IO VENGO A RESTITUIRTI UN PO’ DEL TUO TERRORE, DEL TUO DISORDINE, DEL TUO RUMORE

Diffondiamo:

Con un pensiero ai nostri compagni in carcere e agli arresti domiciliari, con un pensiero a chi continua a lottare dentro e fuori le galere, a dire che il carcere fa schifo e il 41 bis è tortura. E a ribadire che nonostante provino a spezzare la solidarietà, nonostante i loro tentativi di isolarci, spaventarci, separarci dai nostri affetti più cari cercando di stringerci nella morsa della tristezza e della repressione; nonostante gli anni di galera con cui vorrebbero seppellire vivi lx nostrx compagnx, noi siamo e saremo sempre al loro fianco, nelle strade, nelle piazze, sotto le carceri. Che la solidarietà abbatta quelle mura infami.

FINCHÉ DI OGNI GALERA NON RIMANGANO SOLO MACERIE
ALE, BAK, LUIGI LIBERX
TUTTX LIBERX

SHULUK: VENTO DAL SUD, SABBIA TRA GLI INGRANAGGI. ALCUNE RIFLESSIONI SULLE REPRESSIONI DEGLI ULTIMI MESI IN SICILIA.

Diffondiamo:

Non dimentichiamoci che la repressione è una conseguenza (non sempre inevitabile) di territori che lottano, non il punto di partenza di speculazioni intrise di colonialismo. C’è chi dice che l’obiettivo è silenziare un territorio anche in vista di una sempre maggiore speculazione e cantierizzazione, per il ponte e i progetti di turistificazione in atto in tutte le città. C’è chi dice che l’arresto di alcunx compagnx che si organizzano contro i cpr e il sistema delle frontiere è un attacco alla lotta contro questo sistema mortifero. Tutto vero, ma ci si scorda di dire che se la repressione agisce è perché qualcunx si è mossx, perché i territori e i corpi che ospita si sono organizzati per resistere e contrastare dei processi che sempre più spesso ci sono presentati come inevitabili. La narrazione di un sud colpito dalla repressione che non menziona la spinta propulsiva che viene da questi territori non fa che nutrire una visione intrisa di vittimismo, che rappresenta persone passive e bisognose di aiuto. E non è così. Lo SHULUK soffia e la gente resiste nei quartieri, negli spazi liberati, nei cpr, nelle galere (semplicemente resiste, anche più di quanto ci immaginiamo).

In quest’isola sicula ormai sommersa dai turisti, viene narrato, per il piacere “forse” delle folle pacifiste e pacificate che esiste anche un’altra forma di turismo, quella che arriva , devasta e saccheggia… e poi si dilegua . Che poi viene perseguitata e incarcerata, negli stessi identici territori che si dice abbia attraversato come delinquente.. passato di lì per caso. E mentre ci impongono il terrore dell’avanzare del deserto, inaridiscono la vita, riducendola ad esistenza, sopravvivenza. Mentre si ingigantisce il totem dello Stato, mentre tutto vuole essere fatto rientrare nel regolare e quotidiano spettacolo delle apparenze, nello stesso momento la loro inquisizione si intensifica. Mentre svendono la vita al peggiore degli offerenti (quello sì che è saccheggio e devastazione!) applicano sapienti le loro operazioni di water-boarding a respiri altrimenti incendiari. Cercando di congelare il caldo ed umido Scirocco.

Questa replica della santa inquisizione è parte di uno stratagemma di pacificazione delle lotte, un’operazione di pulizia delle individualità categorizzate come problematiche per il normale svolgimento del mondo così per come vogliono che lo conosciamo. Una pacificazione delle lotte territoriali che mira al loro assorbimento nello sceneggiato democratico, negli argini dei proto(ac)colli previsti nelle norme, comprese quelle del “politicamente corretto”. Un banale (in quanto intrinsecamente accettabile) dispositivo di controllo e prevedibilità delle masse che, affinché riesca, necessita di un certo tipo di mediazione; solitamente riprodotta dalle strutture partitiche e/o sindacali, comunque amministrativo-rappresentative. E che si può dire, poi, dell’ altra faccia della medaglia, l’informazione main stream che usa la retorica questurina deglx agitatorx venutx da fuori?! Quasi a sottolineare che la spinta propulsiva non è propria di chi lotta qui, per togliere agentivitá alle comunità siciliane. In più si cerca di isolare una lotta rendendola esclusivamente competenza di un territorio cercando di non farla uscire dai confini arbitrariamente definiti, un affare da silenziare. La solidarietà è un arma e questo fa paura, per tale motivo si cerca di sminuirla quando si fa sentire.

È che poi si scordano che in questa terra lo scirocco quando soffia porta con sé migliaia e migliaia di granelli, irriducibili alle differenziazioni che li vuole soffocati dentro qualche contenitore identitario. SHULUK arriva umido e caldo dalle frontiere che insistono sin sotto le case che abitiamo, ululando contro le vostre vetrine appena lustrate.

DOPO LA CALMA PRIMA DELLA TEMPESTA

Diffondiamo da Infranero: 

In ogni caso, i fatti sono noti. Ripeterli, magari aumentando la dose dei relativi dettagli tecnici, non porta a nulla. Non si provocano né attacchi di panico né esplosioni di rabbia, e non si percepiscono chiare tracce di ansia. La popolazione civilitica è per lo più indifferente a quanto le accade davanti agli occhi — crede ancora di vivere in un mondo che non c’è più. Un mondo stabile e affidabile con le sue quattro stagioni, gli scaffali dei supermercati ben forniti, le vacanze prenotabili online, gli ambiziosi progetti di carriera, la meritata pensione dopo una più o meno dura vita di lavoro, e le soluzioni tecniche per eventuali imprevisti a portata di mano.

Una compostezza a prova di calamità. Alluvioni. Fiumi secchi. Ondate di calore. Tempeste. Incendi boschivi. Scioglimento di ghiacciai. Carestia dei raccolti. Estinzione di specie animali. Tutto continua come prima. Pandemia. Lockdown. Museruole ad hoc. Vaccinazioni dietro ricatto. Guerra. Genocidio. Sì, una seccatura, ma alla fine andrà tutto bene.
Eppure ormai dovrebbe essere chiaro: non esiste una catastrofe imminente, poiché siamo già dentro alla catastrofe. Evocare cupi scenari futuri è del tutto ridicolo e superfluo, il cupo presente è più che sufficiente. Sufficiente? Per stimolare cosa? Duemila anni di religione sacra che preannuncia il paradiso dopo la fine della vita, e duecento anni di religione profana che promette il comunismo dopo la fine del capitalismo, hanno ottenuto il loro migliore effetto: l’attesa. Perenne e fiduciosa. Davanti al susseguirsi delle catastrofi planetarie, l’umore generale è semplicemente passato dall’ottimismo forzato alla paralisi, in un micidiale miscuglio di rassegnazione e confusione. Di tutte le minacce, è questa la più immediata: la ragione è in ritardo rispetto alla realtà, motivo per cui azioni sostitutive si affollano nello spazio intermedio.
Bisogna infatti ammettere che la mente si trova oggi a confrontarsi con condizioni senza precedenti. È impossibile riflettere sulla nuova realtà senza affrontare contemporaneamente la questione di come questa influenzi il pensiero. Per quanto diversi possano essere i pericoli che incombono su tutti noi, hanno almeno un elemento in comune: sono generati dall’essere umano. Ciò significa che bisogna considerare anche il palese fallimento del pensiero.
Già solo la scelta dei vocaboli da usare pone non pochi problemi. È possibile parlare di cose sproporzionate senza utilizzare parole sproporzionate? Catastrofe? Apocalisse? Beh, di certo non si può parlare di crisi o di disastri. L’uso di questi termini, in relazione ai processi globali in corso, è già di per sé una banalizzazione. Se le parole sono importanti, allora vocaboli come crisi e disastri andrebbero tralasciati. Una crisi petrolifera o una crisi finanziaria, ad esempio, vengono percepite come manifestazioni acute di contraddizioni strutturali (dipendenza da una materia prima, movimento del capitale economico). Resta in piedi l’idea che si tratti tutt’al più di una risolvibile interruzione di un sistema altrimenti funzionante. Lo stesso vale per i disastri. Quando si verifica un’alluvione o un incendio boschivo, vengono prese misure di salvataggio, ma non appena l’emergenza non è più pressante la vita quotidiana torna a scorrere come prima. Perché il dis-astro è una disgrazia originata da una cattiva stella, da un destino avverso. Shit happens, dicono gli anglosassoni.
Sebbene meno rassicuranti, termini come collasso o rovina sono a loro volta fin troppo deterministici. In essi, la conclusione è già prestabilita; non c’è spazio per percorsi alternativi. Ma allora, se il destino è già segnato, perché rifletterci sopra e scriverne (per non parlare del perché agire al fine di influenzarlo)? Al contrario, un termine come antropocene alimenta l’illusione di una transizione verso un’èra moderna stabile e sicura. Un ottimismo davvero fuori luogo, che può solo spingere le case automobilistiche a progettare Suv ecosostenibili o i partiti ecologisti a sostituirsi alle redini del governo. Tutto sommato, nessuna di queste caratterizzazioni della situazione attuale è realmente utile. Piuttosto, sono rivelatrici di chi le utilizza.

Ammettiamolo. Da quanti anni siamo tutti consapevoli di viaggiare su un treno diretto ad alta velocità verso il baratro? Da quanti anni vengono lanciati appelli urgenti richiamando l’attenzione sul fatto che all’umanità resta pochissimo tempo per affrontare gli sviluppi allarmanti che minacciano la sua sopravvivenza? Quante volte sono stati ricordati i rischi del riscaldamento globale, dell’estinzione delle specie, del declino delle acque dolci, delle crescenti zone morte negli oceani, della progressiva deforestazione? Quante volte sono state denunciate, in un contesto simile, le crescenti possibilità della diffusione di virus letali? Oppure, quante volte il conflitto nel Donbass è stato annunciato come la scintilla che avrebbe provocato la terza guerra mondiale?
Eppure, non solo non è stato fatto nulla per scongiurarla, ma la situazione è peggiorata ulteriormente in tutti i settori. Cento anni fa, un singolo terribile avvertimento da parte di eminenti studiosi avrebbe gettato il mondo intero nello sgomento, persino nel panico, e non sarebbe stato privo di conseguenze pratiche. Oggi, vale a malapena una breve notizia.
Cos’è successo? Come nella famosa parabola della rana bollita, la maggior parte delle persone sembrano intorpidite dal graduale riscaldamento nella pentola e dalle ripetute notizie che ne derivano. Tutti sono informati, ma nessuno si sente veramente minacciato. Manca poco tempo, sì, sì, lo sappiamo già, non annoiateci. Anche la maniera in cui vengono date tali informazioni contribuisce alla fatale assuefazione. L’imminente apocalisse diventa una notizia da collocare tra un resoconto politico quotidiano e un reality show. Non che le si conceda troppo poco spazio, ci sono servizi su servizi e trasmissioni speciali sull’argomento. Semplicemente questa minaccia immanente è stata trasformata in un «argomento» a sé stante. Cinque minuti di apocalisse, ed ora passiamo allo sport. Come se il peso di quanto sta accadendo non gravasse su tutte le emozioni, i pensieri, i sogni, i progetti umani. La separazione tra catastrofe e vita quotidiana viene mantenuta artificialmente. In questo modo non è solo la catastrofe a venir resa irreale, ma anche e soprattutto la vita quotidiana.
Da qui, la paralisi. Indubbiamente, la ragione di questa paralisi prolungata è un peso immenso e soverchiante. Non è solo l’immaginazione a cedere di fronte alla catastrofe; le dimensioni di quanto sta avvenendo sono troppo smisurate per essere comprese. Il pianeta, l’umanità, la vita: come possono questi concetti non essere irrimediabilmente astratti in relazione alla nostra esistenza, che è pur sempre individuale? Quando gli scienziati si rivolgono «all’umanità», quando i movimenti si rivolgono al «popolo» o al «proletariato», i loro appelli vengono restituiti con la dicitura «destinatario sconosciuto». Ecco allora affiorare l’ovvia tentazione: non sarebbe più saggio smettere di rimuginare su questioni su cui ci si sente impotenti? Beati coloro che hanno un’immaginazione limitata, che senso ha torturarsi? Meglio dedicarsi a progetti concreti che consentano almeno piccoli miglioramenti, magari pompandoli di confortante retorica (dall’ambulatorio popolare all’orto insorto). Invidiabili sono i nostri antenati, a cui era permesso distruggere il proprio ambiente senza troppi rimorsi!
La scelta tra ignoranza e infelicità è un vecchio argomento filosofico e letterario, solo che a noi questa scelta non è più concessa. Tutti sappiamo. E quando ormai c’è la conoscenza, l’unica alternativa possibile al pensiero è la negazione o la rimozione. Ma come è noto, i fatti negati o rimossi non scompaiono affatto. Continuano ad operare. Sul tavolo anatomico dell’accademia, docenti e ricercatori possono ben continuare a sezionare il marxismo, annunciando di aver rinvenuto in esso frammenti primordiali di un pensiero critico. Nelle piazze reali o virtuali delle metropoli, attivisti e militanti possono ben continuare ad agitarsi e ad esaltarsi per il movimento sociale del momento, annunciando di intravedervi la possibilità concreta di sfidare l’ordine delle cose. Non sono che narrazioni autoconsolatorie davanti a una realtà sempre più atroce.

Ciò che è accaduto negli ultimi cinque anni ha terminato di annientare il mondo così come l’abbiamo conosciuto, quello in cui siamo nati e cresciuti, fino ai resti delle sue illusioni. Ognuno ha visto sbriciolare i propri abituali punti di riferimento; chi lo stato di diritto, chi il potere al popolo, chi il risveglio delle coscienze… pilastri ridotti in polvere e macerie dalla tracotanza del dominio e dall’implacabilità dei suoi algoritmi. In un simile contesto si può fingere di vivere ancora nel Novecento e nel suo immediato prolungamento, alimentandone all’infinito le speranze. Oppure si può prendere infine atto di essere alieni in un territorio perennemente straniero e ostile. Se l’orrore per l’immane tracollo dell’intera civiltà, la rabbia di fronte alle devastanti conseguenze, la testardaggine di non volerle subire passivamente, non portano necessariamente né all’ottimismo beota né al pessimismo impotente, vero è che un minimo di lucidità — «la ferita più vicina al sole» — è oggi più che mai un requisito indispensabile per riconoscere e giocarsi le possibilità residue, quali che siano.

SICILIA: ALCUNI APPUNTI SULLE DICHIARAZIONI DEL PROCURATORE IN OCCASIONE DELL’OPERAZIONE “IPOGEO”

Diffondiamo

La scoperta di una camera funeraria scavata nella pietra da il nome alla Via Ipogeo che precede Piazza Lanza, luogo della casa circondariale di Catania. Proprio dal nome di questa via prende il nome dell’operazione condotta dalla procura di Catania ed il reparto antiterrorismo della digos in sinergia con quelli di altre province.

Un’operazione che ha portato alla perquisizione delle abitazione di diversx compagnx tra Catania, Palermo, Bari, Messina, Siracusa e Brindisi ed il trasferimento rispettivamente alla casa circondariale di Piazza Lanza e di Brindisi di due di loro, L. e B. Una terza persona sarebbe soggettx a mandato di cattura europeo ed attualmente (sembrerebbe) ricercata. Unx di loro, B., si trovava già in custodia cautelare presso la sua residenza per i reati contestatele dalla procura di Messina in occasione del carnevale no ponte dello scorso primo di marzo.

Lo stesso ipogeo in cui rinchiudono quotidianamente quelli che loro definiscono corpi carapaci dei loro personalissimi interessi. Il buio della detenzione, ostaggi di stato in una guerra interna tutta voluta da un sistema, quello capitale-coloniale, che non gradisce intoppi alla sua “normale” azione di intumescenza della vita in virtù dello sgocciolante guadagno. Ma il buio del loro sottosuolo non sarà mai veramente così oscuro fino a che a proliferare vi sarà anche il micelio della solidarietà, le luci dell’incendiaria complicità.

Così mentre il procuratore di Catania, F. Curcio, rivendica il diritto al rispetto ed alla dignità del personale in divisa; bisogna ricordarsi di Carlo Giuliani, Aldrovandi, Cucchi, Uva, Riccardo Rasman, Ramy, Rachid Nachat, Ugo Russo…. bisogna ancora ricordarsi di tutte le vittime della reclusione, dai CPR, alle galere, passando per ogni altra forma di localizzazione forzata di corpi nello spazio. Le 55 persone suicidate negli istituti detentivi italiani solo da gennaio a luglio del 2025; Moussa Balde, Ousmane Sylla, Wissem Ben Abdel Latif e tutte le altre persone barbaramente uccise dal sistema di confinamento e deportazione dello stato italiano… domandarsi dove sia il diritto alla dignità e il rispetto per tutte queste persone; prima differenziate dalle molteplici frontiere di questo mondo (tanto interne, quanto esterne; tanto geografiche, quanto morali), poi gerarchizzate, poi marginalizzate, poi risucchiate e poi interrate nell’ipogeo del capitalismo. Ma di questa parola, DIRITTO, non ci si può fidare troppo, dato che strabocca dalle cloache del sistema solo quando serve loro a difendersi, quando serve a PUNIRE.

Continua il procuratore parlando di “attacco gratuito” alle istituzioni. Lo stesso attacco gratuito che i loro squadroni della morte fanno nelle palazzine abitate da gente altrimenti senza casa? Oppure lo stesso che vede i gellieri dei reparti mobili sbombazzare di lacrimogeni le città e i volti delle persone? O forse lo stesso che avviene a Gaza, di cui anche lo stato italiano e i suoi apparati portano le tracce di sangue sulle mani? Lo stesso che ogni manganellata fa schioccare insanguinando persone nelle piazze? Lo stesso attacco fatto dalla loro propaganda di guerra?

È davvero in discussione la possibilità di poter saccheggiare le città? O è assolutamente inconcepibile qualunque intralcio al saccheggio totale non solo delle città?

Cosa saccheggia la vita allora? Cemento? Campi sterminati di pannelli solari? Cavi sotterranei che penetrano terra e fondali? Turismo vorace?Cantierizzazione? Cemento a volontà? Lo stupro quotidiano del lavoro? L’espandersi continuo e ossessivamente vorace del loro progresso (vedi morte)? Le loro infrastrutture della comunicazione e del commercio?

LA VITA È SACCHEGGIATA SOLO DAI LORO PUTRIDI INTERESSI, DIFESI DAI LORO ESERCITI, POLIZIE E TRIBUNALI.

LUIGI, BAK, ANDRE, GUI LIBERX SUBITO!!
LIBERX TUTTX!!!
PALESTINA LIBERA!
NO AL PONTE SULLO STRETTO!

Per scrivere a compagnx reclusx

Luigi Calogero bertolani
C/o casa circondariale
Piazza Lanza 11
95123 Catania

Gabriele Maria Venturi
C/o Casa Circondariale
Via Appia 131
72100 Brindisi

BLOCCARE TUTTO, PURE LA RABBIA (PENSIERI SULLE MOBILITAZIONI DELLA GLOBAL SUMUD FLOTILLA)

Riceviamo e diffondiamo

Testo in PDF

A distanza di 77 anni dall’inizio dell’occupazione sionista in Palestina e del genocidio del popolo palestinese il periodo storico corrente è caratterizzato da una consapevolezza dell’oppressione dello stato fascista di israele globale e senza precedenti. Mobilitazioni di ogni genere hanno interessato il globo palesando l’ inequivocabile condizione di apartheid vissuta dal popolo autoctono palestinese. L’utilizzo dei social da parte delle stesse persone di Gaza e Cisgiordania protagoniste del massacro, ha permesso una massiccia raccolta di materiale multimediale, foto, video e racconti che rendono imbarazzanti e ridicoli i tentativi dei complici di israele di insabbiare la realtà.

Eppure, in questo clima di apparente presa di coscienza popolare, le varie narrative portate avanti da chi ha cominciato a schierarsi hanno un ampio spettro di interpretazioni che vanno dal condannare Hamas in quanto carnefice del popolo palestinese all’allontanare la radicalità nelle piazze avvolgendosi nella bandiera della “pace” come vessillo per una giusta soluzione, suggerendo di fatto che quello che sta accadendo è un conflitto e non uno sterminio.
Il 7 ottobre 2023, l’ ennesimo disperato tentativo del popolo palestinese di autodeterminarsi attraverso la lotta armata, per moltx è stato l’ inizio dell’ incubo che sta vivendo Gaza, costruendo in questo modo l’ immagine che il problema sia la sproporzionata risposta del governo sionista e non l’esistenza stessa di uno stato occupante e fascista.

Intanto la storia degli incalcolabili massacri compiuti da israele dal ’48 ad oggi rimane ignota e silente, vive soltanto nelle memorie dellx palestinesi che diventano protagonistx delle testate giornalistiche del democratico occidente soltanto quando la disperazione evolve in rabbia e la consapevolezza di essere abbandonatx anche dai vicini governi arabi si trasforma in riscatto attraverso la lotta.
Questa retorica che vede Israele come stato aggressore rischia spesso di giustificarne l’ esistenza ma di condannarne i modi coi quali reprime lx palestinesx, che diventeranno quindi vittime ma soltanto finché non imbracciano le armi per riscattarsi.
Chissà se quest’immagine nel pensiero di questa gente funziona bene anche quando viene paragonata al movimento partigiano che ha agito contro il nazifascismo adottando la lotta armata come unico strumento per delegittimarne l’ esistenza.

La recente spedizione della Global Flottilla non è stata la prima a cercare di sbarcare in Palestina forzando il blocco navale sionista, già nel 2008 riuscirono a toccare le spiagge di Gaza le imbarcazioni della Freedom Flottilla con a bordo diversx attivistx tra cui Arrigoni, spedizione che non ha avuto la stessa attenzione mediatica nonostante il periodo storico fosse altrettanto teso essendo il loro arrivo alla vigilia dell’operazione “piombo fuso” che ha messo a ferro e fuoco Gaza per diversi mesi contando diverse centinaia di palestinesi uccisx.
Questo suggerisce svariate chiavi di lettura, una più raccapricciante dell’altra, che orbitano attorno alla riflessione su quanto la sensibilità attiva dell’opinione pubblica (anche quella militant/ politicamente attiva) sia direttamente proporzionale a quanto è di tendenza la questione stessa in quel preciso momento storico. A quanto sia facile schierarsi di fronte a un genocidio senza poi però avere troppa necessità di un contesto politico o di una panoramica storica sui fatti, rendendo macchinosa la possibilità di avere un pensiero critico sensato.
Addirittura alla quantità di vite umane necessarie a svegliare le coscienze, come se superata una certa cifra di vittime si accenda la spia dell’indignazione, disumanizzando le persone che vivono da decenni quei massacri di una o di mille persone, come se si trattasse di numeri, come se il loro dolore sia quantificabile da chi dall’altra parte osserva.

Le mobilitazioni che sono seguite in supporto all’iniziativa della Global Flottilla trascinano con se l’ inquietante dato che schierarsi con una tale forza di partecipazione è possibile ma quando bisogna solidarizzare con attivistx che hanno il privilegio di un passaporto made in west che ha dunque il potere di riportare tuttx a casa nel giro di qualche telefonata tra ambasciate, con qualche brutta storia da raccontare e qualche livido da mostrare.
Salvo poi addormentare quella rabbia una volta che tutte le persone coinvolte nell’iniziativa sono riuscite serenamente a rimpatriare con l’aiuto dei loro rispettivi governi complici di israele, credendo all’ennesima favola
del cessate il fuoco mai iniziato dal’48 e lasciandosi piacevolmente anestetizzare dai racconti dei carnefici, con la sola possibilità di nascondersi dietro agli slogan del”blocchiamo tutto” e a qualche post sui social in solidarietà a chi è statx colpitx dalla repressione.

Piazze confuse, impiallacciate da emozioni e intenti differenti.
La rabbia, quell’emozione genuina sprigionata dalle disarmanti e quotidiane immagini che generano abitudine e vengono perciò normalizziate e categorizziate in distinti livelli di gravità a seconda di quanto crude possano essere.
La rabbia che dà i contorni a un dolore figlio della consapevolezza che questo genocidio è solo una delle espressioni del sistema del capitale, una che in qualche modo le racchiude tutte.
La rabbia, quel sentimento che sempre di più viene demonizzato in quanto sintomo di instabilità emotiva piuttosto che di sana canalizzazione della frustrante indifferenza che dilaga.

Quella stessa rabbia viene spesso bloccata dal perbenismo pacifista di piazza, soffocata dal terrore di essere consideratx violentx da sbirri e borghesi, domata da collettivi politici che organizzando le piazze vogliono avere il controllo su quello che accade, da individualità che isolano chi si copre il volto e lx addita come infiltratx, aggressivx, in piazza solo per spaccare ogni cosa (che anche se così fosse tanta roba..).
La definizione stessa di “infiltratx” suggerisce estraneità a chi non si conforma alle direttive delle realtà che chiamano le piazze, presupponendo che la mobilitazione debba necessariamente rientrare nei limiti dettati, diversamente si diventa automaticamente nemicx internx, avere il volto coperto anche solo per tutelarsi dalle infinite fotocamere di digos/giornalistx/militonti poser che vogliono il ricordino per le stories instagram è rischioso in cortei dove c’è una consapevolezza sempre più bassa.

E mentre le bombe su Gaza continuano a cadere il distacco delle masse che hanno riempito le piazze qualche settimana fa sale, inebriate dalla convinzione che la speranza di un cessate il fuoco sia reale, stupendosi ancora una volta che le promesse non sono state mantenute, nelle piazze ormai silenziose le attivistx della Global Flottilla al sicuro nei loro rispettivi stati partecipano a iniziative per raccontare l’ esperienza della detenzione in israele.
E Gaza continua a bruciare, il capitalismo continua a corrodere ogni piano dell’esistenza con l’ ambizione di collezionare premi Nobel, il dissenso è taciuto da una morsa repressiva sempre più stretta e l’ ombra dell’oppressione si allarga sempre più.

I cortei non sono sfilate che servono a raccontare quanta rabbia c’è
La rabbia non ha bisogno di essere rappresentata, va coltivata ogni giorno e scatenata nella lotta
La pace non esiste se non scardina i meccanismi del sistema
La pace è dellx oppressx, la guerra agli oppressori

LA CASA È DI CHI L’ABITA. ALTRIMENTI SALTA IN ARIA.

Riceviamo e diffondiamo

In provincia di Verona, un’infame operazione di sgombero è finita con la morte di tre infami carabinieri e il ferimento di altri militari. Lo sgombero di un vecchio casolare senza corrente occupato da due fratelli e una sorella finiti in estrema povertà in seguito a problemi finanziari e ipotecari, i tre si opponevano a una sentenza di sfratto del tribunale, la vicenda nasce da un mutuo che avrebbero sottoscritto nel 2014, con l’ipoteca di campi e casa.

I tre avevano però sempre sostenuto di non aver mai firmato i documenti per il prestito, e che anzi le firme erano state contraffatte. L’iter giudiziario era però arrivato fino alla decisione di esecuzione dell’esproprio e così è iniziata la violenza delle guardie e istituzioni, così cieche e pronte ad eseguire gli ordini, a far rispettare le regole a qualsiasi costo. C’erano già stati altri tentativi in passato, l’ultimo nel 2024, a cui i tre hanno resistito minacciando di far saltare in aria la casa.

La rabbia nata dentro Franco Dino e Maria Luisa dopo anni di abbandono e accanimento da parte delle istituzioni li aveva portatx a decidere di difendere l’unica cosa che sentivano gli fosse rimasta.

Fin dall’inizio, le operazioni sono state preparate da un grande dispiegamento delle forze dell’ordine con artificieri e merde in antisommossa, infatti le forze del male dicono di aver avvistato con droni alcune molotov sul tetto prima dello sgombero, ma la forza repressiva non è bastata a fermare la rabbia. Una volta entrati: gli sgherri dello stato si sono ritrovati difronte bombole di gas aperte, dicono che l’aria era già satura, quando con grande coraggio Maria Luisa, sola ad affrontare lo sgombero, con un accendino (o una molotov, non è chiaro) ha dato fuoco a una bombola piena d’odio, facendo saltare in aria 3 sgherri e ferendone altri 25. Maria fortunatamente è riuscita ad allontanarsi rimanendo gravemente ferita, non riuscendo a fuggire al contrario dei fratelli, purtroppo per loro, la fuga non durerà molto ed entrambi verranno presi da lì a poco.

Lo stato piange 3 carabinieri, proclama lutto nazionale e Crosetto parla di “follia totale”.
Noi festeggiamo perché il 14 ottobre 2025 alcuni omicidi di stato sono stati vendicati e lo stato e le forze del male hanno avuto paura. A Crosetto ci viene da rispondere che follia totale è eseguire quello sgombero, come qualsiasi altro sgombero, follia è l’accanimento dello stato, e che l’unico modo efficace per resistere a uno sgombero dovrebbe essere questo!

In una notte di Ottobre un boato che sapeva d’anarchia, poi le urla dei militari che sapevano di vendetta!
Maria, Franco e Dino sono tuttx e tre accusatx inizialmente d’omicidio premeditato in seguito diventato reato di strage.
Maria Franco e Dino liberx, le stragi le fanno guardie e istituzioni nel mediterraneo! Stragista è lo stato!
Grazie Maria per il tuo coraggio! Meglio una casa in meno che una casa vuota!
Morte ai Carabinieri e a tutte le forze dell’ordine! RAMY VIVE!!
Le streghe non se ne sono mai andate, hanno solo cambiato pozioni!

Maria è attualmente ricoverata in terapia intensiva per le ferite riportate. Franco e Dino sono in stato d’arresto. Nei giorni successivi, con Maria ancora in terapia intensiva i media avvoltoi ricostruivano la dinamica di quella notte, iniziando il processo di criminalizzazione e demonizzazione di Maria, definendola “la capa dei tre fratelli” e descrivendola come una pazza.

All’interrogatorio del Gip per la convalida Dino e Franco non hanno risposto e il giudice ha confermato la custodia in carcere, accusati di concorso in strage. Per Maria invece, anche gli inquirenti la giudicano come esecutrice materiale e principale responsabile del gesto. Franco e Dino sono reclusi alla casa circondariale di Montorio.

SOLIDARIETA CON LX RAMPONI!!

Per scrivergli:
Franco Ramponi
Casa Circondariale di Montorio, Via S. Cosma 1, 37141 Verona.

Dino Ramponi
Casa Circondariale di Montorio, Via S. Cosma 1, 37141 Verona.

Maria è ancora ricoverata in ospedale a Borgo Trento sorvegliata da agenti, presto verrà interrogata dal Gip.

LA BANALITÀ DEL MALE E LA BANALIZZAZIONE. SUI FASCISTI A PREDAPPIO, ANCORA…

Riceviamo e diffondiamo

Anche quest’anno ci sono state le solite buone 48 ore di articoli sul giornale, interviste fatte per strada, commenti pro e commenti contro all’ennesima manifestazione fascista che invade il paesello romagnolo ogni, almeno, 28 ottobre (marcia su Roma) e 29 luglio (nascita del dittatore). Tra poche ore non ne parlerà più nessuna/o, fino all’anno prossimo: un altro bel lascito della digitalizzazione/virtualizzazione del mondo.
Perché allora scrivere queste righe e aggiungere un trafiletto in più di quasi folklorico sdegno per poi dimenticarsene pochi minuti dopo, pochi “scroll” dopo?

Perché l’attualità trattata in maniera emergenziale come si sta ormai perpetuamente facendo da decenni non consente lucidità d’analisi secondo noi e la ridicolizzazione dei fascisti che si ritrovano a Predappio, che molti giornalisti perseguono con le proprie interviste cercando il più caso umano tra tutta la marmaglia, getta ancora più fumo negli occhi. I fascisti (ci rifiutiamo di definirli “neo” o “post” perché la continuità simbolica, ideologica, pratica è evidente e, anzi, da loro stessi rivendicata) scorrazzano liberamente per Predappio almeno dal 1983, anno in cui la Prefettura di Forlì ritira il divieto di vendere paccottiglia fascista (guarda caso nel centenario della nascita di Mussolini) per poi fare un salto di qualità nel 1997, anno in cui l’allora sindaco dei DS (Democratici di Sinistra, sì, quelli di quel D’Alema che concedeva le basi militari per bombardare Sarajevo, remember?!) approva l’apertura dei negozi di “souvenir” come li chiamano loro (e anche i giornali).

Questo per dire che il problema è trentennale ed è soprattutto un problema sociale, della cittadina romagnola: come si fa a tollerare che due volte l’anno la città venga invasa da fascisti e nazisti proveniente da tutta Italia (e spesso anche dall’estero: falangisti di Spagna, nazi ungheresi etc) senza contare che TUTTO L’ANNO, tutti gli anni, Predappio è il parchetto giochi di fascisti di ogni risma, e non sono solo “nostalgici” (come se poi se fossero davvero dei nostalgici ci sarebbe da star tranquilli, boh!) la maggior parte sono uomini (il 98%) di tutte le età e provenienze che vengono a venerare un dittatore fortunatamente giustiziato che per prendere il potere ha sparso per l’Italia morte, torture, tradimenti, incendi, saccheggi, oppressione. E una volta preso il potere (concessogli, in verità) non ha fatto che proseguire nella strada dell’oppressione fino alle tragedie massime delle leggi razziali e della guerra.

Ed è bene ricordarlo, perché la storia è sempre più dimenticata, mistificata, taciuta, revisionata: Mussolini va al potere per soffocare le istanze di liberazione di una generazione di sfruttate/i che se industriali ed agrari non avessero armato il fascismo (e se partiti e sindacati di sinistra non fossero stati dei pusillanimi, a dir poco) avrebbe fatto la rivoluzione sociale. E in questo non è cambiato nulla: le squadracce che nel 1921 assalivano, coperti e spalleggiati da esercito e carabinieri, fanno il paio con i fascisti che nel 2025 attaccano i liceali che protestano (esempio Torino pochi giorni fa) aiutati dalla celere o i picchetti degli scioperanti (come a Seano nel 2024).

Ma tornando a Predappio c’è da chiarire a chi non avesse mai messo piede tra queste colline, che TUTTA la vita sociale di questo paese è ostaggio della presenza della cripta Mussolini e dei suoi accoliti: dalle gare motociclistiche ai trekking urbani, passando per le serate di degustazione di vini, tutto ruota attorno al fascismo e alla figura di Mussolini. E come potrebbe essere altrimenti? Predappio fu costruita dal dittatore per celebrare sé stesso (quest’anno i cento anni dalla Fondazione! Con tanto di festa e maxi modello di cartone della città esposto in piazza!) e tutte le amministrazione degli ultimi 30 anni (una menzione d’onore va ai multipli mandati di Frassineti, del PD) si sono prodigate per fare sì che il paese e il fascismo siano felicemente gemellati, per la bella faccia e le tasche gonfie di quei tre o quattro imprenditori che hanno costruito una fortuna sui “gadget” (Pompignoli, Morosini, Ferrini prima di tutti).

Ogni persona che vive a Predappio o che la visita, senza essere fascista, si potrebbe domandare per una volta nella vita: ma posso tollerare che chi ha messo a ferro e fuoco (letteralmente: la “colonna di fuoco” di Italo Balbo) la Romagna, e poi tutta Italia e poi l’Albania, Etiopia, la Spagna (il sostegno decisivo a Franco contro la Repubblica) sia osannato davanti ai miei occhi, senza fare nulla? Che questi ragazzini che poi vanno in trenta contro tre (mi riferisco all’ultima aggressione fascista a Cesena, l’11 ottobre scorso) possano tranquillamente salire a Predappio e comprarsi dei manganelli, dei tirapugni e dei coltelli con su inciso nell’elsa “boia chi molla” e poi andare a vagheggiare di onore e merdate simili nella cripta di Mussolini, come se fosse “normale”…e in effetti, è tragico ammetterlo, nell’Italia del 2025 è più “normale” questo che lottare contro il genocidio in Palestina, genocidio che il governo italiano appoggia, arma e finanzia, cosa per la quale ti becchi accuse e condanne per terrorismo (vedi, tra tutti, il caso di Anan Yaesh).

Un’ideologia come il fascismo che è, come qualcuno/a l’ha magistralmente riassunto un “vuoto pneumatico” si fonda, si sostiene e si autoalimenta di rituali e celebrazioni che devono essere ripetute per dare linfa a un costrutto che non ha radici sociali, né filosofiche, tanto meno esistenziali, ma solo un’accozzaglia di slogan ripetuti vuotamente. Primo tra tutti questi “miti fondativi”, e forse quello più pericoloso per chi vive l’antifascismo senza deleghe, è quello dell’invincibilità, che ha bisogno di riconferme continue in scontri di strada (sì, trenta contro tre però). Ogni mito ha necessità di un luogo dove poter esprimere la propria liturgia, e cos’è Predappio, oggi, se non la vera e propria Mecca del fascismo?
Non è perciò solo una questione di stomaco, di non voler vedere sta gentaglia in giro per il paese e per le valli, ma anche una questione politica e sociale urgente: questi fascisti, a Predappio, trovano linfa vitale e totale agibilità per i loro deliri di supremazia.

Anche tutta la manfrina sulla paura di “quelli di Forza Nuova” merita una piccola precisazione, perché letta, oggi, sui giornali pare un’allarmante novità: Forza Nuova, fino alla scissione della “Rete dei patrioti” (2020) è stata sempre integrante, quando non direttamente organizzatrice, delle manifestazioni di Predappio, e lo è da decenni. Poi che tra camerati stessi non corra buon sangue e quindi si mettano a fare i loro teatrini di eterne vittime, esclusi, osteggiati dalla Digos (seeeeeee!) serve solo a fare un po’ di pubblicità ad un partito, Forza Nuova, che ha negli ultimi anni, perso moltissimi iscritti. Ciò non toglie che i nazifascisti, quelli da stadio e da strada, che menano e sanno menare (o accoltellare) vengano da sempre a Predappio, e non solo i pagliacci col fez made in china. E parlando di pagliacciate, veniamo alla banalizzazione: a vedere i video dei giornalisti che intervistano i/le camerati/e mi sorge il pensiero che li/e si voglia per forza far passare per dei dementi, sgrammaticati, imbecilli, in una parola, sì, fascisti. Ma questa opera di ridicolizzazione è molto pericolosa sotto diversi punti di vista.

È certo vero che “la galassia fascista” si compone di individui per lo più stolti, abbrutiti e repressi, per dirla come si direbbe da noi “che non fanno una O con un bicchiere”, ma, a ben vedere, il fascismo non è mai stato altro che questo: moltitudini arrabbiate, frustrate, sobillate nei “bassi istinti” (ieri “la vittoria mutilata” oggi “l’immigrato privilegiato”) scatenate senza nessuna necessità di riflessione o di possibilità di messa in critica degli ordini sbraitati dai capi. Ed era esattamente, per altro, ciò che Mussolini o ancora più un Michele Bianchi, uno degli ideologi del fascismo del ‘22, promuovevano: una cerchia ristretta di individui eletti, “illuminati” (come direbbe Bianchi che era massone) che guida le “immature” masse italiche verso la riconquista dell’onore perduto della patria.

Anche le camicie nere storiche erano per lo più gente violenta e ignorante, avvezza più alle scazzottate da osteria e alle coltellate alcoliche che alla discussione, all’organizzazione tra pari. Erano massa d’urto al servizio di un astuto, laido, infido politicante: Benito Mussolini. Per questo non c’è da stupirsi che a Predappio, oggi, si riversi la crème della crème dell’idiozia nazional-popolare, ma non c’è neppure da prenderli sotto gamba. Non c’è una sorta di “degradazione” odierna di quello che il fascismo rappresentava, non è che i discendenti delle squadracce siano meno pericolosi perché più imbecilli, sono esattamente ugualmente pericolosi perché ugualmente incattiviti, impuniti, galvanizzati, imbecilli (solo con la parola imbecille ci viene da trattare uno/a che crede di “lottare contro il sistema” ed è finanziato, armato, difeso, spalleggiato, dagli industriali/politici/imprenditori che il sistema, quello del capitalismo e della borghesia, hanno congegnato e imposto).

Dire che “un/a fascista non ha idee”, in quanto fascista, non è sbagliato in sé, ma non toglie nulla alla funzione reazionaria di quel/la fascista: è esattamente così che viene richiesto che sia, che lo vogliono i capi, i gerarchi i capi-partito i duci: forza motrice. Un fascista non deve avere idee, ma parole d’ordine, e agli ordini, per quanto stupidi o brutali o infami o sanguinari, si obbedisce. Poi ci son i capi, gli ideologi, i fascisti che scrivono i libri,  tutto vero, ma senza la massa, la bassa manovalanza, sarebbero poco più che un club di itterici biliosi che vagheggiano di arianità e autocrazia (non sto descrivendo nulla di incredibile: banalmente è come è organizzata una qualsiasi caserma, che infatti è l’ispirazione della società fascista).

Il fascismo non è infatti “un movimento politico” ma una maniera di arrivare al potere, e ogni potere si fonda sulla dominazione di pochi, l’accettazione-complicità di alcuni e l’indifferenza di molti, così ci pare ci suggerisca la storia dei totalitarismi come delle democrazie, che in quanto a arbitrarietà, privilegio e oppressione pare abbiano imparato bene la lezione dai totalitarismi, ma questa è un’altra storia. Il fascismo del ‘22 si è affermato sulla violenza che lo stato gli ha concesso di esercitare, impunito (l’impunità dei fascisti, benché facciano costantemente le vittime, è un dato fondamentale  nel loro operato, ieri come oggi) a piene mani o spesso affiancandogli carabinieri e regio esercito, mentre gli oppositori politici (socialiste, anarchici, comuniste, Arditi del Popolo, repubblicani) se solo venivano trovate/i con un bastone venivano arrestati/e.

Oggi sta succedendo, in piccolo, perché la partecipazione sociale alla “cosa pubblica” è incredibilmente diminuita, la stessa identica cosa. E per non ricommettere gli errori del passato non possiamo considerare il fascismo di oggi una “tragica pantomima”, ma dobbiamo organizzarci nella consapevolezza che, al momento opportuno (per esempio in caso di sollevamenti sociali dovuti all’economia di guerra e/o a prossimi arruolamenti per le guerre della Nato??!) lo Stato riutilizzerà la propria manovalanza sporca come sempre ha fatto, come non ha mai smesso di fare, dagli scioperi del ‘21 alla strategia della tensione degli anni ‘70 e ‘80 fino ad oggi.

E di questa consapevolezza fa parte la certezza, storica oltre che esperienziale, che “l’antifascismo della costituzione” di cui si fregiano i vari partiti di sinistra, è solo una mostrina da esporre il 25 aprile, e poi il resto dell’anno votare per più telecamere, più centri per reclusione dei migranti, meno diritti per le fasce povere della popolazione, più bombe, più asfalto (etc.) mentre il grido di libertà dei compagni e delle compagne partigiane che c’hanno lasciato la pelle ci intima di non fidarci, che la stessa gente che porge la mano ai fascisti, in nome del dialogo democratico, è quella che ci taccia di “violenti” o “provocatori” se ci si arrabbia nei cortei.

Il fascismo si combatte, a Predappio e ovunque, con la cultura della fratellanza e della sorellanza e della solidarietà tra sfruttati/e; del rifiuto della competizione e del servilismo, ma una cultura che sappia impugnare le armi per l’autodifesa per non essere, ancora una volta, gettata nel tritacarne della storia.

– Alcuni/e Antifascisti/e Arrabbiati/e dai colli di Romagna –

TI CONOSCO, MASCHERINA! UNA TRAMA AVVINCENTE CON CRACKERS, MACCHINE IN FIAMME E UNA STRUGGENTE STORIA D’AMORE

foto del materiale trattenuto fatta pervenire ai media

Diffondiamo

Cosa è accaduto

Sabato 4 ottobre 2025, un’imponente operazione di controllo e “filtraggio” dei manifestanti è stata messa in piedi in occasione della manifestazione nazionale prevista il giorno stesso. Al casello di Roma Nord macchine e autobus incolonnati in monocorsia venivano smistati verso varie piazzole per poi essere perquisiti. Diciamo subito che il bottino è stato esiguo. Se certa carta stampata ha potuto parlare di «mazze», è sicuramente per licenza poetica e non per malafede. O forse nella telefonata con gli agenti si è persa una sillaba: si trattava di ramazze, insomma, manici di scopa (perlopiù in plastica). In mezzo c’era addirittura una canna da pesca, uno strumento crudele, siamo d’accordo, ma solo per chi respira con le branchie. In questa serie di oggetti (che altro non erano se non aste casarecce), spicca la requisizione avvenuta ai danni di alcunx nostrx compagnx provenienti da Perugia. Nel loro veicolo sono stati rinvenuti alcuni kit di pronto soccorso assemblati per l’occasione: erano infatti direttx al presidio di street medic (primo soccorso autorganizzato di piazza).

Come si può notare dalla foto gentilmente concessa ai giornali, il materiale sospetto consta di:

sacchetto di avanzi della colazione con 1 (uno) mandarino; rotoli di benda elastica; ghiaccio istantaneo; occhiali protettivi; giacca antipioggia con bande riflettenti; valigetta pronto soccorso; filtrante facciale; coperte termiche; assorbenti; mascherine industriali; disinfettante; crackers; compresse di garza; guanti monouso; disinfettante spray.

Tra il materiale trattenuto figurano anche un paio di pantaloni ad alta visibilità con nastro riflettente.

A seguito del ritrovamento, allx compagnx è stato intimato di recarsi in caserma insieme ad altri due autobus, scortatx da 4 veicoli di polizia per non meglio precisati “accertamenti”. Sappiamo che alle persone sui pullman era stato detto che sarebbero state condotte al concentramento: solo dopo aver accostato perché ormai chiaro che il tragitto portava da tutt’altra parte, sono state informate del fatto che anche loro, più di cento persone, erano dirette in caserma. A questo punto, lx compagnx degli autobus, forti del loro numero, sono smontatx e hanno ottenuto di svincolarsi dall’assurdità di un fermo ottenuto con l’inganno. Hanno inoltre intavolato una trattativa per far sì che anche allx compagnx di Perugia fossero restituiti i documenti, e di fronte al rifiuto opposto dalla polizia hanno deciso di seguirlx e presidiare la caserma dove erano statx condottx. Qui, dopo varie lungaggini, lx cinque sono statx rilasciatx previo fotosegnalamento e requisizione del materiale di primo soccorso in quanto «potenzialmente pericoloso» e «incompatibile con una manifestazione pacifica». Il loro fermo, tra ripetute perquisizioni, intimidazioni da parte dei più alti in grado ma anche tanto tanto divertimento, è durato in tutto poco meno di 6 ore.

Per fortuna il corteo era in ritardo.

Le nostre armi sono “non letali”, ciò che da loro vi protegge è “pericoloso”

Nel patetico teatrino del sequestro di cerotti e crackers, polizia e media si sono prodigati nel mettere in risalto le temibili mascherine.

E quindi parliamone, anche se sembra assurdo.

Le mascherine sono un presidio di parziale tutela dagli effetti del gas lacrimogeno. Difficilmente si può immaginare in quale modo possano essere «atte a offendere», salvo impiegarle nella stessa frase: nel qual caso l’offesa c’è, ed è al buonsenso.

Le armi antisommossa hanno il fine di disgregare e seminare caos in un gruppo coeso di persone, contribuendo così alla sua dispersione. In generale, si tratta di strumenti indiscriminati e imprecisi, in quanto loro obiettivo è la massa. Sono a torto dette “non letali”, e sarebbe più corretto definirle come “a bassa letalità”, dato che possono uccidere e non di rado lo fanno. Senza contare che la loro pericolosità aumenta se, come spesso accade, vengono utilizzate in maniera impropria.

Il gas lacrimogeno, di cui si fa largo uso nelle piazze, è arma dagli effetti non circoscrivibili, in quanto colpisce tuttx lx astanti (non è raro che ne facciano le spese gli stessi agenti). In Italia si usa tra gli altri il CS, messo al bando in contesto bellico, ma curiosamente impiegato contro la propria popolazione civile. Il gas causa irritazione oculare, cutanea, stress respiratorio, e in alte concentrazioni o in caso di esposizione prolungata, o ancora se colpisce soggetti con pregresse difficoltà respiratorie, può risultare letale. Pochi giorni fa, a Bologna, l’abitudine a sparare i candelotti “ad alzo zero”, con il fine deliberato di procurare danni da impatto, ha causato il grave ferimento di una ragazza che ha reso necessario un intervento chirurgico per scongiurare la perdita dell’occhio.

Ci sembra superfluo dire che per un intervento di primo soccorso in piazza, e potenziale esposizione prolungata ai gas, i dispositivi di protezione sono imprescindibili.

Manifestanti cattivi e dove trovarli

Il 4 ottobre 2025, dopo due anni di uno sterminio annunciato, è sceso in piazza più di un milione di persone. Sicuramente un grande risultato per chi da due anni (e più) lotta per rompere il silenzio che si è tentato di imporre sull’annientamento della popolazione palestinese. Ma anche un pessimo segno, per una specie che ha la pretesa di definirsi “superiore”. Ci sono voluti due anni di impegno per ricostruire quel basilare senso di dignità che di fronte a un genocidio facesse scendere la gente in strada, il che, diciamocelo, è un po’ il minimo sindacale. Avremmo dovuto bloccare tutto due anni fa, anzi avremmo dovuto bloccare tutto molto prima, ad ogni annuncio dell’apertura di una fabbrica di armi. Ad ogni speculazione di borsa a seguito di una strage. Ad ogni centesimo investito in un sistema di sfruttamento coloniale. Senonché chi sosteneva tali idee e ancor più chi le metteva in pratica veniva tacciatx di “estremismo” e “violenza”, un modo facile per evitare qualsiasi discussione.

Quelle di “estremista” e “violento” sono categorie elastiche: chi oggi presta orecchio al coro dell’unanime condanna dei “violenti” dovrebbe riflettere su quanto sia facile finire nel mazzo dei cattivi. “Violenti” erano lx nostrx compagnx con il kit del primo soccorso. “Violento” era il signore sull’autobus con la canna da pesca a reggere una bandiera. “Violento” era chi ha dato alle fiamme un’auto della polizia, e così via.

Intanto il nostro paese arma chi alle fiamme ci dà le persone. Foraggia i militari e li dota degli ultimi ritrovati in materia di uccisione. Per fare questo taglia salute, istruzione, pensioni, stipendi, saccheggia i territori, alimenta le diseguaglianze e soffia sul fuoco della xenofobia per offrire dei comodi capri espiatori quando il malessere minaccia di esplodere.Ogni accenno di dissenso, per quanto piccolo, è represso con crescente brutalità.Tutto questo non è forse violenza?

Qual è dunque il grado di conflittualità accettabile di fronte a un genocidio e all’industria che vi ruota intorno? Davvero il problema è una mascherina, una canna da pesca, una macchina bruciata?

Chi aveva con sé materiale medico, chi una canna da pesca, chi ha incendiato un’auto, tuttx avevano degli obiettivi, che, sembrerà strano, non erano lo scontro fine a se stesso con le Forze dell’Ordine. Queste ultime, come dice il nome, difendono l’Ordine, lo status quo, qualunque esso sia. Se l’ordine delle cose prevede di collaborare al genocidio, esse verranno impiegate a sua tutela. Presi singolarmente molti agenti potrebbero addirittura non essere d’accordo, ma molto probabilmente non si tireranno indietro, perché – quante volte glielo abbiamo sentito ripetere? –  stanno solo facendo il loro lavoro o, in alternativa, stanno solo eseguendo ordini. Obiettivo della protesta in genere non è l’auto della polizia, ma sicuramente l’auto della polizia si verrà a trovare tra i manifestanti e l’obiettivo della protesta.

Abbiamo ancora lacrime da versare per la macchina?

Perché?

Perché tanto accanimento sulla street medic? A livello operativo, degli agenti sul campo, il mandato era sicuramente ottenere qualcosa, qualsiasi cosa, da dare in pasto ai media per demonizzare la piazza. Non ci fosse stato il materiale medico sarebbe toccato alle aste, e in subordine agli spazzolini da denti, o alle bolle di sapone, non importa.

È però possibile rilevare un’ulteriore motivazione, più o meno conscia, lungo la catena di comando: il materiale della street medic infastidisce perché rappresenta un germe di solidarietà tra le due parti contrapposte nella trita retorica buoni/cattivi che da troppo tempo intossica i movimenti.

Forse il timore è che parte del corteo cosiddetto “pacifico” possa supportare attivamente chi adotta altre modalità d’azione, e resistere all’apparato repressivo dispiegato, minando alla base la frammentazione ottenuta grazie alla velenosa dicotomia violenti/nonviolenti. Nel mondo non mancano esempi, anche recenti, in cui proteste nutrite e variamente conflittuali hanno ottenuto dei risultati, pensiamo a Nepal, Indonesia, Francia.

L’idea stessa alla base del primo soccorso in piazza è la prova dell’esistenza di una sfumatura, di una complicità, di qualcosa che va oltre la divisione in buoni e cattivi. Del fatto che comunque vada, in strada si rimane finché si riesce. E se si va via, lo si fa come si è arrivatx: insieme.

E se questo vuol dire essere violentx, e dellx cattivx manifestanti, allora sì, siamo tuttx violentx, siamo tuttx cattivx manifestanti.

Un momento, e la struggente storia d’amore che ci avevate promesso?

Non c’è, vi abbiamo fregato. Oppure non l’avete vista, non ve lo diremo mai.

NOTE SU ANARCHIA RELAZIONALE E GALERE

Diffondiamo

Il carcere fa schifo, e oltre alle disposizioni del giudice in quanto a restrizioni, interviene anche il patriarcato.
La famiglia eteropatriarcale rimane l’unica intermediaria legalmente valida a ricevere tutte le comunicazioni che vanno dal giudice ai legali.
Impedendo e rendendo difficile un percorso collettivo.
Dopo anni a cercare di allontanarci dall’idea della famiglia tradizionale e cercare con difficoltà di decostruire e ricostruire tutto quello che abbiamo imparato dalla nascita sulle relazioni monogame, romantiche ed eteronormate, che rientrano in tutti i binari di genere che cerchiamo di ridurre in frantumi con chiacchiere e autocoscenze, ci ritroviamo a scegliere chi tra gli affetti deve firmare un foglio in cui si dichiara di essere lx fidanzata dellx nostr amic in gabbia.
Quando la scelta basata sulle gerarchie è una delle cose, che, per chi vive l’anarchia relazionale viene totalmente rifiutata.
Le gerarchie non esistono e l’amore tra le amiche ce lo immaginiamo come un grande cerchio in cui siamo tutt sulla stessa linea, una linea molle e volubile, che si muove in maniere diverse, con rapporti declinati in base ad accordi che si autoalimentano e autorigenerano, vivendo le giornate assieme.

“Signor giudice la mia polecola è al gabbio ci deve accettare i colloqui insieme, mica separate!”
Skerzi a parte, fa davvero male non vedere riconosciute le proprie relazioni.

Noi questo stato lo vogliamo in frantumi con tutti i suoi costrutti e regole di merda, la legge non ci rappresenta e manco la concezione di famiglia tradizionale, che guarda caso nel momento in cui si entra in carcere diventa l’unica interlocutrice.
Chiudere tutto all’interno delle 4 mura di casa è una violenza, e violento è lo stato che non permette deviazione.
La galera è pesante, per chi sta dentro e per chi sta fuori. Il lavoro di cura è costante, da entrambe le parti, e se tutto questo peso grava su genitori e familiari diventa un peso insormontabile, economico ed emotivo.

Per non parlare poi, di chi questo privilegio non ce l’ha. Perché le famiglia o non ce le ha più o sono lontane, lontanissime e irraggiungibili. E quindi le persone rimangono isolate, senza un supporto emotivo e materiale, perché le informazioni, a chi sta fuori e non è riconosciuto in quanto tale, non può averle e non é dato sapere neanche queste persone dove si trovano e come stanno.
Parlo delle persone in movimento, corpi che vengono quotidianamente criminalizzati e rinchiusi in galere e cpr. Le comunicazioni dai cpr sono piu semplici a volte, ma se vengono trasferiti in carcere e non c’è nessunx familiare fuori, recuperare i contatti diventa difficile, quasi impossibile.

Il processo di allontanamento dagli affetti, quelli non riconosciuti come importanti e fondamentali è la prima mossa infame che lo stato attua sulle ame recluse, perché la solidarietà fa paura, l’amore , la sorellanza e la vicinanza ad ogni costo fa tremare lo stato, debole e solo, siamo potenti e fortissime insieme, piu di qualsiasi tribunale e magistrato, siamo la forza che farà crollare le mura infami e deboli che rinchiudono corpi.

La nostra quotidianità era fatta di amore, di nanne strett nei letti insieme, di carezze, baci e abbracci , di spazi messi in ordine e disordine in base a come e quanto tempo volevamo dedicare alle nostre amicizie. Decostruire la gelosia , la monogamia , il patriarcato, il machismo e l’eteronormatività di cui siamo intrise sin dalla nascita è un processo lungo e che fa anche male, ed era la strada che stavamo percorrendo.

Il pugno nello stomaco che forzatamente ci riporta a subire la violenza patriarcale che vuole sovradeterminare affetti e relazioni è l’ennesima dimostrazione di quanto lo stato sia viscido e violento verso le nostre vite. Violenza alla violenza e morte allo stato.

VIOLENZA ALLA VIOLENZA
MORTE ALLO STATO

Dopo aver scritto questo testo e aver parlato con amiche che stanno vivendo in modo simile la repressione dei propri affetti, é nata l’idea di scrivere una zine.
L’istituzione rende meccanici tutti i rapporti che in realtà sono umani, a prescindere da quale tipo di relazioni si sceglie di vivere.

Se ti va di realizzarla insieme e mandare un contributo, scritto o disegnato sul tema, questa é la mail: fuocoaicprpuglia@distruzione.org
É una mail sicura, x favore usa solo mail sicure x inviare
I contributi rimarranno anonimi
Baci anarchici

CHE BELLA UDINE CHE BRUCIA!

Diffondiamo una riflessione sulla repressione delle mobilitazioni in solidarietà con la Palestina, tra cui quella udinese del 14/10/2025:

Per prima cosa, esprimiamo totale e incondizionata solidarietà alle persone fermate e arrestate al termine del corteo contro la partita della vergogna Italia – Israele di martedì 14 ottobre a Udine.

Negli ultimi mesi abbiamo visto scagliarsi un’ondata repressiva brutale sulle partecipatissime manifestazioni in solidarietà alla Palestina che hanno attraversato tutta l’italia.
In moltissimi casi, la repressione si è diretta contro manifestanti alle loro prime esperienze di piazza, spesso minorenni o persone non inserite in contesti militanti o organizzati. Questo elemento, ormai ricorrente, fa pensare che non si tratti di episodi casuali, ma di una strategia precisa su cui vale la pena soffermarsi.

La priorità sembra essere fare prigionierx, non importa chi, né cosa abbia fatto.

L’obiettivo è dare qualcosa in pasto ai giornali, alimentare il racconto securitario e giustificare i mezzi messi in campo. Se un’operazione non produce fermi o arresti, rischia di apparire “inutile” agli occhi dell’opinione pubblica. Il sensazionalismo mediatico sui fermi e gli arresti non è mai compensato dalla stessa attenzione quando le accuse cadono o arrivano le assoluzioni, che quasi sempre passano sotto silenzio.
È un meccanismo di propaganda facile tramite arresti facili.

Questa repressione veicola un messaggio preciso: “in galera ci puoi finire anche tu”, anche se è la prima volta che scendi in piazza. È un tentativo di seminare paura e scoraggiare la partecipazione, soprattutto in un momento in cui le piazze per la Palestina hanno mostrato numeri che in Italia non si vedevano da anni. L’obiettivo è ridurre queste mobilitazioni spontanee e non organizzate a dimensioni “gestibili”, per poi avere campo libero nel colpire chi non desiste, fino a riportare tutto al silenzio, attraverso decreti e leggi sempre più repressive che passano inosservate perché “non ci riguardano”.

I cosiddetti “rastrellamenti a caso” quindi non hanno nulla di casuale. È una strategia consapevole: se vengono fermati militanti notx, la rete di solidarietà si può attivare; se vengono prese “persone comuni”, invece, si rischia che prevalga il silenzio, la paura, la tendenza a dissociarsi.

La repressione non punta solo a colpire chi lotta, ma a isolare, a neutralizzare la solidarietà e a trasformare la paura in rassegnazione.
E proprio così riescono a sedare la partecipazione e a disinnescare la possibilità stessa del conflitto.
Il vero obiettivo è spegnere quel che nasce quando la gente comune scende in piazza e segue il proprio istinto morale.

Ed è in questo quadro che si inserisce anche lo strumento della solidarietà. Se chi è avezzx alla repressione sa che nessunx va lasciato solx, chi mastica meno queste pratiche finisce a trovarsi spiazzatx, non sa a chi rivolgersi e la repressione diventa un fatto individuale e di solitudine.
A questo tentativo di neutralizzare la solidarietà e disincentivare la partecipazione si somma la tanto comoda distinzione fra manifestanti “buonə” e “cattivə” e fra manifestazioni pacifiche e degenerate, abitate da “infiltratə facinorosə”. Secondo questa narrazione, la libertà di manifestare il dissenso è garantita soltanto se espressa “pacificamente”.  Dove per “pacifico”  si intende “pacificato”, ovvero circoscritto e costretto nei limiti di quanto consentito dalle forze dell’ordine: tutto il resto, tutto quello che esistere al di fuori di questo asfissiante perimetro resosempre più angusto da leggi repressive e pacchetti sicurezza) è negativo, e deve essere condannato, pure dallə manifestanti “buonə”, pena la legittimità del loro manifestare e delle loro rivendicazioni agli occhi dell’opinione pubblica e forse pensiamo anche del poliziotto interiorizzato.
Di fatto, peró, il perseguimento di questa legittimità rompe i movimenti dal di dentro e presta il fianco a chi ci vuole divisə, diffidenti, spaventatə e ancor peggio isola chi è represso.

Per questa ragione consolidare narrazioni di questo tipo è complicità con l’oppressore.

Non crediamo in alcuna distinzione , crediamo solo nella diversità e varietà delle pratiche, poichè gli obiettivi politici e gli slanci rivendicativi si perseguono secondo forze diverse, canali diversi ed energie differenti.
Lo slogan “se toccano unx toccano tuttx” deve prendere concretezza effettivamente quando unx viene toccatx. Poco importa se le pratiche adottate in piazza siano condivise o meno: bisogna avere chiaro chi è il nemico.
La polizia è il nemico, che difende i padroni, le politiche genocidarie, chi devasta e avvelena la terra.
Lo stato è il nemico, complice del genocidio, dell’oppressione di razza, di classe e di genere.
Non lo sono invece lx compagnx che stanno al nostro fianco, anche se con tensioni o approcci diversi. La piazza deve restare uno spazio libero, senza registi né guardiani morali, aperto a chi rifiuta le proteste pacificate e addomesticate.

C’è un fuoco nella pancia che nessuno potrà mai domare, e ringraziamo chi con quel fuoco ha illuminato Udine di una bellissima luce!

Le strade e le piazze sono nostre e non le abbandoneremo per paura. Difendiamo chi lotta con noi e accanto a noi, accogliamo chi arriva per la prima volta e facciamo in modo che la solidarietà non rimanga solo uno slogan ma diventi una pratica quotidiana.

Nessun passo indietro!