LE COMMEDIE DI MAGGIO. RIFLESSIONI SUL CONFLITTO SIMULATO

Riceviamo e diffondiamo queste riflessioni da alcunx studentx della Sapienza di Roma.

Le Commedie di Maggio

Riflessioni sul conflitto simulato

«Intellettuali d’oggi, idioti di domani, ridatemi il cervello che basta alle mie mani»

F. De André

L’abbaglio

Le giornate di mobilitazione andate in scena lo scorso Maggio in diverse città d’Italia, aprono un momento di riflessione importante sull’utilizzo del conflitto simulato come pratica di lotta e sul significato della sua continua riproposizione.

Per lx più informatx non è niente di nuovo, il conflitto simulato è un logoro prodotto italiano che a più riprese, da quasi 30 anni, torna nelle piazze con grande carica estetica e abbaglia le telecamere.

Spesso nel dibattito militante questo tema viene ripreso ma mai rivendicato seriamente da chi lo agisce, nascosto tra confuse giustificazioni e vittimizzazioni, ammiccamenti complici del “famo gli scontri!” o fantasmagoriche narrazioni di esplosive giornate di lotta sulle piattaforme di movimento.

Questa primavera però non è servito un naso allenato per sentire la puzza, dato che la cagata è stata chiaramente proposta a favore di telecamera se non apertamente rivendicata e sbrodolata sui giornali da uno dei “capoccia”, con tanto di giustificazioni ai «poliziotti che fanno bene il loro lavoro» contrapposto a quelli che «si fanno prendere la mano» e andrebbero bacchettati (parole tanto infami non meritano di essere analizzate oltre la loro semplice citazione). 1

Questo asservimento alla politica del compromesso e dello spettacolo, che vuole piazze disciplinate e orchestrate, non è solo una fastidiosa stortura con cui fare i conti ma un’abitudine radicata che crea mostri, spezza le gambe e soffoca la Rivolta; trascinarsi questo cadavere al seguito è una fatica che, se in tempi storici più lontani si diluiva in un conflitto sociale più alto e un apparato repressivo più debole, ad oggi, non possiamo più permetterci.

Queste righe non hanno lo scopo di indicare un modo giusto di fare la lotta, né tracciare una strada da percorrere. Al contrario, sono un invito a valutare seriamente l’abolizione della nostra normalità e la rottura degli argini militanti, per tuffarsi finalmente nell’ignoto, lì dove può nascere l’impensabile.

Conflitto simulato, perché proprio a noi?

Partecipando a giornate di lotta europee, emerge subito un dato evidente: il conflitto a volte c’è, a volte non c’è, è più intenso, meno intenso ma di certo gli unici a tenerlo sotto controllo sono gli sbirri. Non ci sono, né tantomeno potrebbero esserci, avanguardie organizzate che sovrintendono e trattano tempi e modi del conflitto di piazza.

Ma allora perché proprio a noi? Porsi questa domanda è ambizioso e circoscrivere il discorso obbliga a sorvolare discorsi importanti, come il modo in cui l’autorità ha gestito l’ordine pubblico dagli anni ‘70 ad oggi attraverso l’uso della polizia politica e il consequenziale protagonismo storico che la sinistra ha avuto nella repressione del fermento insurrezionale di quegli anni.

Consapevoli di mancare qualche pezzo di storia militante la traiettoria più immediata e utile ai fini del testo è quella che ci porta a individuare nelle “Tute bianche” la genesi, o più probabilmente il perfezionamento, di questa modalità.

Quella delle Tute bianche fu un’esperienza che nacque dall’area più morbida e riformista dei centri sociali (principalmente nel Nord – NordEst) e che ebbe, o almeno provò ad avere, la sua più importante espressione politica nelle giornate di Genova 2001.

Un perfetto inquadramento lo troviamo in un articolo di Repubblica del 14 luglio 2001, in cui un grande simpatizzante del movimento, Luigi Manconi, ex portavoce dei Verdi, elogia la capacità pacificatoria delle Tute bianche, ecco due passaggi iconici:

«…da un decennio, in Italia, non si verificano scontri di piazza paragonabili, per intensità di violenza, a quelli degli anni ’70. Ci sono, piuttosto, rappresentazioni di battaglie di strada e scontri simulati. Spesso, queste performance belliche – grazie alla raffigurazione fotografica o televisiva – sono apparse come vere. Ma, a parte rare eccezioni, si è trattato esclusivamente di rappresentazioni. Posso dirlo perché ho partecipato ad alcune di esse.»

E ancora:

«(…) L’attività delle “tute bianche” è, dunque, letteralmente, un esercizio sportivo, che depotenziа e disinnesca la violenza: perlomeno, la gran parte di essa. Certo, questo presuppone un’idea della violenza di piazza come una sorta di flusso prevedibile, indirizzabile, controllabile: ma è proprio in questi termini che viene trattata da numerosi responsabili dell’ordine pubblico e da molti leader di movimento.»

Successivamente Manconi racconta una riunione svoltasi in una prefettura del Nord-Est dove veniva contrattato con le autorità un punto, segnato da un numero civico, in cui si sarebbe poi svolto uno scontro totalmente simulato con la polizia il quale però apparve veritiero nello schermo televisivo.

Quello che poi saranno le giornate del G8 purtroppo è impossibile da raccontare ma a questo testo interessa solo un pezzo di questa storia.

Dopo roboanti minacce di guerra le Tute bianche arrivano a Genova pensando di portarsi a casa la giornata proprio nel modo profetizzato da Manconi.

La mattina di venerdì 20 luglio non manca nulla: tute, scudi di plexiglas, caschi e i leader in testa a guidare il “Gruppo di contatto”; un feroce servizio d’ordine che disarma e aggredisce i “facinorosi”; la violazione della zona rossa ben organizzata e concordata con la controparte. Insomma tutto è pronto… ma poi il conflitto arriva sul serio.

A Genova migliaia di ribelli, disinteressati allo scontro diretto con la polizia scelgono di disertare l’appuntamento mediatico e, lontano dalla trappola militare della zona rossa, rovesciano interi quartieri, sollevando al cielo l’asfalto e ciò che ci sta sopra; il fuoco non risparmia nulla e arriva fino al carcere di Marassi. Per alcune ore la libertà travolge impetuosa alcune aree della città.

La polizia, presa alla sprovvista e incapace tatticamente di far fronte a questa orda di insorti, è sotto scacco.

L’idea di uno scontro simulato, militarmente tutelato da una manciata di manifestanti organizzati, non può assolutamente soddisfare i migliaia di furiosi presenti a Genova e i primi a rendersene conto sono proprio gli sbirri, i quali non hanno più nessuna intenzione di andare avanti con la sceneggiata concordata con i rappresentanti. Gli ultimi ad accorgersene, in colpevole ritardo, è il gruppo di contatto delle Tute bianche che in via Tolemaide viene travolto da una spietata carica dei carabinieri che li costringe alla fuga.

I restanti 15 mila manifestanti, mozzati della loro testa, si alzano dalla poltrona del pubblico in cui erano stati costretti e ingaggiano una disperata battaglia nelle vie adiacenti, scontrandosi con un dispositivo poliziesco omicida che lancia blindati sulla folla, usa armi fuori ordinanza e infine, messa alle strette dalla tenacia dei manifestanti, spara, uccidendo Carlo Giuliani, 23 anni.

La reazione immediata, poi in parte ritrattata, di una buona parte della società civile, nonché dei referenti delle Tute Bianche, sarà quella di gridare agli “infiltrati” accordati con la polizia per rovinare la manifestazione e prendendo le distanze dai manifestanti come Carlo Giuliani, il quale «…non era una tuta bianca, bensì un punkabbestia, uno squatter, uno degli “utili idioti” contro i quali le tute bianche avevano cercato di mettere in guardia il movimento.» Come riportarono tutti i quotidiani il giorno dopo.

Dirà Oreste Scalzone, ex Autonomia Operaia:

«Come si fa a fare per settimane una “guerriglia mediatica” dicendo “Violeremo la zona rossa, sfonderemo”, usare simbologie ossessivamente militari, guerresche salvo poi precisare “naturalmente, tutto è metaforico, ludico, lasciateci fare, veniamo con le pistole ad acqua…” e poi, a quelli che a sfondare ci vanno con le pietre, oppure, altrettanto simbolicamente, sfondano vetrine di banche o fanno riots, andare a dire che come minimo sono dei rozzi, che non capiscono i sottintesi, non hanno humour, e hanno rovinato tutto?… Come si fa a dare dei teppisti e dei barbari a coloro che hanno lanciato pietre e sfasciato vetrine, e poi gestire tutti assieme la morte di Carlo Giuliani? Carlo chi era?»

Dopo le giornate di Genova si conclude il progetto delle Tute Bianche e rinasce, poco dopo, in quello della “Disobbedienza” il quale terminerà a sua volta nel 2004.

Una precisa area politica raccoglie le pratiche di questo progetto e le porta avanti immutate, rendendole la norma, o peggio l’abitudine, nelle piazze di tutta Italia.

«Solo una cieca ottusità può pensare di razionalizzare secondo criteri di moralità o utilità politica il gesto gratuito e passionale della distruzione, inibendo la sfrenatezza del piacere che è invece l’unica garanzia di autenticità e di senso di una rivolta.»2

Lo spettacolo

I due modi di vedere la lotta proposti negli episodi genovesi si basano sulla contrapposizione tra la “Spettacolarizzazione del rifiuto e il rifiuto della spettacolarizzazione”3 che trovano nelle “Commedie di Maggio” delle iconiche riproduzioni in miniatura.

-La spettacolarizzazione del rifiuto:

Il copione è più o meno sempre lo stesso: un gruppo di contatto, inventandosi una zona proibita da raggiungere, si lancia a peso morto sulla polizia per essere manganellato a favore di telecamera finché un Capo macho non si butta in mezzo insieme alla DIGOS e, tra urla scimmiesche e cenni di intesa, ognuno spinge indietro “i suoi”; una volta portata a casa la credibilità rivoluzionaria grazie agli scontri si conclude la pantomima sui giornali, romanzando la giornata e lamentandosi delle sorprendenti violenze della polizia e della sospensione dello Stato di diritto.

Il passo successivo e tutto contemporaneo è poi l’ossessiva esaltazione estetica delle immagini degli scontri, accompagnate da musiche di sottofondo e slogan ricondivise sui social, per il giubilo della polizia, proprio dalle stesse persone che vi hanno partecipato.

È tragicomico fermarsi un attimo a pensare che tutto questo, senza una telecamera a riprendere la scena, sarebbe completamente inutile (più di quanto già lo sia); ciò che succede in piazza, le persone presenti o l’obiettivo dichiarato, non hanno nessun valore reale, il fine ultimo è unicamente quello di raccontare sé stessi, firmare la giornata e apparire sui social, in una spirale di autocompiacimento senza fine.

Intere comunità politiche fondano le loro battaglie sulla convinzione di poter utilizzare lo strumento mediatico a proprio vantaggio, venendo poi tragicamente recuperati e fagocitati dallo spettacolo stesso o quando il nemico contrattacca davvero.

Dietro questa convinzione ci sono da un lato consapevoli opportunistx elettorali, dall’altro c’è il tentativo di qualche illusx di incasellare il gesto della rivolta come una piccola parte di un grande puzzle che ci porterà tuttx, un giorno, tramite compromessi e confronti democratici, ad una poco chiara “presa del potere” e che finisce poi, nel migliore dei casi, ad essere l’accettazione di un capitalismo un po’ più democratico, un po’ più umano (che mai sarà).

Infine fa riflettere quanto questi scontri alla giornata siano prerogativa unica di persone bianche e privilegiate; per qualcunx invece lo scontro con la controparte non è solo la totalità di un programma ma la diretta conseguenza di una postura nel mondo, nella maggior parte dei casi nemmeno voluta ma obbligata dal fatto di appartenere ad una minoranza minacciata e oppressa.

– Il rifiuto della spettacolarizzazione:

Basterebbe citare, tra i tumulti più recenti, quelli per Alfredo Cospito o per Ramy, le rivolte contro il lockdown, le eccedenze durante i cortei per la Palestina, le passeggiate rumorose dopo i femminicidi o le rivolte dentro le carceri e i CPR, dove è importante anche notare che la polizia ha tutt’altro approccio all’ordine pubblico, molto più violento e senza compromessi.

Alcuni episodi però parlano più di mille giornate e vanno riportati:

Luglio 2017, due persone fanno sesso sul balcone mentre sotto le strade di Amburgo vengono date alle fiamme dalle proteste contro il G20.

Ottobre 2019, Santiago De Chile, sono le giornate dell’Insurrezione Cilena, intorno alla carcassa di un autobus incendiato delle persone si radunano per ballare al ritmo dei colpi sul metallo, qualcuno finge di guidarlo, qualcuno suona l’arpa.

Giugno 2020, una manifestante con la maglietta “Black Lives Matter” twerka verso la polizia durante le proteste dopo la morte di George Floyd.

Non serve comunque cercare esempi in momenti di sommossa generale né tantomeno uscire dai nostri confini per rendere ancora più chiara l’idea:

Una ragazza sale sul cofano di una Tesla e ci piscia sopra durante una passeggiata rumorosa, qualcunx riscopre la sua chitarra o la gamba di un manichino come clava contro la celere, qualcun altrx gioca ad “Un, due, tre, Stella!” o improvvisa un karaoke circondatx dalla celere.

Il filo che lega tra loro queste vicende è l’interruzione della normalità a favore di un capovolgimento del significato degli oggetti e dei luoghi.

Il fine di una rivolta, che sia il calcio in bocca ad un maschio violento o i tre giorni di un rave party, è la sospensione del tempo e l’apertura di squarci nel quotidiano dentro la quale sperimentare gioiosamente avventure di libertà reale e collettiva.

Chiunque abbia provato almeno una volta la sensazione di sovversione del quotidiano conosce la bellezza di riappropriarsi di una parte di ciò che ti viene sottratto ogni giorno ma soprattutto sa perfettamente che il gesto della rivolta non ha bisogno di nessuna legittimazione o argomentazione, è giusto perché è sempre un atto d’amore spontaneo verso sé stessi e gli altri.

Ciò che ci divide dalla possibilità di vivere un gesto rivoluzionario è la difficoltà di scorgerlo quando se ne presenta l’occasione, per il semplice fatto che l’atto rivoluzionario è per definizione qualcosa che nessuno conosce ma che va inventato da zero sul momento.

Agire, bucare questo Velo di Maya, questo muro invisibile che divide noi dall’azione, richiede di coltivare una tensione al pensiero rivoluzionario capace di generare un’intuizione, un’idea; che sia quella di infrangere una vetrina o comunicare un pensiero profondo ad una persona in un momento speciale, in entrambi i casi il peso enorme dei dubbi, delle paure e delle abitudini possono facilmente oscurare il rapidissimo lampo dell’intuizione o appesantirlo fino a spegnerlo.

È desolante che proprio chi cammina al nostro fianco ed è più intimo a questi pensieri, non dia spazio a tutto questo ma anzi si adoperi attivamente per gettare acqua sul fuoco. Lx “Compagnx” che hanno appreso la militanza come un mestiere, annegatx dentro le ideologie e le strutture verticali, per lx qualx il momento di esprimere i desideri non è mai adesso ma domani, nell’avvenire rivoluzionario che loro stanno costruendo per noi.

Si finisce dunque per avere piazze in cui, invece di trovare alleatx, trovi qualcunx che, in perfetto stile “Società dello spettacolo”, mette in scena i tuoi sentimenti al posto tuo, come nel mondo di tutti i giorni; tu rimani in disparte a guardare, a consumare il prodotto e se mai ti venisse in mente di voler anche tu indossare quel casco, armare la tua ira, allora devi prima scalare la gerarchia militante o quantomeno chiedere il permesso.

Domandiamoci perché le nostre piazze, anche le più rabbiose a seguito di tragici eventi, si siano ridotte a veri e propri concerti itineranti per la città, nelle mani di qualche microfonatx che ci traghetta nella miserabile esperienza di urlare la nostra rabbia a ritmo di musica e cori esplosivi, circondatx da un cordone di polizia che ci tutela dal mondo reale.

Alcuni collettivi, nati dal furore di rivendicazioni incandescenti, si sono ridotti ad un team di organizzatori di viaggi turistici delle ricorrenza di lotta, con le istanze politiche ridotte a badge di riconoscimento e finendo poi, a volte, ad abbassarsi al ruolo di guardie quando qualcunx ha l’ardore di arrabbiarsi davvero invece di godersi il ballo di gruppo.

Non c’è da stupirsi poi se, durante i momenti di sommossa questx “Grandi compagnx” restino a braccia conserte mentre bruciano le camionette della Gendarmerie a Saint Soline o sprofondino nel divano quando esplode la rabbia per un ragazzo ucciso dai carabinieri.

È proprio questo quello che dovrebbe spaventarci di più, la messa a nudo davanti alla realtà.

La prova concreta di non saper affrontare quello che hai scimmiottato per anni, e che ti porterà, inesorabilmente, a mancare il tuo appuntamento con l’Insurrezione, a non saperla riconoscere e soprattutto a non sapere come vivertela, perché ti sei dimeticatx pure cosa desideravi.

La lotta anticapitalista non si esaurisce nella giornata di mobilitazione, nell’appuntamento col nemico, ma nella diffusione di comportamenti sovversivi, nella condivisione di spazi di libertà illegale collettivi, dove mettersi alla prova davvero in prima persona, e dove, a volte, poter anche sbagliare ma con la dignità di aver compiuto qualcosa di tuo.

Questo può accadere solo tenendo accesa la tensione verso un agire sovversivo, capire cosa significa per noi, riconoscerlo nei gesti altrui e sceglierlo tutti i giorni, dandogli spazio vitale.

Imparare a prendersi cura di se stessx e di chi ci sta vicino, decostruirsi, boicottare la linea, perché “Il conflitto non avanza linearmente, per linee di classe o soggetti affinitari, bensì si diffonde per risonanza, per cerchi di intensità, attraverso la polarizzazione dei vissuti comuni.”4

«Ai contestatori dell’Impero che insegnano alle persone a lottare per farsi concedere dei “diritti”, i nemici del totalitarismo capitalista ribattono che non ci sono diritti da elemosinare, ma la totalità della vita da conquistare. Ai primi che organizzano scontri e conflitti simbolici funzionali al mercato della rappresentazione politica, i secondi controbattono la necessità di rivolte autentiche e spontanee capaci di creare momenti di libertà immediati, effimere schegge spazio-temporali sottratte all’oppressione del dominio totalitario capitalista.» 5

Vivere nella verità

L’utilizzo del conflitto simulato, con tutte le sue aberrazioni al seguito, è figlio di un’epoca dove saper vendere la rappresentazione spettacolare di sé stessx è la chiave del successo.

La porta d’emergenza per uscire da questo teatro è quella di riconquistare una forza estetica molto più attraente, quella della verità.

Mentire su ciò che succede in piazza, esagerare nei comunicati trionfalistici tutti uguali, decuplicare i numeri delle manifestazioni, ripetere come mantra slogan fiammeggianti in piazze finte e costruite; chi pensate di prendere in giro?

A rimanere imbrigliatx in questa rete di bugie sono lx numerosx poser, opportunistx e abusers, animatorx di quelle relazioni sociali neutralizzanti che intossicano gli spazi di movimento.

A non cadere nella trappola sono invece lx migliaia di possibili giovani ribelli che a ogni spazio non concesso, ad ogni bugia, abbandonano schifatx e delusx la lotta collettiva per chiudersi nell’individualismo ed egoismo capitalista.

Invece di sacrificare energie nelle autonarrazioni teatrali è urgente tornare ad agire azione diretta, tornare a rendere le strade cornici di rivolte autentiche, capaci di attrarre almeno una parte di quella tensione che, costretta nel sottosuolo, trema sempre più forte e irrequieta. Sarà stupefacente riscoprire la potenza sovversiva del dilagare della rabbia di moltitudini furiose, per ora ancora sonnecchianti e represse.

Con la definitiva approvazione del dl Sicurezza, sotto il cielo più nero degli ultimi ottant’anni, è ora di riscoprire la nostra più feroce voglia di vivere e stare insieme, stringendosi a chi, all’ombra dello show, alleva il dubbio, si prende cura della verità e, in silenzio, affila il coltello.

Il più grande pensiero di solidarietà e affetto a Maja e Paolo in sciopero della fame per le brutali condizioni di vita nelle carceri, contro tutte le galere.

GIUGNO 2025
Teppistx, incivili, guastafeste


1 https://www.romatoday.it/politica/intervista-luca-blasi-scontri-no-decreto-sicurezza.html

2 Detour – la canaglia a Genova: https://www.rivoluzioneanarchica.it/detour-la-canaglia-a-genova-2/#/

3 Detour – la canaglia a Genova: https://www.rivoluzioneanarchica.it/detour-la-canaglia-a-genova-2/#/

4 Guy Debord. La società dello spettacolo. Parigi, 1967

5 Marcello Tarì, Il Ghiaccio era sottile – per una storia della Autonomia, Derive e Approdi, 2012, Roma