MA CHI HA DETTO CHE NON C’ERAVAMO?

Riceviamo e diffondiamo:

Di santi, fragilità e anarchia: una risposta breve al testo “Da pari a pari. Contro l’autoritarismo identitario” e ad alcuni altri contributi innecessari

“Así Sí Señora! Fuimos Muy Malas y Fuimos Todas! “

Fenoménicas Brujas e Insurreccionalistas (F.B.I)
Ciudad de México, martes 10 de marzo 2020.

Continuare a leggere sproloqui reazionari che pretendono di cancellare le nostre esperienze anarchiche utilizzando semplificazioni degne di qualche youtuber incel con cappellino da cowboy è intollerabile.
Se alcuni soggetti credono sia ora di prendere posizione perché “troppo hanno aspettato”, allora siamo costrettx a pensare che anche noi “abbiamo tardato troppo”.
E diremo qualcosa di cui stiamo iniziando a non essere fiere.
Abbiamo tardato perché in fondo volevamo credere (e non volevamo rinunciare a riconoscerci) nei rapporti di affinità, nelle esperienze comuni, in quella radicalità che ci ha fatto incontrare molte volte, nella solidarietà internazionalista, nelle pratiche condivise, nell’elaborazione teorica che, chi più e chi meno, ci accomuna(va).
Ma, come è risaputo, l’affinità si basa sul principio di libera associazione, pertanto quando ciò che ci accomuna viene irrimediabilmente meno, un pezzo dopo l’altro, l’affinità con “certi soggetti” cessa di esistere.

Il testo che segue è un contributo corale di compagne (senza C maiuscola, grazie, non abbiamo bisogno della vostra sacra approvazione) che vivono fuori e dentro il territorio italiano.
Non è una posizione universale di un settore specifico, che di fatto non esiste come unicità.
Speriamo non si gridi all’infiltrazione esterna. È penoso, come anarchici.
Non solo perché nega di fatto la tanto sbandierata capacità di essere internazionali e internazionalisti, ma perché ci ricorda tanto la modalità dello Stato o, ancora di più, la classica strategia stalinista: ricorrere al fantasma del nemico esterno per giustificare la creazione di più dispositivi di controllo e repressione.
E quindi sì, scriviamo da molti territori, ma vogliamo ricordare a questi soggetti che ci conosciamo, e non è un modo di dire. Abbiamo partecipato insieme in molte piazze, ci siamo scritti e scambiati traduzioni, abbiamo messo in atto azioni di solidarietà che si richiamavano da un territorio all’altro, abbiamo partecipato a dibattiti nella stessa stanza, a chiacchiere e presentazioni. Peccato.

E quindi eccoci qua con alcune puntualizzazioni.

Dominio e liberazione, niente di nuovo sotto il cielo

Quello che ci interessa meno è impantanarci nel segnalare di nuovo le responsabilità di singoli amichetti nel perpetuare la violenza patriarcale nei suoi molti modi possibili con tante sfumature e gradi.
Che noia, questi esercizi petulanti di filosofia e storia antica.
Alcuni di questi amichetti probabilmente sono stati anche i nostri in alcune occasioni (e per fortuna alcuni proprio no), o i nostri compagni, in senso affettivo e politico. Nessuno qui può dirsi salvo perché il problema è strutturale, come tutte le dominazioni contro cui tanto lottiamo. Quindi anche concentrarsi esclusivamente nel difendere un singolo (tra l’altro quasi rasentando il culto della personalità, che fa molto religione e molto poco anarchia) è fuorviante, perché distoglie dalla questione centrale.

Il sistema di dominazione è complesso e a più livelli e chi lotta per la libertà dovrebbe farlo in maniera altrettanto complessa e multipla, non solo concentrandosi su singoli aspetti o su specifiche forme. È ora che questa pulsione radicale per la liberazione totale sia meno di facciata, e investa con la sua capacità distruttiva non solo lo Stato e il Capitale, ma ogni forma di dominio. Patriarcale e coloniale inclusi.
Per fare questo sarebbe necessario abbracciare le proprie contraddizioni, essere critici con noi stessi così come lo siamo con gli altri, abbandonare questo purismo moralista che puzza di vecchio e costruisce chiese ideologiche invece di bruciarle.
E sopratutto non considerarsi immuni dall’essere noi stessi parte del problema.
Patriarcale e coloniale, dicevamo…
Poveri 5 piccoli indiani.
Il virtuosismo della comparazione con la situazione in atto in Palestina e la narrazione genocida dello stato sionista di israele farebbe quasi ridere se non fosse altamente problematico.
È sufficiente un’analisi grossolana per capire che equiparare una narrazione di violenza volutamente islamofoba e vittimizzante di una forza occupante su chi la resiste coraggiosamente fino alla morte con le denunce di compagnx verso dei coglioni aggressori proprio non regge.

Ci sembra che qualcuno abbia iniziato un processo di beatificazione.
E noi santi e beati non ne abbiamo.
Preferiamo ricordare chi lotta anche con i suoi errori, perché è questo che ci permette essere chi siamo.
Quello che ci dispiace notare, però, è che in questo affannarsi per difendere e santificare, si regalino al potere tanti spunti e dettagli di incontri, dibattiti, campagne di solidarietà, cose che nel nostro modus operandi non dovrebbero essere pubbliche né pubblicate. Ups.
E, ancora più grave, assistiamo attonite a un’autoinvestitura dell’autorità morale nel definire chi è dentro e chi è fuori dalla chiesa, riproducendo proprio quegli atteggiamenti che si criticano.
Per quanto ci si dilunghi in inutili astrazioni, a tratti così stirate che rasentano il ridicolo, l’elefante nella stanza continua ad essere la misoginia dei compagnx e il loro potere di definire chi è compagnx chi non lo è e quali lotte sono giuste e meritevoli.
Da una parte viene criticato il potere di definizione di chi subisce o ha subito violenza, ma dall’altra questo potere di definizione viene costantemente esercitato (difeso e tenuto stretto) nella scelta di chi è dentro e chi è fuori, di cos’è la pratica anarchica e cosa non lo è.

Quale internazionale?

Cosa si intende per “americanizzazione?”
(America é un continente un bel po’ grande, deduciamo che i professori si riferiscono agli Stati Uniti);)
Rimane un concetto vago che sembra uscito da un fumetto del vecchio PCI.
Un verdetto che raccoglie un po’ tutto e avvia il processo della nostra scomunica.
Saremo giudicate dall’inquisizione e condannate all’esilio da tutti i percorsi che da anni portiamo avanti, non come queer ma come anarchiche (perché, sorpresa! ci sono tantx di noi che non sono e non amano come il Papa comanda… se ne erano accorti lor signori?)
Verranno castigati i nostri comportamenti “infantili” o “depravati”?
Abbiamo la sensazione, vostro malgrado, che la direzione sarà piuttosto un’altra…
Rispondiamo (senza gioia) a questi sproloqui perché ci stanno a cuore le lotte e perché certi cappellini da cowboy trumpiani ci allarmano, non per chi li porta, ma per quello che stanno facendo delle nostre idee e della loro possibilità di propagarsi.
Ce lo saremmo volentieri risparmiate.
La “teoria del complotto esterno” è ciò che ci ha colpito di più.
Dove è finita l’essenza profondamente internazionalista del nostro essere anarchico, tanto nelle pratiche quanto nelle teorie e nei dibattiti?
Liquidare certi temi come “ingerenze esterne”, accusare chi riflette sull’oppressione di genere di “americanizzare le lotte” addirittura usando termini come “woke” (grazie bro Trump per aver illuminato i nostri Compagni) è una deriva nazionalista reazionaria a dir poco disgustosa. Da quando le nostre idee devono avere una certificazione nazionale?
Ma detto questo, ci chiediamo perché volontariamente si sorvoli sulle molte riflessioni “nostrane”, che non hanno avuto bisogno di input esterni per affilare teoria e pratica, per rispondere radicalmente all’esistente, per spezzare catene. Riflessioni emerse dai confronti tra moltx compagnx, all’interno e all’esterno delle nostre frontiere territoriali, nei dibattiti accesi, nelle esperienze personali, dal carcere fatto di sbarre a quello fatto di leggi, norme e regole sociali a cui abbiamo deciso da decenni di ribellarci.
Come è possibile che non si riconoscano dopo tutti questi anni, le esperienze radicali, in seno ai nostri spazi, teorici e pratici, che molte di noi hanno elaborato?
Forse semplicemente facilita il gioco etichettarle come “esterne”, perché risparmia il lavoro che ci aspetteremmo da ogni compagno, compagna, compagnx: quello del leggere, conoscere, discutere e praticare, tra noi, per noi, contro chi opprime e reprime.

Né liberali né reazionarie, un po’ di noiosa pedagogia

Ci saremmo volentieri risparmiate questo scomodo lavoro di pedagogia, ma a quanto pare è necessario.
Facciamo chiarezza: molte di noi mai si sono rivendicate all’interno degli orizzonti LGBT, e quando si usa per definirci ci sembra di parlare con i genitori che dicevano “spinello” negli anni 90. E no, non ne facciamo una questione di linguaggio.

Riflessioni sull’identitarismo, sulle sue derive liberali, su certi processi interni che finiscono per diventare giustizialisti, sul rischio del riformismo nelle lotte… ne facciamo da un bel po’, non stavamo aspettando lo spiegotto, e lo facciamo non perché abbiamo paura della scomunica ma perché siamo anarchiche e non c’è bisogno di aggiungere che pensieri sinistroidi e riformisti non ci appartengono affatto.
Ma non è forse un rischio di tutte le lotte specifiche?
Lotte tra l’altro in cui, non c’è bisogno di dirlo ma lo diremo, siamo più che attive; purtroppo troppo spesso al vostro fianco, per fortuna sempre meno.
Carcere, frontiere, inclusa la recente ondata di solidarietà con la Palestina, la lotta per la difesa della terra, l’azione contro la guerra e la tecnologia militare…, non hanno forse tutte questo rischio?
È nostro compito, con le nostre pratiche e idee, rompere le righe in questo senso.
Perché dovrebbe essere diverso in questa lotta specifica? O alcuni ritengono di essere gli unici a saperlo fare? Ad avere l’agilità per non scivolare nel fiume in piena del riformismo sociale?
Cosa spiega questa sfiducia verso le potenzialità della lotta specifica queer o transfemminista? Iniziamo a pensare che se non può valere la stessa regola…c’è qualcosa che puzza.

La generalizzazione ci disturba.
Uno perché è tendenziosa. Silenziare con argomenti facili riflessioni necessarie, depotenziandone in partenza il valore, addirittura scomodando le vacche sacre dell’anarchia, ci ricorda nuovamente la propaganda MAGA, anti-woke (che chi cazzo se ne frega del liberal woke poi…ma chi frequentano ‘sti Compagni?), fatta appunto di semplificazioni aberranti tese a uno scopo specifico: disumanizzare e delegittimare i nemici dei valori tradizionali e patrii per annientarli.
Due perché viene da chiederci: cosa temono veramente questi fragili signori (e signore anche)? Ci aspettavamo più sincerità dopo anni di lotte assieme. È solo provocazione? È solo difesa del neosanto Compagno?
Molti studies (scusate non potevamo resistere)sull’incremento delle spinte reazionarie e autoritarie hanno evidenziato il nesso tra l’aumento esponenziale di una mentalità sempre più conservatrice e la paura mal elaborata di certi settori della società di perdere tutto (sopratutto la loro posizione) ed essere dimenticati, con il conseguente asserragliamento nei vecchi confortevoli valori: dio, patria, famiglia.
Coloro che bruciarono al rogo, incarcerarono, urlarono all’untore, diffamarono e diffusero odio generalizzato all’interno delle proprie comunità appartenevano spesso a questi settori: terrorizzati nel 1400 dalla inusuale libertà della comunità gitana o negli anni 2000 dal flusso in aumento di manodopera economica migrante o attualmente nel profondo degli Stati Uniti, da “negri e froci” destabilizzatori della santa patria.

Infine: la forma che il potere e lo Stato spesso usano per giustificare purghe, repressione o pacificazione sociale è attraverso universalizzare i propri valori e omogenizzare il nemico dell’ordine costituito affermando così la propria sacralità.
Di nuovo un po’ di pedagogia: chi di noi ha riflettuto sulle questioni dell’autodifesa, dell’eteropatriarcato, della cultura dello stupro, della transfobia e delle mille forme che ha il dominio per piegarci (sorry, non c’è riuscito lo Stato, dubitiamo nella capacità dei Compagni di addomesticarci) lo ha fatto in molte forme diverse, con rifermenti diversi, strumenti diversi.
Chi scrive questo testo lo fa abbracciando una prospettiva anarchica, come punto di partenza e arrivo. Ma tutto il resto non si può collocare in un unico contenitore.
Alcune rivendicano l’insurrezionalismo come la forma più etica per non scendere a patti con l’esistente, altre credono nella capacità dirompente delle nostre idee, altre si dedicano a scrivere e pensare.
La diversità delle nostre strategie e tattiche è ciò che fa dell’anarchia quello che è.
Ci giudichiamo, allontaniamo, ritroviamo come fa tutta la galassia anarchica, da sempre.
In questo siamo simili.
E proprio anche in questo siamo simili nell’essere diverse, nel portare avanti riflessioni specifiche e multiple sul tema, ahimè, al centro di questi recenti misfatti.
Chi si definisce queer e chi no, chi non ha mai letto Butler e chi ne apprezza l’analisi, chi lotta in spazi misti, chi solo in quelli separati, chi parte dal transfemminismo, chi ha deciso che non ne vale la pena e chi invece, come noi che scriviamo, ancora cerca quell’ultima possibilità di faticosa pedagogia.
Chi non si definisce femminista e chi lo fa da anni.
Non sempre siamo d’accordo. Anzi, spesso non lo siamo, in pratiche e forme.
Perché questa volontà di rinchiuderci in un’ unica entità omogenea se non per facilitare l’attacco inquisitorio?
Rendere massa informe e omogenea il possibile nemico pubblico è, di nuovo, vecchia strategia del potere.

Ma forse come succede con gli attacchi del nemico, che ci fa ritrovare assieme dallo stesso lato della barricata, anche tale vomitevole ultimo capitolo otterrà lo stesso: fare banda tra noi anche se non siamo d’accordo in tutto.
Un “noi” che si fa ogni volta più ampio e che non si riferisce solo a donne e queer ma che, come abbiamo detto all’inizio, si associa liberamente per affinità e sopratutto si ritrova a condividere almeno il ribrezzo provocatoci dalla scuola etero-bianca-cis-vetero anarchica del funesto demiurgo e compagnia.

Non è una minaccia. Le minacce non sono nel nostro ordine di idee. Le cose si fanno o non si fanno, senza avvisare.
Chissà, è piuttosto una proposta.
E non scomodatevi con un altro noioso spiegotto di cosa siamo e cosa non siamo.
Ci vediamo spesso e (mal)volentieri.
E lì, ci troverete, puntuali come sempre.
Il mondo brucia e abbiamo altro a cui dedicare energia. Vi invitiamo a fare lo stesso e smettere di piagnucolare.

Un po’ di compagnx senza C


Qui il pdf del testo: Ma chi ha detto che non c’eravamo

ANARCHIA E’ LOTTA ALL’OPPRESSIONE ETERO PATRIARCALE. (POTETE ANDARE A VITTIMIZZARVI ALTROVE)

Riceviamo e diffondiamo:

Un nuovo testo si aggiunge! Ci sgomenta ma in effetti non ci stupisce, ed è del tutto coerente con lo stato dominante delle cose e col modus operandi del macho al potere: avere un privilegio, manipolare la realtà al fine di mantenerlo a qualunque costo, pur di non incrinare il sistema che lo sostiene.
Autorx ne sono altrx guardianx dell’anarchismo che sentono di doversi difendere e allertarci sul dominio degli “alfieri queer dell’identità di genere”, i nuovi “nemici della libertà”. Sembra un colpo di scena: questx autorx che si firmano “loggia Bakunin” sembrano voler riprendersi un palco. Chissà se si rendono conto che la loro sceneggiatura lx mostra come personaggi le cui maschere da libertari cadono.

L’atteggiamento tipicamente umiliante e beffardo si palesa deridendo queer rinominandolo qwerty, appropriandosi di un vissuto storico come quello della caccia alle streghe storpiandone il senso e i ruoli, straparlando di femminismo e umanesimo, risguazzando nella solfa dell’ideologia globalizzata di matrice accademica-liberista-punivista.
Si racconta che chi lotta contro l’oppressione quotidiana e sistemica dell’eteropatriarcato vuole sopprimere chi vive pratiche erotiche eterosessuate.
Si continua sistematicamente ad attribuire posizioni legaliste e integrazioniste dell’associazionismo lgbtq allx compagnx che, invece, da sempre identificano (anche) quello come nemico.
è chiaro come il sole! Pur di non lavorare sui propri privilegi e autoritarismi (ci sfugge a questo punto, cosa ci rende compagnx?), si sceglie consapevolmente di non ascoltare, distorcere e controattaccare le istanze dellx compagnx che devono difendersi da un’oppressione in più rispetto a chi è etero cis. Perché ci sono cose che a questx templarx della libertà anarchica danno fastidio: il fatto che circolino testi e pratiche, che si prendano momenti e spazi non misti, che si agisca il conflitto verso chi esprime transfobia, che non si tolleri più chi misgendera i nomi o chi vorrebbe – come un qualunque cattolico provita – che tutte le persone riconoscano un valore alla procreazione.
Si manipolano per l’ennesima volta i discorsi e si raggiungono vette fin’ora forse intoccate di vittimismo.
Cercano riconoscimento di alcunx e il conflitto con altrex, questx autorx.
Ma non abbiamo più tempo da perdere.
Qui e ora, con un altro genocidio in corso, lx autori si trastullano con le parole e parlano di “pulizia etica” per argomentare che le soggettività transfobiche ed etero cis sarebbero sempre più in pericolo di vita negli spazi anarchici.
Chi scrive e pensa tutto questo si qualifica da solo .
Glx autorx continuano a riprodurre l’oppressione, pari pari allo stato e ai fascisti. Ci rifletta anche chi crede che questa faccenda non lx riguardi. La pazienza è finita anche per chi dà a questi contenuti agibilità politica o chiama ancora “compagnx” chi li concepisce.
Mentre compagnx queer, che questx autorx definiscono pure borghesi, finiscono in carcere perché continuano a rischiare in strada corpi e vite per far finire la violenza di questo mondo, voi che fate?
Andate pure a vittimizzarvi altrove.

Ci accusate di omologarci e uniformarci ai canoni liberalpink della sinistra istituzionale, quando sappiamo che come sempre è al contrario: è lo stato che strumentalizza le rivendicazioni delle lotte radicali per rendere la dissidenza un prodotto civile, vendibile e controllabile (vedi antispecismo e vegan washing, green washing, anarchismo e trendy estetica col passamontagna da social).
E non vi fate problemi a mettere una grafica antiabortista e ad appropriarvi di un termine, caccia alle streghe, che è per noi simbolo della repressione e della violenza dell’uomo sulle altre soggettività diverse da lui. Che ipocrisia. Ci accusate di essere le nazifemministe che reprimono ed isolano come fa lo stato contro glx anarchicx, eppure le prigioni le ha inventate e le mantiene proprio quell’apparato etero patriarcale e familistico che voi state strenuamente difendendo. Eppure quando un compagnx mena un fascista o uno sbirro è unx grande, ma se mena un uomo che ha agito violenza è sbagliato. Siete voi gli ipocriti che, come lo stato e i suoi servi, se gli viene puntato il dito urlando “VIOLENZA” reagite attaccando e poi negando tutto. Infatti, nelle vostre colte e articolate frasi e parole, ne manca sempre una. Non la nominate mai, violenza.
Forse alcun di voi non l’hanno mai dovuta affrontare. Probabilmente l’avete esercitata, ma avete terrore a riconoscerlo e rifiuto di responsabilizzarvi, altrimenti questo vittimismo non si spiega. Forse non capite cosa si prova quando la violenza degli uomini e del sistema basato sul loro potere segna ogni giorno della nostra vita da quando abbiamo memoria a oggi. Violenza di tutti i tipi, in tutti i luoghi. Forse alcun di voi pensano che se con più o meno giri di parole veniamo accusatx di “essere insidie al senso ontologico della libertà e al suo perseguimento pratico”, questa violenza smisurata verrà dimenticata, nascosta? Il problema sarà ontologico, sarà in che modo possiamo ben giustificare il nostro essere, le nostre anime, in termini filosofici politici così da poterci affermare in mezzo ai compagni maschi? No, il problema rimane sui nostri corpi ogni volta che siamo accanto a esseri violenti.
Quanti giri di paroloni per camuffare che vi rode il culo.
Veniamo giudicate, umiliate, represse e rinchiuse perché quello che proviamo, sentiamo, desideriamo è diverso dal vostro vissuto. È una violenza che anche se non la nominate mai, ci viene ricordata a ogni vostra parola. Che incide come una catena arrugginita e a volte ci toglie il respiro, a volte ci fa urlare a squarciagola e vuole vendetta.
Strano, che questo tipo di dolore non venga empatizzato da chi dice di essere contro ogni gabbia e catena?
Non si hanno problemi a parlare di Violenza quando si tratta di violenza di stato, violenza sbirresca. Invece quando si collettivizzano atti violenti perpetrati da individui di genere maschile nei confronti di individualità altre, ci si deve sistematicamente imbattere in variopinte forme di deresponsabilizzazione, invalidazione, fino alla patologizzazione di posizioni non compiacenti.
Sappiate che queste nostre parole, queste nostre energie, non sono spese per voi che avete scritto quel testo di merda. (E neanche per tutti gli altri maschi che hanno scritto altri testi di merda tipo i tre moschettieri). Queste nostre parole sono sfogo e creatività e crescita in momenti di sorellanza bellissimi che ci arricchiscono, ci fortificano, ci fanno pensare alle nostre antenate streghe e ai veleni che preparavano quando un uomo potente doveva morire per non fare soffrire più un’amica o una comunità.
Non sentiamo il bisogno di spiegarci, di volervi fare capire e volerci fare rispettare da voi. Vogliamo che chi è vicinx a noi sia complice del nostro disgusto per questi infami sproloqui, che non senta il bisogno di difendersi dalle vostre cagate perché sono palesemente pregne di vittimismo machista, che condivida l’ironia di vedere come dei “compagni” si sono smascherati da soli e cosi poterne stare coscienziosamente lontanx.

Ontologicamentə,
alcunə cagnə infertili catanesə

LETTERA DI GUI DAL CARCERE DI VARESE

Riceviamo oggi, a 16 giorni dalla data di invio, questa lettera di  Gui che era in quel momento reclusx nel carcere di Varese. Al momento si trova ai domiciliari da sua madre, lontanx da casa sua e dai suoi affetti, con il divieto di comunicare con l’esterno e l’obbligo di indossare il braccialetto elettronico.

22/09/2025 – Carcere di Varese

ciao amix 🙂

ormai dieci giorni fa, non senza una certa difficoltà, vi avevo mandato una bella lettera, piena di speranza e tenacia, per raccontarvi come stavo, come sono le condizioni qua dentro, cosa pensavo in quei primi giorni dietro queste sbarre. non so bene cosa sia andato storto, forse le poste l’hanno persa, forse gli sbirri se la sono tenuta – anche se mi assicurano sia stata spedita e, in caso di sequestro, sono tenuti a farmi una notifica. in ogni caso, quella lettera a casa non ci è mai arrivata. in questi tredici giorni dentro è cambiato tutto e niente.

il mio primo concellino ha ottenuto i domiciliari, è arrivato un altro ragazzo qui con me che ha più meno la mia età, i miei gusti musicali e un bel po’ di altre passioni in comune. i giorni passano, appunto, sempre uguali ma diversi. ogni giorno con gli altri detenuti constatiamo che stiamo “bene ma male, male ma bene”. loro mi insegnano un po’ di arabo, io un po’ di francese, ormai conosco tutti e tutti conoscono me in sezione, c’è affetto, mutuo aiuto, solidarietà e più leggerezza possibile sotto al peso di queste sbarre. so di essere in una posizione di privilegio rispetto alla maggior parte di queste persone, e cerco di sfruttarla meglio che posso.

chi ne ha bisogno sa che mi può chiedere un tabacco, un caffè, una cassetta d’acqua, di dire qualcosa a qualcunx fuori, di cercare unx buonx avvocatx per qualcuno che non lo ha. tutti dicono che uscirò presto pensando ai reati che mi sono imputati, io non ne sono così sicuro sapendo che sotto accusa non ci sono quei reati ma il mio stesso modo di essere, pensare, legarmi allx altrx. in aula non vanno imbrattamenti e minacce che loro sostengono io abbia perpetrato, ma il mio essere anarchicx, il mio criticare sistema, stato e polizia. in due settimane ho subito due perquisizioni, col forte sospetto che nascondessero un secondo fine, che fosse la semplice pressione psicologica o l’installazione di qualcuna delle loro diavolerie tecnologiche.

in due settimane mi sono state sequestrate, per ordine del pm, due lettere indirizzate allo stesso, caro amico. ficcano il naso ovunque, cercano di entrarmi nella testa e togliermi questo beffardo sorriso che continuo a portare, fierx e sicurx delle mie idee e delle mie ragioni. tutto ciò rasenta, dal mio punto di vista, il ridicolo ed evidenzia la loro impotenza di fronte al nostro essere e restare così intensamente, profondamente e radicalmente umanx. loro non possono nulla, noi tutto. non lo nascondo, questi sequestri della mia corrispondenza privata mi fanno imbufalire, io quando scrivo a qualcunx che amo rovescio nella busta una parte delle mie budella e odio, odio, odio profondamente che quelle budella finiscano sul tavolo di qualche magistrato.

mi fa schifo. quella gente non merita di sapere cosa provo, cosa sento verso lx mix amix e verso questo mondo infame. che schifezza, che merdosissima odiosa schifezza infame. ma questa specifica, insulsa rabbia dura ben poco, presto tornano la rabbia vera e profonda, universale, mossa dall’odio mosso dall’amore che provo per voi e per questo mondo per il quale non perdo mai la speranza.

fino a che di ogni stato, galera, cpr, soldato, bulldozer e banconota non resteranno che ceneri e macerie. tuttx liberx, subito e per sempre. morte allo stato. un abbraccio fortissimo, stretto stretto, a chiunque là fuori e qua dentro mantenga la proprià umanità e la capacità di pensar(si)e libertà. grazie per ogni segno che mi avete mandato finora, vi sento intensamente.
a presto, gui <3

CONTRO LEONARDO, IL SISTEMA-GUERRA E I SUOI SERVI

Riceviamo e diffondiamo questo testo relativo al corteo del 13/09 contro lo stabilimento di Leonardo S.P.A di Ronchi e alla cacciata di un giornalista della Rai dal corteo (e alle successive prese di posizione di giornalai e sindacati vari):

Non è necessario indossare l’uniforme, la tenuta anti-sommossa e il distintivo (e/o il borsello) per appartenere allo schieramento degli apparati di controllo e repressione dello Stato, è sufficiente esercitare una certa funzione “pubblica” e soprattutto esprimerne insieme la legittimità. Può bastare un tesserino di giornalista.

Ma cosa fanno questi “professionisti dell’informazione che spesso operano in un clima di tensione”? Ti piantano in faccia le loro arroganti telecamere e quando cerchi di spiegare loro che non possono farlo contro la tua volontà e che no vuol dire no, si appellano alla legge che loro rispetterebbero e continuano imperterriti a mancarti di rispetto, poi quando la contestazione al loro operato diventa collettiva, allora si lamentano e invocano conseguenze penali per chi ha osato contestarli. Ecco, questi difensori della libertà di parola e della democrazia, svolgono una precisa funzione, quella di servi dello Stato.

E infatti sono sempre pronti a consegnare alla Digos i loro filmatini (alla faccia della libertà di espressione e di opinione!).
E infatti, anche in occasione di questa mobilitazione contro la Leonardo spa di Ronchi e in solidarietà con la Resistenza del popolo palestinese contro il genocidio portato avanti dallo Stato di Israele, mobilitazione auto-organizzata da parte di varie realtà del territorio riunite nell’Assemblea no Leonardo, senza partiti, padrini e né padroni, chi intercettano questi campioni dell’informazione?
Politicanti d’assalto che si fanno largo e per avere il loro momento di visibilità “radicale” e si permettono valutazioni sulla mobilitazione confrontandola con quella del dicembre 2023, notabili riformisti, mitomani provocatori in odor di sionismo. Chiunque pur di non andare al cuore delle questioni, chiunque pur di sminuire e stigmatizzare le proteste e di mantenere e difendere lo schifo esistente.
E infatti, a titolo di esempio paradigmatico, che cosa hanno fatto questi sinceri professionisti, millantatori dell’attività di informare, durante le stragi nelle carceri italiane dell’8-9 marzo 2020? Naturalmente hanno riportato solo le versioni dei carcerieri, questo sanno fare i servi del potere e questo fanno!

Non possiamo non rispondere al comunicato della Rai del Friuli-Venezia Giulia perché non porre argine alla falsificazione degli avvenimenti si tradurrebbe per noi in una accettazione delle manipolazioni ai nostri danni e nel consentire al trionfo della passività sul mondo e siccome non siamo un ammasso di docili pezzi di carne inerti in attesa di essere macinati per gli spettatori, ci rivoltiamo.

Riportiamo le parole del giornalista inviato di guerra Chris Hedges dal blog Invicta Palestina:
“I giornalisti occidentali sono complici a pieno titolo del genocidio. Amplificano le menzogne israeliane che sanno essere menzogne, tradendo i colleghi palestinesi che vengono calunniati, presi di mira e uccisi da Israele”.
Usigrai, RAI, coordinamento CdR della RAI regionale FVG, hanno manifestato solidarietà attiva nei confronti degli oltre 250 giornalisti palestinesi uccisi a Gaza da Israele?

Nella tragedia di Pasolini I Turcs tal Friûl, scritta a ridosso del 1945 e ispirata alle invasioni turche del ‘500, le persone di una periferia remota e dimenticata discutono ed elaborano piani di autodifesa di fronte al pericolo imminente di un’invasione e alla prospettiva di una minaccia concreta al loro vivere quotidiano. Emergono due atteggiamenti, l’uno rinunciatario e rassegnato, l’altro combattivo e vitale, destinato a soccombere. Sono personificati nei due fratelli Colùs, Paolo e Meni, il secondo andrà a combattere e non ritornerà, come un eroe tragico, e i turchi alla fine risparmieranno misteriosamente il villaggio.

Partecipare al corteo di Ronchi del 13 settembre ha fatto pensare ai turchi in duplice senso, nel primo, alla lettera, ovvero nel fatto che nei prossimi mesi dallo stabilimento Leonardo di Ronchi usciranno droni micidiali concepiti in Turchia dalla Baykar; nel secondo, più allegorico, ovvero che questo fatto non viene percepito in loco come un pericolo imminente, come una minaccia concreta alla comunità, ma si preferisce una pseudo-normalità fatta di quieto vivere. Allo stesso modo questo atteggiamento di pseudo-normalità si è riproposto anche in alcune componenti che hanno partecipato al corteo del 13 settembre, quelle “istituzionali-pacifiste”, che non perdono occasione per prendersi uno spazio di parola, sottraendolo agli altri. Quello spazio che faticosamente si è cercato di costruire, con la ricerca e l’agitazione, nei pochi mesi trascorsi da quando è scaturita, tra i collettivi e le individualità che si sono incontrati, la proposta di fare qualcosa. Allo stesso modo, cioè con fatica, gli interventi al microfono e gli slogan lanciati durante il corteo hanno voluto esprimere ai residenti lo sgomento e la paura, oltre che il merito, oltre a denunciare il fatto cioè che il tessuto industriale della zona si sta rapidamente rivolgendo verso il settore difesa e il dual-use1; ma insieme a ciò hanno voluto esprimere anche una scelta chiara, quella di reagire al fatalismo.

Ci è rimasto impresso un aneddoto di un compagno, molto istruttivo. Ai tempi delle lotte antimilitariste alla base NATO di Comiso nei primi anni ‘80, il prefetto di Ragusa lo fece prelevare dalla polizia con altri compagni, si informò sulle loro intenzioni. Alla risposta che volevano entrare nella base per distruggerla, il prefetto rispose che “Se venite con la gente, potete farlo, se siete da soli, non ve lo consiglio”2.

Il prezioso suggerimento, per non soccombere, è quello di prepararsi, concretamente, con il ragionamento e con l’azione.

Udine 18 settembre 2025

Qualcuno che c’era


1 Adriatronics cambia proprietà, salvi trecentotrenta posti di lavoro, “Il Piccolo”, 12/9/25; Difesa, fra Trieste, Pordenone e Gorizia in “distretto” del militare, “Tgr Rai Friuli Venezia Giulia”, 31/7/25. Sono solo due esempi eclatanti.

2 A.M.BONANNO, Errico Malatesta e la violenza rivoluzionaria, Trieste, 2023, pp.51-52

TRANSFOBIA E CAMPAGNE ANTIGENDER: QUALE ORIGINE?

Pubblichiamo il testo dell’intervento “Transfobia e campagne
anti-gender: quale origine?” presentato alla Fiera dell’editoria e della
propaganda anarchica di Roma del 4-6 aprile 2025. Essendo pensato come
intervento a voce, si è deciso di mantenere nella trascrizione il tono
colloquiale dato dal contesto.

Stiamo assistendo negli ultimi anni a una situazione globale che scivola sempre più verso nuove forme di fascismo: in molti paesi sta prendendo potere l’estrema destra, il controllo dello Stato si fa sempre più stringente sulle nostre vite, vi è un ulteriore incremento della militarizzazione, della repressione, di legislazioni che restringono sempre più i nostri già risicati spazi di libertà, per cui ci troviamo a lottare costantemente per non perdere ulteriormente terreno, oltre a mantenere l’orizzonte sul sovvertimento di questo sistema di dominio nella sua totalità. E’ sempre più evidente il risorgere di forme di nazionalismo, con il loro corollario securitario, che cerchiamo di contrastare con i mezzi in nostro possesso, lottando per esempio contro l’apertura di nuovi carceri e CPR, sostenendo le lotte al loro interno, denunciando le politiche migratorie, i nuovi pacchetti sicurezza, le politiche che aumentano il divario economico e sociale tra la popolazione, e così via.

Quello che però mi stupisce, e che mi pare manchi spesso dall’analisi anarchica sullo stato di cose attuali è come quest’incremento della repressione e della morsa dello Stato vada anche a colpire in altri ambiti rispetto a quelli appena citati. Vada a colpire non solo le persone migranti,
ad esempio, o le persone che si ribellano a questo stato di cose, o le persone povere, aumentando il divario economico tra ricchi e poveri, ma anche, come nei fascismi del passato, tutte quelle persone considerate feccia della società: persone improduttive (tossicodipendenti, persone senza fissa dimora, psichiatrizzate, disoccupati cronici, andando a tagliare tutta una serie di fondi sociali per il sostegno alle persone in difficoltà) o persone il cui genere od orientamento sessuale non è funzionale all’ideale della famiglia bianca borghese che è alla base del nazionalismo (quindi persone frocie e trans, escluse quelle perfettamente integrate negli ideali bianchi borghesi, ma anche donne che reclamano un po’ troppa libertà). […]

Continua qui (PDF): Transfobia e campagne anti-gender

DI POSTA, PACCHI E COLLOQUI IN CARCERE: FACCIAMO CHE IL NOSTRO PROBLEMA DIVENTI UN PROBLEMA LORO

Riceviamo e diffondiamo:

Dopo 9 giorni dall’arresto per l’esecuzione della misura cautelare in carcere nella sezione comune di Poggioreale, legata ai fatti del corteo di carnevale contro il ponte sullo Stretto, Gabri non ha ancora mai avuto la possibilità di chiamare il suo avvocato.

Già per Andre la possibilità di incontrarlo prima e durante l’interrogatorio di garanzia fu impedita da un trasferimento dell’ultimo minuto al carcere di Potenza e da una connessione malfuzionante della videoconferenza; così come a Guí, al momento dell’arresto, avevano negato di nominare un avvocato di fiducia.

Trascorsi diversi giorni, a Gabri non sono state fornite le informazioni adeguate per poter sentire il suo avvocato difensore, per cui non lo ha ancora chiamato. In più non hanno fatto entrare il pacco di emergenza né quelli inviati successivamente, né ha ancora potuto effettuare i colloqui con le persone familiari. Fortunatamente, sappiamo che la solidarietá e il mutuo aiuto tra detenutx non è mancata.

Intanto, il riesame per Gabri, Guí e Andre, accusatx nello stesso procedimento, è stato fissato per il 25 settembre presso il tribunale del riesame di Messina.

A quanto abbiamo capito, si tratterebbe di intoppi procedurali e burocratici del carcere stesso di Poggioreale, una condizione strutturale legata al sovraffollamento, cosa comune specie in quei luoghi in cui masse di persone vengono riversate quotidianamente nelle galere, come fosse una discarica sociale.

Come Gabri, probabilmente, centinaia di detenutx nelle galere napoletane e in particolare a Poggioreale, uno dei più sovraffollati d’Italia (circa del 160%), vivono questo tipo di problemi come la normalità. Così come è normalità la logorante attesa delle persone detenute e loro affetti di una firma del magistrato di sorveglianza che validi le scartoffie già pronte da mesi sulla sua scrivania per concedere benefici, lavoro esterno per art. 21 o pene alternative.

“Sono veloci quando si tratta di portarti dentro e mai quando devi uscire”. 

Anche se per ragioni e contesto molto diversi, come compagnx diciamo che l’isolamento di chi è detenutx, non ci è nuovo.

Diversx prigionierx anarchicx o rivoluzionarx, nel tempo, così come nell’ultimo periodo, sia in sezioni comuni che di AS, sono statx ostacolatx o hanno subíto privazioni nelle comunicazioni con l’esterno.

Per il compagno anarchico Alfredo, ancora rinchiuso al 41bis di Bancali (Sassari), da tempo la corrispondenza è ormai totalmente bloccata, cosí come l’accesso alla biblioteca e ai pochi libri e CD giá autorizzati. La posta, anche senza passare dalla censura, sparisce nel nulla.

Al compagno anarchico Ghespe, detenuto al carcere di Spoleto, è stata applicata la censura; non abbiamo modo di sapere se la posta sparisca in entrata o uscita e una censura informale è di certo applicata ai pieghi di libri.

Al compagno Paolo, detenuto a Uta (Cagliari), è applicata ormai una censura informale per cui la posta si perde in entrata o in uscita, salvo che non sia posta raccomandata.

Che gli impedimenti a colloqui, pacchi e corrispondenza siano dati da sottorganico dell’amministrazione penitenziaria o da scopi punitivi e vendette politiche, l’effetto afflittivo sulle persone detenute e quelle a loro vicine o solidali non cambia. Allora diciamo che da un problema nostro dobbiamo farlo diventare un problema loro!

Isolare è un modo per punire chi continua a resistere anche dentro le carceri, non accettando di piegarsi ad un sistema oppressivo e repressivo. Il sistema carcerario impone un isolamento dall’esterno, dagli affetti e dallx compagnx, per cui poter ricevere lettere e pacchi è l’unico modo che si ha per oltrepassare quelle mura e mostrare vicinanza.

Negare la possibilità di comunicare con il proprio avvocato è gravissimo, poichè rappresenta la privazione di una minima consapevolezza sulla propria situazione.

Non poter ricevere il minimo indispensabile per l’igiene e una presenza dignitosa in cella è inaccettabile.

La lotta avviene sia dentro che fuori le gabbie, lo insegnano Alfredo, Anan, e tuttx lx compagnx reclusx.

In questi momenti è importante essere complici con lx compagnx, e mettere in difficoltà chi ostacola chi continua a lottare da dentro.

Raccogliendo i vari inviti a scrivere loro, come forma immediata per far sentire la nostra presenza in questi tempi bui e intasare gli uffici della burocrazia, scriviamo a tuttx!!

Sperando sia cosa apprezzata, riportiamo qui gli indirizzi di alcunx prigionierx a cui poter mandare un saluto scrivendo lettere e cartoline:

Gabriele Maria Venturi
C/o C.c. di Napoli Poggioreale “Giuseppe Salvia”
Via nuova Poggioreale 167, 80143 – Napoli (NA)

Guido Chiarappa
C/o Casa Circondariale di Varese,
Via Felicità Morandi, 5, 21100 Varese (VA).

Andrea Berardi
C/o C. c. di Potenza “Andrea Santoro”
Via Appia 175, 85100 Potenza (PZ)

Alfredo Cospito
C. C. “G. Bacchiddu”
strada provinciale 56 n. 4
Località Bancali
07100 Sassari

(per Stecco scrivere a:)
Luca Dolce
C. C. di Sanremo
strada Armea 144
18038 Sanremo (IM)

Paolo Todde
C. C. “E. Scalas”
09068 Uta (CA)

(Per Ghespe scrivere a:)
Salvatore Vespertino
C. D. R. Spoleto,
Loc. Maiano 10
06049 Spoleto (PG)

Anan Yaeesh
C.c. di Terni
Str. delle Campore, 32,
05100 Terni TR

Mauro Rossetti Busa
C. R. di Opera
via Camporgnano 40
20141 Milano

Juan Antonio Sorroche Fernandez
C. C. di Terni
strada delle Campore 32
05100 Terni

Anna Beniamino
C. C. “G. Stefanini” – Rebibbia
via Bartolo Longo 92
00156 Roma

Dayvid Ceccarelli
C. C. “San Lazzaro”
via delle Novate 65
29122 Piacenza

Antonio Recati
c.c. Scandicci
via Minervini 2r
50142 Firenze Sollicciano (FI)

Claudio Cipriani
Via Roma Verso Scampia, 350,
80144 Napoli (NA)

Per Alfredo, Paolo e Ghespe, è preferibile scrivere tramite posta raccomandata.

Per mandare pieghi di libri è meglio informarsi prima tramite lx prigionierx o persone solidali su cosa fa piacere o meno ricevere.

LE GABBIE RINCHIUDONO I CORPI MA NON SPENGONO I FUOCHI

Diffondiamo un intervento letto durante il saluto al carcere di Varese del 13/09:

Oggi siamo qui perché un nostro compagno è stato portato in questo carcere infame per aver preso parte a una manifestazione contro la costruzione del ponte sullo stretto di Messina. L’ennesima opera devastante e colonialista che vorrebbero imporci in una terra, come la Sicilia, già colonia dello stato italiano, una terra martoriata da basi militari americane, petrolchimici, radiazioni elettromagnetiche. Tutto per la gloria dello stato, i profitti del capitale, il ricatto del lavoro, il mito del “progresso” e dello sviluppo.

Ancora una volta vediamo come lo Stato affila i suoi artigli, utilizzando tutti gli strumenti che ha a disposizione, per reprimere qualsiasi manifestazione di dissenso, ma anche e soprattutto per metterci paura, per provare a spezzare la solidarietà, per darci un avvertimento forte e chiaro: per chi intende sfidare l’ordine costituito, per chi intende opporsi a questo modello di sviluppo, il destino è uno solo: dietro le sbarre.

Noi non ci faremo intimorire da queste rappresaglie, perché abbiamo scelto da che parte stare, perché sappiamo bene che in questo mondo di merda in cui ci ritroviamo a vivere, l’unica via possibile è quella della lotta.

Oggi siamo qui per portare un caloroso saluto e tutta la nostra solidarietà al nostro compagno ma anche a tutte le persone rinchiuse qua dentro, speriamo che la solidarietà trapassi queste mura infami.

Il nostro pensiero va a chi sta subendo la vendetta dello stato, a chi è rinchiuso dentro un CPR solo per non avere i documenti giusti, a chi continua a lottare dentro e fuori le galere.

Perché le gabbie possono rinchiudere i corpi, ma non possono spegnere i fuochi 

Con amore e complicità 

Freedom Hurriya Libertà 

 

PAROLE CHIARE (détournement di PAROLE SEMPLICI)

Diffondiamo sempre a proposito dello scandalo dell’esclusione e degli scritti usciti di recente su qualche sito di area anarchica:

Chi scrive pensa che la liberazione passi dall’individuo e non dalla brutale collettività, dall’amore per le idee, come dall’odio per qualunque forma di autorità. Agognata è la ricerca della consapevolezza del sé e delle proprie potenzialità e solo la rivolta può demolire la presunta ineluttabilità del mondo che si affronta ogni istante. È agli individui sensibili che si tenta di parlare. I ruoli, le categorie e le identificazioni esistono e vanno distrutti. Il dominio definisce qualunque ruolo per esserci in società. Ogni ruolo ha la sua oppressione e con esso si sviluppa una certa relazione sociale. Ogni clan ha il suo linguaggio, dei gesti specifici e diversi modi di fare che sono propri.

Eccola la prima questione: il tentativo di uniformare forme di versi, come se i vari ostrogoti potrebbero essere recuperati dal primo intellettuale di turno. L’omologazione rimanda ad una istituzione, non al tentativo (oggi impossibile se non si distruggono le basi della civiltà) dell’autonomia individuale; all’ordine delle cose e delle proprie insulse evidenze, non alla scommessa di rivolta anche contro noi stesse e non solo contro il dominio; alle prigioni mentali dell’individuo finito, non alla libertà di quell’individuo fatto della sua storia, dei suoi rimossi e delle proprie torture. La ricerca della libertà o è in estensione con quella di altrx o non è.

Affrontare la problematica di chi disprezza parlare di patriarcato e di violenze di genere è questione fondamentale. Date le molteplici persone di merda che frequentano gli ambienti anarchici il vittimismo a forma di esclusione è diventato attualmente lo strumento cardine per quegli uomini di merda salvati dai kompagni per essersi definiti anarchici, ma profondamente misogini, transfobici e patriarcali: piagnucolano che le compagne anarchiche neanche li degnano di uno sguardo… Poveri narcisi senza il loro specchio, come faranno ad avere un ruolo nell’ambiente sovversivo adesso?

Come faranno, adesso, ad avere la loro platea di gregari?

Il suono del lamento diventa ridondante addirittura quando le compagne non si fermano alla parola ma si vendicano nella pratica. Di solito agli anarchici boriosi piace solo la loro unione di pensiero e azione. Quando essa esce dal loro controllo si turano il naso e non dicono niente. Ormai pochissimx anarchicx difendono le azioni per quello che sono, il complottismo è entrato anche da queste parti. È stato anche fatto un giornale senza motivo per dire che loro sanno quale è l’azione anarchica e quale no. Coglione noi che eravamo rimaste all’azione diretta e al sabotaggio in tutte le forme di libertà possibili e impossibili… Meglio i sex toys che certa stampa anarchica misogina da pari, di giorno e di notte, a pari. Meglio l’ostinazione del nostro immaginario e le compagne con il coltello tra i denti che farsela con chi vuole prendere il posto dell’estrema sinistra stile notav. Meglio tentare la bellezza dell’anarchia che struggersi nella lamentela dell’esclusione dal comitato centrale degli anarchici. Scusate le battute al vetriolo di traverso, ognuna legge quello che vuole ma nessuna porgerà distinti saluti a chi maschera lo stupro con l’agghiacciante archetipo giustificatorio del desiderio maschile.

Spesso le varie questioni si affrontano con l’ottica identitaria di difesa del violentatore di turno, di chi si considera vittima di una cospirazione orchestrata dalle streghe, cioè qualunque individualità al di fuori del maschile. Ora, ciò che non si può accettare è che tale merda stia costringendo a sintomi reazionari e autoritari più che alla libertà, ad una sorta di moralità amicale che produce una avvilente sordità ai mille tentacoli del dominio patriarcale. Non si può dire violenza di genere, ogni gesto contro il patriarcato è tacciato di femminismo accademico alla Butler (qualcunx non se l’è mai cagata quella stronza democratica!!!!!!!!!!!!!!!!), nessun pensiero fuori dal manuale dei comunisti con pose anarchiche può essere detto. O si includono persone di merda e ci si comporta come loro oppure si è tacciati di esclusione, tribunale transfemminista o anarchismo duro e puro. La domanda sorge spontanea: dentro a che cosa? Dall’ansia di tenere la morale della vera idea anarchica che diventa una sorta di polizia storica e del pensiero? Dai retaggi di chi, fondamentalmente, guarda alle persone solo come individui atomizzati senza le loro storie di oppressione? Altro che codici, che ognuna parli come li pare ma che si accolli quello che esprime.

Semplice, come le parole.

È interessante a questo punto fare un parallelo con il modello omologante e stereotipato del dominio. Ogni questione, tranne quella della sua distruzione, viene recuperata dal dominio. Il dominio fagocita (quasi) tutto. Nemici della libertà, si dice oggi, traggono profitto da tutto.

Recupera il femminismo che fa l’occhiolino alla normatività, non quello radicale che sputa su ogni forma di identificazione (che belle stronze queste anarcofemministe sempre incazzate con gli abusanti e i narcisi!). Recupera la questione queer che vuole stare dentro a questo mondo, non quella caotica e antinormazione (a Berlino qualcuno le ha viste, o se non si fanno gli scontri è tutta colpa delle frocie? E poi, ancora con questo sguardo simmetrico del conflitto? Che ovaie!!!) .

Recupera l’autogestione che fa profitto e si allinea a una falsa orizzontalità con gerarchie informali, fino persino a recuperare alcune azioni allo scopo di annacquare i contenuti della radicalità. Al dominio interessa la decrescita felice perché innocua ai suoi piani di sfruttamento, non al possibile ritorno del luddismo. Infine, la parola libertà ormai è il vocabolo più banalizzato di tutti e gli anarcomunisti preferiscono partire insieme e tornare con la stessa congregazione piuttosto che organizzarsi per affinità, fiducia e partire e tornare con chi si vuole, e soprattutto si sceglie, in modo informale.

La tendenza di questa società tecnologica, la quale viene riproposta anche in ambienti cosiddetti sovversivi, è estirpare la singolarità di ognuna. Non da meno, le rivendicazioni tortuose di aver subito delle violenze da parte dei kompagni vengono denigrate perché sono pericolose: fanno saltare il tappo del non detto, dell’abitudine, del codice e della famigliola anarchica. Distruggere la famiglia e i codici rimangono alcune delle tante vie di pensare un mondo di libere e di unici.

Per questo è di distruzione di tutte le oppressioni, anche quella patriarcale che viviamo tuttx, di cui bisognerebbe anche parlare, di diserzione dai ruoli imposti biologicamente e delle categorie conseguenti che vengono appiccicate addosso, di morale introiettata dalla società, di comportamenti che gli individui tendono a riprodurre perché il mondo del dominio è uno con tutte le sue oppressioni latenti. In qualunque ambito si manifesta il potere, anche in quello anarchico ormai pieno zeppo dello spirito comunista, dove è facile scrivere di libertà e urlarlo in piazza, per poi nelle proprie mura domestiche (o negli spazi anarchici) e mentali si continua come se nulla fosse a normalizzarsi nei ruoli di potere. Anormali, sognatrici, creative e ubriachi di stelle ormai non hanno più posto nella quasi totalità degli ambienti anarchici di oggi, quando si parla di confini da sciatta penisola. Si appoggiano i piedi sulla realtà per fortificarla, non sulle nuvole per colpirla. I vetero-normativi con le bandiere rossenere dicono che il problema sia il femminismo, noi, senza nessuna bandiera da difendere, vediamo che la grossa puzza di merda che ristagna nell’anarchismo italico è il prepotente ritorno del comunismo in salsa movimentista del motto mai tramontato “condivisione o stato”.

Se i discorsi sull’oppressione non tengono conto di quanto il patriarcato, ad esempio, abbia inciso e incida ancora sulla determinazione e mantenimento di ruoli ben definiti da cui non si è fatto molto per sfuggire e che si sono reiterati per secoli, come è possibile comprendere ciò che ogni individualità subisce? E come è possibile scardinare il potere, se non si rende il peso necessario, prima di tutto, nelle relazioni quotidiane che viviamo? La critica antiautoritaria o la si fa a tutto il dominio, dalla religione al patriarcato, al capitalismo e alla tecnica, ai ruoli e alla medicalizzazione, alle istituzioni e agli autoritari, ai narcisi e alle bandierine, o diviene recuperabile da chiunque. E ci si chiede: ma come fai a definirti anarchicx se hai atteggiamenti come un qualunque coglionx autoritarix?

Senza l’empatia per le sofferenze altrui, saranno solo le parole del dominio o degli esperti a parlare.

La psicologia è dappertutto: lo è così tanto che qualcuno, per fortificare il proprio Pensiero Unico, scambia l’interrogarsi sugli aspetti emotivi e di cura come comportamenti per controllare gli individui intorno a noi. L’opinione che ne scaturisce è che, in fondo, gli esseri umani sono tutti potenzialmente onnipotenti, non possono aver paura e ansie, soprattutto in una vita ridotta a schermo per esserci, lavoro per sopravvivere e blog o giornali per fomentare le opinioni anarcomuniste. Essere solidali con chi subisce o ha subito un’oppressione vuole dire cercare di sentirla e odiarla per sovvertirla, proprio come chi ha la forza di dire ai propri affetti di aver subito una violenza. Se Adamo ed Eva hanno rappresentato l’immutabilità di una condizione per secoli, Hiroshima e Auschwitz, con le loro conseguenze, sono il mondo di oggi.

Siamo anche il frutto della società in cui viviamo, sarebbe il caso di non nascondersi più anche per chi detiene la fede anarchica (chi è più attuale oggi parla di cultura anarchica, dicendoci quali libri sono fondamentali e quali no, e al bando ogni singolarità, acculturiamoci tuttx, ma come dicono loro!!!!). Oggi alcune e alcuni anarchici sono profondamente antifemministi (che bel termine cognato proprio dai nemici della libertà), credono nell’individuo fatto e finito come fonte di progresso, ma è l’infinito che apre le porte alla libertà. C’è chi si masturba su Kropoktin, c’è chi ci ha propinato che “l’insurrezione che (s)viene” e i suoi autori erano geniali e c’è chi sogna senza limiti con “Il ladro” di Darien. Ad ognuno il suo, in ordine sparso, ma a debita distanza.

E allora è bene dirsi che, comunque vengano presentate, è di questioni personali e sociali che si parla, che il patriarcato e le relazioni che fomenta fanno parte del dominio, e che a furia di non riconoscere gli elementi latenti di oppressione, la critica al mondo e la possibilità della sua demolizione spariscono nel brusio del lamento all’esclusione del solito individuo abusante. Ma se ci pensate bene, ogni individuo può essere soggetto ad avere atteggiamenti oppressivi contro qualcuno di altrx nelle proprie relazioni. Questo modo di relazionarsi lo possiamo riconoscere per tentare di distruggerlo? Non stiamo scrivendo il riformista decostruirlo o destituirlo, ma proprio di demolirlo in noi. E che facciamo, diciamo che le individualità anarchiche vivono fuori dal mondo e che queste cose non possono capitare? Dovremmo elencare la sfilza di relazioni e di incontri occasionali fra anarchicx che si sono rilevati violenti? E l’inclusione delle sopravvissute incazzate che vogliono mettere a ferro e a fuoco il mondo o semplicemente di quelle individue che si sono sentite ascoltate dopo aver subito violenza? Continuiamo a costruire recinti contro le oppresse e le torturate?

Ma è bene anche chiedersi: quali relazioni si stanno costruendo alla luce di dare pacche sulle spalle a chi nelle proprie relazioni amicali, affettive e sessuali usa strumenti autoritari senza neanche riconoscerlo? Esiste ancora qualcosa di intimo, personale, individuale da custodire, che sia irriducibile a qualsiasi categoria che è giocoforza autoritaria?

L’odio e la rabbia provata per le prese di posizione fatte da gente che si è comportata di merda sono una delle fonti che danno senso agli io che vogliono rompere con qualunque pastoia del dominio.

PAROLE, PAROLE, PAROLE.

È una strana sensazione quella provata nel leggere testi tutti uguali, nel deserto del niente, senza emozioni, che non fanno incendiare le menti anche se pieni di parole che divengono slogan mal assemblati. Meccanicismo del cameratismo, altro che parole che osano l’impossibile. L’ossimoro con cui si è deturnato il testo che compare nel titolo è quello che vorremmo sentire nei cuori ardenti, non per dare l’idea di cosa è l’anarchia vera (fanculo gli autorevoli da ricette gastronomiche dell’ordine militante) ma per rendere omaggio a quelle individualità anarchiche (non certamente le uniche, per scardinare ogni mitopoiesi) che hanno dato il loro contributo ad un’idea di anarchia fatta di pensiero, azione e solidarietà contro tutte e tutti. Oggi quell’idea è sempre meno viva: la virtualità ha preso il posto dell’immaginazione, il mito sta uccidendo l’utopia, la realtà sembra un macigno in cui si può solo soccombere e ormai è meglio leggere Bordiga e Gramsci, piuttosto che gli individualisti anarchici.

Quando infatti si diffonde un comunicato in cui usa la parola infame per definire una compagna (metodo trito e ritrito per accusare in modo poliziesco, denigrazione forse imparata da Marx quando dava della spia russa a Bakunin), con all’interno delle minacce contro chi solidarizza con chi ha subito violenza e si mettono per iscritto delle accuse mettendo a rischio le relazioni fra anarchici già ultraparanoici (per dare dell’infame a un individuo bisogna essere sicuri, ogni piagnisteo che giustifica questo modo di comunicare è spazzatura), a che cosa siamo di fronte? Come dovremmo considerare chi mette a rischio l’incolumità delle persone che vivono una vita nell’illegalismo, se non gente con cui non avere nulla a che fare? Noi non ci permetteremmo mai di dare dell’infame senza esserne sicure al cento per cento. Almeno questo dovrebbe essere un concetto scontato; ma se non si riconosce che è inaccettabile dare l’infame a caso, come si fa a rendersi conto di tutti i dispositivi di potere e delle brutture di qualunque mondo che non si voglia liberare di ogni forma di autorità e autorevolezza? Ci si lamenta di nome e cognome su una ristampa di un’autobiografia di un’anarchica, ma non si dice che nello stesso libro c’è una lettera pesantissima di un’altra compagna che racconta di altre violenze subite in una relazione con la stessa persona. Qualunque potere va distrutto, sia quello della censura che della propaganda.

Anarcomunisti delle composizioni di classe con un occhio alla moltitudine desiderante e l’altro all’indifendibile, siete assediati dalle streghe rompigonadi! Avete presente “L’angelo sterminatore” di Buñuel?

Carx compagnx demolitx, vituperatx, offesx, incarceratx, torturatx, sofferentx continuiamo a odiare infinitamente amando senza riserve.

poche ma cattive streghe non tue compagne

P.s.: abbiamo svagato su altre questioni, siamo uscitx dai binari, abbiamo preso a mazzate ciò che ci disgusta perché sappiamo che i problemi dell’autoritarismo nell’anarchismo in questo posto di merda chiamato italia partono da lontano. Ma a noi non ci riguardano, abbiamo già scelto di non respirare neanche l’aria inquinata con certe persone e di assumerci la diserzione, ma sempre con una promessa vitale di sedizione.

Testo in PDF

INTACCANDO L’ARROGANZA DEL PRIVILEGIO

Riceviamo e diffondiamo:

Questo testo è stato inizialmente pubblicato sul n° 2 della rivista Caligine primavera-estate 2021 ed è stato pensato come una risposta all’articolo “Distinti saluti! Alcune riflessioni sul femminismo, sulle dinamiche di ammaestramento e sul tentativo di americanizzazione delle lotte” uscito sul Bollettino n. 4 della biblioteca dello Spazio Anarchico “Lunanera” di Cosenza. Decidiamo di dargli una nuova diffusione alla luce del recente dibattito scoppiato in rete perché crediamo contenga delle riflessioni ancora valide visto il contenuto espresso da alcuni testi recenti. L’articolo che segue è stato leggermente rimaneggiato rispetto alla pubblicazione originaria.


INTACCANDO L’ARROGANZA DEL PRIVILEGIO

 “Nella società borghese, è normale sparlare delle persone alle spalle,
ma mai fare critiche costruttive in faccia; allo stesso tempo,
ognuno resiste sistematicamente all’ammettere
qualsivoglia errore commesso.”

David Gilbert
Amore e lotta
Autobiografia di un rivoluzionario negli Stati Uniti

Se mi spingo a scagliare un’altra pietra contro l’ennesima espressione dell’antifemminismo che si annida in seno all’anarchismo italiano non è certo per il piacere di inoltrarmi nel ginepraio velenoso che sembra diventato ultimamente il dibattito attorno a certi argomenti, nella speranza che un giorno le pietre raccoltesi nel tempo attorno al corpo morto del patriarcato possano costituire le fondamenta di un ponderare sovversivo scevro non solo dai suoi dannosi pregiudizi sessisti, ma anche  da tutti quegli orpelli ideologici di cui è uso diffuso agghindare le sue vesti. Questi costituiscono dei veri e propri feticci attorno ai quali il pensiero gregario si raggruma rinnovando il culto alle peggiori espressioni della cultura dominante, quali sono, solo per citarne alcune delle più note e nocive, il dualismo (come separazione di teoria e pratica, mente-corpo, umano-natura, uomo-donna, etc.), il positivismo (inteso come fede nella ragione e nelle sue capacità di discernere una qualsiasi verità), il progressismo (ovvero quella visione della storia come un procedere verso un indiscusso miglioramento futuro).

Lungi da me il voler trattare così difficili e complessi argomenti in questa sede. Il mio contributo vorrebbe essere di ben più modesta portata. Né tanto meno ho intenzione di esprimermi su faccende strettamente femministe o che riguardano la reazione ad una violenza sessuale e sugli strumenti che ci si dà (o che, a piacere, si decide di non darsi) per affrontarla, né sui temi del consenso o dei modelli sessuali che determinano in qualche modo il desiderio. Sono stati già diffusi a questo proposito testi che dimostrano con abbastanza chiarezza la miseria di quella Reazione che appesta l’aria di questi tempi, così come la degna rabbia che è ormai sul costante punto di tracimare ad ogni suo nauseante sentore.

Da parte mia vorrei invece provare ad apportare qualche riflessione su di un tema particolarmente delicato eppure di estrema importanza per quell’anarchismo che prosegue interrogandosi attorno alla cornice epistemologica in cui sono inseriti i suoi tentativi di sovvertire il mondo del dominio: quello del recupero delle lotte da parte del potere, e della posizione di privilegio che è alla radice di un certo modo di concepire ed intendere quest’ultimo.

Credo di poter affermare, senza troppe precauzioni, che una delle caratteristiche di maggior forza che il sistema statale a sfondo democratico-capitalista ha saputo sapientemente sviluppare per sopravvivere è la capacità di recuperare a proprio favore quelle istanze di liberazione che di volta in volta ne mettono in discussione l’ordinamento. Questo elemento costituisce una differenza considerevole rispetto agli stati generalmente definiti autoritari o totalitari, che preferiscono censurare e reprimere duramente qualsiasi voce o gesto dissidente che si discosti dalla norma su cui essi si poggiano e che raramente sono predisposti a concedere alcunché alle insubordinazioni interne. E posso con forse ugual facilità evidenziare che ogni lotta vincente o sconfitta, non avendo raggiunto l’obiettivo del totale e inequivocabile abbattimento del potere, abbia in qualche modo contribuito a rinsaldarlo. Le istituzioni del potere infatti, mantenute intatte le proprie strutture, raccolgono quasi sempre con maggiore efficienza dei loro nemici la lezione tratta dalle peculiarità dello scontro avvenuto, riuscendo poi a utilizzarla a proprio vantaggio. Ne è un chiaro esempio l’evoluzione che costantemente attraversa gli apparati repressivi dal punto di vista giuridico, tecnologico, tattico e strategico. L’argine che gli stati hanno costruito per contrastare l’ondata ribelle degli anni ‘60 e ‘70, tanto per fare un esempio, fornisce ancora numerosi strumenti che la repressione continua ad utilizzare contro chi osa opporsi all’odierna pace sociale.

Ma non è altresì con altrettanta leggerezza che si può affermare che l’esprimersi di una istanza specifica di liberazione “rinforzi il capitalismo e la democrazia”, né in egual modo credo si possa additare le insufficienze teoriche del movimento rivoluzionario come la causa principale delle sue sconfitte. L’insufficienza dei mezzi (anche teorico-analitici) di cui ci si dota lanciandosi all’assalto del cielo si evince con difficoltà nella bolgia del conflitto, ma quasi sempre a posteriori, quando a bocce ferme si ricostruiscono i fattori che hanno stabilito l’esito dello scontro. Dal momento che i risultati di una lotta si determinano nella realtà degli elementi in gioco e la complessità della loro interazione ci impedisce di elaborare una previsione attendibile sullo sviluppo degli eventi è quantomeno presuntuoso pensare di possedere una corretta impostazione teorica che ci tiene al riparo dai rischi della sconfitta.

Storicamente parlando e semplificando all’estremo, il potere ha sempre risposto con un’attitudine repressiva alle esplosioni sociali che ciclicamente mettono in discussione una o più forme del suo operare. Accanto alla dura e cruda violenza è stata però spesso messa in campo una strategia di cooptazione che, attraverso diversi canali e livelli di mediazione, elargendo cariche, beni o privilegi, ha lo scopo di frammentare il fronte delle forze d’opposizione giocando sulle sue differenti disposizioni e condizioni interne. Le porzioni più radicali che rifiutano di adeguarsi alla ragion pratica del compromesso vengono così da principio individuate e isolate dal resto del corpo ribelle, e successivamente stroncate in maniera esemplare. Ogni sollevazione sociale produce infatti nelle circostanze dello scontro delle componenti che si spostano verso posizioni più inclini alla mediazione con le istituzioni del potere al fine di materializzare dei miglioramenti parziali, valorizzando, a seconda delle circostanze, il rapporto di forza raggiunto o altrimenti cercando di garantire la propria sopravvivenza, rinunciando di fatto alle proprie aspirazioni di liberazione totale. Ciò è avvenuto e avviene anche nel movimento anarchico (basti pensare alla Spagna del ‘36), e non c’è impianto teorico che tenga quando si entra nel vivo della violenza controinsurrezionale. Ed è fuori da ogni dubbio che queste tendenze siano utili allo Stato che le recupera per rafforzare la sua legittimità intaccata dalle lotte e indebolire i movimenti di opposizione interni; credo che possiamo facilmente convenirne.

Questa dinamica della repressione è ben riconoscibile nella storia conosciuta, dai tempi delle sommosse dei vari zek, schiavi e plebei contro i loro odiati padroni ed oppressori, passando per le rivolte millenariste e utopiste dei contadini che hanno infiammato l’Europa durante il Medioevo, ai vasti fronti proletari con aspirazioni rivoluzionarie dei secoli XVII, XVIII, XIX e della prima metà del secolo scorso, fino a quelli del contrasto ai movimenti e alla lotta armata nella storia più recente. La sproporzione delle forze in campo e l’astuzia del potere sono elementi che vanno tenuti a mente e soppesati con attenzione quando si vogliono valutare le cause di una sconfitta nei processi di liberazione, sconfitta che non si può imputare (a posteriori) con leggerezza ad una incorretta formulazione teorico-tattica, o alla recuperabilità delle rivendicazioni espresse. Si voglia, per puro amor della memoria storica e dal momento in cui l’argomento è stato di recente menzionato, ricordare ancora l’immensa mole di sforzi che gli stati hanno messo in atto solo nel periodo della contestazione degli anni ‘60 e ‘70. Negli Stati Uniti, la più grande potenza economica e militare del mondo contemporaneo, il movimento contro la guerra del Vietnam e le disuguaglianze, rapidamente evolutosi in movimento antimperialista e rivoluzionario (sintomo di un’approfondita analisi d’insieme sul funzionamento del capitalismo e dello Stato), si vide contrapporre un elevatissimo livello di violenza espresso da tutti gli apparati della repressione, che andò dalla sanguinosa repressione nelle strade e nei campus universitari di coloro che lottavano per l’autodeterminazione dei popoli, all’omicidio mirato e alla tortura delle individualità rivoluzionarie. Basti pensare agli interventi della polizia all’università di Berkeley nel ’64 (circa 800 arresti) e alla Kent State University nel ’70 (quattro morti da arma da fuoco), solo per citare due eventi famosi, o alle stragi dei gruppi militanti afroamericani, vittime di veri e propri agguati e spesso giustiziati sul posto nel corso dei raid delle forze repressive (come l’omicidio a sangue freddo di Fred Hampton, membro delle Pantere Nere, nel 1969). Le stesse tecniche contro-insurrezionali e di contro-guerriglia vennero poi usate anche in Italia e in Europa per contrastare il movimento e il diffondersi della lotta armata grazie alle collaborazioni sul campo all’interno del cosiddetto “blocco occidentale”.

È sintomatico di una qualsivoglia forma di organizzazione societaria che veda minare le fondamenta della propria legittimità aumentare l’uso della violenza per puro e semplice moto di autoconservazione, violenza che cresce in ferocia tanto più si senta messa alle strette. Essa è infatti l’espressione di persone fisiche che hanno paura quanto chiunque altro di perdere il potere che la propria posizione di privilegio gli fornisce all’interno di un determinato sistema di stratificazione sociale.

E’ in questo clima che il femminismo comincia a diffondersi nel movimento contro la guerra aiutandolo – assieme ai contributi analitici di quelle componenti sociali storicamente escluse dall’amministrazione del potere, come le persone non bianche o non eteronormate – ad ampliare il suo sguardo critico circa i rapporti all’interno della società capitalista e a spingere le sue rivendicazioni verso una più coerente e complessiva prospettiva anticapitalista e rivoluzionaria.

Credo quindi che sia alquanto semplicistico indicare il femminismo “storicamente dato” come complice del “rafforzamento della democrazia e del capitalismo” per sminuirlo, dal momento che questa istanza di liberazione oltre ad aver mobilitato un gran numero di donne nel mondo intero, ha dato un contributo fondamentale alla comprensione del funzionamento del potere nelle sue dinamiche più interiorizzate e normalizzate dagli individui che costituiscono il tessuto di una società. Né si può con tanta superficialità incolpare di questo rafforzamento le sue pratiche poiché, se è indubbiamente vero che una parte del movimento femminista ha agito e agisce in maniera riformista e giustizialista, esso ha dato espressione anche a pratiche ben più radicali, dalle azioni dirette contro negozi e aziende complici della mercificazione dei corpi delle donne, agli attacchi contro medici obiettori di coscienza e strutture sanitarie che effettuavano ricerche biotecnologiche, fino ad esperienze di lotta armata con prospettive rivoluzionarie. È perciò il recupero da parte del potere del femminismo a dover essere osteggiato, e non il femminismo in sé. Sottolineare, facendo un bilancio parziale di un movimento, soltanto il contributo che esso ha dato al rafforzamento del potere vorrebbe dire non riconoscere il valore di tutte quelle lotte che pur non avendo causato un sovvertimento del sistema di potere, hanno comunque comportato un reale miglioramento delle condizioni di vita per migliaia, spesso milioni, di individui, nonché all’arricchimento teorico e pratico del movimento rivoluzionario largamente inteso. La critica radicale anarchica osteggia ogni riformismo perché con esso si permette la perpetuazione della presente organizzazione dello sfruttamento, ma dovrebbe guardarsi dallo scadere in un idealismo elitarista e sprezzante.

Questo atteggiamento è già di per sé sintomo e ignara manifestazione del proprio intrinseco privilegio, basato su condizioni sociali come il benessere economico, la razzializzazione o il genere (e molto spesso, soprattutto quando vengono espressi giudizi tanto duri e trancianti sulle lotte altrui, di tutte queste messe assieme). Parlare di privilegio per l’anarchismo non è, come a volte si è tentato di insinuare, incentivare discorsi o atteggiamenti vittimistici o colpevolizzanti, ma un modo per chiarire il posizionamento preciso nella fitta rete dei rapporti di potere. Dalla propria posizione sociale infatti chiunque perpetua (se non agisce altrimenti) l’oppressione che il suo ruolo rappresenta all’interno di un dato ordinamento societario. Non tenerlo in considerazione porta a sviluppare una concezione assai parziale dei meccanismi di oppressione e di riproduzione del potere nelle società umane, troppo spesso individuati nelle sole istituzioni politiche ed economiche, e a fare di conseguenza una gerarchizzazione dei differenti fronti della guerra sociale. Questa attitudine è una chiara eredità di origine marxista, per la quale tra le diverse contraddizioni del divenire societario la principale a cui fare riferimento per sviluppare un processo rivoluzionario è quella di classe. Se per l’anarchismo la questione centrale è invece quella del potere, non dovremmo permettere alla comprensione delle sue molteplici espressioni di limitarsi alle sole configurazioni dello Stato e del Capitale, quanto considerarla nella sua accezione più intrinsecamente sociale che determina i rapporti quotidiani e le relazioni tra gli individui. Credo infatti che lo spargere sermoni dall’alto della propria posizione, ritenuta con arroganza essere la più coerente ed incisiva, rifletta l’autoritarismo insito in chi propende per una gerarchizzazione delle lotte, mentre un impegno a tutto campo dell’individuo nel contrasto ad ogni forma di potere sia ciò che più si avvicini ad un agire anarchico inteso come antitetico a quel “fare militante” largamente ereditato dalla cosiddetta sinistra rivoluzionaria.

L’assumere una posizione contro ogni rivendicazione parziale è sicuramente ciò che impedisce all’anarchismo di abbracciare una logica gradualista o di riforma del sistema di dominio, nonché di identificarsi completamente con movimenti quali sono quello femminista, ecologista, antispecista. Eppure essi hanno al loro interno espresso dei contenuti che assunti radicalmente comporterebbero le messa in discussione totale dell’attuale organizzazione dell’oppressione. Per questo “semplice” motivo le loro analisi sono state da tempo riconosciute come un contributo prezioso per i modelli di comprensione del funzionamento del potere nella nostra società, permettendo di abbandonare ogni retaggio che costituisca un limite per l’analisi anarchica. Le istanze di liberazione particolari dovrebbero quindi essere al centro della sensibilità anarchica, che rivendica la libera e completa espressione dell’individuo contro qualsiasi tentativo di vederlo relegare in secondo piano da una qualsivoglia priorità teorico-strategica. Esse non sono una riduzione, ma piuttosto un allargamento dello sguardo attraverso il quale si osserva e comprende il mondo. Una libera e completa espressione di sé che non deve essere confusa con quelle concezioni dell’individualismo figlie di una certa interpretazione superomista del pensiero nicciano che porta a giustificare la sopraffazione di un essere umano sull’altro e dell’essere umano sul mondo naturale in nome della sua inviolabile volontà di potenza. Concezioni queste che guarda caso furono fatte proprie dal nazismo e dal fascismo e che tanto bene si sposano con l’individualismo liberale per cui la competizione è la più alta forma di regolazione della vita. Questa maniera di concepire i rapporti tra individui ben si discosta dall’Unione degli Egoisti di cui parla Stirner (anarchicamente intesa) e dovrebbe essere rifiutata con forza da coloro che intendono riflettere su come costruire un rapportarsi vicendevole che rafforzi la lotta contro ogni potere. L’etica anarchica mette infatti al centro della sua riflessione la solidarietà tra gli oppressi attraverso il mutuo appoggio e di conseguenza dovrebbe perseguire il benessere dell’individuo che partecipa all’Unione per il vantaggio dell’Unione stessa. Indi per cui ragionare su come sovvertire le nostre relazioni è una pratica altamente rivoluzionaria perché permette di comprendere il potere come una forza che attraversa, imputridendola fin dalle radici, l’intera società e che coinvolge inevitabilmente anche i gruppi anarchici. È infatti dal riconoscimento delle diverse forme di potere che l’individuo può comprendere l’esperienza dell’oppressione che attanaglia sé stessx e i propri simili e decidere di intessere relazioni il più possibile libere nella comune volontà di secessione dalla società del dominio, oltre che di combattere anima e corpo contro questo mondo di sfruttamento e oppressione che lo incatena.

Credo che la teoria sovversiva non dovrebbe essere utilizzata per innalzarsi su di un pulpito dal quale spargere giudizi sprezzanti, così come la critica assuma una dubbia efficacia se armata di strumenti come la denigrazione o la calunnia al fine di tirare a lucido il proprio ego sovradimensionato. Teoria e critica radicale dovrebbero invece servirci per analizzare il presente e le lotte nell’ottica di rafforzare la guerra sociale, nella consapevolezza che non esiste formulazione teorico-strategica rivoluzionaria che possa condurci con certezza al trionfo e che è necessaria una costante riformulazione dei propri paradigmi per attizzare un conflitto sempre a rischio di soffocamento a causa delle dinamiche di recupero e di rigenerazione del potere. In quest’ottica sarebbe utile che un’analisi di questo tipo si sviluppasse in termini costruttivi sottolineando le proprie mancanze in quanto ad intervento sovversivo (mancanze che si continuano a registrare negli ambienti anarchici, sia a livello pratico che in quanto a comprensione del contingente storico), piuttosto che concentrarsi su quelle altrui con l’obiettivo di screditarne le posizioni in una sorta di competizione di radicalismo o, peggio, per attribuirgli la responsabilità dei propri continui fallimenti. Questi atteggiamenti e comportamenti invece di acuire il pensiero critico, a mio giudizio portano solo scoramento e disillusione. Invece di abbandonarsi ad essi sarebbe più lungimirante e utile investire le proprie energie nel contribuire a migliorare il dibattito con lo scopo di un innalzamento della qualità generale del conflitto sociale, considerando che se il potere un giorno cadrà non sarà con ogni probabilità grazie alla forza soverchiante di una “giusta” e corretta pratica o teoria radicale, ma per la somma dei singoli atti individuali di rivolta. Perciò ben venga la contaminazione e la sinergia delle lotte inserita in una comune ricerca dell’Anarchia piuttosto che qualsiasi forma di “celodurismo” e di purismo, di cui sarebbe bene cominciare a liberarsi in fretta, assieme a tutti gli altri residui di quella cultura machista militante che da troppo tempo ammorba ormai l’anarchismo.

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QUELLI CHE BENPENSANO. OVVERO DELLA DIFESA DEL CLAN

Riceviamo e diffondiamo:

Questo non breve testo nasce come replica a “Da pari a pari. Contro l’autoritarismo identitario”, diffuso nel luglio scorso.

Come per i suoi autori, anche per chi scrive sarebbe stato più semplice e conveniente ignorare quest’ennesima uscita e tirare avanti, come in altre occasioni, e ultimamente di occasioni ce ne sarebbero state diverse. Tuttavia, per ragioni che si tenterà di chiarire più sotto, questa volta si è ritenuto valesse la pena buttare giù qualcosa, ritenendo che invece altri scritti dal tenore simile usciti di recente non meritassero risposte più o meno articolate.

Ahinoi, e ahivoi, tante cose vengono purtroppo dette e scritte, alcune sapientemente non in testi diffusi ai quattro venti, concetti chiari come il sole vengono infatti esplicitamente definiti in conversazioni fra anarchici (anche senza “un bicchiere di vino davanti”), durante assemblee di compagni e compagne o più o meno allargate. Per fortuna di tutti/e, almeno non si va più in tv in diretta nazionale a raccontare la propria visione del mondo, più o meno brillante che sia.

Le righe che seguono non conterranno citazioni di maître à penser dell’anarchismo, di figure cardini della filosofia occidentale o di compagni/e prigionieri/e, ma quasi unicamente ciò che scaturisce dai ragionamenti di chi lo ha scritto. Proprio per questo, potrà essere sicuramente opinabile, lacunoso, criticabile da diversi punti di vista.

L’intento, infatti, non è “vincere il confronto”, non convincere né persuadere, non c’è dietro il fine di prendere le difese di alcun singolo/a o di qualsivoglia comunità, tanto meno sfoggiando la lista dei classici letti durante una vita, le proprie nozioni in fatto di storia dell’arte o la propria padronanza della lingua italiana per mezzo di scioglilingua, eccetera.

Non contiene riflessioni originali e, inoltre, analisi e disamine più adeguate, complete ed organiche sui temi di seguito toccati sono già state svolte, più volte, in altri scritti usciti negli ultimi anni.

Postmodernismo?

Tuttavia, neanche “Da pari a pari” contiene a ben vedere nessuna riflessione particolarmente originale, ma si limita a girare attorno ai soliti, triti e ben noti ragionamenti già in passato esposti, presentandone più che altro un collage, anche se, va detto, relativamente più elegante e argomentato del solito.

Differenza di rilievo è la sostituzione del perno attorno al quale ruota quasi tutta l’esposizione. Infatti, al vecchio nemico interno al “movimento” anarchico, il (trans)femminismo, è adesso sostituita la nuova, terribile, letale minaccia, ovvero la filosofia postmodernista di importazione yankee. Le argomentazioni cambiano in parte di conseguenza, ma il ragionamento a queste sotteso è più o meno lo stesso.

Il filo conduttore è appunto una lunga dimostrazione della semi-nuova tesi sull’origine di quasi tutti i mali odierni del “movimento”: l’ideologia postmodernista importata dagli Stati Uniti, il virus scappato – non accidentalmente – “dalle università statunitensi e altri laboratori del potere è penetrato piano piano nell’anarchismo”. Quindi, le cause delle presenti condizioni (qualsiasi lettura se ne voglia dare), non andrebbero ricercate in tutto ciò che potrebbe venire in mente a una più o meno superficiale o approfondita disamina dell’attualità e degli ultimi decenni del “movimento” anarchico informale nostrano e non solo. No, è colpa del postmodernismo (un capro espiatorio un pò fuori tempo massimo, a dir la verità).

Il sabotatore interno, un pò come alcuni dicevano appunto del femminismo negli anni ‘70 e fino all’altro ieri. Infatti, l’altro grande nemico da cui guardarsi con attenzione, l’altro vettore del morbo americano, anche se un pò più in sordina, sarebbe infatti il femminismo intersezionale.

I detective del postmodernismo scandagliano testi e comunicati alla ricerca di parole chiave indicanti la chiara matrice del postmodernismo che li permea in modo latente – che tuttavia non può sfuggire al loro sguardo attento – la foga e l’urgenza di scovare i nipotini di Lyotard e Derrida è grande, vedendosi da ogni parte assediati da essi.

Da ridere per non piangere, ma tant’è, questi sono i nostri veri problemi, ci informano.

Non ci si assume l’impresa di tentare di argomentare contro questa tesi, tanto quanto risulta assai difficile, di solito, argomentare contro le teorie note come “teorie del complotto”.

A parte gli scherzi quindi, andando con ordine e un po’ più sul pratico, il problema del come affrontare fatti di violenza sessuale, i “fatti delicati” come vengono chiamati nel testo (o “fatti di letto fra due persone”, come li ha definiti un osservatore, bisogna ammettere, particolarmente sagace) e le dinamiche di potere a essi legate – non sganciate o separate da questi, ma legate e inseparabili – è in realtà ancora ben lungi dall’essere pienamente assunto anche nel “movimento”, sia a livello di entità e portata della questione che a livello di metodo (o metodi) per non parlare poi del da farsi. Ma il problema, anzi i problemi, sono ancora più a monte.

Sono, ad esempio, nella pretesa di arrivare ad un incontrovertibile “fondatezza” di ciò di cui di volta in volta si discute, a una dimostrazione, che non può avvenire – ci insegna il metodo scientifico – se non in presenza di prove.

Da qui, il primo dei cortocircuiti logici che attraversano “Da pari a pari”, per i quali le stesse accuse che gli autori muovono altrove potrebbero essere facilmente rivolte contro la posizione da loro assunta. In questo caso, si ripudia un atteggiamento inquisitorio verso chi viene riconosciuto come aggressore, non si vogliono i tribunali – e ci mancherebbe! – però si vogliono le prove dalle aggredite. Un modo di procedere, azzardo, di matrice che si potrebbe definire persino scientista.

Perché si vogliono prove? Forse perché si aspira in segreto al ruolo di giudici in un immaginario grand jury anarchico che deciderebbe su queste e altre questioni in maniera “imparziale”? Si spera di no. Perché dietro la pretesa di ottenere delle prove si cela la preoccupazione per la tenuta del gruppo, il timore di rotture irrecuperabili in seno alla famiglia, il terrore di doversi guardare, tutti/e, allo specchio, vedendo così chiaro quello che non si sarebbe mai immaginato dover vedere? Neanche questo…Perché si è tutto sommato intimamente convinti di essere circondati da donne e compagne che si alzano la mattina inventando storie di violenza da loro subita perché non sanno come passare il tempo oppure col fine di calunniare il primo che passa per chissà quale motivo?

Non si vorrebbe credere nemmeno a questo, ma sembrerebbe proprio trattarsi di ciò leggendo alcuni passi come “ascoltare una campana soltanto, acriticamente e per partito preso, non può che dare ad alcune persone il privilegio (questo sì reale) di mentire, poiché le sgrava dall’onere di fare affermazioni credibili”, oppure “a meno che non si sostenga che gli appartenenti a categorie oppresse non possano nutrire secondi fini, e raccontare e finanche raccontarsi frottole – un rischio particolarmente alto in quest’epoca di soggettivismo quasi psichedelico”.

Non occorre essere dotati di particolari strumenti d’analisi per rendersi conto che tutta la società intorno a noi – non quella “postmodernista”, l’altra – ci dà sufficienti evidenze che queste sono argomentazioni insulse e portarle come pretesti per non credere a chi ha subito violenza è veramente agghiacciante.

Concedendomi una scivolata di cattivo gusto, in casi di aggressioni contro i compagni/e o verso migranti o altri marginali, andiamo forse a chiedere la versione dei fatti a fascisti, razzisti o sbirri?

Insomma, il “movimento” anarchico sarebbe pieno di bugiarde e millantatrici e gli/le appartenenti alle “categorie” (che brutta parola) oppresse si sarebbero organizzati per raccontare frottole non solo a loro stessi, ma bensì a tutti/e quanti/e, per farsi passare per “vittime” e ottenere attenzioni conseguenti.

Insomma, si propone un approccio scettico, diffidente, per niente incline alla fiducia verso queste “categorie”, che anzi andrebbero prese molto con le molle per non correre il rischio di farsi abbindolare.

Chi scrive pensa che l’ascoltare più “campane” sia un approccio di buonsenso e valido come metodo di base, alla condizione però che si sia molto ben in grado di discernere ciò che viene sostenuto dalle diverse parti, altrimenti si corre fortemente il rischio di lasciarsi convincere di qualsiasi cosa, di qualsiasi versione dei fatti, di qualsiasi punto di vista, in base ad esempio all’abilità narrativa di chi lo sostiene, alla sua notorietà (conquistata sul campo, s’intende), o magari alla sua autorevolezza e influenza (anche queste, ovviamente, conquistate sul campo). Si rischia insomma di diventare delle banderuole, senza un proprio ordine di pensiero, soggetti a cambiare idea se il primo che passa riesce a farcela cambiare. E questo è ciò che capita, troppo spesso.

Come si può fare a raggiungere un certo grado di discernimento riguardo a temi e questioni di cui, dal momento che nessuno/a nasce imparato/a, si ignora molto o quasi tutto, tanto a livello teorico che pratico?

Senza alcun intento rivelatore, ritengo che un buon inizio sia rendersene conto, realizzare che – per quanto ci possa sembrare assolutamente sconvolgente, inimmaginabile, inaudito – ci mancano dei passaggi d’analisi, la visione d’insieme è lacunosa e parziale, non si è in possesso di un bagaglio teorico-pratico adeguato ad affrontarle, certe questioni. Il secondo, l’autocritica rispetto a questo, anche se di questi tempi, si sa, non va più tanto di moda. Infine, cercare di fare quel che c’è da fare per rimediare.

Da dove la necessità di un atteggiamento autocritico, anche quando si pensa di saper già tutto quel che c’è da sapere mentre tutto il resto è obiettivamente irrilevante?

Non capire, o peggio, reputare non “gravi” livelli di oppressione che non si riescono a mettere a fuoco – a volte semplicemente perché non vissuti – ergersi a “giudici” nel senso di stabilire ordini di priorità, gravità, importanza, denota l’esercizio di una presunta superiorità morale sulla pelle di altre persone la cui sola idea ripugna.

Se non si riesce a farsi una ragione di questo o si preferisce semplicemente scegliere di non farlo – che è esattamente ciò che avviene – secondo il mio modesto parere non si potrà che reiterare e ricadere all’infinito e in ogni occasione nelle solite zavorre mentali e nei soliti atteggiamenti di strenua difesa di una baracca che fa acqua da tutte le parti.

Rincuora la dichiarazione degli autori del testo “Da pari a pari” sulla necessità di mettersi in ascolto di chi ha subito o subisce violenza, ma ahinoi e ahiloro, al di là delle astratte dichiarazioni d’intenti, quello che quasi sempre succede nella realtà – la realtà che abbiamo sotto gli occhi, non le tante realtà potenziali spogliate del principio di verità – è piuttosto il contrario. La tendenza è quella a sminuire, ridimensionare e minimizzare ciò che sostiene la persona che ha subito violenza, ci si precipita piuttosto e più volentieri a sentire cosa ha da dire l’aggressore in sua difesa e giustificazione. Spesso si ha quasi l’impressione che, in un totale quanto assurdo ribaltamento dei fatti e della logica la “vittima” diventi l’aggressore e non piuttosto l’aggredita.

Proprio perché si vogliono prove, dati di fatto. Proprio perché non ci può essere certezza su fatti a cui “nessuno ha assistito” – “se la verità fattuale non esiste o comunque non è rinvenibile” scrivono i 5 indiani – di chi ci si può fidare? Bel problema. Certamente non di compagne infettate dal virus postmodernista e loro solidali, sembrano avvertire.

Più significativamente, “alla veridicità del fatto si sostituisce l’appartenenza a un determinato soggetto” sostengono ancora. Su questo, a dire il vero, hanno ragione. Però qui si manifesta anche il secondo dei cortocircuiti logici, per cui la critica che essi muovono è esattamente applicabile allo stesso atteggiamento opposto e speculare da loro assunto e rivendicato. Se si guarda a quel che succede veramente nella realtà, la veridicità è attribuita sempre e solo solo in un senso, a quello dell’oppressore. Se si è capito bene dalla loro esposizione, tra l’altro, questo modo di procedere è decisamente postmodernista…

A leggere “Da pari a pari”, sembrerebbe a dire il vero che i suoi estensori, a livello puramente teorico, riconoscano e facciano propria la necessità (qualora esistano delle evidenze, naturalmente) di intervenire in certi frangenti in modo drastico. Il problema di questo approccio tutto teorico è che nella pratica non si presenta mai il caso in cui è necessario intervenire, mai. C’è sempre qualcosa che induce a pensare che, in fondo, non si sta parlando proprio di quello, c’è sempre qualcosa che non torna nella storia raccontata dalla persona aggredita, aleggia sempre l’ombra della femmina mentitrice. Le evidenze, di conseguenza, non bastano mai. Il bignamino è stato mandato a memoria, ma nella pratica non si sa che farsene.

Ognuno/a esiste soprattutto su ciò che fa, non tanto su ciò che dice.

Altrimenti si è in presenza, in parole povere, di paraculismo. Per i più colti/e, profonda disonestà politica e intellettuale.

Si viene, ancora, quasi sollevati dalla discreta lista di “Ovviamente siamo consapevoli che…”, “Ci sembra legittimo, ad esempio, che…”, “sarebbe atroce, ad esempio, pretendere…”, “Senza disconoscere che…”, tuttavia, alla fine, si torna sempre al punto di partenza.

Il problema (terzo corto circuito logico), indiani, è che succede che chi aggredisce, violenta, stupra, pensa e sostiene di non aver fatto alcunché di sbagliato, di fuori dal normale, perché non se ne rende nemmeno conto. Lo sostiene perché crede che “alcuni episodi” possono succedere in certi frangenti – svariati stati mentali e condizioni eccezionali vengono usati come alibi, troppo lungo qui elencarli tutti – e che in definitiva, proprio per questo non siano poi così gravi, questi episodi.

Lo pensa e lo sostiene, spesso, anche dopo che gli è stato spiegato. Se se ne fosse reso conto prima, talvolta anche se non sempre, non avrebbe fatto ciò che ha fatto. Se se ne rendesse conto dopo, inizierebbe un’opera di profonda messa in discussione, si assumerebbe un problema. Il che, da ogni individuo che pretende di ragionare in senso politico, è il minimo che ci si debba aspettare.

Certamente, come voi stessi dite bene, presupponendo che costui “non possa nutrire secondi fini e raccontare e finanche raccontarsi frottole”, il che è relativamente probabile “in quest’epoca di soggettivismo quasi psichedelico”.

Banalità di base (I)

Ogni lotta è – potenzialmente – soggetta in tutto o in parte a recupero da parte del sistema di dominio, con le buone o con le cattive. Femminismo, ecologismo, antispecismo, antimilitarismo, lotte territoriali di ogni sorta, le lotte contro il carcere e i Cpr. Tutto è in potenza fagocitabile, digeribile e pacificabile dallo Stato, dai suoi apparati e dalla miriade di soggetti conniventi, dato l’arsenale recuperatorio oggi a disposizione.

Dirimenti sono i metodi e, di conseguenza, le pratiche coerentemente adottate.

Prendere, consapevolmente e strumentalmente, a obiettivo delle proprie critiche solo una parte di un vasto insieme di metodi e pratiche di opposizione generalizzandola al tutto, per poter agevolmente tentare di screditare l’intero insieme, è miserevole.

A simbolo dell’antimilitarismo non prendiamo la marcia per la pace di Assisi, a esempio delle lotte contro i Cpr non ci viene in mente LasciateCIEntrare, a esempio del “movimento” anarchico italiano non prendiamo la corrente della federazione anarchica italiana.

Similmente a quanto talvolta accade in maniera interessata riguardo la storia dell’anarchismo, anche la storia di lotta di alcune correnti (trans)femministe, per fare un esempio, è soggetta a frequenti amnesie, mi riferisco alla sua storia di lotta armata, ecologista, anticarceraria, anticapitalista. Se questa storia non si conosce, è sempre valido il caro vecchio invito ad andare a leggersi qualcosa. Se invece si conosce ma si fa finta di non conoscerla, perché sennò crolla tutto il palco di una critica superficiale quanto strumentale, è un altro discorso.

Personalmente sono favorevole a un inquadramento quanto più preciso e puntale quando si parla di storia dei “movimenti” e di tradizioni di lotta, quando si corre il rischio di fare, come si suol dire, di tutta l’erba un fascio. Esso è preliminarmente utile e doveroso al fine di chiarire a priori di cosa si sta parlando, altrimenti un confronto serio può diventare molto complicato e quel che resta non portare effettivamente da nessuna parte.

Ma se alcuni argomenti vengono usati per denigrare, in modo intellettualmente quanto meno ipocrita e talvolta anche vile e volgare, tutte/i coloro che fanno proprie certe analisi e pratiche, questo è sinceramente irricevibile. Un repertorio costituito da lamentele del tenore di “non si può più tenere le gambe larghe sull’autobus”, “non posso più grattarmi i coglioni in pubblico perché mi diranno che non posso”, “se mi tolgo la maglietta sono un molesto” ne è solo un piccolo esempio. Io credo che grattarsi o meno i coglioni in pubblico sia una questione di eleganza e buone maniere che ovviamente non sono obbligatorie, ci mancherebbe altro. Ma se uno/a ne fa un argomento di discussione politica – ritenendolo addirittura pertinente e indicatore di una tendenza sociale – per attaccare tutto un insieme (e cioè il vero obiettivo della sua critica), è un poveraccio, sia a livello politico, che umano.

Giustamente, un conto sono le chiacchiere da osteria, un conto i contesti di discussione e confronto politico. Sarebbe quindi opportuno tenerli ben separati, c’è già abbondanza di indegni figuri di ogni genere che infestano la nostra quotidianità ripetendo concetti molti simili per mezzo di ogni tipo mass media.

Per chiudere queste abbastanza banali riflessioni, sento di fare un’ultima considerazione.

Anche da qui infatti ci si domanda con sconcerto da quando in qua gli anarchici/e non si organizzano più sulla base di affinità teoriche e pratiche che scaturiscono da analisi e letture dell’esistente condivise, dalla convergenza su metodi e prospettive di intervento su di esso, ma invece pensano e costruiscono, per fare degli esempi, fiere dell’editoria, momenti di discussione, iniziative di qualsiasi genere come fossero convegni di partito, plenarie sindacali o conclavi?

Da quando in qua gli anarchici/e si fanno remore ad escludere chicchessia col quale ritengano non possibile organizzarsi o condividere percorsi di qualsiasi tipo?

Da quando in qua, aver ben chiaro chi non si vuol avere intorno e definirlo in modo netto, è diventato autoritario?

Se le cose in realtà sono sempre andate diversamente e non ce ne si è resi conto, ci si è persi evidentemente qualche pezzo e ne prendiamo atto.

Incazzarsi come vipere, sentirsi offesi e minacciati dalla constatazione di non essere graditi/e – la stessa reazione si manifesta spesso anche nei confronti del separatismo – non è da libertari, ma da quadri di partito, che come tali ragionano. Qui risiedono, latenti o palesi, dinamiche e aspirazioni di potere, indirizzo, controllo..

Considerare propri nemici tutti/e coloro che non sposano la linea e che portano avanti analisi e lotte in modo indipendente, è modo d’azione da Partito, quello dell’unità che vorrebbe agire come una pialla su tutto ciò che percepisce come al di fuori e altro da essa. Quello che ammette gregarismo e delega, non autonomia di pensiero e azione.

Quale classe, quale lotta

Proseguendo nella lettura di “Da pari a pari” si trova l’esposizione – di una superficialità che ha del grottesco (veramente in buona fede?) – di una tesi secondo cui i diversi livelli di articolazione e stratificazione su cui si regge il sistema di dominio, basati su genere, appartenenza etnica, luogo d’origine (per citarne alcuni, mi si perdoni la superficialità), non sarebbero degni di alcuna seria considerazione, ma anzi sostanzialmente irrilevanti, un’invenzione di accademici (americani e francesi, s’intende) iper-sensibili, perché in realtà l’unico, tangibile e concreto piano di dominio è quello dello sfruttamento economico. Uso l’espressione “sfruttamento economico” e non “classe sfruttata” per motivi che proverò a chiarire più avanti.

Ammettere che l’unica (e prima?) forma di oppressione sia quella dello sfruttamento (economico) dell’uomo sull’uomo e che poi, a cascata, sarebbero da questa scaturite tutte le altre forme di oppressione differenziali su determinate “categorie” – e non invece e piuttosto l’inverso – suona come una cantonata, discutibile anche e soprattutto da un punto di vista storico.

Prendendo ad arbitrario riferimento l’emergere e il successivo sviluppo del sistema politico-economico capitalista, l’oppressione delle diverse componenti sociali, l’assoggettamento e la devastazione di popolazioni e territori – sulle basi di quella divisione mondiale del lavoro e dell’estrazione di risorse che tuttora perdura – sono stati assunti a sistema proprio perché era da essi possibile estrarre infinitamente maggiori margini di profitto e di accumulazione, per chi deteneva il monopolio della proprietà e quindi della violenza.

Gli albori e l’affermazione dell’economia e della società capitalistiche ce ne forniscono l’esempio più recente, andandosi a strutturare a partire dai secoli XVI e XVII intorno a tre direttrici, fondamenta principali della cosiddetta “accumulazione originaria”: esproprio delle terre e delle risorse comunitarie delle comunità rurali europee possibile grazie alla cacciata, al tentativo di eliminazione – diretta o indiretta – e infine all’inurbamento delle popolazioni che da essi traevano il loro sostentamento e il loro modo di vita; massacro di migliaia di donne ai fini della cancellazione di saperi e pratiche tradizionali da loro custodite nella cornice di quelle stesse comunità rurali (nota come “caccia alle streghe”) a tutto vantaggio del metodo scientifico e della nuova medicina “professionale” allora emergenti al servizio del capitalismo nascente; colonizzazione e sterminio della popolazioni native delle Americhe e successiva tratta degli schiavi dai territori dell’Africa occidentale verso le colonie europee nel continente americano.

Sfruttamento della natura, dominio patriarcale, schiavitù coloniale. Oppressione e assoggettamento di ben definiti ambiti, umani quanto inorganici.

Lo sfruttamento non ha mai messo tutti gli sfruttati/e sulla stessa barca, il capitale non ha mai sfruttato indifferentemente, né ai suoi albori, né mai.

I 5 indiani sostengono che “un capitalismo senza razzismo, sessismo e persino senza generi e differenze “razziali”, potrebbe, almeno in astratto, esistere”. Forse nelle loro astrazioni sì, nella realtà storica degli ultimi 5 secoli fino all’oggi, no. Questo Marx non l’aveva intravisto e alcuni/e dei suoi seguaci non lo intravedono ancora.

Senza capitale e senza classi, senza padroni e sfruttati/e, si aprirebbe un’era di libertà per tutti/e?

Da quel che è dato sapere, il sistematico sfruttamento economico e l’emergere di “classi” identificabili come tali è stato anticipato di millenni da molteplici forme di oppressione – mai identiche fra loro ed emerse in luoghi ed epoche diverse nel corso della storia – quasi mai stabili nel tempo e nello spazio.

L’assunto poco sopra esposto, appare quindi nella forma di un dogma.

Non è questa la sede in cui addentrarsi in un lungo approfondimento di questi temi, chi vorrà potrà certamente trovare altrove trattazioni assai migliori di quella abbozzata qui. Addirittura, bello o brutto che sia, anche in lavori provenienti dall’accademia, da studies che ben pochi/e metterebbero in questione per il fatto che questi, a differenza di altri, convincono e sono comodi per tutti/e.

A questo punto merita inoltre, a mio modo di vedere, interrogarsi sul concetto di “classe sfruttata”. A quale – si presume omogenea? – classe sfruttata ci si riferisce esattamente?

Una classe è tale solo se ha coscienza di sé, solo se fatta di individui che hanno coscienza di appartenere a un dato insieme (sfruttati/e ma anche sfruttatori/ici, s’intende). Altrimenti, nel caso degli “sfruttati/e” si è solamente, tristemente, di fronte a complici del proprio sfruttamento. Non basta essere accomunati/e dal fatto di vendere il proprio tempo, il proprio corpo, la propria dignità, la propria intera vita per un salario per potersi considerare tutti/e parte di una classe sfruttata.

Sulle basi di una lettura meramente materialistica dei rapporti economici si può assumere che sia così, in presenza di questi sommari criteri la “classe sfruttata” appare definibile, uniforme, omogenea; su di un piano etico-politico, no.

Bisogna avere chiaro, aver coscienza, dei propri nemici di classe e della propria posizione, in opposizione, a questi.

Quando e fino a che punto siamo in presenza di sfruttati/e (coscienti) o invece di complici del proprio sfruttamento?

Nel caso della classe padronale, non si nutrono dubbi sul fatto che i suoi/e componenti, ad ogni livello, siano molto ben consci/e del loro collocamento nella scala della gerarchia sociale ed economica e di quali siano i propri nemici/che, i tempi che corrono sono qui a dimostrarlo.

Quella di complici, più o meno convinti/e e assuefatti/e, del proprio sfruttamento sembra invece essere – alle nostre latitudini – proprio l’odierna condizione di una larga parte delle masse sempre più brutalmente sfruttate e asservite.. Purtroppo – e per ragioni che ancora una volta non è qui il caso di indagare – ci si trova, e non da adesso, di fronte all’adesione a norme, valori, desideri e stili della classe padronale, di quella borghesia in via di rapido immiserimento alla quale, purtuttavia, si guarda ancora e sempre con immutato desiderio di rivalsa e imitazione. Una “classe sfruttata” sempre più attivamente artefice della riproduzione sociale che la stritola ogni giorno di più.

Non sempre e non dappertutto, certamente.

Senza pretese di sapere cose che non so, l’invito ai 5 indiani è di abbandonare per un momento le grandi praterie del pensiero e spostarsi per un pò di mesi in qualche contesto di fabbrica (ma probabilmente quasi ogni altro comparto lavorativo servirebbe allo scopo) per farsi un’idea di che aria tira ai nostri giorni nelle file della cosiddetta “classe sfruttata” – soprattutto ma non unicamente autoctona – capirne le dinamiche, i valori di riferimento, le tensioni, il quadro esistenziale di riferimento.

Risulta per me preoccupante leggere che gli operai vanno sempre sostenuti nelle loro vertenze, persino quando “dicono cazzate” (anche se non si “sacralizzano le mani callose”). Qui non si capisce bene se la tensione è quella all’immolazione sacrificale per la suddetta “classe” in vista della rivoluzione proletaria, a un paternalismo dai connotati infantilizzanti, a una saccenza da supposta avanguardia operaia, o cos’altro. Dall’abolizione del lavoro salariato al sostegno a tutte le vertenze operaie, anche delle “cazzate”.

Forse che il nostro intervento in situazioni di conflittualità dovrebbe avere maggiore costanza, dedizione, incisività, senza troppa puzza sotto al naso? Forse.

La domanda che pongo, prima di tutto a me stesso, è se valga ad oggi veramente la pena investire impegno ed energie in progettualità dirette a (del tutto potenziali) orizzonti di lotta a cui siamo, spesso anche se forse non sempre, estranei. È forse più sensato e urgente dirigere la nostra determinazione, volontà e azione verso tutt’altri obiettivi, con in molti/e peraltro fanno? Secondo me sì.

Assumendomi il rischio di apparire oltremodo retorico, credo che, da anarchici/e, non dovremmo allontanare, quantomeno dalle nostre elaborazioni teoriche e pratiche, e con tutto ciò che questo implica, l’orizzonte dell’insurrezione ingovernabile e dis-ordinata – non dis-organizzata – nella prospettiva della rivoluzione sociale, non con alle spalle una “classe sfruttata” da guidare alla meta (come avanguardia?) ma con affianco quella parte di umanità oppressa che non è ammiratrice in segreto di questo mondo, che non cerca una rivoluzione delle condizioni date, ma il loro sovvertimento, la loro eliminazione, che anela alla distruzione di questo mondo e dei suoi simboli. Che magari prova in tutti i modi a non farsi sfruttare, per la quale la linea di demarcazione tra legale ed extralegale è molto relativa, per cui non esiste scalata sociale e che, cosa forse più importante, ha poco o nulla da guadagnare dalla propria condizione di sottomissione.

A quale umanità potenzialmente pericolosa per il dominio e i suoi progetti guardare?

Secondo me, proprio a quella parte di umanità con cui abbiamo, mi sembra, meno a che fare, quella con cui non sappiamo in realtà granché parlare, a cui non sappiamo bene cosa dire. Quella parte di umanità ai margini, reietta, espulsa, rinchiusa nei ghetti a cielo aperto o scaricata nelle carceri e nei Cpr, quelle vere “eccedenze”, quegli “effetti collaterali” non graditi e non facilmente gestibili coi mezzi della servitù salariata, coi nuovi balocchi elettronici ogni sei mesi, il suv a rate, i pacchetti vacanze dall’altra parte del mondo una volta all’anno.

I “dannati/e della terra”, citati en passant in “Da pari a pari”, non sono preoccupati degli studies venuti dall’America, non lavorano alla Stellantis o nelle ferrovie, di norma non frequentano le nostre assemblee. Piaccia o non piaccia, non condividono la stessa “classe” dello sfruttato/a italiano/a o europeo/a e con questi/e quasi mai si organizza. I “dannati/e” sono quelli che affollano le galere amministrative e penali, i distretti del caporalato agricolo, le periferie delle metropoli, i cui corpi giacciono a migliaia sul fondo del Mediterraneo e a cavallo dei valichi di frontiera.

Si potrebbe obiettare, e a ragion veduta, che le osservazioni fatte sopra a proposito della condizione di una ipotetica “classe sfruttata” siano valide anche quando riferite alle frange sottoproletarie delle campagne e delle città. Certamente, difficilmente sarebbe la maggioranza di questi/e a desiderare la sovversione del sistema di dominio esistente, a condividerne le ragioni e i presupposti, a far proprio un orizzonte senza autorità né sfruttamento. Se non altro perché almeno una fetta di torta, almeno una, la vogliono in molti/e.

Una significativa differenza, secondo me, sta però nel fatto che a queste persone il dominio invece non riserva nemmeno il fantasma di uno stato sociale moribondo da tempo a cui aggrapparsi (come per la popolazione autoctona) al fine di giustificare la propria ragion d’essere, non si preoccupa della loro “integrazione” sociale (o almeno non più), ad essi è consentito lavorare da schiavi/e alla riproduzione del profitto e dell’ordine sociale dato, finire in gabbia oppure morire in mezzo al mare, in un cantiere, in mezzo ai campi, o durante un controllo di polizia.

Come fare ad almeno provare a testare la possibilità di affinità concrete con gli ultimi e le ultime nella gerarchia economica e sociale è e rimane un enorme e serio problema alla cui soluzione qui non si è in grado di tracciare vie certe, ma di cui forse varrebbe la pena occuparsi.

Banalità di base (II)

Se sui muri delle università occupate invece di appelli alla distruzione di questo mondo si trovano cartelli con codici di condotta, o se, purtroppo, per molti/e l’orizzonte di sovvertimento della realtà data consiste principalmente in un’ossessione per il linguaggio e le desinenze (talvolta, peraltro, assumendo solo carattere di posa e ben poco altro) o ancora, se l’organizzazione di qualsivoglia attività deve avvenire via chat oppure non essere, anche questi sono fatti che riguardano tutti/e, non solo alcuni/e.

Sentirsi minacciati/a da questo non ha alcun senso, manifestazioni paranoiche a parte. Dovrebbe semmai impensierire il fatto che oltre a queste espressioni, spesso non si ravvisa molto altro degno di nota.

Il problema della/e identità, in sé e per sé, è un falso problema e in senso assoluto significa poco. Ciò che è dirimente è se questa stessa identità si dà una coscienza, una prospettiva di lotta non gestibile contro l’esistente oppure no, nel qual caso corre il rischio di diventare solo una delle tante forme di alternativismo. Il punto centrale è che cosa essa fa o non fa di sé stessa. Se essa si dà metodi e mezzi di attacco non recuperabili alle condizioni dell’oppressore o se invece finisce per essere stampella e sostegno a queste stesse condizioni. Le lotte indipendentiste che sono lotte anticoloniali o le “battaglie” per insegnare i dialetti nelle scuole pubbliche.

La morsa repressiva che non fa che stringersi da ormai diversi anni a questa parte, con i suoi strascichi di frammentazione, annichilimento di intere realtà, isolamento, scoramento e angoscia, ha sicuramente la sua parte di responsabilità e questi sono, d’altronde, tra gli obiettivi che da sempre la controparte persegue. Ma a mio modo di vedere è sicuramente anche un problema di mancata trasmissione di teorie, metodi, saperi e conoscenze, che non crescono sugli alberi ma dovrebbero continuare a essere passate da una generazione all’altra. Se ora siamo di fronte a quella che a me sembra una sorta “cesura” in via di ampliamento tra “generazioni”, questo è anche da imputare a una certa incapacità – acuita secondo me in particolar modo dal modo di vita digitale in cui tutti/e siamo invischiati/e – di portare avanti nel tempo, di dare continuità, a questa trasmissione di un patrimonio assai ricco e dalla lunga storia, quanto mai necessario e attuale. Sul perché ciò avvenga, ognuno/a avrà la sua idea, posto che essa sia condivisa.

Tuttavia l’urgenza di trovare soluzioni e vie d’uscita a questo stato di cose è forse la prima e fondamentale contromisura alle mosse del nemico, affinché non ci si riduca col tempo a essere in grado di mettere in campo solamente forme di opposizione sì certamente necessarie, ma anche altrettanto simboliche, spettacolari, prevedibili, facilmente spendibili.

Anche alla luce dei semplici ragionamenti fatti fin qui è urgente, a mio modo di vedere, la necessità di darsi, il prima possibile, all’attacco distruttivo contro l’infrastruttura che rende possibili e operanti le gabbie tecnologiche e digitali che mantengono ed espandono il dominio, le vere responsabili, le prime determinanti, dell’annichilimento delle individualità, di quelle potenzialmente ribelli in primis, ma anche di tutte le altre. L’infrastruttura materiale che rende possibile guerre di accaparramento e sterminio altrove, la prospettiva della guerra planetaria in fase di concretizzazione, alienazione pacificata e complicità nei progetti di sottomissione in questa parte di mondo.

Non potrà mai esistere un mondo senza autorità, né insurrezioni che tentino di aprire la via verso la sua realizzazione, in un mondo di relazioni tecnologicamente mediate da macchine “intelligenti”, per un’umanità diminuita e ridotta a complice della sua disperazione ed eliminazione, con chatGPT come sua migliore amica. Un’umanità con la quale, se l’alienazione tecnologicamente mediata continuerà a marciare alla velocità alla quale assistiamo, non sarà solo difficile avere a che fare, quanto piuttosto impossibile.

È la guerra sociale quella in cui dovremmo continuare a mettere i nostri energia e impegno. Non ci servono soldati politici o figuranti economici interessati a trarre il massimo valore dal loro lavoro o a migliorane le condizioni, non mandrie di gregari convinti dalle nostre ragioni.

Non mandrie, ma gruppi di affini.

Per “sabotare la guerra” ci sono un sacco di cose che si possono fare, ci si occupi di quelle.

Un anarchico