GIULIANOVA, CAMPETTO OCCUPATO: SOLIDARIETÀ CONTRO LA REPRESSIONE!

Diffondiamo questi due testi riguardanti la raffica di avvisi di conclusione indagini che in queste settimane hanno raggiunto lx compagnx del campetto occupato di Giulianova. Contro sgomberi e repressione, la solidarietà è la nostra arma!

In questi giorni stanno notificando a diversi di noi, la conclusione indagini per vari reati, per i tre anni di occupazione del Campetto Occupato all’Annunziata.
Per chi anche un minimo segue le nostre vicende si sarà accorto che ormai le denunce, e tutto il corollario repressivo, si susseguono senza soluzione di continuità.
Il tentativo fin troppo netto, da parte delle autorità, è quello di dare una spallata decisiva, in questo momento di difficoltà, all’esperienza di autogestione, autorganizzazione e lotta che, pur tra mille difficoltà e contraddizioni che interessano chi ha a che fare con la realtà, è stata viva nel territorio provinciale nell’ultimo decennio.
In questa inchiesta, nelle centinaia di pagine che ci riguardano, c’è di tutto.
C’è l’accusa di reato recidivo per gli anziani che avevano ritrovato un tetto all’Annunziata. E poi si parla delle innumerevoli iniziative che al Campetto venivano fatte: dibattiti, cene benefit, musica, feste, presentazioni, spettacoli, laboratori… Il tutto coinvolgendo centinaia di persone, da ogni dove, dicono le carte.
Perché ad essere perseguito non è la giustezza o meno di quel che si faceva, ma il fatto che si ponesse al di fuori del sistema.
Parola forse desueta e che ricorda la nostra adolescenza… ma tanto è!
Una società ridotta al controllo capillare ed asfissiante in ogni aspetto, che non tollera ciò che si colloca al di fuori.
E lo deve schiacciare.
A maggior ragione se ciò che è al di fuori, continua ad alzare la testa, lotta e si organizza contro le ingiustizie.
«La dittatura perfetta avrà sembianza di democrazia, una prigione senza muri nella quale i prigionieri non sogneranno mai di fuggire. Un sistema di schiavitù dove, grazie al consumo e al divertimento, gli schiavi ameranno la loro schiavitù».
Si scriveva qualche decennio fa.
I tempi moderni, ne sono triste riprova.
Per quanto ci riguarda, questo controllo capillare emerge anche nelle centinaia di pagine di questa ultima inchiesta.
Episodi come striscioni piazzati in città, in cui vengono monitorate tutte le telecamere del quartiere per risalire agli autori, e, non riuscendo a riconoscerli, iniziano le ricostruzioni fisiognomiche dei “soggetti”.
Fino ad arrivare alle telecamere piazzate davanti ai due ingressi del Campetto Occupato, il monitoraggio costante e la richiesta di intercettazioni telefoniche ed ambientali a sette di noi…
Compresi, lo diciamo per fare capire il “livello”, agli anziani che vivevano al Campetto.
Potremmo continuare, ma il quadro è fin troppo chiaro e delineato.
Di sicuro, tutte le persone indagate, denunciate o che subiranno conseguenze, nessuna verrà lasciata sola!
Si parte e si torna insieme, sempre.
E per far ciò, vista anche la mole enorme di procedimenti a nostro carico, chiediamo anche una mano a tutte le persone di buon cuore che in questi anni abbiamo incontrato.
O che non abbiamo incontrato ed hanno il nostro stesso sentire.
Un sentire che, ancora una volta, ci fa dire che abbiamo fatto quello che andava fatto. Che era ed è giusto. E ne siamo fieri ed orgogliosi.
E non abbiamo niente di cui pentirci.
E nessuna Repressione potrà mai farci cambiare idea.

[testo del 13 marzo]
Sono state notificate ad una decina di compagne/i la conclusione indagini per l’occupazione di settembre in viale dello Splendore. Occupazione, violenza, deturpamento ed altre amenità, in concorso, ad un paio di noi con la recidiva. Mentre una compagna è stata denunciata per le fantomatiche minacce al sindaco fuori al comune il giorno dello sgombero.
Dalle carte emergono alcune questioni significative.
La prima, che la Questura per tale inchiesta aveva fatto richiesta di misure cautelari nei confronti di un compagno.
Richiesta che, fortunatamente, non è andata in porto.
Ma un altro dato che si evidenzia dalle carte dell’inchiesta, è che la giornata dello sgombero in Viale dello Splendore nel settembre scorso – un presidio “pacifico” della proprietà che si è trasformato in degli esaltati con la bava alla bocca, con protagonisti, il sindaco Costantini, l’assessore Giorgini e la presidente dell’Asp 2 Giulia Palestini – esula totalmente dalle regole del vivere democratico.
Si badi bene, non diciamo ciò perché ne siamo difensori o perché ci sentiamo vittime di chissà che cosa…
Siamo compagni/e che hanno scelto, pur rischiando sulla propria pelle, di cambiare questa società e sappiamo le conseguenze.
Diciamo ciò come evidenza dei fatti e come contraddittorio a chi, in tutti questi anni ci ha fatto la guerra, in nome di un “vivere civile”, che in realtà lorsignori sono stati i primi e i più cruenti a non rispettare.
Infatti, nelle carte si evince come le istituzioni locali, in barba ad ogni procedimento giuridico in corso (per quella occupazione era già partito l’iter a seguito di denuncia), mettevano in campo azioni che avrebbero seriamente potuto provocare danno a qualcuno.
Pensiamo ai ragazzi con disabilità “portati” in quella situazione e a quali pericoli siano stati esposti, anche emotivamente. Pensiamo alla presidente dell’Asp 2 che si arrampicava sul cancello, lo stesso il sindaco che ingiuriando tutto e tutti metteva in scena il peggio della sua esaltazione di cui è turbato, fino ad arrivare all’assessore con la mola.
L’abbiamo detto e lo ripetiamo, non scriviamo ciò come nostra difesa, ma come constatazione di fatti, in cui le carte hanno evidenziato ci sia stata una sostanziale “sospensione della democrazia”.
Crediamo lo stesso sia avvenuto per lo sgombero di qualche settimane prima all’Annunziata, ma per la conferma attendiamo anche lì gli atti.
Per concludere, abbiamo ben poco da stupirci, ma crediamo che quando l’evidenza dei fatti si palesa in modo così netto, sia giusto che tutte/i siano messi al corrente.
D’altronde, l’abbiamo sempre saputo che chi ha passato questi anni con l’unico intento di distruggerci, avrebbe usato ogni mezzo.
Fateci almeno la cortesia, di levare l’ipocrisia dalla narrazione dei fatti.
Perché siete solo bestie, con la bava alla bocca, che non volete sentir alcun dissenso…
Ma, purtroppo per voi, continueremo a ridervi in faccia.
Potrebbe essere un'immagine in bianco e nero raffigurante 12 persone, bambino e il Muro Occidentale

TRENTO: STECCO CONDANNATO A 3 ANNI E 6 MESI

Diffondiamo

Ieri [il 21 marzo] si è svolto, presso il tribunale di Trento, il processo di primo grado contro il nostro amico e compagno Stecco, accusato di aver favorito la latitanza dell’amico e compagno Juan e di aver contraffatto dei documenti di identità. Stecco è stato condannato – con rito abbreviato – a 3 anni e 6 mesi di carcere (una pena più alta di quella chiesta dallo stesso PM). Questa sentenza sembra decisamente un monito: chiunque aiuti fuggiaschi e latitanti, la pagherà cara. La condanna di ieri fa il paio con il dispiegamento davvero impressionante di uomini e mezzi che ha portato all’arresto dello stesso Stecco. Su quest’ultimo aspetto, per come emerge dai faldoni dell’operazione “Diana”, uscirà una sintesi di ciò che è utile che compagne e compagni sappiano dell’armamentario del nemico.

Fuori dal tribunale, si è svolto un presidio di solidarietà con Juan e Stecco, in particolare contro l’ennesima imposizione della videoconferenza.

Questo il volantino distribuito:

Un calcolo sbagliato

Questo è il tuo segreto, Butch. Continuano a sottovalutarti.

Pulp fiction

Oggi il nostro amico e compagno Stecco (in carcere a Sanremo) è a processo qui a Trento perché accusato di aver fabbricato dei documenti falsi per un altro nostro amico e compagno, Juan (in carcere a Terni), quando quest’ultimo era latitante. La cosa in sé non richiede grandi parole. Se Stecco ha fabbricato quei documenti, ha fatto bene, perché servivano ad evitare il carcere a un compagno ricercato. Sottrarsi alla polizia politica è una necessità che accompagna da sempre chi lotta per la libertà e per la giustizia sociale. La differenza è che oggi – con la fine dell’“asilo politico” su cui hanno potuto contare per decenni gli esuli e gli oppositori, e il drastico aumento delle forme di controllo tecnologico – è sempre più difficile riuscirci. Una volta introdotti, i dispositivi di sorveglianza possono colpire chiunque (come si è visto, su scala di massa, con il green pass), per cui è necessario non farsi abbindolare dai pretesti con cui vengono giustificati.

Oggi Stecco non sarà fisicamente in aula perché gli è stata imposta la videoconferenza. Quest’ultima, un tempo riservata ai detenuti in 41 bis e poi agli accusati di “terrorismo”, dal Covid in poi è stata estesa praticamente a tutti i prigionieri. In tal modo, il detenuto non può vedere facce amiche in tribunale, non può difendersi adeguatamente (il confronto con l’avvocato avviene solo per telefono) e può dire la sua solo se il giudice non decide di premere un pulsante e tagliare il collegamento audio e video. Nemmeno l’inquisizione era riuscita a far sparire il corpo e la voce degli accusati. Quello di risparmiare sulle spese di trasferimento dal carcere al tribunale è uno sfacciato pretesto: ci sono detenuti che vengono portati in altri carceri dotati dei collegamenti per la videoconferenza invece di essere portati direttamente nei tribunali della stessa regione. Se poi – questa è la tendenza – in futuro le sentenze verranno stabilite dagli algoritmi, le macchine giudicheranno degli umani che aspetteranno la loro sorte dietro gli schermi: un indubbio risparmio di tempo e di carta. Al totalitarismo non si arriva mai tutto d’un colpo, né è mai esistito un potere che affermi di perseguire dei fini apertamente malvagi. La guerra viene promossa in nome della “pace”; la repressione si chiama “sicurezza”; chi si ribella è un “terrorista”.

C’è però un aspetto con cui Stato, padroni e tecnocrati non hanno fatto i conti: la variante umana. Questa si esprime in mille modi: i corpi dei detenuti che si prendono lo spazio con le proteste e le rivolte; i disertori che si rifiutano di diventare carne da cannone; le disfattiste e i disfattisti che sabotano la macchina della guerra; i lavoratori e le lavoratrici che scioperano; il popolo palestinese che resiste. Il prigioniero palestinese Anan Yaeesh (in carcere insieme a Juan), accusato di “terrorismo” da uno Stato italiano complice del sistema genocida israeliano, ha scritto in una sua commovente dichiarazione di sentirsi privilegiato, lui chiuso in una cella, rispetto al suo popolo costretto a vivere tra le macerie, sotto le bombe, senza acqua né elettricità; un popolo imprigionato in un campo di concentramento high tech, ma che la strapotenza israeliana non riesce a domare.

Se i partigiani palestinesi sono “terroristi”, allora diventa motivo di orgoglio essere inquisiti per “terrorismo”, come la polizia politica e la Procura stanno facendo per l’ennesima volta contro anarchiche e anarchici trentini (tra cui Stecco e Juan).

Lo sbaglio dei potenti è pensare che lo spirito di rivolta e l’umano gesto di rifiuto possano essere previsti e impediti dalla smisurata potenza di calcolo delle loro macchine.

Libertà per Juan e Stecco

Basta videoconferenza, vogliamo vedere i nostri compagni in aula!

Con Gaza nel cuore, contro guerra e repressione

anarchiche e anarchici

TARANTO: SEIZEROQUATTRO

Riceviamo e diffondiamo:

Nella notte tra il 12 ed il 13 marzo, a Taranto , un compagno ed una compagna venivano raggiunti da una volante della polizia mentre erano fermi in una piazzola di sosta della tangenziale sud di Taranto.
All’arrivo gli agenti esternavano sin da subito la loro contrarietà verso una scritta che recitava “Israele terrorista” ponendo più volte la domanda “odi Israele”? al compagno ed accusandolo di aver fatto la scritta in questione più alcuni graffiti e tag presenti sullo stesso muro.
Dopo l’arrivo di un vice ispettore dall’arroganza notevole che cercava di requisire i telefoni di entrambi con nessun risultato , la compagna veniva caricata nella volante mentre il compagno veniva scortato a “sandwich” con la sua auto verso la caserma cittadina.
Verranno rilasciati alle 4 del mattino con l’accusa infamante di “Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa” art. 604 bis, articolo che viene usato “normalmente” contro organizzazioni neonaziste o negazionisti della shoah.
Anche in situazioni come queste possiamo osservare quanto gli Stati si stiano piegando al volere di Stati Uniti e Israele rendendosi vergognosamente complici verso il massacro e lo sterminio in atto contro il popolo palestinese.
Sta a noi restare con la schiena dritta, non farci intimidire da queste patetiche acrobazie accusatorie e continuare a fare tutto ciò che è nelle nostre possibilità contro la guerra ed il mondo che la produce.
Libertà per il popolo palestinese, guerra alla guerra.

MONZA, FOA BOCCACCIO: SOLIDARIETÀ CONTRO LA REPRESSIONE

Diffondiamo:

Il 21 marzo 2025 partirà per quattro compagni della Foa Boccaccio un processo per occupazione e furto di corrente. Pensiamo che questo rappresenti un importante precedente giudiziario che vuole ridurre a mero atto criminale la nostra storia ventennale di autogestione, cultura e lotta sul territorio.

Nello specifico, i fatti contestati sono relativi all’esperienza di via Timavo 12, l’ex rimessa di autobus (dismessa da decenni) attraversata e vissuta da centinaia di monzesi dal luglio 2021 all’agosto 2023. Durante i mesi di attività del collettivo all’interno dello spazio si è attivata una meticolosa manovra repressiva che ha visto cooperare il personale DIGOS della Questura di Monza, la Giunta di centrosinistra di Pilotto e la proprietà dello spazio, “arrabbiata” perché l’occupazione avrebbe potuto interferire con il tentativo di vendere l’area e quindi portare a compimento l’ennesima speculazione edilizia.

Si sono susseguiti quindi mesi di appostamenti polizieschi con schedature di massa delle tantissime persone che frequentavano via Timavo, fino ad arrivare alle fotosegnalazioni nel mese di agosto del 2022, durante le proiezioni serali del cineforum estivo (storica iniziativa che, nel deserto culturale cittadino, è diventata da diversi anni un punto di riferimento per chi non va in vacanza). Durante tali set fotografici, la DIGOS identifica quattro compagni, i cui nomi verranno dati in pasto alla Procura per l’avvio del processo.

Si aggiunge, oltre al quadro penale, un’assurda richiesta di risarcimento civile da parte della proprietà, per una presunta perdita di valore nella compravendita dell’area (poi regolarmente andata in porto), di 100.000 euro.

Rifiutiamo categoricamente la volontà di ricondurre alle condotte di quattro singoli compagni la responsabilità di un percorso collettivo che da sempre vive della partecipazione diretta di centinaia di persone, tutte ugualmente “colpevoli” e fianco a fianco nel costruire un’alternativa concreta. Proprio per questa sua efficacia e per il potenziale di coinvolgimento, la pratica dell’occupazione è stata messa sotto attacco dal Governo con il famigerato “Decreto Antirave” nel tentativo di privare i movimenti sociali di uno storico strumento di lotta. Anche solo per poche ore, per pochi giorni o poche settimane, strappare spazi al capitale e farci immaginare nuovi mondi è sempre stato motivo del nostro agire politico.

Tutta questa vicenda evidenzia un salto di qualità repressivo a Monza, dove la Giunta Pilotto ha deciso di sposare le direttive del Governo Meloni: il processo per occupazione è purtroppo solo un tassello nella svolta autoritaria nel governo del territorio cittadino. In questi ultimi 18 mesi abbiamo vissuto la cifra record di 6 sgomberi (via Timavo, via Val D’Ossola, via Verità, via Salvo D’Acquisto, via Boccaccio, via Podgora), con tanto di aperture indagine e nuove denunce, mentre in generale in città il dibattito è schiacciato su posizioni reazionarie, complice la presenza in giunta dell’Assessore alla Sicurezza Ambrogio Moccia, fan delle zone rosse, della videosorveglianza, della retorica contro “maranza” e “baby gang”, del “Regolamento di polizia urbana” che da anni ci vieta di bere una birra su una panchina ai giardinetti.

Nonostante i maldestri tentativi del Sindaco e della sua Giunta di continuare a raccontarsi come amministrazione dialogante e green, i fatti dimostrano che la Monza di Pilotto sarà ricordata soltanto per due cose: da una parte l’attività repressiva, dall’altra l’incalzare rapido nella trasformazione urbanistica della città, con le decine di cantieri che in questi mesi sono stati avviati (o dovranno partire) per la costruzione di nuove residenze e supermercati.

Oggi paghiamo pesantemente l’accelerazione che il Governo ha messo in atto su questo fronte, ma con generosità e rabbia proseguiamo nel nostro percorso.

Tra i numerosi appuntamenti in programma, seguire con attenzione lo sviluppo del processo è un tassello importante.

Grazie a chi finora ci ha supportat3 attivamente nelle decine di iniziative di solidarietà.

Con le radici sempre più salde, ci aspetta la primavera.

Foa Boccaccio 003

* Tra questi 4 imputati c’è anche Maurizio Molla, che ci ha lasciato qualche mese fa e che sarà quindi stralciato dal processo. Scegliamo comunque di citarlo in questo testo per ricordare chi più di tutt3 ha abitato e vissuto ogni giorno lo spazio di Via Timavo insieme a noi.

BARI: DI RIVOLTE, IPM, CPR…IN STRADA(?)

Riceviamo e diffondiamo:

Di rivolte in carcere, IPM, Cpr…in strada(?)

Domenica 9 la quiete della città di Bari è stata squarciata dal coraggio e dalla rabbia di alcuni detenuti del IPM “Fornelli” (Istituto penale per minorenni).

Come sempre i media hanno dato voce solo al sindacato dei controllori che, come dopo ogni rivolta o aggressione, non perde tempo per chiedere più repressione e controllo (come per il carcere di Taranto in cui episodi del genere sono all’ordine del giorno); condizioni più severe per l* rivoltos*, chiedendo l’applicazione del regime di sorveglianza particolare e di mettere in forze le procedure che consentono il trasferimento immediato in sezioni speciali lontane dal territorio d’origine per determinat* detenut*. Entrambe previste nell’ordinamento penitenziario.

Una rivolta ha rotto il silenzio di Bari, città pacificata e gentrificata, vetrina di una zona d’Italia sempre più interessata da investimenti statali ed esteri, capoluogo di una regione succube del turismo e dello sfruttamento del territorio; non a caso scelta come sede dell’ultimo G7.
La nostra è una zona dove i movimenti sociali sembrano dormire da tempo; ma anche se le rivolte non avvengono in strada e a primo impatto la pace regna sovrana, due Cpr, un Hotspot, tre CARA e migliaia di strutture per l’accoglienza, fanno della Puglia terra di frontiera… dove c’è frontiera non esiste pace.

E mentre leghist* e razzist* propagandano che il problema e’ esclusivamente chi cerca speranza nel nostro paese; con undici carceri, un IPM e centinaia di comunità penali per minori, la verità è che la Puglia è terra di reclusione, repressione e sofferenza per tutt* l* oppress*.

Si rivoltano nelle carceri, negli IPM, nei CARA e nei Cpr. E in strada? Quando accoglieremo l’urlo della rabbia collettiva?

Anche a Bari da poco hanno istituito le zone rosse, a Foggia ci sono da Febbraio e sono stati eseguiti già 5 ordini di allontanamento, il messaggio è chiaro, non ci vogliono nelle “loro” città.

Anarchic* in cerca di rivolta.

PERUGIA: RAFFICA DI AVVISI ORALI DELLA QUESTURA NEI CONFRONTI DELLX ANTIFA

Riceviamo e diffondiamo dalla ridente Umbria.

Premessa: il 24 Gennaio 2025, a Perugia, un’adunata (neo)fascista ha potuto avere luogo nella suggestiva cornice della Sala della Vaccara, a un solo muro di distanza dall’aula consiliare di Palazzo dei Priori: motivo del ritrovo, la presentazione di un libro edito da Settimo Sigillo, marchio della Libreria Europa. Vista la dichiarata inettitudine dell’amministrazione Comunale ad impedire il raduno in alcun modo, la protesta è montata spontaneamente e un gruppo di persone si è quindi ritrovato in piazza IV Novembre per esprimere almeno il proprio disgusto e ribadire che iniziative del genere non dovrebbero essere tollerate.

A un mese di distanza, stanno fioccando tra chi ha partecipato alla protesta avvisi orali del Questore. Stante l’insostenibilità di mettere alla sbarra quella che è stata una dimostrazione più che pacifica, la Questura ha deciso di criminalizzare il dissenso ricorrendo al collaudato arbitrio delle misure preventive.

Niente udienza, niente possibilità di difendersi nell’immediato, ma solo a posteriori e con un esoso ricorso. Intanto però si viene marchiat* come elemento “antisociale”.

Nelle notifiche infatti si minaccia apertamente chi ha espresso il proprio antifascismo, con buona pace della finzione di ordinamento costituzionale cui il Questore dovrebbe la sua lealtà. Rivolgendosi direttamente alle persone presenti a quella che è definita “adunata sediziosa” (san codice Rocco, illumina il cammino), si sostiene che queste debbano “cambiare condotta”, e che il loro “stile di vita” potrebbe in futuro portarle a commettere dei reati. Si arriva addirittura a ipotizzare il possibile ricorso a procedure restrittive antimafia.
In ogni caso, e senza alcun elemento a suffragio di tale affermazione, le persone sono definite nelle parole della Questura come “socialmente pericolose”.

Ha pienamente ragione, signor Questore.

È un autentico pericolo per il corpo sociale limitarsi a contestare in poche decine la presenza dei fascisti in città. Non siamo certo orgoglios* di quanto accaduto. Quanto abbiamo fatto è il minimo sindacale, lo riteniamo anzi inadeguato, manchevole, e dunque sì, pericoloso.

A sole 48 ore dalla vigilia del giorno della Memoria, i diretti eredi dei responsabili morali e politici dello sterminio nei campi si sono riuniti in pieno centro città con il tacito assenso dell’amministrazione, la stessa che pochi giorni più tardi si sarebbe riempita la bocca di retorica sulla Shoah. Gli epigoni dei boia genocidi hanno potuto ritrovarsi impunemente, e in tutta calma disquisire della continuità di quella che dicono essere la loro “comunità di destino”. Destino da dominanti, costruito sulle ceneri di chi è reputato inferiore, e che vorrebbero vedersi compiere una volta di più nella storia umana. Inutile cullarsi nell’illusione che questi figuri siano anacronistici, e che sia meglio ignorarli, assumendo la comoda posizione dello struzzo. A una certa, è cosa nota, l’odore di piume bruciate arriva anche nel buco in cui si è cacciata la testa per non vedere.

Siamo quindi pienamente d’accordo con lei, signor Questore, e condividiamo la sua preoccupazione. Che un numero tutto sommato esiguo di persone si sia limitato a stazionare lanciando cori fuori della sala in cui si teneva un incontro dell’estrema destra, difeso peraltro da un ingente dispiegamento di FF. OO., è un autentico e allarmante segnale di pericolo per la società intera.

Ribadiamo, signor Questore, il suo cruccio è anche il nostro. Troppo poch*. E troppo poco (come si dice a Perugia). Consentire la presenza fascista può portare ad essere complici di crimini, non c’è nulla di più vero. Crimini contro l’umanità solitamente, quali deportazioni, torture, stragi e genocidi.

Quanto è successo (e sta succedendo tuttora) a Perugia è di assoluta gravità, ma non rappresenta un caso isolato nel panorama locale: pensiamo a quanto recentemente accaduto alla stazione di Terni a margine della protesta contro il decreto Sicurezza, quando di ritorno al binario un manifestante è stato oggetto di intimidazioni da parte degli agenti, trattenuto e denunciato per il solo motivo di avere con sé una bandiera palestinese (plaudiamo all’apparato repressivo, che si erge a difesa di tutti i progetti genocidari, senza fare distinzioni).

Dell’Umbria si è cianciato come di una regione rossa, ultimamente si preferisce paragonarla a un cuore verde… A noi sembra che dietro questa facciata colorata si celi non da oggi un ventre bruno, gonfio di identitarismo e pulsioni autoritarie, peraltro in linea con quelle che sono le tendenze a livello nazionale e internazionale.

Coscienti del pericolo,

L* antifa

ALCUNI AGGIORNAMENTI DAL LAGER CPR DI GRADISCA D’ISONZO

Diffondiamo:

Riceviamo dall’interno del CPR di Gradisca la notizia che otto prigionieri sono saliti sul tetto e hanno distrutto l’attrezzatura di sorveglianza. Probabilmente si è trattato di un tentativo di evasione: da settimane ormai si moltiplicano i buchi nelle reti delle gabbie e riprendono gli incendi. La polizia, spesso in assetto antisommossa, entra nelle celle nel tentativo di riportare l’ordine, fatto – come sappiamo – di sottomissione, deportazione e annichilimento. E’ successo anche il giorno successivo a questi episodi: numerosi sono stati i pestaggi, impressionanti al punto da sembrare “un film in diretta”, ci è stato detto. Un ragazzo ha provato il salto, si è rotto una gamba ed è stato trasportato in ospedale.

Sono tanti i tasselli di questa macchina imperfetta. Cure negate, per le vendette quotidiane nella gestione del campo. Le deportazioni, spesso con voli charter, in direzione della Nigeria e dell’Egitto, e a ritmi vertiginosi verso la Tunisia. Ma anche le angherie più sottili, l’arbitrio poliziesco: perfino i libri, ora, sono materia da negoziare. Così, alcune guardie di sorveglianza hanno deciso che con loro non sarebbe entrata nemmeno la letteratura: chi è prigioniero deve morire di noia, starsene in gabbia e sottomettersi al regime di tortura che hanno preparato per lui.

Lo stesso regime che ora vorrebbero estendere con l’apertura di altri cinque CPR sul territorio nazionale (è notizia di qualche giorno fa che il Ministero dell’Interno ne sta individuando i siti) e che, alla fine della catena, è disposto anche ad uccidere. Lo abbiamo ricordato di fronte al Tribunale di Gorizia (responsabile di un procedimento farsa per la morte di Vakhtang Enukidze a poche settimane dalla riapertura del lager di Gradisca e dove ha sede, anche, il Giudice di Pace che convalida i trattenimenti): i nomi di Vakhtang, Orgest, Anani, Arshad e prima ancora Majid, morti di stato, sono stati tra i nostri discorsi, insieme a quelli dei senza nome che si ribellano ai dispositivi del razzismo di stato.

Finché i CPR rimarranno aperti, ed anzi se ne costruiranno altri, finché ne esisterà l’idea, noi staremo dalla parte di chi non si piega allo stato razzista. Rimarremo complici e solidali dei rivoltosi e continueremo a far risuonare le loro voci, testimonianze di chi da dentro non smette di accendere fuochi, spaccare telecamere, tagliare reti e scappare.

COMUNICATO SULLA SENTENZA DI APPELLO PER IL PROCESSO CONTRO UN COMPAGNO E UNA COMPAGNA DELL’ASSEMBLEA PERMANENTE CONTRO IL CARCERE E LA REPRESSIONE DI FRIULI E TRIESTE

Comunicato sulla sentenza di appello per il processo ad un compagno e una compagna dell’Assemblea  permanente contro il carcere e la repressione di Friuli e Trieste

Le parole sono importanti

In questo inizio di 2025, vogliamo dare una notizia significativa rispetto ai tempi in cui viviamo.
Ci riferiamo al fatto che lo scorso 25 febbraio la corte d’appello di Trieste ha confermato due condanne per un compagno di Trieste e una compagna di Udine colpevoli di non aver usato mezzi termini nella solidarietà ai rivoluzionari prigionieri e nella lotta contro il carcere. Condannati per delle parole di troppo, insomma.

Il 23 novembre 2019, durante un partecipato corteo per la giornata internazionale contro la violenza maschile sulle donne, nel centro storico di Udine, il compagno prese il microfono e svolse un corposo intervento, per legare molti e diversi argomenti in un unico principio, la solidarietà di oppressi e sfruttate contro il potere e il dominio. In particolare, diede solidarietà a 7 compagni anarchici di Trento e Rovereto, che si trovavano ancora sotto limitazione della libertà e in attesa della sentenza di primo grado (che era prevista per il 5 dicembre 2019) con l’accusa di terrorismo per alcuni attacchi (incendi e danneggiamenti) contro le filiali di Unicredit, una sede trentina della Lega e apparati dell’esercito e di Eni. Affermò che, chiunque avesse fatto quelle azioni, aveva fatto bene, perché colpire responsabili di sfruttamento, guerra e razzismo è giusto e necessario. Noi non abbiamo dimenticato che, a quel punto, alcune componenti della manifestazione abbandonarono platealmente il corteo, prendendone in seguito le distanze, le stesse componenti che oggi ritroviamo opportunisticamente a lamentarsi per il ddl sicurezza. Il 29 dicembre 2019, in un’intervista resa a RadiAzione durante un presidio sotto il carcere di Udine, la compagna denunciò la condizione di abbandono sanitario dei detenuti, facendo il cognome della responsabile dell’area sanitaria del penitenziario, la dottoressa Bravo.
La procura di Udine costruì un pericolante impianto accusatorio contro l’Assemblea a partire proprio da questi due discorsi – dunque semplicemente da parole pronunciate senza mezzi termini – per finire poi a portarli a giudizio rispettivamente per apologia di attacchi a banche e sedi politiche e diffamazione nei confronti del medico. La causa materiale di questa inchiesta era che la nostra attività incrociava e sosteneva lo scoppio delle proteste e la situazione di incipiente rivolta del carcere provinciale friulano, che infatti esplose di lì a poco con l’emergenza sanitaria generale legata al covid-19 nel marzo 2020.
In primo grado, il 1° giugno 2023 (i tempi si sono dilatati anche a causa di una bizantina deviazione per la Corte costituzionale) il tribunale di Udine condannò il compagno a un anno e la compagna a una multa di 3600 euro.
Ora, in appello la sentenza è stata confermata, al netto di una conversione in pena pecuniaria di oltre 14 mila euro per il compagno e una lieve diminuzione della sanzione alla compagna.
Si tratta di una sentenza paradigmatica dei tempi, sopratutto alla luce del decreto sicurezza alle porte, che introduce il reato di “terrorismo della parola”. Il decreto “elmetto-manganello”, come è stato giustamente denominato in virtù della firma del ministro della difesa accanto a quelle dei ministri dell’interno e della giustizia, impone un contesto dove ogni critica al consenso guerrafondaio e ogni presa di posizione in solidarietà con i prigionieri rivoluzionari deve essere colpita. Il messaggio che si vuol far passare è rendere sempre più difficile prendersi la parola in termini sostanziali, strapparla a chi occupa in tutta la sua estensione lo spazio pubblico, dire le cose come stanno. Secondo sbirri e giudici, nessuno deve più osare neanche parlare della necessità di attaccare le banche che fanno credito ai colossi del complesso militare-industriale-energetico, oppure parlare di guerra in termini disfattisti, rivoluzionari e solidali con chi passa all’azione diretta.
Purtroppo per loro, anche per noi le parole sono importanti. Per loro sono penalmente rilevanti, per noi sono rilevanti nel definire la realtà di sfruttamento, oppressione e guerra imperialista che stiamo vivendo e nel sostenere chi osa combatterla. E con questo abbiamo detto tutto. Andremo avanti, nonostante tutto, a chiamare le cose come stanno e a schierarci dalla parte di chi, dalle parole, ha la forza di passare ai fatti.

CREMONA: MANIFESTO CONTRO LA SICUREZZA


Diffondiamo:

L’OMBRA DEL SABBA NELLA ZONA ROSSA

«Così gli uccelli nella loro venuta fanno a pezzi il mondo perché odiano così tanto quel mondo che non li accetta che loro, a loro volta, non accettano altro che la distruzione di quel mondo».
Lee Edelman

Ebbene sì, anche la “pacificatissima” Cremona si tinge di rosso e non si tratta più solo del rosso che già ne intossica i cieli ad ogni colata dell’acciaieria Arvedi, ma della nuova proposta liberticida introdotta con la scusante dello “stop al degrado”. Ma d’altronde queste operazioni da parte di uno Stato sempre di polizia, che hanno già incontrato un’ottima palestra di rodaggio nel periodo della pandemia, in una città vetrina e provinciale come questa non sorprendono, anzi il più delle volte passano inosservate, come se l’addomesticamento fosse la bandiera di una “psicosi collettiva”, che si alimenta nella distrazione di massa.
Eppure qui nella nebbia ci sono teste ancora capaci di sollevarsi, guardare al di là delle sbarre di una prigione a cielo aperto; sono le teste dei reietti, delle pazze, delle escluse, dei recidivi, delle senza casa e dei senza patria, con i loro corpi scomodi per l’ingranaggio sociale e i loro lancinanti stridii
degni di un cupo stormo di corvi e cornacchie, pronte a cagare sulle loro volanti e beccargli dita e pupille.
Sotto la minaccia del daspo urbano si cerca di blindare intere città, appellandosi alla necessità di difesa da un nemico interno purtroppo immaginario e creato su misura dalla propaganda, che di volta in volta prende l’aspetto degli stranieri d’ogni nazione, così come delle sex workers o dei vandali imbrattatori.
Una manovra che pone un altro tassello nel mosaico di merda che chiamano Stato e che ogni giorno amplia la categoria dei deviati e delle degenerate, una categoria che permette immediatamente di identificare i possibili intralciatori del suo progetto, di modo da spazzarli via o inglobarli nella sua logica. Che le indesiderabili si oppongano, ad un mondo a cui si obbedisce senza neanche lo sforzo di dire si, disertare ogni ordine è già pensare un mondo altro e a agire di conseguenza.

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