più critici – l’entusiasmo dato dal fatto che svariate testate giornalistiche avevano riportato la sigla di questa stessa organizzazione facendone le lodi, che più volte erano state ripostate sui social le foto degli attivisti dell’organizzazione, assieme ad altri ”volontari”- presumo ingenuamente ignari di queste pagliacciate politiche – intenti a spalar fango nelle località colpite del comune di Castel Bolognese.
Uno schifo, insomma e, intendiamoci bene, non perché personalmente sia un apologeta delle pratiche di aiuto “disinteressato” e religiosamente rivolto a tutti gli esseri umani (ad esempio tanti alluvionati, per me non è prioritario aiutare dei borghesi a salvare i beni racchiusi nella propria villa di tre piani); uno schifo perché chi si riempie la bocca di solidarietà e mutuo aiuto non si fa scrupoli a tentare di ricavare consenso, visibilità e riconoscimento politico dalla strumentalizzazione di certe tensioni e di certe pratiche egemonizzandole e spacciandole poi per “autogestite dal basso”.
La solidarietà per me non è qualcosa di universale, insomma non è qualcosa che voglia rivolgere a chiunque, a qualsiasi essere umano in quanto tale, per lavarmi la coscienza e dimenticarmi del fatto che ogni giorno non mettendo veramente in discussione la società industriale, il capitalismo vorace di risorse, energie e metalli rari, lo sfruttamento, la gentrificazione, il consumo di suolo sfrenato a profitto di grandi e piccole imprese capitalistiche (per quanto riguarda la logistica ad esempio, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, certifica un primato assoluto per la Regione Emilia-Romagna, che nel periodo tra il 2006 e il 2021 ha occupato quasi 400 ettari nella costruzione di magazzini e poli logistici), sto alimentando e legittimando questo ciclo di catastrofi. Se la solidarietà in queste contingenze è prestare aiuti a chicchessia allora non sono solidale, allora non me ne fotte uno stracazzo di niente di attivarmi nell’aiuto, di partecipare alla costruzione di brigate ad uso e consumo di piccoli politicanti leninisti da strapazzo.
La solidarietà, l’aiuto e la vicinanza decido io a chi portarla, sulla base delle mie conoscenze, delle mie affinità, di miei legami di fiducia e amicizia, ma anche di una consapevolezza di classe. La solidarietà a cui penso è una solidarietà selettiva, non mi vergogno di sostenerlo.
Non voglio fare da manovale per le progettualità politiche di organismi politici che disprezzo e che mi fanno venire il vomito, non voglio ricavare nessun consenso dalle pratiche di aiuto e vicinanza, non voglio sfruttare la dialettica soccorritore-soccorso per “radicarmi” politicamente, per far vedere alla gente che sono capace di tappare i buchi prodotti dalla società dello Stato e Capitale. Forse sarebbe il caso di tenere a mente questo aspetto di selettività nella pratica della solidarietà, onde evitare di farsi strumentalizzare, per avere la sicurezza di autogestirsi veramente quelle pratiche di cura e aiuto evitando di trasformarle in strumento di ricatto, di spettacolarizzazione politica e umanamente, mi viene da aggiungere, in rito di redenzione.


CON L’ACQUA ALLA GOLA
Uno sguardo anarchico sull’alluvione in Romagna

PDF: Con l’acqua alla gola

La testimonianza che sto per riportare, è sicuramente limitata. Sono stata per pochi giorni in contesti paesani e ad oggi, a parte qualche racconto di alcuni solidali, non so come sia andata nelle città più grandi colpite dall’alluvione. Alcuni dei fatti che riporto mi sono stati raccontati dalla popolazione locale e non vi ho preso parte in prima persona. Non ho avuto modo di verificarli in fonti scritte che, a tal proposito, scarseggiano. Inoltre, non conoscendo la morfologia del territorio, molte delle informazioni che mi hanno dato sulla gestione delle acque in eccesso purtroppo le ho perse. Del resto, prendere appunti durante chiacchierate informali mi sembrava decisamente fuori luogo.

Sant’Agata sul Santerno, Conselice, Lugo (26 – 30 Maggio 2023)

Una decina di giorni dopo la fine della cosiddetta seconda fase dell’alluvione, sono partita per la Romagna. Ciò che mi ha spinto a raggiungere questi luoghi, sono sincera, è stato uno spontaneo spirito di solidarietà nei confronti di umani e animali. Solidarietà di classe o “selettiva1”. Certo, lo do per scontato, ma lo specifico per non creare fraintendimenti. Non sto parlando di una solidarietà genericamente intesa, rivolta a tutto il genere umano. Non posso amare chi mi sfrutta. La solidarietà la provo nei confronti dei miei simili: gli/le oppressi/e, gli/le sfruttati/e, gli/le esclusi/e. È con questi ultimi che provo ad instaurare dinamiche di mutuo-aiuto. Nel testo la parola ‘solidarietà’ va sempre intesa in questo senso.

Consapevole che in situazioni di emergenza lo Stato mette in campo i suoi dispositivi, ho scelto di recarmi presso un rifugio che ospitava in quel momento animali alluvionati, che si trova poco distante dalle zone maggiormente colpite. Ciò mi sollevava dal timore di una eventuale compromissione/collaborazione con le autorità, con la quali in quanto anarchica non volevo avere a che fare, ma che sapevo invece avrei sicuramente incontrato nelle “zone rosse”. Il mio tentativo di stare alla larga da queste zone è però fallito. Una volta giunta sul campo, ho constatato che l’emergenza animali era rientrata e non vi era grossa necessità di braccia al rifugio. Mi sono così recata nei paesi fortemente colpiti dall’alluvione, alcuni dei quali in quel momento si trovavano ad affrontare la “seconda emergenza2”.

Quell’istintivo spirito di solidarietà che mi aveva spinto a partire, ha avuto la meglio sui miei timori di compromissione. Non solo mi ha dato l’opportunità di vedere da vicino un dispositivo emergenziale operativo, ma ha anche regolato il mio agire. Questa consapevolezza l’ho raggiunta solo in un secondo momento. Inizialmente sono quindi entrata nei paesi in punta di piedi.

Cittadini senza Stato

La mia paura di compromissione con le autorità è svanita immediatamente. Entrando nei paesi ho scoperto che la Protezione Civile non era impegnata nelle case, ma aveva un ruolo meramente “di presenza”. Le forze messe in campo erano esigue se non nulle. A Sant’Agata sul Santerno, per esempio, vi erano mezzi e personale in divisa concentrati nei pressi del Comune. Questi mezzi però erano pressoché fermi ed estremamente puliti, anche a fine giornata. Per smantellare le montagne di detriti che palesemente ingombravano le strade, gli abitanti dovevano recarsi in Comune dove, tramite un modulo cartaceo, chiedevano la rimozione del materiale. Anche i mezzi dei Vigili del Fuoco erano esigui e impegnati in situazioni circoscritte. Il mondo delle associazioni umanitarie era assente, ad eccezione di qualche gruppetto (per esempio gli scout, Greenpeace). A detta di alcuni abitanti i mezzi di soccorso, nel pieno dell’alluvione, erano irreperibili o comunque incapaci di far fronte ai bisogni della maggior parte della popolazione. Questi paesi si sono trovati e si trovano tutt’ora in uno stato di completo abbandono. Riporto queste informazioni non per alzare un coro di indignazione nei confronti dello Stato o per “chiedere” un qualche intervento. La finalità dello scritto, oltre quella descrittiva della situazione che ho osservato, è quella di provare a comprendere le finalità insite al modello gestionale adottato in questa emergenza.

A Ravenna i Vigili del fuoco passavano per le strade con l’altoparlante ordinando l’evacuazione. Le persone, una volta uscite, hanno trovato le strade chiuse e dunque sono state costrette a rientrare nelle case. A Conselice le autorità hanno dato ordine di evacuare il paese, ma buona parte della popolazione si è rifiutata. Le persone sono così rimaste chiuse in casa per 12 giorni senza acqua, gas ed elettricità, a causa dell’acqua alta. Gli unici a portare cibo e beni di prima necessità sono stati i contadini che si sono organizzati con i trattori, assieme a qualche solidale con il gommone. Ciò avveniva nonostante i Vigili del Fuoco intimassero ai solidali di andarsene immediatamente per rischio biologico.

La mancata mobilitazione di forze da parte dello Stato ha creato un forte senso di sfiducia e una gran rabbia nei confronti della Protezione Civile, delle amministrazioni comunali e regionali, delle forze dell’ordine, dei soccorsi, dei giornalisti e dei politici in visita. A Sant’Agata sul Santerno, il Prefetto di Ravenna è stato rincorso dagli abitanti con i badili in mano. A Conselice (e in qualche altro paese che non ricordo) i sindaci girano per il paese scortati dai Carabinieri. A Lavezzola è accaduto che un padrone di un’importante azienda agroalimentare, si è scontrato con la Sindaca (del PD), la Protezione Civile, il Consorzio di bonifica e i Carabinieri. Il Destra Reno stava per esondare e la chiusa per far defluire l’acqua nel canale di bonifica che sfociava nel Reno – il quale aveva il livello dell’acqua molto più basso – non si apriva a causa della scarsa manutenzione. Le autorità erano accorse sul luogo, ma stavano semplicemente prendendo atto della situazione. Nel frattempo l’imprenditore si era organizzato con mezzi propri per bypassare l’acqua, sostenuto dagli abitanti del paese. La Sindaca però non era d’accordo con questo intervento, in quanto non autorizzato. Di fronte alla rabbia degli abitanti (accorsi sul luogo) e alla minaccia del padrone – che le intimava di spostarsi altrimenti l’avrebbe presa sotto – la prima cittadina non ha potuto far altro che andarsene, scortata dai Carabinieri. L’acqua così è stata bypassata.

Questo esempio, chiaramente, non è riportato per dimostrare la filantropia di un padrone. Quest’ultimo, è chiaro, aveva il suo profitto da salvaguardare. Era sicuramente l’unico ad avere la possibilità di “salvare il paese” appunto perché, in quanto padrone, proprietario di mezzi e con grandi disponibilità di denaro. Ho visto in questo episodio una contraddizione dello Stato che, nelle vesti della Sindaca, non è stato in grado – o non ha voluto – tutelare quella parte di popolazione, la borghesia, che è solito rappresentare.

Narrazione VS realtà

Prima della partenza mi sono informata per capire quali strade erano percorribili. La percezione che ho avuto leggendo vari avvertimenti era quella di una situazione simile al primo lockdown. Strade chiuse, posti di blocco, controllo dei movimenti della popolazione. Anche lungo la E45 ho visto vari cartelli che suggerivano di lasciare libere le strade per permettere ai mezzi pesanti di Protezione Civile, Vigili del Fuoco ed Esercito di circolare più liberamente. Ciò che veniva narrato, ovvero un grande traffico di mezzi pesanti delle autorità nei luoghi colpiti, si è rivelato falso. Le strade, sia quelle principali che le secondarie all’interno delle campagne, erano libere. Il traffico regolare e i mezzi pesanti in circolazione pochi. L’accesso ai paesi alluvionati era libero. Mi è capitato di trovare dei posti di blocco in entrata a Sant’Agata sul Santerno, che vietavano ai non residenti l’ingresso in paese. I Carabinieri e la Polizia Locale avevano però una certa difficoltà a fermare le persone che, con determinazione, sostenevano che dovevano circolare liberamente. Qualche solidale si faceva intimidire, oppure credeva ai Carabinieri che affermavano che in quel paese “tutto era a posto e non c’era bisogno di volontari”, così tornava indietro. La maggior parte delle persone però passava lo stesso. O a piedi, o cambiando strada, oppure inventandosi qualche scusa. Visto il gran numero di solidali accorsi, era molto difficile per le forze di polizia poter controllare tutti, nonostante in alcuni casi ci fossero due filtri per l’ingresso ai paesi.

Due parole anche sull’applicazione VolontariSOS… A quanto detto dalle autorità, solo chi era registrato a questa applicazione poteva recarsi ad aiutare la popolazione ed entrare nelle zone rosse. Questo per motivi di assicurazione in caso di incidenti, di controllo e organizzativi. In questa applicazione il volontario doveva inserire i suoi dati e prenotarsi un “turno”. Nella realtà, la maggior parte delle persone che ho incontrato non si erano affatto registrate. Alcuni erano contrari alla registrazione in sé e vedevano in questa applicazione un tentativo di controllo e tracciamento. Chi invece si era registrato, raccontava di come questa applicazione fosse totalmente fallimentare, dal momento che i “turni” risultavano tutti occupati. Nonostante ciò, queste persone si sono recate sul posto lo stesso, pensando fosse più semplice passare casa per casa a chiedere se c’era bisogno, piuttosto che affidarsi ad una piattaforma digitale.

 Si può affermare quindi che in questi paesi la circolazione dei solidali fosse abbastanza fuori controllo per le autorità. Lo stesso si può dire anche in merito alla gestione di alcuni hub di smistamento merci. A Conselice, su ordine del Comune, vi era un grande hub dedicato solo alla ricezione degli aiuti. La merce smistata doveva poi essere portata ai singoli punti di distribuzione, dove la popolazione si recava a prendere ciò di cui aveva bisogno. Nella realtà in questo hub venivano direttamente le persone a prendersi la merce che serviva e da lì partivano macchine cariche che, strada per strada, distribuivano merce a chi chiedeva. Ciò grazie al buon senso delle persone che attraversavano quel luogo e che, di comune accordo, avevano convenuto che aveva più senso distribuire direttamente, piuttosto che accumulare merce nell’hub centrale e lasciare le persone a secco, come il Comune aveva ordinato di fare.

A tal proposito va segnalato come, ad un certo punto, il Prefetto di Ravenna ha fatto pubblicamente degli appelli affinché i volontari abbandonassero le zone alluvionate, perché di intralcio alle operazioni delle autorità.

A proposito di Angeli del fango

La composizione delle persone accorse ad aiutare si è rivelata un mix interessante. Complottisti, no vax, animalisti di tutte le età, no green pass… Persone che, per un motivo o un altro, avevano da tempo maturato una coscienza critica e una pratica, non necessariamente sotto la bandiera di qualche gruppo o organizzazione. Molti infatti sono accorsi individualmente, diffidando di grandi organizzazioni accentratrici, caricandosi la macchina di quanto poteva essere utile (idropulitrice, cibo per animali, vestiti, coperte) e girando nei paesi offrendo la propria disponibilità, anziché presentarsi ai coordinamenti gestiti dalle autorità.

La retorica degli angeli del fango proposta dai media, veniva derisa dalla maggior parte delle persone e sentirne parlare non era una bandiera di vanto, piuttosto faceva innervosire. Tanti volontari erano persone alluvionate che, una volta sistemata la loro abitazione dove “l’acqua era arrivata alla gola”, si sono recati da chi aveva ancora bisogno, mettendo in pausa le proprie attività quotidiane tra cui il lavoro. Ho respirato un clima di collaborazione e amicizia, privo di pregiudizi (per esempio legati al genere) e ho incontrato persone con una sensibilità particolare. Un pomeriggio, ero con altre persone ad aiutare una famiglia che stava vivendo un forte disagio psicologico a causa dell’alluvione. Ad un certo punto qualcuno dal Comune ha ben pensato di mandare due guardie della Polizia Locale. Sono corsa fuori per vedere cosa volessero ma, prima di me, una donna era uscita e stava dicendo alle guardie di andarsene immediatamente, perché la situazione era tranquilla e loro avrebbero solo creato problemi.

Durante la giornata si alternavano momenti di lavoro duro a momenti di discussione a 360°. Un’esigenza condivisa era proprio quella di parlare insieme: del Covid, della guerra, di queste continue emergenze che sembrano non finire mai, dei responsabili di tutto questo.

Un altro aspetto importante è stata la condivisione del dolore e della sofferenza. Condivisione fortemente “richiesta” dalle persone alluvionate che, spesso, ti fermavano per la strada per scambiare due chiacchiere, per piangere, per sfogarsi. Dietro questi sfoghi, la consapevolezza che l’alluvione non è stata semplicemente una catastrofe naturale improvvisa. Ma una catastrofe provocata e non annunciata, o annunciata con grande ritardo, con dei responsabili precisi: Protezione Civile, Consorzi di bonifica, amministrazioni comunali e regionali.

Insomma questa esperienza è stata, nonostante il dramma, in termini umani un vento d’aria fresca. Forse l’umanità è ancora un rischio da correre.

Quale protocollo?

Troppo facile sarebbe sostenere che lo Stato era impreparato a questa alluvione, come anche dire che non è stato in grado di gestire la situazione a causa della mancanza di mezzi, della troppa burocrazia o dell’incompetenza. Il suo operato è frutto di un insieme di circostanze e di scelte. Sicuramente la popolazione locale e i solidali hanno dato del filo da torcere alle autorità. Il tentativo di controllare i movimenti (tramite app e posti di blocco), di evacuare intere zone, di centralizzare la distribuzione di beni, di vaccinare la maggior parte della popolazione… da come ho visto non è riuscito molto. D’altra parte, però, lo stato di abbandono di questi paesi mi ha dato da pensare. Evidentemente si tratta di una scelta voluta e ragionata. Sinceramente non riesco ad oggi a darmi delle risposte definitive. Mi vengono in mente delle ipotesi, ma ritengo sia necessario avviare un dibattito sulle modalità con le quali lo Stato affronta queste emergenze locali. Visto l’ormai prossimo collasso a cui la società industriale ci sta conducendo, queste catastrofi saranno sempre più frequenti. Forse lo Stato vuole abituare le persone al fatto che possa mancare per giorni l’acqua, l’elettricità, il gas e i beni di prima necessità? Oppure trascura completamente la popolazione di modo che quest’ultima reclami “più Stato”? O ci sono degli interessi, che non conosciamo, a sgomberare nello specifico questi territori colpiti dall’alluvione?

Credo sia urgente riflettere insieme, soprattutto con chi ha vissuto più da vicino l’alluvione. Avendo l’esperienza della pandemia, mi sono recata in questi luoghi aspettandomi di trovare un determinato dispositivo (militarizzazione, controllo degli spostamenti, impossibilità di accedere alle zone rosse), nella realtà ho trovato tutt’altro e ciò, devo dire, mi ha spiazzato. Allora, forse, diventa importante continuare a ragionare sugli stati di emergenza che ci vengono continuamente imposti, al fine di orientare il nostro agire. Per trasformare una piccola crepa nel sistema in una voragine.

un’anarchica

1 Alluvione, la mia solidarietà è selettiva, “Betzmotivny”, anno III, numero 10

2 Con questo termine intendo quella fase in cui, defluita l’acqua, arriva il momento di reperire il materiale, spalare il fango, gettare tutto ciò che è stato danneggiato ed eseguire i lavori di pulizia.

70 INDAGATI PER I PRESIDI AL CARCERE DI BANCALI IN SARDEGNA

70 fra compagne e compagni indagati per i presidi tenuti fra Novembre e Gennaio fuori al carcere di bancali, dove era detenuto Alfredo Cospito in regime di 41bis. Le accuse sono per manifestazione non autorizzata. Inoltre nelle settimane scorse è uscito un articolo di giornale, firmato dalla giornalista Nadia Cossu, con elencati i nomi e i cognomi di tutti e 70 gli indagati. I compagni sardi proseguono, nonostante le denunce, a portare avanti presidi sotto le carceri e i cpr sardi, dove proseguono le lotte di alcuni detenuti come Alessio Attanasio in sciopero del vitto, o di un altro detenuto in 41bis che è in sciopero della fame da 2 mesi e ha perso 13 kg.

http://www.ondarossa.info/newsredazione/2023/05/70-indagati-presidi-al-carcere-bancali

BOLOGNA: PRESIDIO AL CARCERE DELLA DOZZA

Domenica 21 maggio ore 17 presidio al carcere della Dozza. Dopo mesi di mobilitazione a fianco di Alfredo contro 41-bis ed ergastolo ostativo, continuiamo a portare la nostra solidarietà a chi si trova reclusx e vive la sofferenza quotidiana si essere sottrattx della libertà. In presidio per bucare l’isolamento del carcere e contro la repressione. Ritrovo in Piazza dell’Unità alle 16 per andare insieme in bus (linea 25) e in bicicletta.

AGGIORNAMENTI SUI FATTI DI BUDAPEST

Il febbraio scorso a Budapest venivano fermate 4 persone con l’accusa di essere coinvolte a vario titolo nel ferimento di alcuni nazisti. Due di queste, una compagna tedesca e una ragazza ungherese, sono poi state rilasciate, mentre le altre due, un compagno tedesco e una compagna italiana, si trovano tutt’ora in carcere. A tre mesi da questi arresti abbiamo deciso di scrivere un testo per cercare di condividere un quadro minimo della situazione e soprattutto per dare qualche aggiornamento rispetto alla condizione della compagna italiana, un’amica molto prossima con la quale molti di noi/voi hanno condiviso lotte, lutti, gioie e dolori negli ultimi quindici anni.

Il contesto

Per cominciare è utile sapere che gli arresti non sono avvenuti in un giorno qualsiasi. L’11 febbraio è una data di culto per i neonazisti ungheresi, ribattezzata “Giorno dell’ Onore” in memoria del massacro di un battaglione nazista completamente annientato nel febbraio del 1944 mentre tentava di eludere l’assedio dell’Armata Rossa alla città di Budapest. Negli ultimi anni le celebrazioni legate a questa ricorrenza hanno iniziato ad attirare neonazisti da altri paesi e sono nel tempo diventate un appuntamento sempre più frequentato da certi ambienti dell’estrema destra suprematista europea, in particolare tedesca, anche per via della maggiore tolleranza locale, rispetto a quanto comunemente permesso in Germania, verso l’esibizione di simboli, bandiere, uniformi. Dato il risalto oramai internazionale dell’evento, e il crescere delle proteste contro l’opportunità di ospitare in città questo tipo di parate, per la prima volta proprio quest’anno persino le autorità locali avevano deciso che non fosse appropriato concedere la fortezza di Buda come ritrovo ufficiale del raduno – come normalmente accadeva – e pertanto gli organizzatori della rete neonazista Blood and Honour hanno organizzato “solo” una marcia campestre fuori città, strutturata come percorso avventura nella foresta in cui avvenne la disfatta. Nei pressi della fortezza si sono ritrovati invece alcune centinaia di antifascisti.
È questo probabilmente lo scenario della città di Budapest nei giorni in cui vanno inquadrati i fatti.

Le accuse

Delle due persone ancora oggi in carcere sappiamo solo che sono state fermate a bordo di un taxi e che la loro detenzione si basa su pochi elementi indiziari che la polizia ungherese ritiene sufficienti a richiedere un supplemento di indagine. Per quanto riguarda la compagna italiana sarebbe indagata per due episodi, ma almeno uno dei due non sarebbe compatibile con quanto attestano i suoi biglietti aerei. L’accusa è quella di “aggressione a un membro della comunità” e sarebbe collegata ai ferimenti di alcuni nazisti avvenuti per mano di ignoti nei giorni precedenti al fermo. Gli atti delle indagini sono comunque ancora in corso di traduzione e vi lasciamo immaginare le difficoltà di reperimento delle informazioni e di coordinamento tra avvocati.

La detenzione

La detenzione in Ungheria prevede la possibilità di ricevere lettere, telegrammi, soldi, alimenti o indumenti, solo da persone direttamente registrate e autorizzate ai colloqui. Per questo motivo per tutto il primo mese di detenzione entrambi non hanno ricevuto neppure il pacco di prima necessità e hanno dovuto arrangiarsi con i vestiti che indossavano. Attualmente il compagno tedesco è autorizzato ai colloqui con i genitori e può dunque comunicare con loro via telefono o skipe e ricevere beni di prima necessità e lettere. La compagna italiana ha inizialmente ricevuto l’autorizzazione a comunicare con i genitori e con il legale italiano, autorizzazione però revocata subito dopo la prima telefonata. Da allora ha un telefono in cella ma non è autorizzata a comunicare con nessuna persona differente dal suo avvocato ungherese e dal funzionario di collegamento dell’ambasciata italiana. Un primo ricorso contro questa decisione è stato respinto, dunque tutto lascia pensare che nei prossimi mesi la sua detenzione continuerà senza possibilità di colloqui e di contatti con l’esterno, se non mediati dall’avvocato del posto. Allo stesso modo anche noi qui fuori, privati di canali diretti con lei, dobbiamo affidarci ad informazioni riportate indirettamente, con tutte le difficoltà che questo comporta nella costruzione della solidarietà. In ogni caso sembra stia bene e, nonostante le difficoltà dei primi mesi di detenzione, ora la situazione appare migliorata. Il primo pacco è stato consegnato e le condizioni detentive sono diventate meno gravose da quando non è più isolata e condivide la cella – non più infestata dalle cimici – in compagnia di una detenuta con cui ha stretto un buon rapporto. Queste novità l’avrebbero portata alla decisione di non sollevare pubblicamente sui media locali il caso della propria situazione detentiva, come in un primo tempo le aveva invece suggerito di fare l’avvocato.
Nell’immediato i mezzi di informazione ungheresi hanno trattato la notizia degli arresti con un certo clamore, col passare delle settimane invece l’attenzione è scemata e il caso sembra al momento seguire procedure ordinarie, per quanto lente e arbitrarie possano apparire. La stessa lentezza nella consegna del pacco di prima necessità e le pessime condizioni sanitarie delle celle non sono da considerarsi frutto di un accanimento personalizzato, ma piuttosto normale amministrazione delle carceri ungheresi. Le indagini rimangono comunque ancora aperte e abbiamo notizia di un interrogatorio senza avvocati, al quale si sono entrambi rifiutati di rispondere.

La Germania

Se sul lato ungherese i riflettori sulla vicenda sembrano essersi spenti, in Germania i fatti di Budapest trovano ancora spazio sui giornali e sono oggetto di indagini parallele da parte della polizia federale. L’ipotesi avanzata è quella di una continuità tra quei ferimenti e altri episodi simili avvenuti in Germania. Con questa giustificazione la polizia ha avviato negli ultimi mesi una serie di perquisizioni negli ambienti antifascisti e spiccato sette nuovi mandati di arresto, agendo di concerto con una campagna mediatica faziosa e aggressiva volta ad accreditare la necessità di inserire i gruppi Antifa tedeschi nell’elenco dei gruppi terroristici riconosciuti dall’Unione Europea. Per contestualizzare meglio questa intensità repressiva occorre sapere che negli ultimi anni il governo regionale della Sassonia si è radicalizzato ancora più a destra, in linea con la più generale tendenza federale, e dopo le forti proteste antifasciste del 2009/2011 proprio in questa regione è stato più volte utilizzato il reato di “associazione criminale” per indagare, perquisire, arrestare compagni legati agli ambienti Antifa. Fino ad oggi nessuna inchiesta era arrivata a processo ma questo tipo di imputazione ha permesso di intercettare centinaia di persone coinvolte direttamente negli eventi o informate sui fatti. Dal 2019 è stata istituita una commissione speciale dedicata agli Antifa (Soko Linx), una mossa elettorale con copioso stanziamento economico che ha rivendicato arresti ampiamente spettacolarizzati nel novembre 2020. Ad aggravare la situazione nel 2021 si è poi aggiunta la figura di un infame che ha iniziato a contribuire attivamente con gli inquirenti. Il processo scaturito da quei fatti dovrebbe arrivare a sentenza proprio a fine maggio 2023 e per la prima volta il capo di imputazione di “associazione criminale” è rimasto sul tavolo delle condanne possibili. Lo stesso gruppo portato a giudizio a Dresda (definito dalla stampa la “banda del martello”) è quello a cui oggi in Germania si vorrebbe attribuire anche la paternità dei fatti di Budapest. Per quanto riguarda nello specifico la compagna italiana arrestata non abbiamo nessun motivo concreto per ritenere che sia al momento coinvolta nel versante tedesco dell’inchiesta.

Prossime tappe

La prossima decisione del pm sulle misure cautelari per i due arrestati di Budapest sarà presa il 14 giugno prossimo. L’avvocato in quel frangente dovrebbe anche presentare una prima domanda per il trasferimento ai domiciliari. Nel caso della compagna italiana c’è chi si sta occupando di trovare per lei casa e lavoro sulla città di Budapest, a questo scopo contatti e suggerimenti sono i benvenuti. Sulla carta esiste anche la possibilità che possa ottenere gli arresti domiciliari nel suo paese di origine, come previsto dalla legislazione europea, e in questo caso le soluzioni abitative non mancherebbero. Lo stesso discorso vale per il compagno tedesco. Se questa prima richiesta non dovesse andare a buon fine, la difesa ci riproverà nel corso del mese di agosto, quando – trascorsi i primi sei mesi di detenzione preventiva – dovrebbe aprirsi per entrambi una possibilità di uscire di prigione.
Nel frattempo i compagni tedeschi stanno progettando una campagna pubblica di solidarietà che speriamo di poter condividere al più presto.
A Milano stiamo pensando ad un incontro pubblico da organizzarsi tra la fine di maggio e l’inizio di giugno, per provare a farci raccontare quanto sta accadendo in Germania e Ungheria e collegarlo a quanto accade nelle nostre città. Sarà anche occasione per rilanciare una campagna di raccolta fondi necessari per affrontare le spese legali e materiali a cui questa nostra amica e compagna sta andando incontro. Non lasciamola sola!
Seguiranno aggiornamenti…

Invitiamo chi può a contribuire alle spese legali:

MARTINA DEMICHELA
IBAN: IT38G0306930510100000001519
BIC: BCITITMM
CAUSALE: BENEFITBU
PAYPAL: Martina Demichela
Martina.demichela@gmail.com

dieci maggio duemilaventitre
alcuni amici e tante compagne da Milano

UN ALTRO SCIOPERO DELLA FAME CONTRO LA TORTURA DEL 41 BIS

Domenico Porcelli, detenuto in regime 41 bis a Bancali, è in sciopero della fame dallo scorso 18 febbraio. Totale, gelido disinteresse e censura da parte di istituzioni e media, dalle poche notizie che filtrano da quella tomba è già dimagrito di 13 kg e le sue condizioni di salute peggiorano velocemente.

ROMPIAMO IL SILENZIO
ABOLIZIONE DEL 41 BIS
TUTTX LIBERX