TORINO: COLPITA LA NEW COOP SRL IN SOLIDARIETÀ ALLE LOTTE CONTRO E DENTRO I CPR

Riceviamo e diffondiamo:

La New coop srl di Torino [via Asiago 67/8] partecipa alla ristrutturazione del CPR di Torino.

Qualche notte fa e’ stata colpita in solidarieta’ alle lotte contro e dentro i CPR, alle recluse e ai reclusi.

Colpire chi collabora alla costruzione dei CPR e’ necessario e possibile.

NO CPR. FUOCO ALLE GALERE.⁩


ENG

To Share:

New coop srl of Turin [via Asiago 67/8] participates in renovating the CPR (detention centre) of Turin.

A few nights ago the company was struck in solidarity with the struggles against and within the CPR and in solidarity with the inmates.

Hitting those who collaborate in the construction of the CPR is necessary and possible.

NO CPR. FIRE TO THE PRISONS.


FR

à partager:

New coop srl de Turin [via Asiago 67/8] participe à la restructuration du CPR/CRA [centre de detention administrative] de Turin.

Il y a quelques nuits la societé a été frappé en solidarité avec les luttes contre et à l’interieur des CPR et en solidarité avec les détenus.

Frapper ceux qui collaborent à la construction des CPR est nécessaire et possible.

PAS DE CPR/CRA. FEU AUX PRISONS.


ARAB

تعاونية جديدة من تورينو [عبر Asiago 67/8] تشارك في إعادة هيكلة CPR في تورينو. قبل بضع ليال تم ضربها تضامنا مع النضالات ضد وداخل CPR ، مع السجناء. إن ضرب أولئك الذين يتعاونون في بناء CPR أمر ضروري وممكن. لا CPR. النار على القوادس.

TORINO: CONTRO LA RIAPERTURA DEL CPR DI CORSO BRUNELLESCHI SANZIONATA UNA SEDE DI CONFAGRICOLTURA

Di seguito condividiamo un volantino distribuito a Torino il 29 luglio, quando una sede di Confagricoltura è stata sanzionata.

IN SOLIDARIETÀ A CHI LOTTA ED È SFRUTTATO NELLE CAMPAGNE, CONTRO LA RIAPERTURA DEL CPR DI CORSO BRUNELLESCHI, PER SATHNAM, IL 29 LUGLIO UNA SEDE DI CONFAGRICOLTURA A TORINO È STATA SANZIONATA.

Il capitalismo neoliberale si nutre dello sfruttamento massiccio –seppur contingentato nel tempo dalle finestre delineate dalle necessità produttive – di un’ampia fetta della popolazione mondiale, identificata attraverso ben precise linee di oppressione grazie a trappole economiche e ricatti sociali. Tale manodopera a bassissimo costo viene di fatto riconvertita – quando superflua, ingombrante nelle zone della produzione agricola – a individuo produttivo nel business legalizzato delle prigioni di ogni tipo e delle deportazioni, funzionali – anch’esse – alla gestione dei lavoratori in termini di sfruttamento totale delle risorse.

Il ricatto del permesso di soggiorno, la clandestinizzazione forzata di una fetta sempre più ampia della popolazione migrante nonché la criminalizzazione di ogni forma di rivendicazione, dissenso o lotta sono alcuni degli strumenti di cui lo Stato si dota per tentare di far galleggiare la malconcia economia italiana, nonché europea. Anche le campagne piemontesi non sfuggono a queste lampanti dinamiche e non sono altro che uno dei tanti luoghi in cui il connubio tra datori di lavoro e organi amministrativi, prefettizi e questurini dettano i tempi della miseria a cui larga parte della popolazione migrante è costretta.
La retorica mediatica criminalizzante delle persone in viaggio senza documenti europei fornisce inoltre le basi ideologiche razziste che legittimano l’assoggettazione estrema, di alcune categorie, all’economia e alla società neo-liberale: nient’altro che la Colonia a queste latitudini.

C’è un materiale di base che struttura i dispositivi che premono sulle vite delle persone migranti: è importante palesarne le connessioni, mostrarle nude sul piatto dei consumatori avvolti nel privilegio di potersi non fare domande.
Sotto il cocente sole estivo, i braccianti che stanno raccogliendo mirtilli, pesche e mele nel distretto della frutta più grande della regione – il saluzzese- sono senza casa e spesso dormono fuori, sotto quotidiano controllo e intimidazioni delle forze dell’ordine. Ad Alba e nelle Langhe del Barolo, i braccianti vengono sgomberati, ricattati e picchiati nei campi. I prodotti d’eccellenza delle benestanti campagne piemontesi sono prodotti ovunque con lo sfruttamento di manodopera immigrata a basso costo, di persone che lavorano senza contratto o con contratti miseri, senza alloggio e trasporti garantiti dai contratti collettivi. E se comuni e regione spendono centinaia di migliaia di euro di fondi pubblici per qualche container per l’”accoglienza diffusa”, le associazioni datoriali, Confindustria e Coldiretti in primis, tacciono le proprie responsabilità. Quando a fine stagione di raccolta questa manodopera spremuta fino all’osso – sempre al limite di morire di lavoro,- diviene inutile, eccedente, traducibile in altre filiere del guadagno privato e statale, intervengono le forze dell’ordine e gli organi amministrativi che zelanti rastrellano strade, accampamenti, ghetti di fortuna, campi e con retate mirate trasferiscono i braccianti in un nuovo abisso: o nuovi ghetti e nuovi distretti agroindustriali da nord a sud o la questura, il CPR, la deportazione.
Questi dispositivi detentivi, espulsivi e torturatori fungono inoltre da perenne monito ai liberi affinché non alzino la testa, non si ribellino al gioco dei padroni o non solidarizzino con chi a queste, o altre latitudini, lotta, resiste e si ribella.

Solo la chiusura del CPR di Torino nel Marzo 2023 ha potuto, forse, regalare un briciolo di aria in più, garantendo un lasso di tempo con meno retate, con meno capienza detentiva amministrativa nel Nord Italia: con più libertà.

Ma i padroni per essere tali han bisogno di prigioni e deportazioni ed ecco che – in tempo per la fine della prossima stagione di raccolta nei campi del cuneese – riaprirà, a inizio Novembre, il CPR di Corso Brunelleschi.

Opporsi alla sua riapertura è possibile. Tracciare i nessi di senso tra lo sfruttamento nei luoghi di lavoro e il ricatto del permesso di soggiorno e della clandestinità, è un passo nella direzione di attaccare al cuore il razzismo sistemico.

La macchina dello sfruttamento, del razzismo, delle espulsioni e delle torture dentro i lager di Stato ha una lunga lista di responsabilità e complicità. I padroni dell’agricoltura, i lobbisti della filiera del cibo, le aziende, cooperative, società per azioni specializzate nel business della detenzione; le istituzioni che trattano le persone che migrano da una parte come corpi per alimentare le varie filiere del guadagno capitalista – dall’agricoltura, ai centri di detenzione e semi-detenzione, alle deportazioni-, dall’altra come un problema d’ordine pubblico, da marginalizzare nascondere e cacciare; i sindacati e le associazioni conniventi che traggono profitto dal mantenimento dello status quo.

Solidarietà a chi lotta nelle campagne, chi distrugge i CPR e chi sfugge alla violenza delle frontiere.

PDF: Le prigioni che servono ai padroni

https://nocprtorino.noblogs.org/post/2024/07/31/le-prigioni-che-servono-ai-padroni/

SUI MOTI IN KENIA E SULLA RIAPERTURA DEL CPR DI CORSO BRUNELLESCHI A TORINO

Condividiamo due approfondimenti andati in onda su Harraga, trasmissione su Radio Blackout. Il primo riguarda i moti in Kenya, il secondo  si concentra sulla riapertura del CPR di Corso Brunelleschi a Torino.

Un racconto sui moti di piazza in atto in Kenya

Se il video delle fiamme che avvolgono la sede del Parlamento del Kenya a Nairobi è – di per certo – stato visto da moltx; meno sono stati i momenti in cui si è riusciti a contestualizzare quell’attacco al cuore del potere dentro una cornice di senso che racconti come ha potuto crescere una consapevolezza talmente chiara, in una larga fetta della popolazione kenyana, tale da non avere dubbi sui propri passi e sui termini delle priorità di lotta.

E’ difficile, a queste latitudini, comprendere i moti di piazza e i gesti materiali di chi, all’altezza dell’equatore attacchi il potere con letture dell’esistente alquanto differenti dalle categorie a cui siamo abituati a riferirci.

Nel tentativo di cogliere la potenza di questo momento abbiamo chiesto, a chi vive le piazze del Kenya, di raccontare ai microfoni di Harraga – trasmissione contro frontiere e CPR in onda su Radio Blackout – cosa sta succedendo.

Le fiamme che si alzano da quegli edifici e il coraggio di chi sfida i proiettili della polizia in Kenya parlano di un bisogno di distruggere sia i resti violenti della Colonia che fu, sia i presenti immanenti della neo-colonia di oggi. Non si possono leggere quei gesti e quella capacità di restare in strada dinanzi alla violenza spietata della controparte, senza parlare del lascito brutale, inoculato e lacerante del passato coloniale e – men che meno – della spietata predazione avida delle potenze neo-coloniali occidentali oggi.

Ancora una volta con le orecchie tese ad ascoltare le parole di chi – oppresso lungo la linea del colore e della classe – in un mondo asfissiante, attacca responsabili, simboli ed esecutori materiali della miseria che viene imposta a larga parte della popolazione mondiale – ai microfoni di Harraga tre vocali direttamente dal Kenya ci raccontano cosa sta succedendo.

Ascolta il podcast qui:

https://nocprtorino.noblogs.org/post/2024/07/23/podcast-di-harraga-un-racconto-sui-moti-di-piazza-in-atto-in-kenya/


Sulla riapertura del CPR di corso Brunelleschi

È passato poco più di un anno da quando l’inverno torinese fu scaldato dal fuoco che portò alla chiusura del CPR di Corso Brunelleschi e ad oggi la riapertura di quel luogo di vessazioni e tortura è imminente.

Dal bando di gara relativo alla gestione e al funzionamento del centro di permanenza e rimpatrio di Torino, consultabile alla sezione amministrazione trasparente del sito della Prefettura sabauda, l’apertura sembra essere prevista per il 1° di Novembre 2024. L’importo stimato dell’appalto è di € 8.517.432,00 relativi a 24 +12 mesi, aggiudicabile, come sempre al ribasso, da quelle aziende che proporranno l’offerta tecnica più vantaggiosa. I lavori di ristrutturazione sono iniziati il 5 Febbraio 2024 e ad ora le aree ultimate o in fase di ultimazione sono 2, l’area rossa e l’area blu, per una capienza di 70 posti. Il bando prevede la possibilità di un ampliamento della capacità detentiva da 70 a 150 posti ossia per una totalità di 4 aree.

In questa puntata di Harraga, in onda su Radio Blackout, abbiamo provato a ripercorrere alcuni passaggi di quelle giornate di lotta del Febbraio 2023 che hanno scosso il capoluogo piemontese, dimezzando la capacità detentiva dei CPR del nord Italia.

Ascolta il podcast qui:

https://nocprtorino.noblogs.org/post/2024/07/23/podcast-di-harraga-sulla-riapertura-del-cpr-di-corso-brunelleschi/

SOLIDARIETÀ DI FRONTE ALLA REPRESSIONE DELLE LOTTE CONTRO I CRA E SOSTEGNO A TUTTE LE PERSONE IMPRIGIONATE

Nell’ambito di un’inchiesta sulle lotte contro la costruzione di centri di detenzione amministrativa (CRA), mercoledì 29 maggio una compagna italiana è stata perquisita e messa sotto custodia dalla polizia. All’uscita dal tribunale, è stata informata che era soggetta a un ordine di rimpatrio (OQTF) per “minaccia all’ordine pubblico” e a un divieto di viaggiare sul territorio francese per 2 anni (ICTF), e che la prefettura chiedeva il suo immediato collocamento in detenzione amministrativa. È stata portata direttamente al centro di detenzione di Mesnil-Amelot, nonostante il giudice istruttore avesse escluso la custodia cautelare.

Durante la detenzione, è stata prima condotta davanti al giudice di pace (JLD), che ha convalidato il suo collocamento nel CRA. L’appello, che ha avuto luogo pochi giorni dopo, ha confermato questa decisione. Infine, è stata rilasciata dal tribunale amministrativo, che ha annullato il suo foglio di via dopo dieci giorni di permanenza nel CRA.

Queste misure sono la continuazione della repressione politica delle lotte contro i CRA, una repressione che è diventata sempre più dura negli ultimi mesi: controlli di identità, arresti durante i presidi di solidarietà, processi, divieti di visita ai CRA. A questo si aggiunge una copertura mediatica montata da giornalisti di estrema destra, e ora assistiamo all’apertura di un’inchiesta, a pratiche di sorveglianza e alla detenzione amministrativa. La prefettura e il Ministero degli Interni non si fermano davanti a nulla, arrivando persino a scavalcare l’indagine giudiziaria in corso per rinchiudere la nostra compagna, nonostante fosse stata rilasciata dopo il fermo di polizia.

Questa pratica di “doppia pena” (giustizia penale + amministrativa) da parte della prefettura è ben nota e riflette le testimonianze delle persone del CRA. Non appena vengono rilasciate dal carcere o anche dalla custodia della polizia, e senza essere prevenute, vengono direttamente rinchiuse nel CRA per ordine della prefettura e, se la procedura va a buon fine, espulse. Questa è l’ossessione di Darmanin, il ministro degli interni francese, e della sua ultima legge, che conferma il naufragio securitario e razzista in corso costruendo la figura dello “straniero delinquente”. Rinchiudere della nostra compagna nel CRA è un buon esempio di una delle principali linee guida della legge di Darmanin: rendere più facile la revoca del permesso di soggiorno, l’emissione di OQTF, la detenzione e l’espulsione di persone con la motivazione vaga, completamente arbitraria e altamente politica della “minaccia all’ordine pubblico”.

Ma non si tratta di una tendenza completamente nuova. Questa motivazione viene usata sistematicamente contro alcuni gruppi di persone europee o con documenti europei. Il semplice fermo di polizia per motivi banali come oltraggio e resistenza può rientrare in questi quadri giuridici vaghi, anche senza che si arrivi a una condanna. I centri di detenzione sono pieni di cittadinx rumenx e bulgarx che ogni settimana vengono deportati nei loro paesi d’origine. La cosiddetta libertà di circolazione nell’area Schengen esiste solo se hai i soldi, se sei abbastanza biancx e se non dai fastidio agli sbirri e a quelli che vengono protetti dagli sbirri.

Negli ultimi anni, la detenzione amministrativa è diventata anche uno strumento di repressione contro gli e le militanti stranierx, europex e non. Ecco alcuni esempi: nel 2016, tre compagne italiane sono state arrestate durante una manifestazione a Calais e messi nel CRA; stessa storia nel 2019, per due compagni italiani arrestati durante presidio fuori dal CRA di Vincennes, ai quali sarà vietato l’ingresso in Francia per 2 anni; qualche mese dopo, un altro compagno italiano è stato rinchiuso nel centro di detenzione di Vincennes per un mese, nell’ambito del movimento dei Gilets Jaunes; più recentemente, nel maggio 2023, una compagna tedesca è stato rinchiusa nel centro di detenzione di Mesnil-Amelot dopo essere stata arrestata durante la manifestazione del Primo Maggio; nel giugno 2023, cinque compagnx antifascistx sono statx anch’essx rinchiusx nel centro di detenzione di Mesnil-Amelot e di Vincennes, usciranno anche loro con dei divieti di accesso al territorio francese (qui un approfondimento).

Dall’inizio delle mobilitazioni per la Palestina e contro il genocidio sionista, questa pratica sembra essere diventata ancora più comune. Nell’ottobre 2023, l’attivista palestinese Mariam Abu Daqqa è stata arrestata a Marsiglia, rinchiusa nel CRA ed espulsa con divieto di ingresso, sempre per “disturbo dell’ordine pubblico”. Molte altre persone sono state arrestate durante le prime settimane del movimento e rinchiuse nel CRA (qui un comunicato al riguardo).

Se lo Stato francese, e in particolare il governo Macron, si è distinto per questo tipo di misure repressive, non è certo il solo in Europa. Per fare un esempio recente: nel maggio di quest’anno, dei e delle compagnx hanno tentato di occupare l’università di Atene, in Grecia, in solidarietà con la resistenza dei palestinesi e contro lo sterminio della popolazione di Gaza. Delle 26 persone arrestate, le 9 che non avevano documenti greci sono state messe nel centro di detenzione di Amygdaleza, dove sono rimaste per una decina di giorni prima di uscire con un foglio di via. Una dinamica simile è in atto in Italia, dove oltre ai centri di detenzione, lo Stato sta ricorrendo anche alle prigioni : da diversi mesi sono detenuti con l’accusa di terrorismo 3 palestinesi per il loro sostegno alla resistenza, uno dei quali è stato inizialmente minacciato di estradizione verso le prigioni israeliane.

Questo elenco è tutt’altro che esaustivo: possiamo solo immaginare quantx militanti stranierx, con o senza documenti, con ile quali non avevamo alcun legame, sono statx repressx ed espulsx dalla Francia (e dagli altri paesi europei) a causa delle lotte che conducevano…

In questo contesto repressivo, c’è una specificità nel caso della compagna italiana arrestata a Parigi : la detenzione amministrativa accompagna un’indagine, ancora in corso, che vuole colpire la lotta contro i CRA e chi collabora alla macchina della detenzione e dell’espulsione. Non possiamo che essere solidali con lei e con tutte le persone rinchiuse nei centri di detenzione, con tutte le persone colpite dal razzismo di Stato e con tutte e tutti coloro che, in vari modi, lottano e attaccano il funzionamento di una vera e propria industria dell’ingabbiamento e dell’espulsione.

Che brucino i centri di detenzione e le prigioni !

(qui la versione originale del testo )

I TENTACOLI DELLA DETENZIONE TRA GUERRE E COLONIALISMI. NOTE DA UN SUD, TRA SCILLA E CARIDDI

Diffondiamo da Sicilia Noborder:

“Il nemico è potenzialmente chiunque”

Sabato 18 maggio, in occasione del corteo a Villa San Giovanni contro il progetto di costruzione del ponte sullo Stretto, sono apparsi degli striscioni in sostegno alla resistenza del popolo palestinese; in solidarietà ad un gruppo di compagnx in detenzione amministrativa in Grecia, inflitta a seguito dell’occupazione dell’Università di Atene in sostegno alla lotta di liberazione palestinese; ed infine, uno che chiama in causa le responsabilità di ‘Medihospes’, gestrice dell’hotspot di Messina, nelle colonie penali che il governo italiano ha iniziato a costruire in Albania. È infatti impossibile scollegare tra loro detenzione, invasione militare e costruzione di infrastrutture e ‘grandi opere’. 

Come siano intrinsecamente collegati tali dispositivi e collaborino tra loro nell’espansione delle ‘frontiere del capitale’ risulta evidente dal manifestarsi dei più ovvi interessi economici che si malcelano dietro azioni repressive e d’invasione. Infatti, esternalizzazione delle frontiere, localizzazione forzata di persone e presenza di presidi militari a diverse latitudini non sono altro che la manifestazione più materiale dell’alito cancerogeno di sua maestà il capitalismo, cui metastasi sono anche lo Stato e il braccio armato da questo costituito al fine di mantenerne in forze il potere esecutivo. 

Le politiche di morte e colonialismo che il progetto ponte prospetta e rappresenta non riguardano soltanto i territori dello Stretto. Non ci si può, infatti, soffermare solo sulla realizzazione del manufatto, ma bisogna anche tenere bene a mente le prospettive di guerra attraverso le quali si giustifica la costruzione dello stesso (“interesse militare”). Risulta sempre più evidente che l’estrazione di valore ad ogni costo non desideri incontrare opposizioni; arrogandosi la detenzione del ‘vero’ e del ‘giusto’, la loro tecnica vuole imporre un nuovo modo di concepirsi, un nuovo modo di viversi e di pensarsi. Tutti volti alla totale sottomissione a quello che viene definito come ‘interesse pubblico’, che è in realtà la chiara visione di chi concepisce lo spazio come qualcosa da conquistare e le persone come macchine o scarti di cui disporre a propria volontà. Basti pensare a tutta la scia di sangue che le società che oggi costituiscono ‘WeBuild’, hanno sparso e continuano a spargere da decenni dall’Africa all’America Latina. Dove le mega-opere, di carattere prevalentemente idro-elettrico, delle quali la società vanta la costruzione nel suo curriculum, hanno dapprima  cacciato, volenti o nolenti, persone che da generazioni abitavano quei luoghi; e, immediatamente dalla messa in opera di queste infrastrutture, compromesso l’habitat rendendolo inabitabile ad ogni sorta di essere vivente. 

Cantierizzazioni, cemento a tutto spiano, contaminazione delle acque, deviazione dei flussi idrici e ogni altra sorta di devastazione sono stati tutti garantiti e protetti dal fucile di eserciti, polizie e contractors; e da emendamenti e leggi dei governi di quelle nazioni che svendevano terre e persone a questo mostro vorace. Allo stesso modo, manganellate, lacrimogeni e processi fanno da macete nei sentieri impervi della conquista targata TAV o TAC; come anche centri di detenzione, colonie penali e motovedette fungono da ripulisti e messa a guadagno di persone altrimenti nemiche del loro ‘status quo’, dei loro confini, delle loro barriere. A guardarci bene il modello che si replica è sempre lo stesso, un concatemento d’azioni sull’esistente e sulle esistenze tutto volto al guadagno, che nel suo porsi in atto produce e riproduce repressione, morte e devastazione apparentemente irreversibile. 

Non ci si poteva certo immaginare che esistesse legge prodotta da un qualunque Stato in difesa degli espropriati; ad essere tutelato, infatti, è sempre l’espropriante. Ma questo la gente lo sa, nonostante ancora la mano tremolante mendichi talvolta tutela da parte del proprio boia, molte esistenze si ribellano, si rivoltano. Lo dimostrano le strade delle città nel mondo, lo dimostrano le colonne di fumo nero che si ergono dai centri di permanenza per il rimpatrio, lo dimostrano le università occupate, le rivolte nelle galere, le frontiere violate, lo dimostra ogni sguardo incendiario, ogni nuova affinità insorgente.  

Vecchi e nuovi orizzonti detentivi #1 I Cpr e la Palestina

Colonialismo e guerre diffuse sono il trait d’union di un presente mortifero che ci vogliono imporre dalla Palestina allo Stretto, passando per la Grecia e l’Albania. E chiunque voglia opporsi o anche solo dissenta a queste guerre esterne, chiunque metta in discussione la stabilità degli Stati in guerra e delle loro frontiere, diventa immediatamente un nemico interno da reprimere e criminalizzare. Sempre più diffuse e comuni sono infatti misure cautelari e di incarcerazione che erogano a cuor leggero i PM della nostra ‘cara’ repubblica italiana. Ed è in questo scenario che la detenzione amministrativa sta diventando uno strumento man mano più centrale di repressione, flessibile, immediato, veloce. Rivelando così, anche nella “democratica” Europa, la funzione che ha sempre avuto, sin dalla sua comparsa come strumento del dominio coloniale oltre un secolo fa. Strumento repressivo e genocida infatti, la detenzione amministrativa lo è sempre stata, sin da quando a essere confinate erano le popolazioni ancestrali degli odierni Stati Uniti, i contadini insorti contro il dominio coloniale spagnolo a Cuba, il popolo Herero sterminato dai coloni tedeschi nell’odierna Namibia. Questo elenco insanguinato potrebbe continuare.

Riportando lo sguardo al nostro presente, alcuni episodi di questi ultimi mesi indicano la direzione, in Italia e in tutto l’Occidente, dentro e fuori l’Unione Europea. A ottobre, pochi giorni dopo il sette, Mariam Abu Daqqa, storica leader del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, è stata fermata dalle forze di polizia a Marsiglia dove si trovava per una conferenza. Le è stata notificato un decreto d’espulsione dal territorio francese, in quanto considerata soggetto pericoloso capace di causare “gravi problemi di ordine pubblico” ed è stata così rinchiusa in un CRA e poi deportata in Egitto. Sulla stessa linea, in Italia, a Febbraio, Seif Bensouibat è stato licenziato dal liceo di Roma dove insegnava. Dopo aver espresso in chat di colleghi il suo sostegno alla resistenza del popolo palestinese, la sua abitazione è stata perquisita dagli agenti della DIGOS, atto giustificato con il pretesto del sospetto di “terrorismo”. Qualche giorno fa, poi, dopo aver organizzato un presidio insieme ad altrx fuori dall’istituto superiore che lo aveva licenziato, Seif è stato raggiunto da un provvedimento di espulsione a seguito della revoca dello status di rifugiato ed è stato così tradotto nel CPR di Ponte Galeria a Roma (da cui per ora è stato rilasciato). Negli stessi giorni della detenzione di Seif, ad Atene l’Università di Economia, occupata in sostegno alla resistenza del popolo palestinese, è stata sgomberata e 28 persone sono state arrestate. Tra lx arrestatx nove, di cittadinanza europea, sono state recluse in regime di detenzione amministrativa nel centro di Amygdaleza, uno dei più letali della Grecia, con la minaccia di deportazione. Qualche mese fa, poi, la macchina della deportazione ha colpito Jamal, un compagno di Torino che da tempo si organizza contro frontiere e galere. 

Nonostante evidenti differenze sulla linea del colore, la detenzione sta però chiaramente espandendo la sua funzione di soffocamento del dissenso nell’attuale congiuntura di guerra, consolidandosi come uno strumento di repressione interna adattabile e pronto all’uso, mentre il dissenso viene sempre più connotato come terrorismo (come nel caso del sanzionamento della sede di Palermo della Leonardo spa qualificato come atto terroristico). 

D’altronde il dispositivo della detenzione amministrativa trova parte delle sue origini storiche nella catastrofe della costituzione dello stato d’Israele, dove viene sistematicamente usata per tentare di disinnescare la resistenza palestinese. 

In Italia, soprattutto al Sud, i CPR hanno sempre asservito il compito di reprimere chi, soprattutto nelle campagne, si organizza e si oppone allo sfruttamento dell’agro-industria; inoltre, da anni contribuiscono alla repressione di chi si mobilita nei diversi settori della logistica contro quelle forme di schiavitù salariata che, data per scontata dai datori di lavoro, varia di intensità in base al gradiente del colore della pelle della persona sfruttata. I Cpr facilitano anche la speculazione che divora i centri storici delle città siciliane, come a Catania e Palermo. Qui, la turistificazione che incontra la lotta al degrado usa le retate e la conseguente detenzione amministrativa per eliminare dallo spazio urbano chi, razzializzatx, si ostina ad esercitare attività di sussistenza informali, sempre più criminalizzate.

La colonia, terra di frontiera, di saccheggio e gerarchizzazione feroce delle vite, è interamente attraversata da caserme, presidi militari e luoghi di detenzione. La Sicilia, per esempio, svolge le funzioni di una vera e propria piattaforma penale, dove l’industria carceraria e più in generale di detenzione prolifera ininterrottamente; solo nell’isola, infatti, vi sono 23 istituti detentivi e 2 CPR (più il CPRI di Pozzallo), 5 hotspots. Crediamo che tanto nelle sue funzioni di “controllo sociale”, quanto in quelle più espressamente deportative, il CPR mira a punire chi con le proprie azioni e il proprio corpo “indesiderato” mette in crisi la sovranità dello Stato, delle sue leggi, delle sue frontiere e delle sue guerre. D’altronde in questi quasi trent’anni di detenzione in Italia, i CPR sono stati attraversati particolarmente da quelle soggettività che più di tutte rappresentano un’eccedenza rispetto all’ordine ed al decoro della società ‘civile’ (spacciatori, criminali, sex workers, senza tetto, rumorosi, clandestini, e via dicendo). Merce perfetta per il mercato punitivo. Un sistema, quello dei CPR, che funziona in perfetta sintonia con quello delle carceri. In particolare in questi giorni, un pensiero non può che andare a tutte le persone rinchiuse nelle patrie galere perché palestinesi (come Ali, Anan e Mansour, rinchiusi con l’accusa di associazione terroristica e deportabili in Israele) o perché accusate di scafismo, ed in particolare a Maysoon Majidi, una donna curdo-iraniana che ha preso parte alle rivolte delle donne in Iran e che ora si trova nel carcere di Castrovillari, dove ha iniziato uno sciopero della fame, ed a Marjan Jamali, donna iraniana rinchiusa nel carcere di Reggio Calabria con le stesse accuse.

Vecchi e nuovi orizzonti detentivi #2 Il Cpr in Albania

Da 25 anni, però, “criminali” ed “eccedenti” distruggono e devastano i centri di detenzione in tutta Europa, e il loro coraggio è la principale forza che ne mette in discussione l’esistenza. E così, in questi giorni, dal centro di Amygadelza 8 compagnx sono uscite, ma la nona è ancora rinchiusa lì dentro, in sciopero della fame assieme alle persone razzializzate che da giorni hanno dato vita ad una serie di proteste. Così è proprio da lì dentro che ci suggeriscono una modalità possibile di opposizione e rivolta a questo sistema detentivo così intrinsicamente coloniale. 

A gennaio la rivolta al Cpr di Trapani non solo ha distrutto il 90% della struttura, ma, a seguito dei trasferimenti negli altri Cpr d’Italia, ha innescato una nuova serie di rivolte a Caltanissetta, a Roma (dopo la morte di Ousmane Sylla) e a Gradisca. Incendi, rivolte, fughe. I centri di detenzione in Italia oggi operano a capienza drasticamente ridotta (si parla di 50% dei posti resi inagibili), oppure chiudono, come successo a Torino, grazie al coraggio di chi li dentro vi è stato recluso. 

Ed è in questo contesto, che si staglia all’orizzonte la costruzione di nuovi Cpr in Albania. Il piano prevede un hotspot al porto di Shengjin, piccola città in via di turistificazione sulla costa, cinto da mura di quattro metri “per non far vedere cosa succede all’interno” e con tanto di ufficio di Frontex annesso; un centro di prima accoglienza e un Cpr a Gjader, nell’entroterra del paese, nell’area di un ex base militare. Qui sarebbe anche previsto un carcere da 20 posti, per chi oserà ribellarsi. Il tutto sotto la giurisdizione italiana. Italiane sono anche le imprese che stanno guadagnando dalla costruzione di questi centri. I lavori per i prefabbricati di Gjader sono stati affidati alla Ri Group di Lecce, azienda edile che da decenni sparge in giro per il mondo compound e altre strutture per diversi eserciti europei.

Come sempre, lo Stato è protagonista di questa azione tentacolare, imponendo la propria sovranità su un territorio oltre confine; complice delle atrocità commesse da quei secondini, che sono gli enti gestori, aziende senza scrupolo dedite all’accumulo di denaro al costo della vita delle persone. Ad assisterli ci sarà personale di polizia e militare italiano, a differenza di altri lager, come quelli libici, in cui lo Stato italiano ha deciso di versare milioni di euro, in Albania anche i manganelli canteranno l’inno di Mameli. Medihospes, cooperativa di assistenza sociale e sanitaria con sede a Roma, che gestisce l’Hotspot di Messina (oltre a centri d’accoglienza, RSA e altri servizi dell’economia della cura), avrebbe vinto il bando per la gestione del CPR in Albania. Gli “”operatori” di Medihospes saranno inviati per imprigionare uomini e donne nelle moderne colonie penali d’Italia. Giurisdizione italiana, sbirri italiani. Ci finiranno le persone provenienti dai cosiddetti paesi sicuri, la cui lista è appena stata allargata: Albania, Algeria, Costa d’Avorio, Camerun, Egitto, Gambia, Ghana, Marocco, Nigeria, Senegal, Tunisia, Bangladesh e altri paesi dell’area balcanica. Più che paesi sicuri, ci sembrano i paesi di origine di nutrite comunità presenti sul suolo italiano, criminalizzate e spesso refrattarie a farsi assorbire in logiche integrazioniste. 

L’esternalizzazione della frontiera europea è in atto da decenni: i muri spinati attorno a Ceuta e Melilla, l’esportazione di biometria e tecnologie di sorveglianza, la cooperazione con le guardie costiere libiche e tunisine, i tentativi di installare avamposti stabili di Frontex nei paesi africani. Le ragioni dell’esternalizzazione sono sicuramente molteplici: tenere lontane le persone dalla ricca Europa, ridurre le loro “tutele legali”, ma allo stesso tempo disciplinare i cosiddetti “paesi terzi” sotto il giogo neocoloniale dei piani di sviluppo, o di un possibile ingresso nell’Unione Europea. Questo è il caso dell’Albania, ma anche quello della Tunisia e, più di recente, dell’Egitto, o quello che si sta cercando di imporre a diversi paesi africani con il nuovo Piano Mattei. Continuare a imporre i tentacoli coloniali della decadente europa, cercare di fermare, in una maniera che non potrà che essere fallimentare, la voglia delle persone di venire a riprendersi ricchezza in quel continente che da secoli impone sulle vite loro e delle loro genealogie sfruttamento, distruzione e asservimento. È questo l’infame ma disperato tentativo italiano e occidentale.

Crediamo, infatti, che alla base di questi più recenti sviluppi (dagli accordi tra Regno Unito e Rwanda fino a quello tra Italia e Albania) ci sia soprattutto la volontà da parte di chi governa di spezzare le catene della rivolta e della solidarietà che si sono date in questi venti e passa anni tra il dentro e il fuori, che rende sempre più difficile tenere aperti i Cpr sul suolo “sovrano”. A maggior ragione in un momento in cui le strade delle città si riempiono di cortei determinati a condannare l’invasione genocida condotta dallo Stato d’Israele ai danni del popolo palestinese. Cortei, ma anche altri momenti di aperta contestazione, che vedono una sempre più nutrita partecipazione di persone arabe, di seconda generazione, figlie di migranti e magari anche persone che hanno in prima persona conosciuto le barbarie della detenzione amministrativa. Nelle piazze, nelle occupazioni, finanche in semplici discussioni ci si rende sempre più conto del ruolo coloniale dello Stato, lo si fa sempre di più attraverso gli occhi, le parole e le azioni di chi quelle frontiere assassine le ha sfidate e continua a farlo ognigiorno.

Esternalizzare non solo l’apparato poliziesco militare che cerca di impedire il movimento, ma anche i centri di detenzione e deportazione per coloro che in qualche modo sono riuscitx a varcarle le frontiere dell’Europa, è dunque un ulteriore tentativo di indebolire la forza della solidarietà, un tentativo di isolare ancora di più le persone recluse, un tentativo la cui efficacia è ancora tutta da dimostrare. Come se le persone albanesi non esistano, non si opporranno a questa invasione militare pacificata sulla loro terra, non mostrano e non mostreranno solidarietà con le persone recluse (che potrebbero essere loro connazionali, tra l’altro) e contro l’Europa fortezza. Come se queste reti non siano già qua, tra Albania e Italia.

Credono di rompere un tessuto di rapporti tra persone che co-spirano, ossia respirano insieme immaginando mondi con una potenza di cui la realtà burocratica di Stati, nazioni, partiti ha paura. Vedranno rafforzarsi connessioni tra dentro e fuori, tra più sponde del Mediterraneo. 

Orizzonti di guerra

Il ponte sullo Stretto, come anche la costruzione del CPR in Albania, rappresentano la stessa logica d’invasione e repressione che caratterizza sin dagli albori della ‘modernità’ coloniale il pivot di ogni nazione. Conquista di corpi e territori ed estrazione di profitto: nelle galere e CPR, con l’industria detentiva; nei territori martoriati da trivelle e seppelliti dal cemento; nella terra devastata da pale eoliche e pannelli solari; nei non-luoghi della produzione; nelle città e nelle coste dove il turismo distrugge la biosfera ed espelle glx abitanti. La guerra totale che ci stanno imponendo si alimenta con quanto si lascia avvenire in questa nazione: le industrie belliche italiane fanno profitto sul genocidio in Palestina, sui massacri in Sud sudan e nelle altre guerre che i media nascondono; la marina militare italiana interviene in Yemen; il ponte sullo stretto viene salutato dalla Nato che potrebbe così meglio collegare le sue basi militari; la ricerca pubblica finanzia l’affinamento degli strumenti di morte di Frontex e Israele. 

Le ossessive attenzioni nel contrastare le voci di dissenso che si fanno sempre più presenti in giro per il suolo nazionale confermano che la repressione può colpire chiunque e che le distinzioni sono anche distraenti, dannose. Siamo tuttx chiamatx a difenderci dall’esistenza dei confini. Lx compagnx europee che sono state rinchiuse in un CPR greco sono ora marchiate come pericolose sul database SIS di schengen, proprio come avviene per le persone non europee che vengono trovate a varcare o rivarcare i confini esterni e interni dell’Europa. Chi esprime contrarietà alla guerra può ritrovarsi deportatx. Non possiamo dunque considerare l’esistenza di una linea di demarcazione chiara, una netta separazione tra ‘zone di guerra’ e ‘zone di pace’; non possiamo considerare che esistano luoghi veramente esenti dall’agire repressivo di Stato e capitale. Questo, se anche mai sia stato vero, oggi lo è meno che mai. Le formule della repressione vengono apprese da altri Stati ed a sua volta importati all’interno del confine giurisdizionale di altri Stati ancora, questo lo conferma l’apprendistato che il mondo Occidentale fa nell’osservare le formule detentive e coercitive messe in opera dallo Stato sionista, tra le altre cose. 

Imprigionare i e le palestinesi, chi si oppone al genocidio e supporta la resistenza è un tentativo di reprimere la forza della solidarietà tra gli oppressi. Esternalizzare, alla stessa maniera, è un tentativo di rompere le maglie della solidarietà tra gli oppressi. Ma come già abbiamo avuto modo di scrivere, questo tentativo di cristallizzare le resistenze, di frammentarle e disseminarle trova la conferma della sua tendenziale inefficenza nei continui momenti di vicinanza e solidarietà allx prigionierx in ogni luogo del mondo. Ogni incarcerazione accresce la determinazione nell’affrontare questa macchina repressiva, che deporta ed uccide. 

A questo scenario di guerra dobbiamo continuare ad opporci, a noi il compito di mobilitarci contro tutti i padroni nei nostri territori, a partire dai CPR e chi li gestisce, qui e altrove. Le nemiche di questo regno della definizione gerarchica sono ovunque, i nemici del loro pallido sopravvivere si annidano anch’essi ovunque. La ruggine si è già insinuata negli ingranaggi della loro macchina di tortura.

Lottare al fianco del popolo palestinese è lottare anche per la nostra stessa liberazione! 

“Coloro che, quand’anche la libertà fosse interamente persa e bandita da questo mondo, se la figurano e la sentono nel proprio spirito, e l’assaporano e che la servitù disgusta, per quanto bene la s’acconci”– E. La Boétie

Approfondimenti:

– Sul progetto del Ponte: https://nopassaran.noblogs.org/2024/05/cemento-mori/

– Sulle detenzioni in chiave anti-palestinese: https://radioblackout.org/2024/05/prigionieri-per-reati-dopinione/

– Su altri usi della detenzione amministrativa in UE: https://lavampa.noblogs.org/post/2024/05/25/breve-aggiornamento-dalla-grecia-e-riflessioni-a-margine/

– Su altri usi della detenzione amministrativa in Francia: https://www.monitor-italia.it/prevenire-e-punire-altri-usi-della-detenzione-amministrativa/

– Sui Cpr in Albania: https://radioblackout.org/2024/02/arriva-il-via-libera-per-i-cpr-italiani-in-albania/

https://nocprtorino.noblogs.org/post/2024/04/30/podcast-da-harraga-accordo-italia-albania-fra-stratificazione-coloniale-e-devozione/

–  Comunicato della compagna in sciopero della fame nel CPR in Grecia: https://www.rivoluzioneanarchica.it/grecia-sciopero-della-fame-per-la-palestina-nel-centro-di-detenzione-di-amygdaleza/

EVASIONE DAL CPR DI GRADISCA D’ISONZO

Da Hurriya info:

Ieri notte riuscita evasione dal CPR di Gradisca d’Isonzo: tre persone sono riuscite a riguadagnarsi la libertà mentre una è rimasta ferita nel tentativo e si trova ora ricoverata in ospedale a Trieste.

https://www.triesteprima.it/cronaca/fuga-cpr-gradisca-uno-cade-finisce-a-cattinara.html

Contro tutte le prigioni,
scioperi, rivolte ed evasioni!

OLTRE QUELLA MURA: A FIANCO DEI RECLUSI DI GRADISCA D’ISONZO, DI JAMAL, DEI COMPAGNI/E ARRESTATI/E A MALPENSA

Diffondiamo un comunicato di solidarietà ai reclusi di Gradisca d’Isonzo, a Jamal e ai compagni/e arrestati a Malpensa.

OLTRE QUELLE MURA: a fianco dei reclusi di Gradisca, di Jamal, dei compagni/e arrestati/e a Malpensa

Il pomeriggio del 24 marzo siamo stati/e sotto le mura del Cpr di Gradisca d’Isonzo per far arrivare la nostra solidarietà ai reclusi in un centro che da mesi vede succedersi continuamente rivolte, atti di ribellione, tentativi di evasione e fortunatamente anche molte fughe riuscite.

Se la zona più vicina all’accesso, quella dalla quale normalmente era più facile udire le voci dei prigionieri, questa volta è rimasta completamente silenziosa, poco dopo esserci spostati/e sul retro ci è arrivata distintamente per molti minuti la rabbiosa risposta dei reclusi in quell’ala, con urla e battiture, prima che anche queste venissero ridotte al silenzio. Nel campo di Gradisca, dalla sua riapertura alla fine del 2019, sono morte da quel che si sa 4 persone: Vakhtang Enukidze, Orgest Turia, Anani Ezzedine e Arshad Jahangir. La sua gestione è ancora in mano alla cricca di aguzzini preferita della prefettura di Gorizia, e cioè la cooperativa Ekene di Battaglia Terme (Padova), il cui capo Simone Borile è finito rinviato a giudizio per “omicidio colposo” per la morte nel gennaio 2020 di Vakhtang Enukidze, in realtà ucciso di botte dalle guardie.

La deportazione di Jamal, imprigionato per alcuni giorni a Gradisca prima di essere deportato in Marocco – come tutte le deportazioni che avvengono ogni settimana – non spengono la lotta, ma semmai le donano ancora più forza, nella spinta a far sì che tutti i lager di Stato vengano distrutti. Le lotte presenti e passate, non solo contro i campi di deportazione, ci dicono che la solidarietà e il supporto alle rivolte è tanto doverosa e necessaria quanto l’attacco diretto ai responsabili e ai complici – persone, aziende, enti, istituzioni – dell’esistenza di questi luoghi, coloro il cui operato ne rende concreto e possibile il funzionamento. Ci sono e ci saranno momenti di angoscia e scoramento, ma le continue evasioni, le continue azioni di rivolta e distruzione interne ai campi, l’azione determinata e coraggiosa dei reclusi che hanno chiuso il Cpr di Torino, dei compagni/e che a Malpensa hanno bloccato la deportazione in atto e di quelli/e che a Caltanissetta si sono messi di traverso, ci dicono che “la macchina delle espulsioni vorrebbe sembrare, ed essere mostrata, come un’inattaccabile fortezza costruita sulle fondamenta del razzismo” ma che a volte “basta poco a tirare giù il muro disumanizzante che silenzia la violenza e avvalla l’inaccettabile”.

Ci uniamo ancora alle parole seguite agli arresti del 20 marzo, “tutto ciò che è successo a Torino e a Malpensa è potenzialmente replicabile e riproducibile. La lotta contro la macchina delle espulsioni e la detenzione amministrativa è possibile ed è reale nei suoi obbiettivi e nelle sue prospettive. Sappiamo che alla repressione si risponde con la lotta come ci insegna la resistenza palestinese tutti i giorni”.

La nostra solidarietà va a tutti/e i/le reclusi/e, a Jamal che oggi si trova in Marocco, a Josto, Ele, Miri, Peppe, a tutti/e i compagni/e prigionieri/e e in ogni modo privati della loro libertà

FUOCO AI CPR

FUOCO A TUTTE LE GALERE

TUTTI LIBERI, TUTTE LIBERE

compagne e compagni

Da: https://nofrontierefvg.noblogs.org/post/2024/03/27/oltre-quelle-mura-a-fianco-dei-reclusi-di-gradisca-di-jamal-dei-compagni-e-arrestati-e-a-malpensa/

 

AGGIORNAMENTI SUI FATTI DI MALPENSA

Diffondiamo:

Mercoledì 20 Marzo si è venuti a conoscenza dell’imminente deportazione di Jamal, compagno torinese trattenuto nel CPR di Gradisca d’Isonzo. Appena ricevuta la notizia alcuni compagni e compagne si sono mossi verso l’aeroporto di Milano Malpensa dove i solidali sono riusciti ad accedere alle piste e mettersi davanti all’aereo della Royal Air Maroc diretto a Casablanca, bloccandolo e ritardando la partenza del volo. Si è scoperto in seguito che Jamal era stato portato all’aeroporto di Bologna e da lì deportato in Marocco. Sull’aereo bloccato a Malpensa era comunque presente una persona la cui espulsione è stata probabilmente impedita grazie al blocco dell’aereo e al successivo rifiuto del pilota di eseguire la deportazione.
I compagn sono stat trattenut fino a tarda serata; una compagna è stata poi rilasciata con la denuncia di interruzione di pubblico servizio, gli altri si trovano invece in carcere in attesa della convalida di arresto e sono accusati di resistenza a pubblico ufficiale, interruzione di pubblico servizio e attentato alla sicurezza dei trasporti.
Di fronte alla violenza sistemica della macchina di gestione ed espulsione di persone senza documenti europei, questi momenti di coraggio e determinazione ci ricordano che non è tutto inevitabile e che inceppare il meccanismo è possibile. Se l’obiettivo statale è la normalizzazione delle pratiche di espulsione, l’isolamento e il silenziamento delle proteste e delle rivolte che infiammano i centri di detenzione dal canto nostro non lasceremo solo chi si oppone a ciò  dentro come fuori.

Bloccare le deportazioni è possibile, scendere sulle piste degli aeroporti ancora di più!
Peppe, Josto, Miriam, Elena liberi
Libertà per tutti e tutte!

Per scrivere ai compagni:
Giuseppe Cannizzo
C.C di Busto Arsizio
via Cassano Magnago 102
Busto Arsizio (VA) 21052

Josto Jaris Marino
C.C di Busto Arsizio
via Cassano Magnago 102
Busto Arsizio (VA) 21052

Per scrivere alle compagne:
Elena Micarelli,
C. C. Francesco di Cataldo (San Vittore)
piazza Gaetano Filangieri 2
Milano 20123

Miriam Samite
C. C. Francesco di Cataldo (San Vittore)
piazza Gaetano Filangieri 2
Milano 20123

BOLZANO: ABBATTERE LE FRONTIERE DAL BRENNERO ALLA PALESTINA – CORTEO

Manifestazione “From Gaza to Brennero smash the borders”

3 marzo 2024, ore 14.30

Via Museo/Cassa di Risparmio (Bolzano)

Diffondiamo:

Mentre viene trasmesso in diretta televisiva l´orrore del genocidio del popolo palestinese, il prossimo 5 marzo la Corte di Cassazione si pronuncerá sulle condanne per la manifestazione contro il muro del Brennero del maggio 2016. Se saranno confermati i 130 anni complessivi inflitti in appello, per alcune decine di compagni/e si apriranno le porte del carcere.

A distanza di otto anni il senso di quella giornata é sempre piú attuale. Guerre, razzismo, frontiere, muri e filo spinato sono l´emblema del nostro presente. Dalla guerra fra NATO e Russia in Ucraina alla Gaza sotto assedio totale in cui la popolazione é alla fame, dai lager della Libia ai morti nel Mediterraneo e al Brennero, le frontiere continuano a determinare la vita o la morte di chi prova a superarle. Se a Gaza e nel resto della Palestina una parte di umanitá considerata “di scarto” é direttamente sterminata, nel resto d´Europa gli immigrati “indesiderabili” senza documenti vengono sfruttati o rinchiusi nei CPR, strutture di detenzione amministrativa, dove spesso trovano la morte.

Oggi come ieri scendiamo in piazza, certi di essere dalla parte giusta della storia, quella degli oppressi e di chi lotta per la propria libertà ed emancipazione. Con il cuore gonfio di rabbia per il genocidio in corso in Palestina, con il cuore pieno di amore per tutti i compagni che nel 2016 hanno messo in gioco la propria libertá per rompere l´indifferenza e l´apatia con cui troppo spesso vengono accettati i peggiori crimini compiuti dal potere.

Con il cuore a Gaza ed agli oltre 9000 prigionieri palestinesi vessati nelle carceri israeliane.

Chi lotta non é mai solo. Dalla Palestina all´Italia solidarietà internazionalista contro guerre e frontiere! Free all political prisoners!

freepalestinebz@inventati.org

Während der grauenvolle Völkermord am palästinensischen Volk live im Fernsehen übertragen wird, fällt das Kassationsgericht am 5. März die Urteile für die Demonstration im Mai 2016 gegen die Brenner-Mauer. Wenn die insgesamt 130 Jahre Gefängnis, die im Berufungsverfahren erhoben wurden, bestätigt werden, landen mehrere Dutzend Genoss:innen im Gefängnis.
Nach acht Jahren wird die Bedeutung dieses Tages immer aktueller. Kriege, Rassismus, Grenzen, Mauern und Stacheldraht sind emblematisch für unsere Gegenwart. Grenzen entscheiden nach wie vor über Leben und Tod derer, die versuchen, sie zu überschreiten – vom Krieg zwischen NATO und Russland in der Ukraine bis zum vollständig belagerten Gazastreifen, in dem die Bevölkerung verhungert, von den Lagern in Libyen bis zum Tod im Mittelmeer und am Brenner. Während in Gaza und im restlichen Palästina ein Teil der Menschheit, der als “Abfall” betrachtet wird, direkt ausgelöscht wird, werden in Europa “unerwünschte” Einwanderer:innen ohne Papiere ausgebeutet oder in Präventivhaftanstalten eingesperrt, wo sie allzu oft zu Tode kommen.
Heute wie gestern gehen wir auf die Straße, in der Gewissheit, dass wir auf der richtigen Seite der Geschichte stehen, auf der Seite der Unterdrückten und derjenigen, die für ihre Freiheit und Befreiung kämpfen. Mit dem Herzen voller Wut über den andauernden Genozid in Palästina, mit dem Herzen voller Liebe für all die Genossinnen und Genossen, die 2016 ihre Freiheit aufs Spiel gesetzt haben, um die Gleichgültigkeit und Apathie zu brechen, mit der allzu oft die schlimmsten Verbrechen der Machthaber:innen hingenommen werden.
Unsere Herzen sind in Gaza und bei den mehr als 9.000 palästinensischen Gefangenen, die in israelischen Gefängnissen schikaniert werden.
Wer kämpft, ist nie allein. Internationale Solidarität gegen Kriege und Grenzen, von Palästina bis nach Italien! Free all political prisoners!
freepalestinebz@inventati.org

ORA COME ALLORA

Riceviamo e diffondiamo un testo in solidarietà ai condannati/e del Brennero da Udine.

Il 7 maggio del 2016 un corteo di diverse centinaia di persone si batte per diverse ore al passo del Brennero bloccando autostrada e ferrovia per più di mezza giornata, in risposta alla proclamata intenzione del governo austriaco di costruire un muro anti-immigrati alla frontiera italo-austriaca con la complicità dell’Italia.
Lo Stato decise di processare per quella giornata in totale più di 120 compagni e compagne. La sentenza d’appello ha alla fine condannato 63 di loro a più di 125 anni di carcere. Qualora le condanne fossero confermate in Cassazione, il 5 marzo prossimo, una trentina tra compagne e compagni potrebbero finire in carcere, molti altri e altre ai domiciliari.

Erano gli anni in cui il governo italiano di centro-sinistra iniziava a pagare i signori della guerra libici e le loro milizie di assassini per il blocco e l’internamento nei lager libici di centinaia di migliaia di donne e uomini in fuga da comunità e territori devastati dal colonialismo occidentale e il Mediterraneo diventava un cimitero sempre più vasto; in cui i Balcani ridiventavano costante luogo di transito verso l’Europa, con quella che venne definita rotta balcanica; in cui, all’interno dei confini nazionali, con i “pacchetti sicurezza” Minniti e Salvini lo Stato e il capitale nostrano imprimevano un’ulteriore accelerata – all’interno di una generale continuità inaugurata già molti anni prima – alla guerra ai poveri, ai marginali, ai devianti, ai ribelli, a chi non può o non vuole piegarsi ai ricatti dello sfruttamento, del decoro, del lavoro salariato, della repressione.
Da quei giorni le cose non sono certo migliorate, anzi. Chi cerca di fare ingresso nella fortezza Europa dopo aver affrontato il deserto e i lager libici, o i campi, le deportazioni e i pestaggi delle polizie balcaniche, francesi o ungheresi viene lasciato deliberatamente affogare in mare o morire di freddo in montagna o per strada.
Il genocidio portato avanti (col fondamentale supporto degli alleati occidentali) dallo Stato sionista di Israele verso la popolazione palestinese a Gaza e in Cisgiordania, la guerra tra la Nato e la Federazione Russa in Ucraina generano profitti enormi per l’industria militare e per il comparto della ricerca al servizio dello sviluppo e del rinnovamento del sistema bellico-industriale, la quale è la prima complice e responsabile della morte, del ferimento, della tortura e dello stupro di milioni di oppressi e oppresse.

Sui fronti interni, solo per considerare il nostro, il lascito della gestione militare dell’“emergenza” Covid-19 – oltre ad un riuscito esperimento di mobilitazione generale della popolazione in un simulato scenario di guerra – è un deciso avanzamento del controllo dello Stato e delle sue polizie in ogni ambito della vita, reso possibile non solo dalla presenza fisica di sempre più sbirri e militari nelle strade, ma soprattutto dalla digitalizzazione che tritura quasi ogni anfratto della quotidianità.
Un avanzamento che prefigura e prepara – tanto nel discorso pubblico e quanto nelle realtà dei territori – a conflitti che potrebbero estendersi ben oltre le loro dimensioni attuali.
La guerra di Stato e padroni a sfruttati e sfruttate si fa ogni anno, ogni mese, sempre più aperta e brutale; basti citare l’ultimo pacchetto sicurezza del 2023, i decreti “Piantedosi”, “Cutro” e “Caivano”. Quest’ultimo nato a seguito di due fatti di violenza di genere, che però non è affatto centrale nel decreto ma funge da mera giustificazione per la repressione autoritaria dei minorenni delle periferie. Tutti questi decreti sono volti ad aumentare il carico di sfruttamento e repressione per lavoratori e studenti in lotta, occupanti di case, migranti, per chi si rivolta in carcere o nei CPR, per tutti gli esclusi e le escluse da un ordine in via di lento disfacimento e per questo sempre più aggressivo nel portare avanti i propri progetti di ristrutturazione – in senso tecnico, economico,
sociale, ed in definitiva autoritario – nel tentativo di sopravvivere al tracollo innescato dalle sue stesse incessanti attività distruttive.
Ogni giorno che passa il legame tra frontiere e guerra è sempre più lampante anche nel territorio del Friuli Venezia Giulia, “ultima tappa” della rotta attraverso i Balcani percorsa da coloro che abbandonano luoghi devastati dalle guerre presenti e passate condotte dell’Occidente nel continente asiatico per il saccheggio di materie prime e il controllo dei territori dove vengono estratte; dove il fiume Isonzo, il CPR ed il CARA di Gradisca offrono, a pochi metri di distanza uno dall’altro, un ottimo esempio dei diversi gradi di selezione delle “eccedenze umane” di cui il sistema dell’“accoglienza” è complice; dove si fanno enormi profitti con le commesse per regimi democratici e dittatoriali in guerra permanente, negli stabilimenti Leonardo di Ronchi dei Legionari, di Fincantieri e Goriziane Spa; dove ci si prepara pian piano alla guerra all’interno dei patrii confini, con ben quattro progetti di cosiddette caserme verdi, ossia il concetto di integrazione civile-militare applicato direttamente alla vita quotidiana dei territori intorno agli avamposti delle forze armate.

Ora come allora siamo dalla parte di chi, con l’azione diretta, decide di attaccare le strutture e i responsabili di questo sistema di annientamento e devastazione, anche perchè “abbattere le frontiere non può essere solo uno slogan con cui reclamare il ritorno a Schengen o una diversa politica di “accoglienza” da parte delle istituzioni e nemmeno una mera espressione di solidarietà nei confronti dei profughi. Significa battersi autonomamente – con quelli che ci stanno – per sconvolgere un ordine sociale marcio fino al midollo”.

Solidali e complici con i condannati/e per il corteo del Brennero

Udine, febbraio 2024