LA SUPERIORITÀ “RAZZIALE” EBRAICO-ISRAELIANA E LA PERSECUZIONE DEI PALESTINESI IN CISGIORDANIA DURANTE LA GUERRA DI GENOCIDIO E LA PULIZIA ETNICA

Riceviamo e diffondiamo:

Riportiamo, con un po’ di ritardo dovuti ai tempi di traduzione, una breve testimonianza e descrizione di quello che sta/stava succedendo in Cisgiordania, all’ 8 ottobre 2025 (ad oggi la situazione potrebbe essere peggiorata e i numeri presenti nel testo potrebbero risultare inesatti). Questo contributo è l’esperienza diretta di un palestinese che vive quei territori e l’occupazione sionista sulla sua pelle da tutta la vita, vedendone l’evoluzione e i cambiamenti. Se a Gaza la mira delle potenze sioniste è di eliminare Gaza, la sua popolazione e la sua memoria, poco più a nord in Cisgiordania l’occupazione israeliana avanza inesorabile, con la presa di sempre più terre da parte dei coloni israeliani e con la riduzione sempre maggiore degli spazi di agibilità e mobilità palestinesi. Non sentiamo la necessità di aggiungere un commento al testo, se non ribadire la nostra totale solidarietà al popolo palestinese che lotta per la sua liberazione e l’intento di dare spazio alle voci palestinesi che arrivano direttamente da quei territori e che molto spesso non giungono fino a noi.
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La superiorità “razziale” ebraico-israeliana e la persecuzione dei palestinesi in Cisgiordania durante la guerra di genocidio e la pulizia etnica

Dalle colline di Ramallah, la sera potevamo vedere le luci di Yafa, se il tempo era sereno potevamo vedere il mare. Abbiamo sempre detto che un giorno saremmo riusciti a raggiungere il mare. Ma ad oggi, dopo due anni di guerra genocida, non possiamo più stare sulle colline.
I Coloni e i gruppi estremisti come i “giovani delle colline” e “la terra promessa”, a volte indossando magliette con la scritta “la mia terra è ovunque posso occupare”, impediscono a chiunque di raggiungere le colline, usando le armi che gli sono state distribuite dal Ministro della Sicurezza Nazionale, Ben-Gvir. La possibilità di vedere il mare ci è stata negata.
Negli ultimi due anni, Ben-Gvir ha distribuito 40 mila armi ai coloni che vivono sulle colline della Cisgiordania. Ha distribuito centinaia di veicoli a quattro ruote motrici per facilitare il loro accesso ai terreni montuosi, che sono stati confiscati dello Stato sionista, e ha finanziato l’installazione di pannelli solari per ogni loro nuovo insediamento.
I coloni occupano la terra, le fonti d’acqua e i pozzi artesiani. Hanno rubato il bestiame e i trattori agricoli delle comunità beduine, distruggendo le loro case, espellendoli dalle loro terre e fondando insediamenti al loro posto.

I villaggi palestinesi sono stati attaccati da coloni sotto la protezione dell’esercito dell’occupazione israeliano. Case, auto e campi sono stati bruciati e alberi sono stati sradicati, come è successo a Turmus Ayya, al-Mughayyir, Khirbo Abu Falah, Huwara e Qaryut e a Kafar Malik, a 15 km da Ramallah, dove si trova il pozzo principale che fornisce il 40% dell’acqua necessaria alla città di Ramallah e al-Bireh. Lì, i coloni hanno sequestrato la fonte d’acqua e l’hanno trasformata in una piscina e in un luogo dove lavare il loro bestiame. Questi avvenimenti sono stati ripetuti in altri villaggi e province, in contemporanea alla pulizia etnica e alle scene di genocidio e uccisioni trasmesse in diretta al mondo intero.
Il campo profughi1 di Jenin, nella Cisgiordania settentrionale, sta venendo silenziosamente sgomberato: oltre 100 famiglie hanno perso le loro case; le infrastrutture fognarie, elettriche e idriche sono state distrutte così che tante persone hanno perso i loro mezzi di sussistenza di base. La situazione non è diversa nei campi profughi di Nur Shams e di Tulkarem, nella provincia di Tulkarem. I campi profughi sono stati divisi, le strade sono state distrutte e, nel nord, stiamo assistendo a un’ondata di sfollamenti dai tre campi verso i centri delle due città.

Con il sostegno legale e politico del governo dell’occupazione sionista, le norme che regolano l’uso di armi da fuoco sono state modificate e ulteriore protezione è garantita ai coloni che commettono omicidi contro i palestinesi. Ciò consente l’uso letale di proiettili (n.d.t. ossia non più di gomma) contro i palestinesi, anche senza “giustificazione”. Ciò fornisce un chiaro riflesso nella profondità del disprezzo dello Stato Occupante per le vite dei palestinesi e costituisce un elemento fondamentale della struttura che consente a Israele di continuare a esercitare il suo controllo violento su milioni di palestinesi.

Oltre 14 milioni di persone vivono nelle terre tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, circa la metà delle quali sono israeliane e l’altra metà palestinesi. La percezione prevalente – nella sfera pubblica e giudiziaria, politica, mediatica e dei giornali – è che queste terre siano divise dalla Linea Verde: la prima metà si trova all’interno dei confini sovrani di Israele, è democratica e stabile e ospita circa nove milioni di persone “tutti cittadini israeliani”; la seconda metà si trova nei territori occupati da Israele nel 1967, il cui status definitivo dovrebbe essere determinato in futuri negoziati tra le due parti.

Circa cinque milioni di palestinesi vivono in queste aree sotto occupazione militare temporanea. Tuttavia, questa definizione è diventata sempre più irrilevante nel corso degli anni. Ignora il fatto che questa situazione persiste da oltre settant’anni, ossia praticamente dalla fondazione dello Stato di Israele, ma non tiene conto delle centinaia di migliaia di coloni ebrei residenti in Cisgiordania, il cui numero è aumentato drasticamente in questi due anni trascorsi dall’inizio della guerra di sterminio. Ma, cosa ancora più importante, questa distinzione ignora la realtà di un unico principio del governo applicato in tutto il territorio che si estende tra il fiume Giordano e il Mediterraneo: il rafforzamento e la perpetuazione della supremazia di un gruppo di persone – gli ebrei israeliani – su un altro – i palestinesi. Tutto ciò porta alla conclusione che non si tratta di due sistemi paralleli che operano casualmente secondo lo stesso principio, ma un sistema unico che governa l’intero territorio, controllando tutte le persone che vi risiedono e operando secondo il principio del governo israiliano.

Dall’inizio di questa guerra sono state registrate 1.048 uccisioni in Cisgiordania, di cui 260 bambini.
Il sionismo non si è accontentato di questo. Il controllo coloniale basato sull’isolamento e la sottomissione, ha trasformato il territorio palestinese in un arcipelago di isole separate, come se fossero “cantoni” chiusi, separati da cancelli di ferro, soggetti all’autorità assoluta dell’occupante. Migliaia di palestinesi sono stati e sono costretti ogni giorno a percorrere strade alternative, spesso sterrate, casuali e rischiose che a volte non esistono neanche. Queste chiusure delle strade ostacolano l’attività economica e l’accesso ai servizi sanitari e educativi, aumentano l’isolamento delle aree rurali e trasformano il semplice spostamento in un viaggio di sofferenza sistematica.
Alla luce di questa realtà, le porte di ferro installate dallo stato Israeliano lungo le strade palestinesi, sono un chiaro simbolo di punizione collettiva e parte di una politica più ampia, il cui obiettivo è: frammentare il tessuto sociale palestinese, spezzarne l’autodeterminazione e radicare la realtà dell’apartheid sul territorio.

Secondo un rapporto pubblicato dalla Commissione per la Resistenza contro il muro dell’apartheid, nel settembre 2025, il numero totale di posti di blocco militari e cancelli di ferro installati dall’esercito di occupazione in Cisgiordania ha raggiunto quota 910, di cui installati 83 dall’inizio del 2025. Mentre 247 cancelli di ferro sono stati installati dopo il 7 ottobre 2023.
D’altra parte, in un rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari nei Territori Palestinesi Occupati del 20 marzo 2025, intitolato “Ultimo Aggiornamento Umanitario n. 274” | riguardo alla Cisgiordania dichiara: “Attualmente, ci sono 849 ostacoli che controllano, limitano e monitorano il movimento dei palestinesi in modo permanente e intermittente in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est e l’area di Al Khalil (Hebron) controllata da Israele”.
Un’indagine rapida condotta dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari a gennaio e febbraio 2025 ha rilevato che nei tre mesi precedenti erano sono stati messi 36 nuovi ostacoli al movimento, la maggior parte dei quali installati in seguito all’annuncio di un cessate il fuoco a Gaza a metà gennaio 2025, ostacolando ulteriormente l’accesso dei palestinesi ai servizi essenziali e ai luoghi di lavoro. Sono state documentate ulteriori chiusure, che si ritiene siano state messe nel 2024.

Vale la pena notare che fino ad oggi sono stati installati in totale 29 nuovi varchi stradali in tutta la Cisgiordania. Sono stati costruiti sia nuovi varchi di chiusura a sé stanti che varchi aggiuntivi nei posti di blocco già esistenti, portando il numero totale di varchi stradali aperti o chiusi in Cisgiordania a 288, costituendo un terzo degli ostacoli al movimento. Di questi, circa il 60% (172 su 288) viene chiuso frequentemente.
Oltre all’aumento del numero di ostacoli installati, l’aumento del controllo sulla circolazione ha portato interruzioni della circolazione per lunghi periodi, chiusure delle strade principali che collegano i centri abitati in Cisgiordania e un aumento del numero di varchi chiusi frequentemente. In totale, gli ostacoli includono 94 checkpoint con militari 24 ore su 24, 7 giorni su 7; 153 posti di blocco (con militari non sempre presenti) di cui 45 sono spesso chiusi, 205 cancelli stradali di cui 127 spesso chiusi, 101 posti di blocco costruiti con muri di terra e fossati, 180 fatti con cumuli di sacchi terra e 116 ostacoli di altro tipo posti lungo la strada2. Questi dati non includono i check-point lungo la Linea Verde e altre modalità di restrizione, come la chiusura del campo profughi di Jenin agli abitanti che vi facevano ritorno dopo lavoro e le segnalazioni di alcune aree come zone militari chiuse – che non sono sempre caratterizzate da barriere fisiche.

Settantasette prigionieri palestinesi sono martiri a causa delle torture nelle carceri israeliane in Cisgiordania, mentre sono stati registrati circa 20.000 arresti dall’inizio della guerra di sterminio due anni fa. I prigionieri sono stati privati del sonno e torturati nelle loro celle. Sono state negate loro le visite. I pasti sono stati limitati a un singolo pasto al giorno a malapena sufficiente per sopravvivere. Sono stati privati delle loro coperte e dei loro vestiti in inverno. Malattie della pelle si sono diffuse tra i prigionieri a causa del divieto di lavarsi e di pulire la loro cella. È stato inoltre negato loro qualsiasi tipo di assistenza medica durante la prigionia.

Lo Stato sionista però non si è fermato a queste vessazioni. Considerando che la maggior parte dei terreni agricoli si trova nell’Area C, ai palestinesi è stato vietato raccogliere i frutti dei loro alberi e qualsiasi tipo di prodotto delle loro terre. È stato negato l’accesso all’acqua.
I campi coltivati sono stati bruciati e, in alcuni casi, i coloni hanno liberato le loro pecore e mucche per distruggere i raccolti. Le serre che un tempo si estendevano nelle pianure di Tubas, Salfit e nella valle settentrionale del Giordano sono state demolite. Gli agricoltori sono stati fucilati, arrestati e maltrattati.

E nonostante ciò Israele non si è accontentato, difatti ha anche impedito alla cassa del Tesoro dell’Autorità Nazionale Palestinese di pagare i dipendenti pubblici, che non ricevono i loro stipendi da almeno nove mesi.

Alla luce di tutto ciò, i palestinesi non hanno smesso di riunirsi in gran numero per andare nei loro campi per proteggersi a vicenda. I giovani dei villaggi vicini spesso partecipano alla difesa del villaggio preso di mira dai coloni dopo aver sentito la chiamata dagli altoparlanti della moschea. I palestinesi si spostano tra villaggi, campi e città in gruppi per proteggersi a vicenda dagli attacchi dei coloni. Hanno inventato vari meccanismi di comunicazione, inclusi i gruppi Telegram che fornivano notizie di strada in tempo reale. La partecipazione ai gruppi Telegram è diventata, tuttavia, motivo di percosse e accuse se viene scoperto dell’esercito.

Tutta la comunità si mobilita per trovare cibo, alloggio e vestiti. Nessuno proveniente dai campi demoliti nella Cisgiordania settentrionale rimane senza un pezzo di pane o senza un riparo. Nonostante le ripetute incursioni dell’esercito, i palestinesi non hanno smesso di mandare i figli a scuola ogni giorno, né hanno impedito loro di svolgere le loro attività quotidiane. Un esempio: il villaggio beduino di Al-Araqib è stato demolito 200 volte e 200 volte ricostruito. Dei palestinesi rapiti dall’esercito che vengono rilasciati lontano dai loro villaggi per essere torturati, nessuno si trova a dormire senza un riparo, per il senso di comunità e solidarietà tra la gente palestinese.

I giovani nei villaggi, nelle città e nei campi profughi non hanno altro che pietre per affrontare la repressione dell’occupazione in Cisgiordania, che viene perpetrata con una forza letale. Nessun scontro con l’occupazione avviene senza caduti e feriti. Il nostro obiettivo ora è rimanere nella nostra terra, nonostante la corruzione politica delle autorità al potere in Cisgiordania, che a volte partecipa alla repressione delle proteste, perchè nonostante il loro controllo sulle risorse governative, la loro preoccupazione principale è diventata la salvaguardia dei loro interessi materiali, che sono legati all’esistenza dell’occupazione sionista stessa.


1 Quando si parla di campi profughi, non bisogna immaginarsi una distesa di tende, ma agglomerati di case e palazzine, strade e vicoli – dei veri e propri villaggi che vengono comunque nominati come campi profughi perché creati e costruiti laddove si stabilirono i palestinesi dislocati dalle loro case a cui gli è stato impedito di ritornare durante e dopo la Nakba.

2N.d.T: I dispositivi che regolano la libertà di movimento dei/delle palestinesi in Cisgiordania hanno varie forme. Quando si parla di ostacoli, oltre ad immaginarsi veri e propri checkpoint, bisogna immaginarsi anche sacchi di terra, barriere in cemento, dossi (anche chiodati) posti lungo le strade percorribili con i mezzi, che inevitabilmente rallentano o impediscono gli spostamenti. Per chiusura totale o parziale, inoltre si intende, che è impossibile attraversare il posto di blocco e che a destinazione non si arriva.

“HANNO DETTO CHE PIOVE” – BENEFIT PER LA CASSA ANTIREPRESSIONE DEL CAPITANO ACAB

Diffondiamo

“Questo è un libro improvvisato, acerbo, con una trama debole e sfilacciata. Un libro scritto di getto tanti anni fa, stampato male e impaginato peggio. È un libro parlato, più che scritto. Era destinato al macero ma è stato ripescato da un trasloco e rimesso in circolo, con i suoi errori e i suoi difetti. Con Equal Right Forlì gli abbiamo ridato un’opportunità, scegliendo di distribuirlo a offerta libera benefit per la Cassa Antirepressione del Capitano ACAB“.

per riceverlo contattaci: equalrights@inventati.org

La Cassa Antirepressione Capitano ACAB funziona come un contenitore, un pretesto, una sigla: non c’è collettivo che la gestisce ma di volta in volta si usa il nome del Capitano per intendere che una determinata iniziativa o progetto o autoproduzione, se monetizzata, andrà a sostenere prigionierx, imputatx, spese processuali etc. Questo può voler dire che si avranno anche iniziative e obiettivi molto diversi tra loro Alle volte si specifica che i soldi saranno destinati a un processo specifico o dex compagnx specificx, ma quando invece si dice genericamente “cassa ACAB”, si intende che questi soldi andranno a creare una sorta di “fondo cassa” per le spese presenti (sempre presenti!) e future che verranno. Tendenzialmente anarchico, il capitano ACAB è attivo anche in contesti più “di movimento” e nei (pochi rimasti) spazi sociali della Romagna.

capitanoacab@insiberia.net

TI CONOSCO, MASCHERINA! UNA TRAMA AVVINCENTE CON CRACKERS, MACCHINE IN FIAMME E UNA STRUGGENTE STORIA D’AMORE

foto del materiale trattenuto fatta pervenire ai media

Diffondiamo

Cosa è accaduto

Sabato 4 ottobre 2025, un’imponente operazione di controllo e “filtraggio” dei manifestanti è stata messa in piedi in occasione della manifestazione nazionale prevista il giorno stesso. Al casello di Roma Nord macchine e autobus incolonnati in monocorsia venivano smistati verso varie piazzole per poi essere perquisiti. Diciamo subito che il bottino è stato esiguo. Se certa carta stampata ha potuto parlare di «mazze», è sicuramente per licenza poetica e non per malafede. O forse nella telefonata con gli agenti si è persa una sillaba: si trattava di ramazze, insomma, manici di scopa (perlopiù in plastica). In mezzo c’era addirittura una canna da pesca, uno strumento crudele, siamo d’accordo, ma solo per chi respira con le branchie. In questa serie di oggetti (che altro non erano se non aste casarecce), spicca la requisizione avvenuta ai danni di alcunx nostrx compagnx provenienti da Perugia. Nel loro veicolo sono stati rinvenuti alcuni kit di pronto soccorso assemblati per l’occasione: erano infatti direttx al presidio di street medic (primo soccorso autorganizzato di piazza).

Come si può notare dalla foto gentilmente concessa ai giornali, il materiale sospetto consta di:

sacchetto di avanzi della colazione con 1 (uno) mandarino; rotoli di benda elastica; ghiaccio istantaneo; occhiali protettivi; giacca antipioggia con bande riflettenti; valigetta pronto soccorso; filtrante facciale; coperte termiche; assorbenti; mascherine industriali; disinfettante; crackers; compresse di garza; guanti monouso; disinfettante spray.

Tra il materiale trattenuto figurano anche un paio di pantaloni ad alta visibilità con nastro riflettente.

A seguito del ritrovamento, allx compagnx è stato intimato di recarsi in caserma insieme ad altri due autobus, scortatx da 4 veicoli di polizia per non meglio precisati “accertamenti”. Sappiamo che alle persone sui pullman era stato detto che sarebbero state condotte al concentramento: solo dopo aver accostato perché ormai chiaro che il tragitto portava da tutt’altra parte, sono state informate del fatto che anche loro, più di cento persone, erano dirette in caserma. A questo punto, lx compagnx degli autobus, forti del loro numero, sono smontatx e hanno ottenuto di svincolarsi dall’assurdità di un fermo ottenuto con l’inganno. Hanno inoltre intavolato una trattativa per far sì che anche allx compagnx di Perugia fossero restituiti i documenti, e di fronte al rifiuto opposto dalla polizia hanno deciso di seguirlx e presidiare la caserma dove erano statx condottx. Qui, dopo varie lungaggini, lx cinque sono statx rilasciatx previo fotosegnalamento e requisizione del materiale di primo soccorso in quanto «potenzialmente pericoloso» e «incompatibile con una manifestazione pacifica». Il loro fermo, tra ripetute perquisizioni, intimidazioni da parte dei più alti in grado ma anche tanto tanto divertimento, è durato in tutto poco meno di 6 ore.

Per fortuna il corteo era in ritardo.

Le nostre armi sono “non letali”, ciò che da loro vi protegge è “pericoloso”

Nel patetico teatrino del sequestro di cerotti e crackers, polizia e media si sono prodigati nel mettere in risalto le temibili mascherine.

E quindi parliamone, anche se sembra assurdo.

Le mascherine sono un presidio di parziale tutela dagli effetti del gas lacrimogeno. Difficilmente si può immaginare in quale modo possano essere «atte a offendere», salvo impiegarle nella stessa frase: nel qual caso l’offesa c’è, ed è al buonsenso.

Le armi antisommossa hanno il fine di disgregare e seminare caos in un gruppo coeso di persone, contribuendo così alla sua dispersione. In generale, si tratta di strumenti indiscriminati e imprecisi, in quanto loro obiettivo è la massa. Sono a torto dette “non letali”, e sarebbe più corretto definirle come “a bassa letalità”, dato che possono uccidere e non di rado lo fanno. Senza contare che la loro pericolosità aumenta se, come spesso accade, vengono utilizzate in maniera impropria.

Il gas lacrimogeno, di cui si fa largo uso nelle piazze, è arma dagli effetti non circoscrivibili, in quanto colpisce tuttx lx astanti (non è raro che ne facciano le spese gli stessi agenti). In Italia si usa tra gli altri il CS, messo al bando in contesto bellico, ma curiosamente impiegato contro la propria popolazione civile. Il gas causa irritazione oculare, cutanea, stress respiratorio, e in alte concentrazioni o in caso di esposizione prolungata, o ancora se colpisce soggetti con pregresse difficoltà respiratorie, può risultare letale. Pochi giorni fa, a Bologna, l’abitudine a sparare i candelotti “ad alzo zero”, con il fine deliberato di procurare danni da impatto, ha causato il grave ferimento di una ragazza che ha reso necessario un intervento chirurgico per scongiurare la perdita dell’occhio.

Ci sembra superfluo dire che per un intervento di primo soccorso in piazza, e potenziale esposizione prolungata ai gas, i dispositivi di protezione sono imprescindibili.

Manifestanti cattivi e dove trovarli

Il 4 ottobre 2025, dopo due anni di uno sterminio annunciato, è sceso in piazza più di un milione di persone. Sicuramente un grande risultato per chi da due anni (e più) lotta per rompere il silenzio che si è tentato di imporre sull’annientamento della popolazione palestinese. Ma anche un pessimo segno, per una specie che ha la pretesa di definirsi “superiore”. Ci sono voluti due anni di impegno per ricostruire quel basilare senso di dignità che di fronte a un genocidio facesse scendere la gente in strada, il che, diciamocelo, è un po’ il minimo sindacale. Avremmo dovuto bloccare tutto due anni fa, anzi avremmo dovuto bloccare tutto molto prima, ad ogni annuncio dell’apertura di una fabbrica di armi. Ad ogni speculazione di borsa a seguito di una strage. Ad ogni centesimo investito in un sistema di sfruttamento coloniale. Senonché chi sosteneva tali idee e ancor più chi le metteva in pratica veniva tacciatx di “estremismo” e “violenza”, un modo facile per evitare qualsiasi discussione.

Quelle di “estremista” e “violento” sono categorie elastiche: chi oggi presta orecchio al coro dell’unanime condanna dei “violenti” dovrebbe riflettere su quanto sia facile finire nel mazzo dei cattivi. “Violenti” erano lx nostrx compagnx con il kit del primo soccorso. “Violento” era il signore sull’autobus con la canna da pesca a reggere una bandiera. “Violento” era chi ha dato alle fiamme un’auto della polizia, e così via.

Intanto il nostro paese arma chi alle fiamme ci dà le persone. Foraggia i militari e li dota degli ultimi ritrovati in materia di uccisione. Per fare questo taglia salute, istruzione, pensioni, stipendi, saccheggia i territori, alimenta le diseguaglianze e soffia sul fuoco della xenofobia per offrire dei comodi capri espiatori quando il malessere minaccia di esplodere.Ogni accenno di dissenso, per quanto piccolo, è represso con crescente brutalità.Tutto questo non è forse violenza?

Qual è dunque il grado di conflittualità accettabile di fronte a un genocidio e all’industria che vi ruota intorno? Davvero il problema è una mascherina, una canna da pesca, una macchina bruciata?

Chi aveva con sé materiale medico, chi una canna da pesca, chi ha incendiato un’auto, tuttx avevano degli obiettivi, che, sembrerà strano, non erano lo scontro fine a se stesso con le Forze dell’Ordine. Queste ultime, come dice il nome, difendono l’Ordine, lo status quo, qualunque esso sia. Se l’ordine delle cose prevede di collaborare al genocidio, esse verranno impiegate a sua tutela. Presi singolarmente molti agenti potrebbero addirittura non essere d’accordo, ma molto probabilmente non si tireranno indietro, perché – quante volte glielo abbiamo sentito ripetere? –  stanno solo facendo il loro lavoro o, in alternativa, stanno solo eseguendo ordini. Obiettivo della protesta in genere non è l’auto della polizia, ma sicuramente l’auto della polizia si verrà a trovare tra i manifestanti e l’obiettivo della protesta.

Abbiamo ancora lacrime da versare per la macchina?

Perché?

Perché tanto accanimento sulla street medic? A livello operativo, degli agenti sul campo, il mandato era sicuramente ottenere qualcosa, qualsiasi cosa, da dare in pasto ai media per demonizzare la piazza. Non ci fosse stato il materiale medico sarebbe toccato alle aste, e in subordine agli spazzolini da denti, o alle bolle di sapone, non importa.

È però possibile rilevare un’ulteriore motivazione, più o meno conscia, lungo la catena di comando: il materiale della street medic infastidisce perché rappresenta un germe di solidarietà tra le due parti contrapposte nella trita retorica buoni/cattivi che da troppo tempo intossica i movimenti.

Forse il timore è che parte del corteo cosiddetto “pacifico” possa supportare attivamente chi adotta altre modalità d’azione, e resistere all’apparato repressivo dispiegato, minando alla base la frammentazione ottenuta grazie alla velenosa dicotomia violenti/nonviolenti. Nel mondo non mancano esempi, anche recenti, in cui proteste nutrite e variamente conflittuali hanno ottenuto dei risultati, pensiamo a Nepal, Indonesia, Francia.

L’idea stessa alla base del primo soccorso in piazza è la prova dell’esistenza di una sfumatura, di una complicità, di qualcosa che va oltre la divisione in buoni e cattivi. Del fatto che comunque vada, in strada si rimane finché si riesce. E se si va via, lo si fa come si è arrivatx: insieme.

E se questo vuol dire essere violentx, e dellx cattivx manifestanti, allora sì, siamo tuttx violentx, siamo tuttx cattivx manifestanti.

Un momento, e la struggente storia d’amore che ci avevate promesso?

Non c’è, vi abbiamo fregato. Oppure non l’avete vista, non ve lo diremo mai.

CATANIA: ULTIMO ULULATO – ASSEMBLEA CITTADINA CONTRO LO SGOMBERO DELLA L.U.P.O.

Mercoledì 22 Ottobre h.19.00

Diffondiamo:

Ecco ci risiamo, lo sgombero della L.U.P.O. è alle porte, un’altra volta, ma questa volta sembra che, il progetto di trasformare Piazza Pietro Lupo in parcheggio,sia passato in esecutivo il 2 ottobre.
Passeranno all’azione i paladini della “riqualificazione urbana”, capeggiati dal sindaco fascista e sessista e dal suo assessore all’urbanistica.
Quasi 4 milioni di euro definitivamente stanziati per radere al suolo la palestra lupo e costruire il famoso parcheggio di cui Catania avrebbe così tanto bisogno.

In un articolo di qualche giorno fa non c’era scrupolo nel definire la L.u.p.o. come un posto di aggregazione e socialità e non c’è stato scrupolo neanche nel parlare dello sgombero e della successiva demolizione.
Siamo dunque giuntx al momento dello scontro finale. Il comune di Catania si immagina pronto a sgominare il degrado inferendogli una ferita mortale. Grazie ad i fondi PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) per i PUI (Piani Urbani Integrati), possono ripristinare l’agognato grigio decoro; cacciando via lx migrantx da San Berillo e demolendo i suoi edifici storici per trasformare le sue strette stradine in larghe vie a misura di turistx. Non secondario lo sgombero e la demolizione della L.U.P.O., rea di ospitare ogni settimana centinaia di ragazzx ad eventi socioculturali totalmente autogestiti e senza alcun scopo di lucro.

Non è una novità che lx giovani alla pari dellx migrantx e dellx marginalizzatx siano consideratx coloro che degradano.
Sono queste le priorità della città? No, ovviamente. Queste sono le priorità per i pochi speculatori che ne potranno beneficiare. D’altronde il comune di Catania ha un debito di circa 100 milioni con la Banca Sistema e stenta a portare avanti i minimi incomprimibili di bilancio: rifiuti, servizi sociali e manutenzione essenziale. Quindi l’erogazione di fondi europei sembra rimasto l’unico modo per drenare denaro pubblico e accontentare le imprese dei soliti noti bacini di consenso, che importa se l’ex abitanti non avranno alcun giovamento?
Così Catania è destinata a rimanere la città con meno verde d’Italia, rimarrano i suoi problemi infrastrutturali, rimarrano insufficienti gli ospedali, le scuole continueranno a non formare una delle popolazioni con più ostacoli all’alfabetizzazione d’Europa, la viabilità continuerà ad essere un problema, Librino rimarrà un quartiere dormitorio.

Catania continuerà ad essere una città con poca vista sulla costa e ancor meno accessi al mare, una città in cui le piazze crollano e i quartieri sono sommersi di rifiuti, ma la si vuole fare diventare la “Capitale della Cultura” 2028. Capitale della cultura del profitto derivante dal overtourism, della cultura dello sradicamento, della cultura del Trumpismo di guerra, della sopraffazione della povertà e della riverenza ai ricchi. Capitale dell’indifferenza e del cinismo, d’altronde come può importare delle persone che ci vivono, se gli affari non si fermano nemmeno di fronte ad un genocidio?

La L.U.P.O. è un piccolissimo tassello per i “Signori” della città, ma un grande esempio di cultura critica, di relazioni anticapitaliste, antirazziste e antisessiste per tuttx coloro che la hanno attraversata e si sono ritrovatx a comprendere in prima persona cosa significa autorganizzarsi senza gerarchie. Sono 10 anni che la L.U.P.O. promuove laboratori, workshop, esposizioni, iniziative politiche e solidali, attività sportive e tanta musica, organizzati da collettivi e individualità cittadine a costo zero. Questo è veramente troppo per una politica esclusivamente orientata al profitto che impernia le sue attività culturali e musicali appaltandole esclusivamente all’industria dell’intrattenimento, che recinta le proprie relazioni intorno al consumo patinato nei tavolini dei dehors mentre non ammette alcuna possibilità di espressione per lx proprx abitanti.

A tuttx coloro che hanno partecipato a qualsiasi titolo e in qualsiasi maniera e che qui conservano ricordi preziosi, a tuttx coloro che non hanno avuto la possibilità di attraversare questi spazi, a chiunque arde dalla voglia di sovvertire l’esistente: è adesso il momento di agire, è adesso il momento in cui necessitiamo realmente delle energie di tuttx.
Prima che sia troppo tardi e la memoria di questo posto svanisca insieme alle speranze di un futuro migliore. Prima di non aver lottato abbastanza per quello che ci spetta: la possibilità di autodeterminare i nostri desideri, raggiungerli, e di prendere in mano il nostro destino.

DALLA LUPO LIBERATA ALLA PALESTINA OCCUPATA,
NON SI PUÒ DEMOLIRE UN’IDEA.

CHE BELLA UDINE CHE BRUCIA!

Diffondiamo una riflessione sulla repressione delle mobilitazioni in solidarietà con la Palestina, tra cui quella udinese del 14/10/2025:

Per prima cosa, esprimiamo totale e incondizionata solidarietà alle persone fermate e arrestate al termine del corteo contro la partita della vergogna Italia – Israele di martedì 14 ottobre a Udine.

Negli ultimi mesi abbiamo visto scagliarsi un’ondata repressiva brutale sulle partecipatissime manifestazioni in solidarietà alla Palestina che hanno attraversato tutta l’italia.
In moltissimi casi, la repressione si è diretta contro manifestanti alle loro prime esperienze di piazza, spesso minorenni o persone non inserite in contesti militanti o organizzati. Questo elemento, ormai ricorrente, fa pensare che non si tratti di episodi casuali, ma di una strategia precisa su cui vale la pena soffermarsi.

La priorità sembra essere fare prigionierx, non importa chi, né cosa abbia fatto.

L’obiettivo è dare qualcosa in pasto ai giornali, alimentare il racconto securitario e giustificare i mezzi messi in campo. Se un’operazione non produce fermi o arresti, rischia di apparire “inutile” agli occhi dell’opinione pubblica. Il sensazionalismo mediatico sui fermi e gli arresti non è mai compensato dalla stessa attenzione quando le accuse cadono o arrivano le assoluzioni, che quasi sempre passano sotto silenzio.
È un meccanismo di propaganda facile tramite arresti facili.

Questa repressione veicola un messaggio preciso: “in galera ci puoi finire anche tu”, anche se è la prima volta che scendi in piazza. È un tentativo di seminare paura e scoraggiare la partecipazione, soprattutto in un momento in cui le piazze per la Palestina hanno mostrato numeri che in Italia non si vedevano da anni. L’obiettivo è ridurre queste mobilitazioni spontanee e non organizzate a dimensioni “gestibili”, per poi avere campo libero nel colpire chi non desiste, fino a riportare tutto al silenzio, attraverso decreti e leggi sempre più repressive che passano inosservate perché “non ci riguardano”.

I cosiddetti “rastrellamenti a caso” quindi non hanno nulla di casuale. È una strategia consapevole: se vengono fermati militanti notx, la rete di solidarietà si può attivare; se vengono prese “persone comuni”, invece, si rischia che prevalga il silenzio, la paura, la tendenza a dissociarsi.

La repressione non punta solo a colpire chi lotta, ma a isolare, a neutralizzare la solidarietà e a trasformare la paura in rassegnazione.
E proprio così riescono a sedare la partecipazione e a disinnescare la possibilità stessa del conflitto.
Il vero obiettivo è spegnere quel che nasce quando la gente comune scende in piazza e segue il proprio istinto morale.

Ed è in questo quadro che si inserisce anche lo strumento della solidarietà. Se chi è avezzx alla repressione sa che nessunx va lasciato solx, chi mastica meno queste pratiche finisce a trovarsi spiazzatx, non sa a chi rivolgersi e la repressione diventa un fatto individuale e di solitudine.
A questo tentativo di neutralizzare la solidarietà e disincentivare la partecipazione si somma la tanto comoda distinzione fra manifestanti “buonə” e “cattivə” e fra manifestazioni pacifiche e degenerate, abitate da “infiltratə facinorosə”. Secondo questa narrazione, la libertà di manifestare il dissenso è garantita soltanto se espressa “pacificamente”.  Dove per “pacifico”  si intende “pacificato”, ovvero circoscritto e costretto nei limiti di quanto consentito dalle forze dell’ordine: tutto il resto, tutto quello che esistere al di fuori di questo asfissiante perimetro resosempre più angusto da leggi repressive e pacchetti sicurezza) è negativo, e deve essere condannato, pure dallə manifestanti “buonə”, pena la legittimità del loro manifestare e delle loro rivendicazioni agli occhi dell’opinione pubblica e forse pensiamo anche del poliziotto interiorizzato.
Di fatto, peró, il perseguimento di questa legittimità rompe i movimenti dal di dentro e presta il fianco a chi ci vuole divisə, diffidenti, spaventatə e ancor peggio isola chi è represso.

Per questa ragione consolidare narrazioni di questo tipo è complicità con l’oppressore.

Non crediamo in alcuna distinzione , crediamo solo nella diversità e varietà delle pratiche, poichè gli obiettivi politici e gli slanci rivendicativi si perseguono secondo forze diverse, canali diversi ed energie differenti.
Lo slogan “se toccano unx toccano tuttx” deve prendere concretezza effettivamente quando unx viene toccatx. Poco importa se le pratiche adottate in piazza siano condivise o meno: bisogna avere chiaro chi è il nemico.
La polizia è il nemico, che difende i padroni, le politiche genocidarie, chi devasta e avvelena la terra.
Lo stato è il nemico, complice del genocidio, dell’oppressione di razza, di classe e di genere.
Non lo sono invece lx compagnx che stanno al nostro fianco, anche se con tensioni o approcci diversi. La piazza deve restare uno spazio libero, senza registi né guardiani morali, aperto a chi rifiuta le proteste pacificate e addomesticate.

C’è un fuoco nella pancia che nessuno potrà mai domare, e ringraziamo chi con quel fuoco ha illuminato Udine di una bellissima luce!

Le strade e le piazze sono nostre e non le abbandoneremo per paura. Difendiamo chi lotta con noi e accanto a noi, accogliamo chi arriva per la prima volta e facciamo in modo che la solidarietà non rimanga solo uno slogan ma diventi una pratica quotidiana.

Nessun passo indietro!

ANARCHIA E’ LOTTA ALL’OPPRESSIONE ETERO PATRIARCALE. (POTETE ANDARE A VITTIMIZZARVI ALTROVE)

Riceviamo e diffondiamo:

Un nuovo testo si aggiunge! Ci sgomenta ma in effetti non ci stupisce, ed è del tutto coerente con lo stato dominante delle cose e col modus operandi del macho al potere: avere un privilegio, manipolare la realtà al fine di mantenerlo a qualunque costo, pur di non incrinare il sistema che lo sostiene.
Autorx ne sono altrx guardianx dell’anarchismo che sentono di doversi difendere e allertarci sul dominio degli “alfieri queer dell’identità di genere”, i nuovi “nemici della libertà”. Sembra un colpo di scena: questx autorx che si firmano “loggia Bakunin” sembrano voler riprendersi un palco. Chissà se si rendono conto che la loro sceneggiatura lx mostra come personaggi le cui maschere da libertari cadono.

L’atteggiamento tipicamente umiliante e beffardo si palesa deridendo queer rinominandolo qwerty, appropriandosi di un vissuto storico come quello della caccia alle streghe storpiandone il senso e i ruoli, straparlando di femminismo e umanesimo, risguazzando nella solfa dell’ideologia globalizzata di matrice accademica-liberista-punivista.
Si racconta che chi lotta contro l’oppressione quotidiana e sistemica dell’eteropatriarcato vuole sopprimere chi vive pratiche erotiche eterosessuate.
Si continua sistematicamente ad attribuire posizioni legaliste e integrazioniste dell’associazionismo lgbtq allx compagnx che, invece, da sempre identificano (anche) quello come nemico.
è chiaro come il sole! Pur di non lavorare sui propri privilegi e autoritarismi (ci sfugge a questo punto, cosa ci rende compagnx?), si sceglie consapevolmente di non ascoltare, distorcere e controattaccare le istanze dellx compagnx che devono difendersi da un’oppressione in più rispetto a chi è etero cis. Perché ci sono cose che a questx templarx della libertà anarchica danno fastidio: il fatto che circolino testi e pratiche, che si prendano momenti e spazi non misti, che si agisca il conflitto verso chi esprime transfobia, che non si tolleri più chi misgendera i nomi o chi vorrebbe – come un qualunque cattolico provita – che tutte le persone riconoscano un valore alla procreazione.
Si manipolano per l’ennesima volta i discorsi e si raggiungono vette fin’ora forse intoccate di vittimismo.
Cercano riconoscimento di alcunx e il conflitto con altrex, questx autorx.
Ma non abbiamo più tempo da perdere.
Qui e ora, con un altro genocidio in corso, lx autori si trastullano con le parole e parlano di “pulizia etica” per argomentare che le soggettività transfobiche ed etero cis sarebbero sempre più in pericolo di vita negli spazi anarchici.
Chi scrive e pensa tutto questo si qualifica da solo .
Glx autorx continuano a riprodurre l’oppressione, pari pari allo stato e ai fascisti. Ci rifletta anche chi crede che questa faccenda non lx riguardi. La pazienza è finita anche per chi dà a questi contenuti agibilità politica o chiama ancora “compagnx” chi li concepisce.
Mentre compagnx queer, che questx autorx definiscono pure borghesi, finiscono in carcere perché continuano a rischiare in strada corpi e vite per far finire la violenza di questo mondo, voi che fate?
Andate pure a vittimizzarvi altrove.

Ci accusate di omologarci e uniformarci ai canoni liberalpink della sinistra istituzionale, quando sappiamo che come sempre è al contrario: è lo stato che strumentalizza le rivendicazioni delle lotte radicali per rendere la dissidenza un prodotto civile, vendibile e controllabile (vedi antispecismo e vegan washing, green washing, anarchismo e trendy estetica col passamontagna da social).
E non vi fate problemi a mettere una grafica antiabortista e ad appropriarvi di un termine, caccia alle streghe, che è per noi simbolo della repressione e della violenza dell’uomo sulle altre soggettività diverse da lui. Che ipocrisia. Ci accusate di essere le nazifemministe che reprimono ed isolano come fa lo stato contro glx anarchicx, eppure le prigioni le ha inventate e le mantiene proprio quell’apparato etero patriarcale e familistico che voi state strenuamente difendendo. Eppure quando un compagnx mena un fascista o uno sbirro è unx grande, ma se mena un uomo che ha agito violenza è sbagliato. Siete voi gli ipocriti che, come lo stato e i suoi servi, se gli viene puntato il dito urlando “VIOLENZA” reagite attaccando e poi negando tutto. Infatti, nelle vostre colte e articolate frasi e parole, ne manca sempre una. Non la nominate mai, violenza.
Forse alcun di voi non l’hanno mai dovuta affrontare. Probabilmente l’avete esercitata, ma avete terrore a riconoscerlo e rifiuto di responsabilizzarvi, altrimenti questo vittimismo non si spiega. Forse non capite cosa si prova quando la violenza degli uomini e del sistema basato sul loro potere segna ogni giorno della nostra vita da quando abbiamo memoria a oggi. Violenza di tutti i tipi, in tutti i luoghi. Forse alcun di voi pensano che se con più o meno giri di parole veniamo accusatx di “essere insidie al senso ontologico della libertà e al suo perseguimento pratico”, questa violenza smisurata verrà dimenticata, nascosta? Il problema sarà ontologico, sarà in che modo possiamo ben giustificare il nostro essere, le nostre anime, in termini filosofici politici così da poterci affermare in mezzo ai compagni maschi? No, il problema rimane sui nostri corpi ogni volta che siamo accanto a esseri violenti.
Quanti giri di paroloni per camuffare che vi rode il culo.
Veniamo giudicate, umiliate, represse e rinchiuse perché quello che proviamo, sentiamo, desideriamo è diverso dal vostro vissuto. È una violenza che anche se non la nominate mai, ci viene ricordata a ogni vostra parola. Che incide come una catena arrugginita e a volte ci toglie il respiro, a volte ci fa urlare a squarciagola e vuole vendetta.
Strano, che questo tipo di dolore non venga empatizzato da chi dice di essere contro ogni gabbia e catena?
Non si hanno problemi a parlare di Violenza quando si tratta di violenza di stato, violenza sbirresca. Invece quando si collettivizzano atti violenti perpetrati da individui di genere maschile nei confronti di individualità altre, ci si deve sistematicamente imbattere in variopinte forme di deresponsabilizzazione, invalidazione, fino alla patologizzazione di posizioni non compiacenti.
Sappiate che queste nostre parole, queste nostre energie, non sono spese per voi che avete scritto quel testo di merda. (E neanche per tutti gli altri maschi che hanno scritto altri testi di merda tipo i tre moschettieri). Queste nostre parole sono sfogo e creatività e crescita in momenti di sorellanza bellissimi che ci arricchiscono, ci fortificano, ci fanno pensare alle nostre antenate streghe e ai veleni che preparavano quando un uomo potente doveva morire per non fare soffrire più un’amica o una comunità.
Non sentiamo il bisogno di spiegarci, di volervi fare capire e volerci fare rispettare da voi. Vogliamo che chi è vicinx a noi sia complice del nostro disgusto per questi infami sproloqui, che non senta il bisogno di difendersi dalle vostre cagate perché sono palesemente pregne di vittimismo machista, che condivida l’ironia di vedere come dei “compagni” si sono smascherati da soli e cosi poterne stare coscienziosamente lontanx.

Ontologicamentə,
alcunə cagnə infertili catanesə

BOLOGNA: UN RESOCONTO DAL PRESIDIO AL CARCERE DELLA DOZZA

Diffondiamo:

Ieri in tante ci siamo raccolte in presidio davanti all’ingresso del carcere della Dozza per portare solidarietà a tuttx i/le detenute e per farci sentire dalla giovane arrestata nella piazza del 7 ottobre contro il genocidio e in sostegno alla resistenza palestinese. È stato fatto un saluto prima in prossimità delle sezioni femminili, poi da quelle maschili, per rompere il muro di isolamento che divide le lotte tra dentro e fuori. È stato condiviso quanto avvenuto in questi giorni a Bologna come in tutta Italia, i blocchi e le mobilitazioni, è stata ribadita la complicità dello Stato italiano al genocidio in Palestina e l’ipocrisia del comune di Bologna, che millanta solidarietà mentre stringe appalti con aziende come Alstom, complici del genocidio, e vieta le piazze in sostegno alla resistenza palestinese. È stata letta una lettera di Anan, prigioniero palestinese in sciopero della fame dal 4 ottobre, recluso ora al carcere di Melfi, e sono stati lasciati i riferimenti di Mezz’ora d’aria, trasmissione contro il carcere in onda ogni sabato alle 17:30 sulle frequenze di Radio Citta Fujiko, FM 103.1.

Dentro, nonostante le minacce che sempre guardie e secondini riservano ai/alle recluse, la solidarietà per una Palestina libera si è sentita, forte e chiara, contro il governo meloni fascista, contro la complicità dello stato al genocidio, contro le infami galere, specchio di questo stato razzista.

Infine ci si è spostate all’ingresso: il giudice non ha convalidato l’arresto della giovane, ritenendolo illegittimo, Cristina è stata liberata e ha potuto riabbracciare i suoi affetti, amici e amiche.

Rifiutiamo la condanna della resistenza da parte di chi arma il genocidio e sostiene politicamente ed economicamente l’occupazione sionista.

Continueremo a lottare, finché la Palestina non sarà libera dal fiume fino al mare!

IMOLA: DI DISAGI, COLLETTIVITÀ E VISIONI ANTIPISICHIATRICHE

Diffondiamo:

19 ottobre 2025
al Brigata Prociona, via Riccione 4 (Imola)

DI DISAGI, COLLETTIVITÀ E VISIONI ANTIPISICHIATRICHE
Giornata di confronto e autofinanziamento per la cassa transfemminista queer di sostegno economico per il supporto psicologico.

Apertura alle 14:30

Dalle 15:30, CONFRONTIAMOCI!
Limiti e possibilità della gestione collettiva di situazioni di malessere psicologico/psichiatrizzazione.
Come ci rapportiamo alla diagnosi? Un confronto fra le diverse tensioni: dalla critica antipsichiatrica alla visione della diagnosi come strumento di validazione.

Dalle 20:00 cena vegan con panini e altre sciccherie benefit per la cassa transfemminista queer di sostegno economico per il supporto psicologico.

A seguire concerto con Anafem
Spazio per distro e banchetti per tutta la giornata

NO MACHI NO FASCI NO SBIRRI NO SIONISTI

COS’È LA CASSA TRANSFEMMINISTA QUEER DI SOSTEGNO ECONOMICO PER IL SUPPORTO PSICOLOGICO?

L’idea di questa cassa nasce dalla constatazione che moltx di noi o persone vicine a noi fronteggiano condizioni psicologiche tremendamente precarie e spesso invalidanti. Spesso è difficile trovare strumenti autogestiti per affrontare queste situazioni, specialmente quando lo stratificarsi di traumi e oppressioni sistemiche porta ad un malessere cronico.
Per questo motivo alcunx fanno la scelta di intraprendere percorsi di psicoterapia o di altre discipline che si sentono più vicine. O desidererebbero farlo: i costi sono inaccessibili per moltx. Per questo abbiamo pensato ad una cassa solidale di supporto per questo tipo di spese.

La cassa è transfemminista e queer: si occupa di persone che non siano maschi etero-cis. Siamo partitx da noi, e dalla consapevolezza che l’eterocis patriarcato è un’oppressione sistemica che espone duramente a compromissioni della nostra salute mentale e contemporaneamente ci limita nell’accesso alle risorse economiche.
Siamo consapevoli ce una condizione invalidante della salute psicologica può inficiare e minare la partecipazione alle lotte. Spesso l’ambiente di lotta o le reti amicali non riescono a offrire supporto adeguato con il rischio di lasciare indietro compagnx.

Il nostro pensiero sul professionalismo della cosiddetta salute mentale, e del professionalismo in generale, è estremamente critico. Tuttavia ammettiamo l’utilità e l’efficacia di questi percorsi nel risolvere o alleviare disagi molto profondi e duraturi, quando affrontarli da soli o nella collettività non è possibile. Per noi questo ha anche un valore di prevenzione alla psichiatria, a cui troppo spesso ci si rivolge in assenza di alternative (senza giudizio verso chi vi i rivolge). Questa cassa è un’idea riproducibile, un invito a trovare modalità di presa in cura collettiva.

Vorremmo creare occasioni di incontro e confronto attorno alle iniziative di autofinanziamento, per visibilizzare il tema del disagio all’interno dei movimenti, tradurre le visioni antipsichiatriche in pratica e pratiche, condividere strumenti ed esperienze di autogestione e autoformarci.
Chiunque può sostenere questo progetto organizzando iniziative di autofinanziamento e incontri.

Per info: cassasupportopsi@riseup.net