CONTINUIAMO A SCRIVERE AD ALFREDO!

Ad un anno di distanza dalla mobilitazione che ha accompagnato lo
sciopero della fame, è importantissimo continuare a scrivere al compagno
Alfredo Cospito, tuttora in 41bis nel carcere di Bancali (Sassari).
Il lavoro certosino (e spesso francamente incomprensibile e
contraddittorio) dell’ufficio censura, insieme al pressapochismo tipico
delle patrie galere e all’inaffidabilità delle poste italiane (strumento
sempre più spesso appannaggio esclusivo delle comunicazioni galeotte),
rende fortemente consigliato l’invio della corrispondenza attraverso
sistemi tracciabili quali le raccomandate (anche senza ricevuta di
ritorno). Il tagliando e il codice di tracciabilità permettono di
conoscere lo stato della spedizione e intraprendere poi l’iter
burocratico per lo sblocco della corrispondenza, dato che gli agenti non
sempre rendono noti i trattenimenti e la posta spesse volte
semplicemente scompare.
Invitiamo quindi tutti i solidali a scrivere e ad inviare scansione o
foto dei tagliandi (o comunque dei codici di tracciabilità) alla Cassa
Antirep delle Alpi Occidentali, che si incaricherà di raccoglierli e
inviarli all’avvocato di Alfredo per fare i dovuti ricorsi e recuperare
quante più lettere possibile.

La solidarietà è un atto concreto, non lasceremo mai Alfredo da solo
nelle mani dei boia di Stato: sommergiamolo di affetto attraverso
lettere e cartoline!

L’indirizzo per scrivergli è:
Alfredo Cospito – C/O C.C. “G.Bacchiddu” – Strada Provinciale 56, n°4 –
Località Bancali – 07100 Sassari

mentre per inviare le vostre ricevute:
cassantirepalpi@autistici.org

PS: il compagno può acquistare libri attraverso la direzione del
carcere; si può dunque inviargli suggerimenti di lettura, accompagnando
il titolo e l’autore con i dati relativi alla casa editrice e, se
possibile, il codice ISBN.

Contro tutte le galere!
Cassa AntiRep delle Alpi occidentali

TORINO: CONTRO LA RIAPERTURA DEL CPR DI CORSO BRUNELLESCHI SANZIONATA UNA SEDE DI CONFAGRICOLTURA

Di seguito condividiamo un volantino distribuito a Torino il 29 luglio, quando una sede di Confagricoltura è stata sanzionata.

IN SOLIDARIETÀ A CHI LOTTA ED È SFRUTTATO NELLE CAMPAGNE, CONTRO LA RIAPERTURA DEL CPR DI CORSO BRUNELLESCHI, PER SATHNAM, IL 29 LUGLIO UNA SEDE DI CONFAGRICOLTURA A TORINO È STATA SANZIONATA.

Il capitalismo neoliberale si nutre dello sfruttamento massiccio –seppur contingentato nel tempo dalle finestre delineate dalle necessità produttive – di un’ampia fetta della popolazione mondiale, identificata attraverso ben precise linee di oppressione grazie a trappole economiche e ricatti sociali. Tale manodopera a bassissimo costo viene di fatto riconvertita – quando superflua, ingombrante nelle zone della produzione agricola – a individuo produttivo nel business legalizzato delle prigioni di ogni tipo e delle deportazioni, funzionali – anch’esse – alla gestione dei lavoratori in termini di sfruttamento totale delle risorse.

Il ricatto del permesso di soggiorno, la clandestinizzazione forzata di una fetta sempre più ampia della popolazione migrante nonché la criminalizzazione di ogni forma di rivendicazione, dissenso o lotta sono alcuni degli strumenti di cui lo Stato si dota per tentare di far galleggiare la malconcia economia italiana, nonché europea. Anche le campagne piemontesi non sfuggono a queste lampanti dinamiche e non sono altro che uno dei tanti luoghi in cui il connubio tra datori di lavoro e organi amministrativi, prefettizi e questurini dettano i tempi della miseria a cui larga parte della popolazione migrante è costretta.
La retorica mediatica criminalizzante delle persone in viaggio senza documenti europei fornisce inoltre le basi ideologiche razziste che legittimano l’assoggettazione estrema, di alcune categorie, all’economia e alla società neo-liberale: nient’altro che la Colonia a queste latitudini.

C’è un materiale di base che struttura i dispositivi che premono sulle vite delle persone migranti: è importante palesarne le connessioni, mostrarle nude sul piatto dei consumatori avvolti nel privilegio di potersi non fare domande.
Sotto il cocente sole estivo, i braccianti che stanno raccogliendo mirtilli, pesche e mele nel distretto della frutta più grande della regione – il saluzzese- sono senza casa e spesso dormono fuori, sotto quotidiano controllo e intimidazioni delle forze dell’ordine. Ad Alba e nelle Langhe del Barolo, i braccianti vengono sgomberati, ricattati e picchiati nei campi. I prodotti d’eccellenza delle benestanti campagne piemontesi sono prodotti ovunque con lo sfruttamento di manodopera immigrata a basso costo, di persone che lavorano senza contratto o con contratti miseri, senza alloggio e trasporti garantiti dai contratti collettivi. E se comuni e regione spendono centinaia di migliaia di euro di fondi pubblici per qualche container per l’”accoglienza diffusa”, le associazioni datoriali, Confindustria e Coldiretti in primis, tacciono le proprie responsabilità. Quando a fine stagione di raccolta questa manodopera spremuta fino all’osso – sempre al limite di morire di lavoro,- diviene inutile, eccedente, traducibile in altre filiere del guadagno privato e statale, intervengono le forze dell’ordine e gli organi amministrativi che zelanti rastrellano strade, accampamenti, ghetti di fortuna, campi e con retate mirate trasferiscono i braccianti in un nuovo abisso: o nuovi ghetti e nuovi distretti agroindustriali da nord a sud o la questura, il CPR, la deportazione.
Questi dispositivi detentivi, espulsivi e torturatori fungono inoltre da perenne monito ai liberi affinché non alzino la testa, non si ribellino al gioco dei padroni o non solidarizzino con chi a queste, o altre latitudini, lotta, resiste e si ribella.

Solo la chiusura del CPR di Torino nel Marzo 2023 ha potuto, forse, regalare un briciolo di aria in più, garantendo un lasso di tempo con meno retate, con meno capienza detentiva amministrativa nel Nord Italia: con più libertà.

Ma i padroni per essere tali han bisogno di prigioni e deportazioni ed ecco che – in tempo per la fine della prossima stagione di raccolta nei campi del cuneese – riaprirà, a inizio Novembre, il CPR di Corso Brunelleschi.

Opporsi alla sua riapertura è possibile. Tracciare i nessi di senso tra lo sfruttamento nei luoghi di lavoro e il ricatto del permesso di soggiorno e della clandestinità, è un passo nella direzione di attaccare al cuore il razzismo sistemico.

La macchina dello sfruttamento, del razzismo, delle espulsioni e delle torture dentro i lager di Stato ha una lunga lista di responsabilità e complicità. I padroni dell’agricoltura, i lobbisti della filiera del cibo, le aziende, cooperative, società per azioni specializzate nel business della detenzione; le istituzioni che trattano le persone che migrano da una parte come corpi per alimentare le varie filiere del guadagno capitalista – dall’agricoltura, ai centri di detenzione e semi-detenzione, alle deportazioni-, dall’altra come un problema d’ordine pubblico, da marginalizzare nascondere e cacciare; i sindacati e le associazioni conniventi che traggono profitto dal mantenimento dello status quo.

Solidarietà a chi lotta nelle campagne, chi distrugge i CPR e chi sfugge alla violenza delle frontiere.

PDF: Le prigioni che servono ai padroni

https://nocprtorino.noblogs.org/post/2024/07/31/le-prigioni-che-servono-ai-padroni/

BOLOGNA: SUGLI STUPRI IN VIA CARRACCI 63

Riceviamo e diffondiamo:

Qualche settimana fa ci siamo svegliatx con l’ennesima notizia terrificante: una donna ha subito degli stupri all’interno di un’occupazione abitativa a Bologna. Immediatamente è stata tolta centralità al vissuto della donna ed è iniziato un susseguirsi di ulteriori violenze: strumentalizzazioni, narrazioni stigmatizzanti, invisibilizzazione, negazione dello stupro, colpevolizzazione della vittima.

Contro la retorica giornalistica, non temiamo di dire che ci posizioniamo nettamente al fianco di chi sceglie di occupare sottraendo stabili abbandonati dallo stato o dai privati a un inevitabile decadimento e ci opponiamo all’inasprimento delle pene (come il decreto sicurezza approvato nel novembre 2023 che impone fino a 7 anni di carcere per le occupazioni abitative). Per questo lo vogliamo gridare chiaramente: RIFIUTIAMO L’USO STRUMENTALE DELLA VIOLENZA DI GENERE PER ATTACCARE LE PERSONE CHE VIVONO IN CONDIZIONI DI POVERTÀ E CHE SCELGONO DI AUTODETERMINARSI ATTRAVERSO LA PRATICA DELL’OCCUPAZIONE.

Lo scenario che si è aperto è il seguente.

Da una parte i giornali hanno riportato il fatto con toni razzisti e stigmatizzanti sia rispetto alle pratiche dell’occupazione sia rispetto alla precarietà che gli occupanti vivono a causa di un sistema capitalistico e classista. Hanno negato l’autodeterminazione delle persone razzializzate non servili che esprimono la propria rabbia in modalità che sfuggono al controllo e per questo ritenute pericolose.

Dall’altra parte, la Destra non ha esitato a manipolare ancora una volta la violenza di genere: lo stupro diventa un cavallo di troia perfetto per la politica razzista e classista che non ci pensa due volte a rendere mostro chi non ha una casa e, davanti alla negazione del diritto all’abitare che il progressismo finge di concedere, decide di prendersi ciò che gli spetta.

In una logica perversa, se la donna che subisce violenza è anche una donna che subisce razzializzazione, ciò che avviene è un attacco diretto alla comunità di riferimento. Una narrazione che ben conosciamo, profondamente coloniale e fascista, in cui la donna risulta essere nulla più che uno strumento utile alla riproduzione dello stato nazione. Il nemico è sempre fuori di noi, che sia una persona povera, nera, che viva in occupazione.

La nostra lotta solidale per il diritto all’abitare – anche e soprattutto quando questa decide di oltrepassare le forme legaliste – non può però farci tacere di fronte all’ennesimo caso in cui , ancora una volta, chi costruisce politica basandola sempre sulla cultura degli uomini non è solidale con noi, donne, trans e froc3 che subiscono quotidianamente sulla loro pelle una rete complessa di violenze. Perché se si parla di diritto all’abitare, vogliamo che venga presa in considerazione la complessità che viviamo nelle nostre vite e le violenze che possiamo subire all’interno delle nostre case perché, come ben sappiamo, spesso lo stupratore ha le chiavi di casa.

Quanto successo ci pone di fronte alla contraddittorietà dei tempi in cui viviamo – anche se non vogliamo –  e a come le riproduciamo profondamente, a quanto siano vive in noi.

Ciò che risulta più sconcertante e non può in alcun modo essere taciuto è che la dichiarazione che i giornali rilasciano da parte dell’avvocata di riferimento di PLAT – mai smentite – è che le violenze sono false, una vendetta per l’allontanamento della donna da parte dellx compagnx dall’occupazione per il suo uso di sostanze. Una donna di cui si ricorda solo la dipendenza da sostanze e la maternità, fattori che, se congiunti, immediatamente diventano deterrenti per creare l’immagine di una donna inattendibile e con lei le sue parole.

Allora ci chiediamo: com’è possibile che l’assunzione di sostanze basti per non credere alla donna che ha subito violenza e anzi, al posto di darle sostegno, viene colpevolizzata, ulteriormente stigmatizzata e lasciata sola? Com’è possibile che se è l’uomo violento ad averle assunte, le sostanze diventano la perfetta giustificazione?  Non ci siamo ripetutx per anni nelle piazze che l’uomo violento non è malato ma è il figlio sano del patriarcato? E invece, in questa interrelazione tra violenza di genere e proibizionismo, la colpa è ancora una volta della donna.

Com’è possibile che dopo anni di lotta transfemminista venga ancora portata avanti la retorica che una donna è valida solo se è una brava madre, mentre se fa uso di sostanze viene improvvisamente meno la sua credibilità?

Per questo riteniamo l’atteggiamento del movimento coinvolto proibizionista, sessista ed estramamente violento. Ancora una volta, non solo dalla Stato e dai Giornali, ma anche dai “compagni”, vediamo agire vittimizzazione secondaria contro le nostre sorelle solo perché non sono le vittime perfette, perché rompono i piani, reagiscono a ciò che subiscono, perché non si arrendono al potere maschile e alla normalizzazione della società.

Abbiamo atteso per settimane una smentita di tali orrende dichiarazioni, un passo indietro su ogni singola parola pronunciata, ma al suo posto c’è stato solo un sordido silenzio. Al contrario, siamo state costrette a leggere un testo di lancio all’iniziativa di oggi, 18 luglio, di PLAT, un comunicato strabordante di paroloni e vuota retorica in cui, ancora una volta, non si prende parola sullo stupro e sulle dichiarazioni che negano e sminuiscono la voce della donna che ha subito gli stupri, agendo ulteriore violenza, questa volta da parte della comunità.

Quel testo è per noi solo una vetrina in cui si è voluto mostrare la propria bravura e dedizione alla causa e che, in barba a ogni analisi e pratica transfemminsita, osa appropriarsi dello slogan “Sorella io ti credo”. Ma settimane fa non ci era stato invece detto che non solo non le si credeva, ma che il suo era un tentativo di ritorsione?

Si crede alle sorelle solo quando queste risultano utili per proteggere interessi altri – che non contemplano la cura delle soggettività femminilizzate – ma che vogliono solo tutelare i “compagni” e le loro lotte.

Per questo siamo chiamat3 a dirlo di nuovo, forte e chiaro: LA RESPONSABILITÀ POLITICA DI QUESTA DINAMICA È ANCORA UNA VOLTA COLLETTIVA. Uno stupro che avviene all’interno di una comunità è qualcosa di profondamente drammatico e doloroso, non solo per la donna che ha subito le violenze, ma anche per il suo contesto di prossimità. Non banalizziamo il dolore e la fatica: anche noi abbiamo avuto vicino persone violente e sappiamo quanto sia straziante stare a contatto con ciò che lo stupro porta con sé. Ma il punto è la presa in carico collettiva che si fa davanti alle violenze.

In un gruppo politico che dovrebbe rappresentare un luogo trasformativo rispetto a certi processi si fischietta l’antico motivetto che fa da colonna sonora allo Stato: bisogna difendere la società.

Davanti a un trauma enorme che ha prodotto una frattura così significativa, con buona pace del nostro sentire rivoluzionario, si riproduce in una perenne continuità quotidiana la brutalità patriarcale.

Le narrazioni portate avanti e le azioni agite mettono in evidenza la problematicità delle strutture organizzative chiuse che millantano l’intersezionalità delle lotte, ma che in realtà settorializzano la collettività nelle loro pratiche e quando serve a salvarsi la faccia la strumentalizzano, stigmatizzando in maniera proibizionista le individualità che attraversano i loro spazi…null’altro di diverso dai metodi narrativi di Stato e media.

Salvarsi la faccia e negare le proprie responsabilità vuol dire anche considerarsi esenti dalle dinamiche del sistema patriarcale, negarne la pervasività, negare la possibilità di poterle facilmente riprodurre.

Risulta chiaro ad oggi che la violenza di genere è qualcosa di profondamente divisivo, anche all’interno dei contesti che dichiarano di contrastarla quotidianamente.

Intenti e politiche si mostrano anche nel riconoscere la possibilità che avvenga una violenza, prenderne atto e non invisibilizzarla. Dichiararsi transfemministi e rivendicarne i principi non basta! Cavalcare slogan e date non ci rende impermeabili al patriarcato. Portare avanti due campagne di mobilitazione all’anno non rimedia alle violenze agite ogni giorno. Non basta supportare alcune soggettività o vissuti, solo quando sono vicini a noi o ci sono utili, mentre in questo caso la tutela e il sostegno della persona sopravvissuta passa in secondo piano rispetto alla causa dei “compagni”.

Si sovrappongono dunque più piani di stigma che si incarnano nel genere, nel razzismo, nel classismo e nel proibizionismo.

Se da una parte sono i giornali a mettere tra parentesi l’esistenza di una donna facendo della violenza avvenuta uno strumento per colpire l’occupazione abitativa; dall’altra parte,  i compagni, preoccupati nel salvarsi la faccia, negano e invisibilizzano la violenza cercando di colpire direttamente la donna, colpevolizzandola e screditandola. Si alimenta così una visione distorta della donna, la cui identità e storia vengono sballottate tra giudizi screditanti e poi buttate in strada come strumento per il comodo di tutti fuorché per sostenerla. Di nuovo, una donna che ha subito violenza e il fatto che si sappia, diventano un ostacolo per chi la vuole sotto controllo. Di nuovo, denunciare la violenza rivela la possibilità quasi certa di subirne altre.

Lo diciamo a gran voce: sorella, che tu venga definita drogata, madre snaturata, ragazza difficile o ingrata, noi ti crediamo.

Alla donna che ha subito tutto questo va la nostra più sincera vicinanza.

Cagnacce rabbiose complici e solidali

ACCANIMENTO SU UN DETENUTO NEL CENTRO CLINICO DI MILANO OPERA

Riceviamo e diffondiamo la testimonianza di una persona familiare di un detenuto, Gerardo Schettino, tra il 2018 e il 2023 in regime di 41 bis nella galera dell’Aquila, rimasto PARALIZZATO nel 2021 dopo la somministrazione del vaccino Astrazeneca, da dicembre 2023 declassificato ma tuttora rinchiuso e sottoposto ad accanimento nel famigerato “centro clinico” del carcere di Milano opera.

DIAMOCI DA FARE PER DARE VISIBILITÀ A QUESTA SITUAZIONE! LA MALASANITÀ IN CARCERE È TORTURA!

Assemblea permanente
contro il carcere e la repressione
del Friuli e di Trieste
liberetutti@autistiche.org

Associazione “Senza sbarre”
c.p.129, 34121 Trieste

ARGENTINA: SUL MASSACRO DI BARRACAS

Riceviamo e diffondiamo. Da scaricare, distribuire e stampare.

**QUESTO TESTO CONTIENE VIOLENZA FISICA ESPLICITA E LESBODIO\FOBIA*

Fonte: https://lazarzamora.cl/?p=12429

È stato lo scorso 5 Maggio alle 23:30 a Barracas ( Argentina ) l’assassino lesbicida e aggressore, Justo Fernando Barrientos di 67 anni, compie un esecuzione lesbo odiante contro le sue vicine:
Pamela Cobbas e Mercedes Roxana Figueroa, coppia che condivideva la stanza con Andrea Amarante y Sofía Castro Riglos altra coppia di lesbiche che stava vivendo temporaneamente con loro nel hotel/dormitorio di Barracas. Quella notte l’aggressore, apre la porta della stanza, butta combustibile, e lancia dentro un esplosivo artigianale mentre dormivano, dando fuoco e provocando un grande incendio.

Dopo l’attacco le donne sono state ospitalizzate. Pamela e Mercedes sono morte nelle ore successive all’attacco. Andrea è morta domenica. Sofía è fuori pericolo di vita -resta ospedalizzata con bruciature sul viso e le mani. Secondo i medici risponde bene alle cure.

UCCISE PERCHÈ LESBICHE

Secondo le dichiarazioni dei vicini: Pamela 52 anni, vendeva cosmetici e dolci, viveva apertamente il suo lesbismo, visibilizzando sui social  la lotta le lotte delle dissidenze sessuali. Viveva con Roxana Mercedes anche lei 52 anni, e entrambe “se la cavavano come potevano vendendo cosette”.

Andrea, la terza a morire aveva 43 anni, era sopravvissuta al massacro nel locale República di Cromañón ( concerto del gruppo Callejeros nel quale un incendio aveva ucciso 194 persone e fatto 1400 feriti nel 2004). La “Coordinadora Cromañón” ha denunciato che Andrea non aveva mai potuto beneficiare del “Programma per le vittime di Cromañón” ne di nessun aiuto dopo il massacro. Evidenziano anche che Andrea aveva vissuto in strada una parte della sua vita, vivendo povertà e precarizzazione, cosa che inevitabilmente l’asposta alla violenza.

Il femminicida, secondo i vicini, esprimeva apertamente la sua rabbia ” perchè erano lesbiche”. Altre volte, aveva già agito violenza su un uomo in quanto gay, che aveva finito per andarsene del dormitorio. Nella stessa maniera il lesbicida le aveva già aggredite verbalmente in precedenza, con isulti lesbodianti, grassodianti\fobici, e minacce di morte.

(…)

Sofía, oggi è l’unica sopravvissuta al massacro brutale e lesbodiante in Barracas e ha bisogno del massimo aiuto possibile per poter guarire, ricostruirsi e trovare un nuovo posto dove vivere. Se volete supportare infondo trovate i dati per i bonifici.

Le organizzazioni e\o attiviste della diversità sessuale e di genere di Puelmapu sostengono che ci sono varie angoli e intersezioni in questo orribile e brutale crimine e triplo lesbicidio. Per nominarne qualcuna, la classe, la povertà, la precarizzazione  nel quale si trovano i corpi esclusi dal sistema e dai loro familiari. Il silenzio e la banalizzazione di questo tema nei mezzi di comunicazione ( questo caso come quello del massacro in Palestina dovrebbero essere un putiferio ed uno scandalo mondiale) oltre che essere la conseguenza del rinforzarsi dei discorsi di odio grazie al governo di Javier Milei, conservatore, ultraneoliberale e odiatore delle diversità. Nel corso della sua presidenza è salito del 10% il numero di crimini di odio contro le donne, dissidenti sessuali e di genere, rispetto all’anno precedente.

Lo stato ha storicamente denigrato e scartato i corpi che non riproducono l’eterosessualità, sia progressiste o fascista come è il caso del governo argentino, che concentra i suoi obbiettivi nel rinfozare il capitalismo esterno, l’eterosessualità obbligatoria e l’eteronorma, mettendo a rischio le donne e tutte le persone lgbtiqa+.

A prima vista si nota come il conservatori e il fondamentalismi religiosi tornano ad apparire, dopo anni di lotta e resistenza dei gruppi marginalizzati, come nel caso dei corpi lesbici, delle donne e della dissidenza sessuale. In questo caso il corpo lesbico resta completamente invisibilizzato e categorizzato nella scala più bassa della società per via dei discorsi patriarcali macisti e retrogradi, qualificando come “inrazionali”, malatx,(…).

Collettività, individalità e organizzazioni argentine hanno manifestato in differenti territori per dare visibilità al massacro, denunciando la complicità dello stato con la violenza patriarcale. In altre parti del mondo come: Bolivia e $ile stanno organizzando incontri e manifestazioni per denunciare l’orrendo attacco. Chiamiamo ad agire in tutti i territori e con differenti forme.

Abbiamo bisogno di dire che le lesbiche e lesbichx esistono, che dietro ogni vita ci sono dei sogni, figlx, progetti, amori, tristezza. È necessario mantenerci organizzate, organizzare la nostra autodifesa, esprimersi, appoggiarsi, incontrarci e ritualizzare tanto la morte come la vita, condividere possibilità di sussistenza, coordinandoci contro la precarizzazione delle nostre vite senza mendicare allo sato.

E continuare a prendere parola per quelle, quellx e quelli che non ci sono più.

Per solidarizzare economicamente con Sofía.
Alias transferencia: ACIVIL.NIUNA.MENOS
Asunto: lesbianas.
CBU: 1910027855002701341732
Numero de CC 191027013417/3
Da fuori dal paese:  paypal pcortesntref.edu.ar.
PER ULTERIORI INFORMAZIONI @presenteslatam instagram

Ascolta anche l’approfondimento radio: https://www.ondarossa.info/redazionali/2024/06/triplo-lesbicidio-e-sopravvissuta

SOLIDARIETÀ DI FRONTE ALLA REPRESSIONE DELLE LOTTE CONTRO I CRA E SOSTEGNO A TUTTE LE PERSONE IMPRIGIONATE

Nell’ambito di un’inchiesta sulle lotte contro la costruzione di centri di detenzione amministrativa (CRA), mercoledì 29 maggio una compagna italiana è stata perquisita e messa sotto custodia dalla polizia. All’uscita dal tribunale, è stata informata che era soggetta a un ordine di rimpatrio (OQTF) per “minaccia all’ordine pubblico” e a un divieto di viaggiare sul territorio francese per 2 anni (ICTF), e che la prefettura chiedeva il suo immediato collocamento in detenzione amministrativa. È stata portata direttamente al centro di detenzione di Mesnil-Amelot, nonostante il giudice istruttore avesse escluso la custodia cautelare.

Durante la detenzione, è stata prima condotta davanti al giudice di pace (JLD), che ha convalidato il suo collocamento nel CRA. L’appello, che ha avuto luogo pochi giorni dopo, ha confermato questa decisione. Infine, è stata rilasciata dal tribunale amministrativo, che ha annullato il suo foglio di via dopo dieci giorni di permanenza nel CRA.

Queste misure sono la continuazione della repressione politica delle lotte contro i CRA, una repressione che è diventata sempre più dura negli ultimi mesi: controlli di identità, arresti durante i presidi di solidarietà, processi, divieti di visita ai CRA. A questo si aggiunge una copertura mediatica montata da giornalisti di estrema destra, e ora assistiamo all’apertura di un’inchiesta, a pratiche di sorveglianza e alla detenzione amministrativa. La prefettura e il Ministero degli Interni non si fermano davanti a nulla, arrivando persino a scavalcare l’indagine giudiziaria in corso per rinchiudere la nostra compagna, nonostante fosse stata rilasciata dopo il fermo di polizia.

Questa pratica di “doppia pena” (giustizia penale + amministrativa) da parte della prefettura è ben nota e riflette le testimonianze delle persone del CRA. Non appena vengono rilasciate dal carcere o anche dalla custodia della polizia, e senza essere prevenute, vengono direttamente rinchiuse nel CRA per ordine della prefettura e, se la procedura va a buon fine, espulse. Questa è l’ossessione di Darmanin, il ministro degli interni francese, e della sua ultima legge, che conferma il naufragio securitario e razzista in corso costruendo la figura dello “straniero delinquente”. Rinchiudere della nostra compagna nel CRA è un buon esempio di una delle principali linee guida della legge di Darmanin: rendere più facile la revoca del permesso di soggiorno, l’emissione di OQTF, la detenzione e l’espulsione di persone con la motivazione vaga, completamente arbitraria e altamente politica della “minaccia all’ordine pubblico”.

Ma non si tratta di una tendenza completamente nuova. Questa motivazione viene usata sistematicamente contro alcuni gruppi di persone europee o con documenti europei. Il semplice fermo di polizia per motivi banali come oltraggio e resistenza può rientrare in questi quadri giuridici vaghi, anche senza che si arrivi a una condanna. I centri di detenzione sono pieni di cittadinx rumenx e bulgarx che ogni settimana vengono deportati nei loro paesi d’origine. La cosiddetta libertà di circolazione nell’area Schengen esiste solo se hai i soldi, se sei abbastanza biancx e se non dai fastidio agli sbirri e a quelli che vengono protetti dagli sbirri.

Negli ultimi anni, la detenzione amministrativa è diventata anche uno strumento di repressione contro gli e le militanti stranierx, europex e non. Ecco alcuni esempi: nel 2016, tre compagne italiane sono state arrestate durante una manifestazione a Calais e messi nel CRA; stessa storia nel 2019, per due compagni italiani arrestati durante presidio fuori dal CRA di Vincennes, ai quali sarà vietato l’ingresso in Francia per 2 anni; qualche mese dopo, un altro compagno italiano è stato rinchiuso nel centro di detenzione di Vincennes per un mese, nell’ambito del movimento dei Gilets Jaunes; più recentemente, nel maggio 2023, una compagna tedesca è stato rinchiusa nel centro di detenzione di Mesnil-Amelot dopo essere stata arrestata durante la manifestazione del Primo Maggio; nel giugno 2023, cinque compagnx antifascistx sono statx anch’essx rinchiusx nel centro di detenzione di Mesnil-Amelot e di Vincennes, usciranno anche loro con dei divieti di accesso al territorio francese (qui un approfondimento).

Dall’inizio delle mobilitazioni per la Palestina e contro il genocidio sionista, questa pratica sembra essere diventata ancora più comune. Nell’ottobre 2023, l’attivista palestinese Mariam Abu Daqqa è stata arrestata a Marsiglia, rinchiusa nel CRA ed espulsa con divieto di ingresso, sempre per “disturbo dell’ordine pubblico”. Molte altre persone sono state arrestate durante le prime settimane del movimento e rinchiuse nel CRA (qui un comunicato al riguardo).

Se lo Stato francese, e in particolare il governo Macron, si è distinto per questo tipo di misure repressive, non è certo il solo in Europa. Per fare un esempio recente: nel maggio di quest’anno, dei e delle compagnx hanno tentato di occupare l’università di Atene, in Grecia, in solidarietà con la resistenza dei palestinesi e contro lo sterminio della popolazione di Gaza. Delle 26 persone arrestate, le 9 che non avevano documenti greci sono state messe nel centro di detenzione di Amygdaleza, dove sono rimaste per una decina di giorni prima di uscire con un foglio di via. Una dinamica simile è in atto in Italia, dove oltre ai centri di detenzione, lo Stato sta ricorrendo anche alle prigioni : da diversi mesi sono detenuti con l’accusa di terrorismo 3 palestinesi per il loro sostegno alla resistenza, uno dei quali è stato inizialmente minacciato di estradizione verso le prigioni israeliane.

Questo elenco è tutt’altro che esaustivo: possiamo solo immaginare quantx militanti stranierx, con o senza documenti, con ile quali non avevamo alcun legame, sono statx repressx ed espulsx dalla Francia (e dagli altri paesi europei) a causa delle lotte che conducevano…

In questo contesto repressivo, c’è una specificità nel caso della compagna italiana arrestata a Parigi : la detenzione amministrativa accompagna un’indagine, ancora in corso, che vuole colpire la lotta contro i CRA e chi collabora alla macchina della detenzione e dell’espulsione. Non possiamo che essere solidali con lei e con tutte le persone rinchiuse nei centri di detenzione, con tutte le persone colpite dal razzismo di Stato e con tutte e tutti coloro che, in vari modi, lottano e attaccano il funzionamento di una vera e propria industria dell’ingabbiamento e dell’espulsione.

Che brucino i centri di detenzione e le prigioni !

(qui la versione originale del testo )

ULTIMA UDIENZA E SENTENZA DEL PROCESSO CONTRO ZAC [11 LUGLIO]

L’11 luglio si terrà l’ultima udienza del processo contro Zac per 280bis (atto di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi) e 270quinques (autoaddestramento). Dalle ore 9.30 avranno luogo prima la requisitoria del pubblico ministero e poi le arringhe degli avvocati. Dopodiché la corte si riunirà in camera di consiglio ed emetterà la sentenza.

Zac è accusato di un attacco al Consolato greco di Napoli avvenuto il 4 marzo 2021, che l’accusa ha ricondotto alla matrice anarchica e inserito nella campagna di solidarietà a Dimitri Koufontinas, prigioniero greco che nel 2021 era entrato in sciopero della fame per molti mesi, rischiando la morte, per contestare la riforma penitenziaria in atto in quel periodo che implicava un netto peggioramento delle condizioni di carcerazione. Nel corso delle udienze si è manifestata tutta l’inconsistenza dell’impalcatura accusatoria, rendendo evidente la natura puramente politica di questo processo, che si basa più sulla personalità dell’imputato che sui fatti contestati. Tant’è che Zac è rimasto sottoposto alle misure cautelari ed “eletto” (senza candidarsi!) alla sorveglianza speciale.

La richiesta di quest’ulteriore misura da parte della questura, prontamente accettata dal tribunale di sorveglianza, conferma l’accanimento politico contro il compagno. A noi appare evidente che in questo caso, come per altre operazioni di repressione del dissenso politico, si è trattato di un modo per ottenere un qualche risultato al di là dell’esito del processo. In generale, è diventato uno strumento sempre più diffuso come mezzo di prevenzione e di controllo sociale.

Insomma, dato che il vero collante dell’accozzaglia di ipotesi investigative e burocrazia poliziesca portati in sede processuale è l’appartenenza del compagno al movimento anarchico, possiamo dire che ciò che viene messo sotto accusa è una determinata identità politica e che il vero obiettivo è la criminalizzazione di tutte le lotte contro il sistema carcerario e la solidarietà ai detenuti in lotta. Non è un caso che la presunta pericolosità di Zac e il suo arresto siano stati motivati dal contesto della mobilitazione contro il 41 bis e in solidarietà ad Alfredo Cospito in sciopero della fame, con l’obiettivo di prevenire possibili coinvolgimenti in una eventuale “escalation” della lotta. Questa operazione si inserisce in una strategia repressiva più ampia che con le stesse caratteristiche ha colpito numerosi compagni e compagne nell’ultimo anno.

Non riconosciamo nessuna forma di distinzione tra colpevolezza e innocenza, che è puro arbitrio di una logica processuale mai neutrale e pieno riflesso dei valori dominanti in un sistema di guerra globale, massacro di popoli e incarcerazione di oppressi e dissidenti. Ciò che invece ci rivendichiamo sono gli ideali, le pratiche, l’identità politica del compagno accusato in cui ci riconosciamo pienamente. Crediamo sia importante rafforzare la solidarietà in un momento di intensificazione della repressione, che nell’attuale contesto di guerra colpisce in maniera sempre più estesa. Per questo invitiamo a una presenza massiccia all’ultima udienza per rendere palese che se l’obiettivo era quello di isolare il compagno non ci sono riusciti e che non c’è rassegnazione tra chi sostiene la lotta contro ogni forma di oppressione.

Anarchice e anarchici

Link PDF: Zac-ultima-udienza-1

AL FIANCO DI JUAN. PER TANTI E TANTI MOTIVI

Diffondiamo

I nostri compagni non li scordiamo mai, Juan libero, abbasso la POLGAI!”

Il 16 luglio prossimo, alle ore 9,30 presso il tribunale di Brescia, inizierà un ennesimo processo contro il nostro amico e compagno Juan Sorroche. L’azione di cui è accusato è un attacco esplosivo avvenuto nel 2015 nella stessa città contro la POLGAI, una struttura in cui si addestrano le polizie di vari Paesi alle tecniche di antisommossa e controguerriglia.

Quando i dispensatori di terrore di Stato si vedono restituire una piccola parte della loro violenza, polizia politica e magistratura lavorano senza sosta per trovare i responsabili di un tale affronto – nessuno osi costrastare il monopolio borghese e statale della violenza! –, al punto che è la terza volta che Juan viene indagato per la stessa azione.

Qual è la massima espressione del monopolio statate della violenza? La guerra. E mentre i diversi complessi scientifico-militar-industriali ci stanno trascinando verso la terza guerra mondiale – di cui il genocidio in corso a Gaza è il capitolo più emblematico e brutale –, le retrovie di questa mobilitazione totale devono rimanere pacificate. Per questo la stretta repressiva verso ogni pratica di lotta non simbolica (pensiamo al drastico aumento di pene per i blocchi stradali e per le azioni di contrasto ai cantieri delle Grandi Opere). Per questo le manganellate contro gli studenti o le rappresaglie padronali-giudiziarie contro i facchini. Per questo le precettazioni in caso di sciopero. Per questo le continue inchieste contro compagne e compagni. Per questo il 41 bis applicato ad Alfredo Cospito. Per questo l’attacco alle idee e alle pubblicazioni anarchiche.

In tempi di guerra finiscono le pantomime garantiste. Lo Stato mostra il suo grugno e il suo maglio. I confini tra fronte esterno e fronte interno si fanno sempre più sfumati; l’immigrato in lotta si confonde con l’antagonista, le sollevazioni nelle periferie incalzano i movimenti antimilitaristi nel ventre della bestia, alle contestazioni nei campus universitari corrispondono le resistenze nei territori colpiti dalla furia estrattivista del capitale.

Ecco un esempio di questi intrecci globali: nella stessa sezione speciale del carcere di Terni dove da anni si trova Juan (e per diversi mesi anche Zac), dal gennaio scorso è rinchiuso il prigioniero palestinese Anan Yaeesh.

Benché la resistenza condotta da Anan nei territori palestinesi sia legittima persino secondo la carta straccia del Diritto internazionale; benché sia noto a tutti che nelle carceri israeliane si pratica sistematicamente la tortura contro i prigionieri palestinesi, il ministro della Giustizia italiano ha accolto la richiesta di estradizione di Anan da parte dello Stato d’Israele, mentre la resistenza armata contro il colonialismo sionista – oggi apertamente genocida – per i giudici italiani diventa “terrorismo”, la stessa accusa con cui si trovano in carcere anche i palestinesi Ali e Mansour, la stessa accusa mossa a Juan per l’azione contro la POLGAI. Ricordiamo allora che questa struttura è attiva a Brescia dal 1974 (anno della strage di Piazza della Loggia) e che nei suoi locali si addestra anche la polizia israeliana. E ricordiamo che in provincia di Brescia (Ghedi) si trova uno snodo fondamentale di quell’imperialismo occidentale attivamente complice della strage senza fine del popolo palestinese: una base NATO in cui sono stipate bombe nucleari in grado di disintegrare popolazioni intere. Il cerchio si chiude.

È importante essere al fianco di Juan contro questo nuovo tentativo di seppellirlo in carcere. Non solo per solidarietà nei confronti di un compagno che ha sempre dato un contributo generoso alle lotte. Ma anche come occasione per rilanciare le iniziative contro il terrorismo di Stato, contro il genocidio in Palestina, contro la guerra globale, la sua economia, la sua logistica, contro la repressione e per la fine del 41 bis. La solidarietà con Juan – e con gli altri compagni e compagne in galera – è per noi parte della mobilitazione da costruire per il futuro processo contro Anan, Ali, Mansour.

Per un’Intifada mondiale delle oppresse e degli oppressi. Per trasformare la guerra dei padroni in guerra ai padroni.

Come abbiamo urlato a Brescia durante i cortei per i cinquant’anni dalla strage di Stato di Piazza della Loggia, “i nostri compagni non li scordiamo mai, Juan Libero, abbasso la POLGAI!”.

compagne e compagni