IL PROBLEMA NON È IL FUOCO / CENERE E MACERIE – APPUNTI LIBERTARI SUGLI INCENDI IN SICILIA E SARDEGNA

Diffondiamo, da Scirocco Madonie, un opuscolo sugli incendi che hanno colpito e devastato i territori di Sicilia e Sardegna. L’opuscolo contiene due testi: il primo, “Il problema non è il fuoco”, è stato scritto e diffuso nell’estate 2023 da compagnx sicilianx; il secondo, “Cenere e macerie”, è il testo di un compagno sardo uscito sulle pagine di Nurkuntra qualche anno fa.

«Se c’è qualcosa che lega la “colonizzazione di ieri” agli incendi di oggi, è questo accartocciarsi impaurito della coscienza dei colonizzati, è questo rinnovarsi di paura e ubbidienza. Le assemblee possono essere allora dei polmoni collettivi in cui respirare l’aria pulita della rivolta, del riscatto e della festa (per curarsi dalla compressione delle molte paure e dei fumi neri), inceppando i meccanismi nemici. Il rifiuto della delega, il ricordare le responsabilità del Sistema per le nostre sciagure, la disponibilità ad affrontare solo questioni alla portata dell’azione diretta o del controllo diretto dei singoli e delle assemblee abitanti, una pratica interna in cui tutti siano sia pensatori che agenti del percorso (rompendo il circuito chiuso e scisso della militanza), incrinare il rapporto di forza tra decisori e condannati (all’evacuazione, all’emigrazione, all’umiliazione) – tutte queste attività insieme potrebbero rappresentare un farmaco collettivo. Anzi, di nuovo con i greci, un pharmakon: medicina per gli oppressi e veleno per gli oppressori».

Qui l’opuscolo completo in PDF: OpuscoloIncendiWEB

PER UNA PALESTINA LIBERA DA DOMINIO E OPPRESSIONE

Diffondiamo il testo di un volantino distribuito ieri a Bologna al presidio in solidarietà al popolo palestinese:

“Israele si deve difendere” è il leitmotiv che viene ripetuto ogni qual volta Israele viene colpito e l’invincibilità del suo esercito viene scalfita, passando da brutale forza di occupazione a vittima di un’aggressione.

È la prima volta che dai territori occupati parte un’offensiva di questo livello. Ma deve essere chiaro: la guerra che lo Stato di Israele ha dichiarato contro i palestinesi è iniziata da molto tempo.  Parliamo di decine e decine di anni di furto della terra, dell’acqua, di apartheid, sfruttamento, espropri, arresti, detenzioni amministrative, morti, uccisioni, aggressioni, umiliazioni e torture.

Il sostegno e l’impunità che Stati Uniti e Europa hanno sempre assicurato alle forze di occupazione Israeliane è responsabile della degenerazione di questo conflitto.

In un contesto del genere non ci stupisce il successo di Hamas, unica organizzazione sul territorio con gli appoggi per organizzare una resistenza armata di tale portata. Dopo il fallimento degli accordi di pace e del così detto “diritto internazionale”, con il progressivo retrocedere di qualsiasi istanza di autodeterminazione e liberazione, davanti alla corruzione e al collaborazionismo di Al-Fatah, non ci coglie alla sprovvista il consenso che questa organizzazione – Hamas – continua a raccogliere. Sappiamo che le destre estreme in ogni tempo hanno fondato il loro potere sul governo della paura.

Ci preoccupa però, questo si, come alleate e solidali, come dissidenti sessuali, come persone che lottano contro ogni forma di dominio e oppressione, che la resistenza palestinese venga assimilata ad una forza fondamentalista di estrema destra. Ci chiediamo a chi fa comodo che la brutalità dell’occupazione israeliana venga rappresentata come “scontro tra civiltà”. Non è uno scontro tra civiltà. E questo dobbiamo dirlo forte e chiaro. Non è uno scontro tra l’ “occidente civilizzato” e il “brutale mondo arabo”. Questa narrazione è falsa, tendenziosa, distorta. In un contesto di guerra globale rifiutiamo il ruolo di facili pedine da usare dall’asse imperialista di turno sullo scacchiere internazionale.

Vogliamo anche dire molto chiaramente che rifiutiamo la normalizzazione della tortura  e della cultura dello stupro come possibile arma di liberazione. Combattere per l’autodeterminazione e la libertà ammettendo come possibili queste azioni significa già aver rinunciato ad un mondo di libere e uguali.

Rifiutiamo altresì la narrazione propugnata dai media, dove non si esita a strumentalizzare episodi violenti, facendo leva sulla morbosità del pubblico, per fare tabula rasa delle uccisioni e degli abusi quotidiani compiuti sui palestinesi.

La nostra solidarietà è internazionalista, anti-coloniale, antirazzista, antisessista, contro qualsiasi forma di dominio e oppressione.
From the river to the sea Palestina will be free

NUOVA PUBBLICAZIONE: “PAROLE ADDOMESTICATE DA UN CUORE SELVAGGIO” DI JEAN WEIR

Riceviamo e diffondiamo una nuova tremenda pubblicazione “Parole domate di un cuore selvaggio” di Jean Weir, la prima della collana “Le Furie”.

Dalla quarta di copertina:

“Pensare a un mondo ideale senza cercare di costruirlo è inutile. Non ha senso. Almeno ci deve essere il tentativo di fare qualcosa, di provare. Se sei un romantico, un avventuriero, e te ne stai a casa a cercare di non far succedere niente, a che serve?” Octavio Alberola
(Dall’introduzione di Monica Caballero alla versione in spagnolo)

Parole. Semplici parole. Le pagine che seguono sono in parte trascrizioni delle parole pronunciate – “il meraviglioso operaio che non c’è più”, come scriveva malinconicamente Emma Goldman più di cento anni fa riferendosi all’inadeguatezza della parola parlata nel risvegliare il pensiero e a scuotere le persone dal loro letargo. Non siamo ancora arrivati all’eclissi totale del pensiero, dell’analisi e della sperimentazione metodologica. Quello che abbiamo abbandonato da tempo è l’ideologia (postulati fissi staccati dall’azione) e le organizzazioni di sintesi, a favore di una progettualità anarchica insurrezionalista informale.

Dall’introduzione :

Cuori ardenti. A chi interessano più i cuori, ormai? Si chiedeva il poeta nel lontano 1943. Cuori che non sanno più parlare, che hanno perso il senso delle parole in un mondo sovrasocializzato in cui la comunicazione sterile è in surplus. E come i cuori ardenti anche le parole non interessano più. Sono state private di significato e riempite di quel nulla derealizzante che serve a trasformare la realtà. È infatti il procedere freddo e calcolatore della tecnica che impoverisce il pensiero umano, rendendolo incapace di vedere al di là, di riflettere, ossia di comprendere il senso profondo di quello che facciamo e produciamo, a prendere il sopravvento. Questa dittatura tecnica produce un “analfabetismo emotivo”. Il linguaggio si sta già riducendo e continuerà a modificarsi seguendo la vita quotidiana. Alcuni modi di pensare, alcune parole e nozioni si atrofizzeranno e progressivamente scompariranno. Così le future generazioni non potranno sentire la mancanza di qualcosa che non hanno mai avuto.
Così anche noi ci siamo fatti addomesticare e abbiamo iniziato a parlare per slogan. Le nostre discussioni, importanti, sono diventate chiacchiere, senza alcun valore. Il senso delle parole lo abbiamo stravolto noi stessi trasformando la Signora libertà in aristocratico libertinaggio, confondendo il nichilismo anarchico di Kropotkin, che nella sua genesi storica dichiara guerra a fondo contro tutte le ‘menzogne convenzionali della civiltà’, con un nichilismo post-moderno in cui tutto perde senso, persino le parole e si svaluta ogni orizzonte di significato. Così possiamo dire tutto e il contrario di tutto in questo vuoto nascondendoci dietro le nostre contraddizioni.
Possiamo continuare a consumare ogni cosa, persino i nostri simili sostituendo individui unici con tipi rimpiazzabili in un’economia dei corpi che non ha nulla da invidiare all’economia capitalista, riuscendo persino a stravolgere l’egoismo di Stirner e trasformandolo in regola del mondo in cui gli altri esistono solo per soddisfare i nostri bisogni più che i nostri desideri, rimuovendone l’etica individualista.
Nell’epoca del dominio del sapere tecnico-scientifico, si tende ad attribuire, per di più, valore di conoscenza solo al sapere di tipo strumentale, cioè al sapere utile, finalizzato all’efficienza e all’efficacia. Non c’è bisogno di comprendere o di rifarsi a dei principi. La libertà diventa non l’anelito egoistico ma il capriccio in quanto sconnesso dalla responsabilità. Ed è quest’ultima, a nostro parere, ad essere la più grande sfida della libertà: la responsabilità delle proprie azioni.

Già dal Preambolo le parole di Jean ci sono apparse così vere da fare male. Da stordirci a tal punto da convincerci che fosse importante tradurre Tame Words from a Wild Heart come prima pubblicazione della collana “Le Furie”. Se si è alla ricerca disperata di risposte o soluzioni non le si troverà in questa raccolta. Qui ci sono proposte possibili, critiche taglienti e riflessioni feroci che colpiscono come un pugno nello stomaco. Perché stiamo perdendo il senso della nostra storia, stiamo perdendo la capacità di analisi e lo studio di ciò che sta avvenendo intorno a noi. L’approfondimento non come puro esercizio intellettuale ma per affinare l’attacco, per costruire una progettualità anarchica. Perché queste parole, così piene di significato, possano spingere ancora a scavalcare una rete, a fare una camminata sotto la luna … a fare quel salto nel buio che ci illuminerà con tutti i suoi colori. Quel giorno il poeta li avrà i suoi cuori ardenti, su cui il dubbio non avrà alcun potere, e che affronteranno la sconfitta con lo stesso invulnerabile sorriso della vittoria finale.

Agosto 2023

Prezzo 6 euro (+ spese di spedizione)
4,50 per ordini uguali o superiori a 4 copie (+ spese di spedizione)

tremendedizioni(at)canaglie.org

RESIDENZE PSICHIATRICHE: ABUSI, MALTRATTAMENTI E UCCISIONI 

Diffondiamo questo documento prodotto dall’Assemblea della Rete Antipsichiatrica:

“Questo testo affronta la violenza strutturale che regola la vita all’interno di moltissimi centri residenziali per persone con disabilità o fragilità psichica. Si parte dai maltrattamenti avvenuti nella struttura di Montalto di Fauglia gestita dalla Stella Maris, passando per gli abusi all’interno delle strutture della Cooperativa Dolce di Bologna, per arrivare agli orrori della Comunità Shalom, nel bresciano. Una violenza capillare sostenuta quotidianamente dal silenzio di moltissimi “professionisti”, tecnici dei servizi, operatori, assistenti ed educatori.”

Qui il testo: https://assembleareteantipsichiatrica.noblogs.org/post/2023/10/02/residenze-psichiatriche-abusi-maltrattamenti-e-uccisioni/

OPUSCOLO: LA TRANSIZIONE ALLA GUERRA IN CASA

Riceviamo e diffondiamo questi appunti sulla ristrutturazione energetica e digitale delle forze armate, il suo contesto e il mondo che prepara.


Introduzione

Che il complesso militare nostrano si sia mosso con crescente determinazione nella direzione di una sempre più accentuata penetrazione nella cosiddetta “società civile” è un fatto che si è reso sempre più evidente negli ultimi decenni, con una più marcata accelerazione in tempi recenti dettata dalle esigenze della ristrutturazione capitalistica in corso e dagli equilibri politico-militari globali in via di ridefinizione.

La società e la sua cultura sono sempre più penetrare e irradiate dei valori e dei modelli del bellicismo, in funzione dei vecchi e nuovi interessi del complesso tecno-industriale e finanziario. Come ha notato qualcuno, “la logistica della guerra” segue (e anticipa) le velocità, le maniere e, aggiungiamo, le necessità dello Stato capitalista, ne mutua il paradigma di produzione just in time come adeguamento quasi in tempo reale ai mutamenti e ai bisogni del momento.

Dalla firma nell’ormai lontano dicembre 2017 di un protocollo di collaborazione nei progetti di alternanza scuola-lavoro tra il Ministero della Difesa e quelli di Lavoro, Istruzione e Università e Ricerca, alla stipula, il 24 febbraio 2022, di un accordo tra i rappresentanti della Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (CRUI) e la Fondazione Leonardo Med-Or di Marco Minniti, al fine di “promuovere attività culturali, di ricerca e formazione scientifica”; dall’istituzione, nel febbraio 2023, di un “Comitato per lo sviluppo e la valorizzazione della cultura della difesa” che dovrebbe, nelle parole del ministro guerrafondaio Guido Crosetto, spostare l’attenzione “anche sull’impatto che la difesa nel suo complesso ha sulla vita di tutti i giorni” grazie all’aiuto di una schiera di servi volontari economisti, giornalisti, intellettuali, accademici, dirigenti d’azienda, all’ormai strutturale penetrazione del comparto bellico industriale in tutte le università italiane, centri di ricerca e laboratori, dipartimenti e consorzi interuniversitari, la lista delle brecce aperte in quasi tutti gli ambiti appare già ampissima e in continua e inarrestabile espansione.

Si assiste alla stretta relazione tra l’evolvere di nuovi scenari bellici a scala globale e l’aumento esponenziale della militarizzazione interna, non solo in termini di sempre più pervasiva presenza militare e poliziesca nei territori, ma anche e non secondariamente, in termini sociali e culturali, per non parlare delle ormai dilaganti strette repressive.

Un tema passato forse un po’ sottotraccia, di cui si è parlato meno, è quello legato al processo di ristrutturazione energetica e logistica che le forze armate, non solo nostrane, stanno intraprendendo e agli obiettivi ad essa strettamente connessi. Ad eccezione infatti di alcuni grandi contesti metropolitani o comunque locali, sembra che la questione degli smart military district e delle caserme verdi dell’Esercito, degli aeroporti azzurri dell’Aeronautica e delle basi blu della Marina militare, di cui si inizia a parlare intorno al 2019, raggiunga raramente gli onori delle cronache nazionali. Ed è proprio a partire da una situazione locale interessata da uno di questi progetti che si è sentita la necessità di iniziare una ricerca sul tema, nel proposito di fornire un primo contributo alla conoscenza dei mutamenti in atto e in procinto di essere attuati all’interno del comparto bellico nostrano nella prospettiva di scenari di conflitto futuri.

Questo contributo, molto lungi, come si vedrà, sia dall’essere esaustivo sia dal voler affrontare la grande complessità della materia oggetto di indagine nella sua interezza, i cambiamenti in atto nel settore militar-industriale – tanto nostrano quanto globale – e la complessità delle sue sempre più strette relazioni dual use con l’ambito civile, si propone di gettare un po’ di luce sui progetti che la difesa sta avviando nella direzione di una generale preparazione a futuri scenari bellici sul fronte interno, nascosti, manco a dirlo, dietro le tende della transizione green e digitale.

Link al testo pdf: Transizione alla guerra in casa_ lettura  
Transizione alla guerra in casa_stampa

BOLOGNINA: UN DESERTO CHIAMATO SICUREZZA

Questo testo affronta gli ultimi risvolti di un attacco iniziato da tempo al quartiere Bolognina (Bologna), un processo che, seppur nelle sue specificità, non è differente da quanto stanno subendo altre città e territori: la speculazione e la cementificazione chiamata “riqualificazione”, la strumentalizzazione “dell’emergenza droga” e “dell’allarme sicurezza”, la discriminazione della popolazione migrante, la militarizzazione della vita quotidiana, il progressivo restringimento della sanità e dei servizi. Una realtà in cui la sistematica distruzione di comunità e territori è l’esito di quella violenza istituzionale che si nutre di politiche razziste, proibizioniste e repressive, per sostenere e alimentare economie assassine e rendere più docili le classi sfruttate. Città in cui il continuo rinforzarsi delle retoriche della legalità e del decoro si traduce negli abusi sempre più legittimati delle forze dell’ordine e nella violenza del carcere. Un tempo che rende sempre più evidente la necessità di sovvertire l’esistente e lottare.


Con il patto integrato sulla sicurezza tra Prefettura e Comune di Bologna siglato durante la visita in città del ministro dell’interno Piantedosi del 21 gennaio, l’amministrazione bolognese ha inaugurato una nuova stagione repressiva per dare il colpo definitivo a quei quartieri nel mirino dei piani di “pulizia”, “riqualificazione” e messa a profitto della città, non ancora del tutto asserviti all’ideologia della sicurezza e del decoro.

Lo Stato c’è e si deve vedere” aveva detto Piantedosi; lo abbiamo visto e lo stiamo vedendo.

SPECULAZIONE ED “EMERGENZA DROGA”

La Bolognina in particolare negli ultimi mesi è stata oggetto di un feroce accanimento mediatico volto a normalizzare una militarizzazione della vita pressoché quotidiana. Con le retoriche della lotta al “degrado” e alla “droga” si stanno legittimando agli occhi dell’opinione pubblica sistematici interventi di polizia per le strade, che, a ben vedere, non hanno mai inciso e non incideranno affatto sulle “criticità” millantate, anzi, le esaspereranno ulteriormente, isolandole sempre più.

Oggetto del terrore la così detta “m-i-c-r-o-c-r-i-m-i-n-a-l-i-t-à”, una categoria in cui fasce già marginalizzate di popolazione vengono liquidate come problema di ordine pubblico.

Non spaventa il problema di un diffuso impoverimento, di un sostentamento e di una vita sempre più difficile per moltx, di un accesso alla casa sempre più proibitivo, delle barriere che deve affrontare chi è senza documenti e senza diritti di cittadinanza; non interessano realmente le problematiche legate all’uso e all’abuso di sostanze legali o illegali ecc. Ciò che interessa è soprattutto che tutto ciò non si veda, disturbi o intralci i progetti di speculazione.

Il 18 luglio si è tenuta in Bolognina una riunione della “cabina di regia” istituita col Patto sulla sicurezza, in cui, in continuità con la strategia avviata a gennaio, è stato deciso un ulteriore inasprimento dei controlli “al fine di prevenire e reprimere la vendita e il consumo di sostanze stupefacenti”. Il Sindaco ha colto l’occasione per fare la sua passerella promozionale tra i commercianti e gli abitanti della zona nel tentativo di esacerbare e strumentalizzare quelle difficoltà, pressoché endemiche, espressione di un quartiere storicamente popolare.

Dopo gli “street tutor” in centro arrivano le nuove ronde di periferia, riqualificate per l’occasione come “sentinelle di condominio”. A promuovere il fascino discreto della delazione questa volta Confabitare, associazione per la tutela della proprietà immobiliare che nel 2020, insieme ad Ape-Confedilizia Bologna, si schierò contro la proroga del blocco sfratti, e che nel 2022, in prima linea contro il “degrado”, ha firmato il protocollo di intesa col Comune di Bologna contro il “vandalismo grafico”, per la rimozione dei graffiti in città.

Dopo aver chirurgicamente fatto a pezzi comunità, sfrattato famiglie, addomesticato realtà e sgomberato spazi sociali, in un contesto di delega e atomizzazione generalizzato, l’amministrazione si appresta a colpire ancora la Bolognina in nome della “legalità” e della “lotta alla droga”, esasperando quella guerra tra poveri utile soltanto ai padroni, cavalcando con retoriche emergenziali quello scarto presente tra sicurezza reale e percepita, e incoraggiando sentimenti quali la paura e la diffidenza tra persone, per una “sicurezza” che ha sempre meno a che fare con la solidarietà e le “comunità”, parole ampiamente abusate dall’amministrazione di questa città, e sempre più con l’esercizio della disciplina e dell’ordine pubblico.

Trattare il consumo di sostanze psicotrope, legali o illegali, in termini sensazionalistici, o liquidarlo come qualcosa da “estirpare”, come avvenuto in questi giorni con le passerelle del Sindaco e la spettacolarizzazione di operazioni “antidroga” dal tempismo quantomeno sospetto – comprese di scenografici elicotteri a sorvolare il quartiere – si inserisce in una propaganda volta per lo più a promuovere speculazioni economiche e manovre politiche.

Militarizzare la bolognina, rastrellare “casa per casa” per “passare al setaccio” con squadre di polizia “le cantine dello spaccio” e riempire il quartiere di agenti in borghese, non migliorerà la vita di chi ha un utilizzo problematico di sostanze legali o illegali, o di chi già subisce discriminazioni di classe, genere, razza e cittadinanza, ne peggiorerà la condizione. Un’occasione per “ripulire” la zona e preparare il terreno a quei progetti di riqualificazione, museificazione e turistificazione pianificati da tempo dall’amministrazione, che esaspereranno ulteriormente l’accesso alla casa e alla reale vivibilità del quartiere.

RAZZISMO ISTITUZIONALE

La sovrarappresentazione della popolazione straniera nel discorso pubblico quando si parla di “allarme sicurezza” è lo specchio della violenza del razzismo istituzionale, e della paura e del pregiudizio che questo riproduce nella “società civile”, piuttosto che di una reale “emergenza sicurezza” in “correlazione con l’immigrazione”, un’equazione distorta e riduzionista.

La dinamica è la stessa subita da chi migrava dalle regioni del sud Italia.

Naturalizzare lo stato di subordinazione che molta popolazione migrante e straniera subisce in termini di sfruttamento, discriminazione, diritti, è utile soltanto a Stato e padroni che si nutrono di questo allarmismo per portare avanti le loro economie assassine.

LE RILEVAZIONI DEI SERVIZI PER LE DIPENDENZE A BOLOGNA

Volendo prendere in considerazione le statistiche e le relazioni – parziali – fornite dall’Ausl di Bologna, queste identificano due categorie di consumatori che si rivolgono ai servizi per le dipendenze (SerD): i consumatori considerati “socialmente integrati”, indicati in aumento, persone pressochè inserite nel tessuto sociale e produttivo, coinvolte in particolare dal consumo problematico di alcol e cocaina, o come policosumatori, consumatori problematici di più sostanze – legali e/o illegali – e non di una sola sostanza elettiva (anche qui con la prevalenza di alcol e cocaina), e i consumatori considerati “socialmente marginalizzati”, una fascia di popolazione indicata in cambiamento (per età media e consumo) ma non in aumento per quanto riguarda l’afferenza ai servizi. Si tratta di una categoria di consumatori costituita in gran parte da persone ai margini del tessuto sociale, fuori dal processo produttivo, con scarsa disponibilità economica e spesso con problemi legati alla legge (consumatori di sostanze assunte per via innettiva, oppioidi, cocaina e consumatori di crack, sostanza il cui utilizzo si sta allargando e che sembra sostituire nel consumo l’eroina). L’Ausl indica che per ogni persona che si rivolge ai servizi sanitari per difficoltà di questo tipo, ce ne sono almeno altre cinque che non lo fanno. Per quanto riguarda la popolazione migrante l’accesso ai servizi resta difficile e complicato, sia per la burocrazia e le norme legate ai documenti, sia per le barriere linguistiche.

LA TESTIMONIANZA DI UNA LAVORATRICE

La testimonianza di un’operatrice ci informa di come all’interno dei SerD bolognesi (Servizi per le dipendenze) sia sempre più privilegiato un approccio burocratico, medicalizzante, psichiatrizzante e contenitivo, con ampio abuso della delega agli psicofarmaci nel “trattamento”, mentre trova sempre meno spazio la relazione, l’ascolto e la possibilità di accesso a supporto sociale concreto. Emerge un problema specifico per quanto riguarda la popolazione non residente, senza documenti e senza fissa dimora, per cui i servizi sono drasticamente ridotti e di minor qualità.

Aumenta anche il numero delle così dette “doppie diagnosi”, persone con problematiche di dipendenza certificate e una concomitante valutazione psichiatrica, in carico quindi contemporaneamente ai Serd (servizi per le dipendenze) e ai Csm (Centri per la salute mentale). Questo non necessariamente si traduce in un miglioramento dell’offerta di sostegno, anzi, spesso e volentieri determina un processo di delega e “rimpallo” tra servizi che può paralizzare percorsi e possibilità, oltre che determinare un accavallamento delle figure professionali coinvolte, generando lentezze e a volte confusione nella persona. Viene inoltre segnalato come tra le persone migranti in condizioni di fragilità sia diffuso l’abuso di rivotril e crack. In generale i tempi di attesa per una “prima visita” in alcuni servizi possono essere estremamente lunghi, in particolare in quello alcologico e in quello istituito per la popolazione considerata “vulnerabile” non residente; medici e operatori non possono dedicare molto tempo a persona, un po’ per un’organizzazione socio-sanitaria assolutamente scellerata, insensata e inefficace, un po’ per la legittimazione di una cultura sempre più miope in tema di sostanze e mortificante per quanto riguarda la relazione d’aiuto, i ruoli delle “professionalità” coinvolte e la loro formazione.

TRA PROIBIZIONISMO, CRIMINALIZZAZIONE, REPRESSIONE E CARCERE

Davanti a questo quadro la risposta statale continua ad essere la criminalizzazione di intere fasce di popolazione, il progressivo depauperamento dei servizi pubblici territoriali e di prossimità, l’appalto sempre maggiore dell’assistenza a cooperative-azienda e a lavoro sfruttato, e lo speculare rinforzo di strategie e interventi di tipo securitario e carcerario, tanto che alla Dozza, carcere della città, davanti a celle bollenti come forni e un sovraffollamento che sta sfiorando il 160% della capienza consentita – oltre 800 detenuti a fronte di 500 posti previsti, quindi circa 300 persone recluse in più – dopo gli arresti sensazionali degli ultimi giorni si stanno bloccando i nuovi ingressi. Una situazione decisamente in contraddizione con i recenti tentativi di maquillage e “re-branding” volti a coprire la violenza strutturale che caratterizza l’istituto carcerario cittadino.

Nonostante i laboratori antiproibizionisti da oltre 20 anni indichino come l’unico modo per stroncare alla radice i narcotraffici sia la depenalizzazione della coltivazione di cannabis per uso personale e il commercio legale delle foglie di coca – come chiedono le popolazioni indigene sudamericane da decenni – le politiche repressive e la caccia alle streghe su categorie sociali già marginalizzate e stigmatizzate non si arresta, anzi, appunto, li arresta: gli ultimi dati indicano che circa il 35% della popolazione detenuta è in carcere per violazione della legge sulle droghe, e che oltre il 40% di chi finisce in cella in Italia fa uso di sostanze o ha problemi di dipendenza che spesso esordiscono o si cronicizzano/acutizzano proprio durante la detenzione, alla faccia del tanto declamato “recupero sociale”. Questo è accaduto grazie a leggi razziste, discriminatorie e liberticide come la Fini/Giovanardi, la Bossi/Fini, la Cirielli, le leggi sulla sicurezza volute da Minniti e Salvini. Politiche repressive il cui bersaglio non è mai stato il grande narcotraffico – un giro miliardario che allo Stato e alle sue mafie fa evidentemente comodo così – ma, come sempre, chi non ha documenti, mezzi di sostentamento, reti sociali o non è spendibile in termini di profitto.

IL TESTO UNICO DELLE LEGGI IN MATERIA DI DISCIPLINA DEGLI STUPEFACENTI

Nell’ordinamento giuridico italiano la detenzione di sostanze stupefacenti è sanzionata dal DPR n.309/1990, Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza. In particolare i due articoli rilevanti per quanto riguarda “droghe” e galera sono il 73, per il caso di detenzione ai fini di spaccio e il 75, per il caso di detenzione al fine di utilizzo personale.

L’articolo 73 recita “Chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I prevista dall’articolo 14, è punito con la reclusione da sei a venti anni e con la multa da euro 26.000 a euro 260.000”.

Questa legge continua a rappresentare la principale causa di ingresso nel sistema giudiziario italiano e di detenzione nelle patrie galere.

MANGIATE LE CAROTE RESTA SOLO IL BASTONE

Mentre sanità e servizi sprofondano inesorabilmente verso il baratro sotto gli occhi – e sulla pelle – di tutti, e le spese militari aumentano, le politiche della “tolleranza zero” si confermano strumento di governo delle diseguaglianze per il mantenimento dello status quo, una dissimulata guerra ai poveri e alle dissidenze volta ad isolare chi, per rifiuto o necessità, vive ai margini delle città, mirando a spostare questi margini, sempre un po’ più in là.

Distrutte comunità e legami, ridotti quegli ammortizzatori sociali che consentivano di scaricare parzialmente i danni prodotti dal capitalismo sulla “cosa pubblica”, accentuato lo sfruttamento, la precarizzazione e l’insicurezza lavorativa, non deve stupire il naturale determinarsi di situazioni di conflitto e attrito all’interno delle città, non riconducibili ad ambiti di compatibilità. Per neutralizzarli, esaurita la strada del welfare state, non rimane che quella repressiva. A noi, non resta che la lotta.


Link alla versione pdf del testo e alle note: UN DESERTO CHIAMATO SICUREZZA

DA NAPOLI: SOLIDARIETÀ A TUTTX LX RIVOLTOSX

Diffondiamo da: La Vampa – Napoli

Da due settimane le banlieue della Francia continentale e dell’oltremare bruciano per il fuoco delle rivolte scatenate in seguito all’omicidio da parte di un poliziotto del giovane Nahel a Nanterre, banlieue dell’ovest parigino. Dall’esagono ai territori di oltremare la rabbia contro gli omicidi di stato e le quotidiane violenze della polizia, braccio armato dello stato colonialista francese, si è riversata nelle strade prendendo come obiettivi commissariati, municipi, banche e supermercati. Nei giorni successivi, oltre alla gogna mediatica e alle dichiarazioni paternaliste e razziste dei vari ministri che biasimano le famiglie dex rivoltosx, una forte repressione ha portato a migliaia di arresti. Oltre alla violenta repressione di strada, nei tribunali i giudici perpetrano la violenza razzista con condanne considerate esemplari. Nessuno stupore per questi servi dello stato, ma le immagini delle rivolte e la rabbia non si possono cancellare.
Nel frattempo da questa parte delle Alpi la procura di Modena non si fa scrupoli a decretare l’archiviazione del processo per i morti del Sant’Anna a marzo 2020, quando alle rivolte delle persone detenute lasciate a morire come topi lo stato rispose con una sanguinosa strage. Sappiamo che giustizia e sbirri lavorano insieme : insomma, una mano lava l’altra. Mentre compagni e compagne vengono accusat di stragi e atti terroristici anche per cassonetti incendiati e striscioni, lo stato ribadisce di essere l’unico legittimato a commettere stragi.
Dopo anni di indagini e perizie rimandate e costanti tentativi di screditare la lotta di parenti e amici, a Napoli si è aperto ieri il processo per l’omicidio di Ugo Russo, ragazzo dei quartieri spagnoli freddato alle spalle da un carabiniere nel febbraio 2020. Ancora una volta è chiaro quanto vale la vita di un ragazzo dei quartieri popolari di questa città. Come Ugo, ricordiamo con rabbia le morti di Davide, Luigi e molti altri.
Di fronte alla violenza della polizia sorgono ovunque resistenze, che permettono a volte di aprire delle crepe nel muro di silenzio che vorrebbero costruirci attorno. Questo è successo anche nel cpr di via Corelli a Milano, dove la rabbia dei reclusi ha portato alla distruzione di alcune aree del centro, ora inagibili.
Oltre Oceano, la resistenza si organizza da mesi ad Atlanta contro il progetto di costruzione della Cop city. La lotta negli ultimi mesi non si è fermata, soprattutto dopo la morte di un compagno, Tortuguita, per mano degli sbirri.
Di fronte a queste morti, e con gli occhi e i cuori ancora pieni delle resistenze e rivolte nate in risposta, esprimiamo la nostra vicinanza e solidarietà a tuttx lx rivoltosx.

Per Nahel, Tortuguita, Ugo, Sasá e tutte e ciascuna le persone ammazzate dalle guardie dello stato stragista.

Napoli, 12 luglio 2023
Alcunx compagnx

FREE CRIME IS NOT A PARTY. SPEZZIAMO LE CATENE DELLA REPRESSIONE

Riceviamo e diffondiamo questo testo su free party e repressione:

È il 10 ottobre 2022 quando il governo italiano appena insediato, guidato da Giorgia Meloni, emana il cosiddetto “decreto anti-rave”, convertito in legge dopo pochi mesi. Sull’onda dell’indignazione generale di politici e media, causata dal Witchtek di Modena, il decreto è finalizzato al “contrasto di raduni illegali” ed introduce un nuovo reato, disciplinato dall’art. 633-bis: invasione di terreni o edifici con pericolo per la salute pubblica o l’incolumità pubblica. Tale reato è punito con la reclusione da 3 a 6 anni e con la multa da 1.000 a 10.000 euro, oltre che con la confisca del sound e delle attrezzature.

La repressione delle feste è la parte folkloristica del decreto da dare in pasto all’elettorato. Per capirne le vere intenzioni, cioè quelle di togliere ogni margine al dissenso non fine a se stesso, dobbiamo ricordarci che introduce nuove disposizioni che regolano l’ergastolo ostativo: se non collabori con la giustizia, infamando qualcun altro, molto difficilmente ti verranno concesse misure come la semilibertà, i permessi premio o la libertà condizionale.

In Italia abbiamo visto in questi mesi un’escalation repressiva che in nome di un giustizialismo forsennato ha portato ad una vera e propria caccia alle streghe nei confronti di chi, di volta in volta, è stato additato come il nemico pubblico di turno – i ravers, i migranti, gli ecologisti, gli anarchici – con leggi create ad hoc per colpire queste individualità e le loro azioni.

Lo Stato che fa la guerra ai free party è lo stesso Stato che quotidianamente lascia morire persone dentro la cella di un carcere o in mare, lo stesso Stato che quotidianamente tortura e abusa dentro galere e CPR – come hanno messo in luce alcuni compagni e compagne con il loro sciopero della fame contro il regime di tortura del 41 bis. È lo stesso Stato che schiera la polizia a difesa delle fabbriche, picchiando chi decide di scioperare per ottenere condizioni di lavoro migliori. È lo stesso Stato che vorrebbe seppellire vivi i nostri compagni e le nostre compagne a colpi di sentenze di tribunale e anni di galera.

Ogni volta che si manifesta una forma di conflitto, un tentativo di sovvertire l’esistente, la repressione colpisce con forza. Per questo crediamo che la lotta contro il decreto anti-rave non possa essere una lotta isolata, ma vada inserita in una cornice più ampia che renda evidente, da una parte, il tentativo di disciplinamento da parte dello Stato – che vorrebbe annichilire qualsiasi forma di azione diretta – dall’altra, l’intersecarsi di tutte le lotte – da quella contro il carcere e il 41 bis, a quella contro il TAV, le basi militari e le grandi opere.

Per questo crediamo sia importante non delegittimare il potenziale sovversivo dei free party, non cercare il dialogo con gli sbirri, non giustificarsi dicendo che “non stiamo facendo niente di male” o “non siamo criminali”. Il nostro posizionamento non è neutro: anche la festa è un momento conflittuale.

L’arrivo degli sbirri non equivale necessariamente alla fine della festa! Ci sono modi diversi dalla ritirata per affrontarli: se siamo i primi a credere alla loro invincibilità, abbiamo già perso in partenza. Una comunicazione onesta e una solidarietà pratica tra le varie anime della festa potrebbero consentire di trovare la soluzione migliore per ogni caso specifico.

Crediamo sia importante evitare il fuggi-fuggi generale e non lasciare da sole le crew, le quali tuttavia non possono pensare di essere gli unici
soggetti ad avere voce in capitolo su come affrontare la situazione.

Capiamo bene che il rischio di perdere migliaia di euro di attrezzature sia un valido motivo di preoccupazione: questo dovrebbe essere tenuto in considerazione da tutti i presenti alla festa. Tuttavia, pensare di poter gestire la risposta alla violenza poliziesca mettendo a tacere qualsiasi atto conflittuale che si discosti dal subire passivamente (come avvenuto al Witchtek di Modena nel 2022), crea una gerarchia tra chi organizza e chi partecipa alla festa.

Il rave è un atto illegale e come tale implica il conflitto con l’autorità. Non vogliamo e non dobbiamo giustificarci agli occhi dello Stato, non vogliamo ottenere alcuna legittimità, vogliamo continuare a ribadire la nostra perenne ostilità a questa realtà fatta di sfruttamento ed oppressione.

Perché una società che abolisce tutte le avventure, rende la distruzione di questa società l’unica avventura possibile.

Luglio 2023
Nemiche dello Stato


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Riproduci, stampa, diffondi!

TRADUZIONI IN CASTIGLIANO DI ALCUNI TESTI SULL’ALLUVIONE PUBBLICATI DI RECENTE

Riceviamo e diffondiamo le traduzioni in castigliano di alcuni contributi pubblicati di recente sull’alluvione.

Reflexiones de un compañero el día siguiente a la inundación

Aluvión, mi solidaridad es selectiva

CON EL AGUA AL CUELLO. Una visión anarquista del aluvión en Romaña


Reflexiones de un compañero el día siguiente a la inundación:

Mientras algunos ríos en Emilia y en Romaña siguen desbordados, con muchos pueblos y ciudades de la llanura inundados y el fango que sigue avanzando aguas abajo, siento la exigencia de expresar algunas reflexiones en caliente sobre los que está ocurriendo en el territorio donde vivo desde hace unos años. No cabe duda que la cantidad de agua caída estos días es excepcional, sin embargo hace tiempo que sabemos, cada vez con mayor certeza, que los eventos atmosféricos extremos son y serán cada vez más frecuentes. A pesar de esto, palpar las consecuencias de unas precipitaciones tan fuertes y concentradas en pocas horas, es algo que me coge desprevenido, emotiva y materialmente. Me he visto en un intercambio continuo de mensajes y llamadas para tener actualizaciones de la situación que están viviendo varias personas de mi entorno, mirando con preocupación al cielo, las laderas de colinas y montañas que van dejando detritos en cada chaparrón, los lechos de torrentes normalmente amigables, cada vez más caudalosos y amenazantes. El verano pasado decíamos una frase medio en broma, para quitar un poco de hierro al asunto: “es el verano más caliente que he vivido. Pero también es el más fresco de los que viviré”. Si traslado este discurso a la pluviometría me produce escalofríos. Escalofríos de miedo, porque está en juego la integridad y la seguridad de personas queridas. Y escalofríos de rabia, porque se que ya hay quienes se están frotando las manos pensando en el dinero que harán con la reconstrucción. Y son los mismos que engordan en un sistema en el que yo y quienes me rodean peleamos por la mera supervivencia material, cuando va bien. El simulacro de la seguridad y de la invulnerabilidad es algo que quiero destruir y dejar atrás, pero para dar cabida a un modo diferente de vivir, de establecer vínculos y compromisos con el carácter imprevisible del ambiente de mi entorno. No para garantizar el tranquilo engorde de quienes reproducen un mundo basado en el dominio. Entonces impedir esa cantera, esa ampliación de la autopista, ese remonte, esa presa, se vuelve algo mucho más urgente, porque lo que está en juego no es algo futuro, imaginario, simbólico o ideal. Es en el presente donde ejercen su furia homicida. Son nuestras propias vidas las que ya están en juego. Ahora que esto me ha quedado más claro, puede que necesite menos valor para arrojar el corazón por encima del obstáculo.

Traducidos de: https://brughiere.noblogs.org/post/2023/05/20/sullalluvione-in-emilia-romagna/#PENSIERI


Aluvión, mi solidaridad es selectiva

Artículo publicado en Bezmotivny, año III número 10

Aproximadamente a partir del martes 16 de mayo, y al hilo de la emergencia del aluvión que ha golpeado parte de la región de Emilia-Romaña, los exponentes de algunas organizaciones políticas autoproclamadas antagonistas del territorio boloñés y algunos grupos de personas congregadas espontáneamente han decidido crear Brigadas de solidaridad con el objetivo de “autogestionar” intervenciones de ayuda a las poblaciones de Emilia-Romaña afectadas por el aluvión de las que todavía se habla mucho. Quizás no sea oportuno detenerse sobre cómo se habla de este aluvión que, ciertamente no es una excepción ni una calamidad inesperada sino que se inserta en la cadena de catástrofes producidas por el modo de producción que devasta la vida y los lugares donde habitan millones de explotados y otros seres, así como por los hombres y mujeres con responsabilidades políticas, técnicas y decisorias concretas a nivel municipal, regional y nacional; ni sobre la forma en que los principales periódicos y medios del régimen afrontan el aluvión, en qué tono (más bien sosegado) y con qué contenidos (dirigidos a no cuestionar seriamente la sociedad que produce estas catástrofes y a salvaguardar la imagen de los responsables de carne y hueso de las mismas).

Lejos de juzgar negativamente a las diversas personas (sin importar si son compañeros o no) que espontáneamente han decidido intentar ayudar con sus propios medios, también y sobre todo individualmente en lugar de organizándose informalmente con los propios amigos, es decir, sin crear organismos de carácter parapolítico (por estar ligadas a organizaciones políticas y/o sindicales – más o menos institucionales – preexistentes), quiero reflexionar de forma polémica sobre esas organizaciones (sin perder tiempo citando sus siglas) que se han aprovechado inmediatamente de la disponibilidad de muchas personas no afectadas directamente por el aluvión de implicarse en la organización de iniciativas de solidaridad genérica, si queremos llamarla así.

Y así es como, en los días sucesivos a los acontecimientos más críticos, en un grupo telegram de coordinación y organización de las ayudas vinculado a una de estas organizaciones “antagonistas” se manifestaba el entusiasmo suscitado por el hecho de que varios periódicos hubieran nombrado las siglas de esta misma organización con elogios, que en las redes sociales se hubieran republicado numerosas veces las fotos de los activistas de la organización junto a otros “voluntarios” –presumo ingenuamente desconocedores de estas payasadas políticas– dispuestos a retirar fango en las localidades afectadas del ayuntamiento de Castel Bolognese.

Apesta, en definitiva, y, que quede claro, no porque personalmente haga apología de las prácticas de ayuda “desinteresada” y religiosamente dirigida a todos los seres humanos (por ejemplo, entre tantos afectados para mí no es prioritario ayudar a burgueses a salvar los bienes encerrados en la mansión de tres pisos); apesta porque quien se llena la boca de solidaridad y apoyo mutuo no tiene reparos en tratar de obtener consenso, visibilidad y reconocimiento político instrumentalizando ciertas tensiones y de ciertas prácticas, hegemonizándolas y haciéndolas pasar por “autogestión desde abajo”.

La solidaridad para mí no es algo universal, es resumen, no es algo que quiera dirigir a todo el mundo, a cualquier ser humano en cuanto tal, para limpiar mi conciencia y olvidarme del hecho de que, cada día, si no cuestiono realmente la sociedad industrial, el capitalismo voraz de recursos, energía y metales raros, la explotación, la gentrificación, el consumo de suelo desenfrenado a beneficio de grandes y pequeñas empresas capitalistas (por lo que respecta a la logística por ejemplo, el Instituto Superior para la Protección y la Investigación Ambiental, certifica un récord absoluto para la región de Emilia-Romaña, que entre 2006 y 2021 ha ocupado casi 400 hectáreas construyendo almacenes y polos logísticos), estoy alimentando y legitimando este ciclo de catástrofes. Si la solidaridad en estas contingencias es prestar ayuda a no importa quien entonces no soy solidario, entonces no me importa una mierda implicarme en la ayuda, y participar en la creación de brigadas a uso y consumo de politicuchos leninistas de poca monta.

Yo decido a quien doy solidaridad, ayuda y cercanía, en base a mis conocimientos, mis afinidades, mis relaciones de confianza y amistad, pero también a una conciencia de clase. La solidaridad que concibo es una solidaridad selectiva, no me avergüenzo de tal afirmación.

No quiero servir de mano de obra a las perspectivas políticas de organismos políticos que desprecio y que me hacen vomitar, no quiero obtener ningún consenso de las prácticas de ayuda y cercanía, no quiero explotar la dialéctica de socorrista-socorido para “consolidarme” políticamente, para mostrar a la gente que soy capaz de tapar los agujeros producidos por la sociedad del Estado y Capital. Quizás valga la pena tener en cuenta este aspecto de selectividad en la práctica de la solidaridad, a fin de evitar dejarse instrumentalizar, para tener la certeza de autogestionar realmente esas prácticas de asistencia y ayuda evitando que se conviertan en un instrumento de chantaje, de espectacularización política, y humanamente, añadiría, en un rito de redención.

Traducidos de: https://brughiere.noblogs.org/post/2023/05/20/sullalluvione-in-emilia-romagna/#SOLIDARIET%C3%80%20SELETTIVA


CON EL AGUA AL CUELLO
Una visión anarquista del aluvión en Romaña

Después del fin de la llamada segunda fase del aluvión, hace unos diez días, he estado en Romaña. Siendo sincera, lo que me ha empujado a acercarme ha sido un espíritu espontáneo de solidaridad hacia humanos y animales. Solidaridad de clase o “selectiva1”. Cierto, lo doy por descontado, pero lo especifico para evitar malentendidos. No estoy hablando de una solidaridad entendida de modo genérico, hacia todo el género humano. No puedo amar a quien me explota. La solidaridad la siento hacia mis similares: los/las oprimido/as, los/las explotados/as, los/as excluido/as. Es con estos con quienes intento crear dinámicas de apoyo-mutuo. En el texto la palabra solidaridad va entendida en este sentido.

Consciente de que en situaciones de emergencia el Estado pone en marcha sus dispositivos, decidí acercarme a un refugio que en ese momento alojaba animales inundados a poca distancia de las zonas más afectadas. Esto me hacía temer una eventual colaboración/compromiso con las autoridades, con las cuales como anarquista no quería tener nada que ver, aunque sabía que seguramente me los encontraría en las “zonas calientes”. Mi intento de mantenerme alejada de estos lugares no tuvo éxito. Una vez en el lugar, pude ver que la emergencia animal estaba controlada y que no hacía falta ayuda en el refugio. Así, me dirigí a los pueblos más afectados por el aluvión, algunos de los cuales estaban afrontando la “segunda emergencia2”.

El instintivo espíritu de solidaridad que me empujó a moverme venció mis temores al compromiso. No sólo me ha dado la oportunidad de ver de cerca un dispositivo de emergencia, también ha regulado mis acciones. No me dí cuenta de ello hasta más tarde. Al principio entré en los pueblos con pies de plomo.

Ciudadanos sin Estado

Mi miedo al compromiso con las autoridades se desvaneció de inmediato. Entrando en los pueblos descubrí que Protección Civil no trabajaba en las casas, su papel era meramente “presencial”. Las fuerzas desplegadas eran escasas o nulas. Por ejemplo en Santa’Agata sul Santerno había vehículos y personal uniformado concentrados cerca del ayuntamiento. Estos medios estaban prácticamente parados y muy limpios, incluso al final del día. Para la retirada de las montañas de residuos que cubrían las calles, los habitantes debían acudir al Ayuntamiento y solicitarlo mediante un formulario. Los medios de los Bomberos también eran escasos y estaban dedicados a situaciones puntuales. Las asociaciones humanitarias no aparecieron, a excepción de algunos grupos (como los scouts o Greenpeace). Según algunos habitantes, en los peores momentos del aluvión los medios de rescate no estaban disponibles o eran incapaces de cubrir las necesidades de la mayoría de la población. Estos pueblos se han visto y siguen en un estado de total abandono. Reporto estas informaciones no para levantar una oleada de indignación hacia el Estado y “pedir” algún tipo de intervención. La finalidad de este texto, más allá de describir la situación que he observado, es tratar de comprender las finalidades inherentes al modelo de gestión adoptado en esta emergencia.

En Ravenna los Bomberos pasaban por las calles ordenando la evacuación por megafonía. Las personas, una vez fuera, se encontraban las calles cerradas por lo que se veían obligadas a regresar a sus casas. En Conselice las autoridades dieron la orden de evacuar el pueblo, pero buena parte de la población se negó. Así, la gente se ha quedado encerrada en casa durante 12 días sin agua, gas ni electricidad a causa de la inundación. Los únicos que han llevado comida y bienes de primera necesidad han sido campesinos que se han organizado con tractores, junto a algunos solidarios con botes neumáticos. Esto ocurría a pesar de que los bomberos ordenaban a los solidarios que abandonasen el lugar por riesgo biológico3.

La insuficiente movilización de fuerzas por parte del Estado ha creado un gran sentimiento de desconfianza y mucha rabia hacia la Protección Civil, las administraciones municipales y regionales, las fuerzas del orden, equipos de salvamento, periodistas y políticos que venían de visita. En Sant’Agata sul Santerno, el prefecto de Ravenna fue perseguido por los habitantes pala en mano. En Conselice (y en algunos otros pueblos que no recuerdo) los alcaldes iban escoltados por Carabinieri. En Lavezzola el jefe de una importante empresa agroalimentaria se enfrentó con la alcaldesa (del PD), la Protección Civil, el Consorcio ‘di bonifica’ y los Carabinieri. El Destra Reno estaba por desbordarse y la compuerta para evacuar el agua al canal de drenaje que desembocaba en el Reno –cuyo nivel del agua era mucho más bajo– no se abría a causa de la falta de mantenimiento. Las autoridades habían acudido al lugar pero se limitaban a tomar nota de la situación. Mientras tanto, el empresario se había organizado por sus propios medios para desviar el agua con el apoyo de los habitantes del pueblo. Pero la Alcaldesa no estaba de acuerdo con esta intervención porque no estaba autorizada. Ante la rabia de los habitantes (allí presentes) y la amenaza del jefe –que la ordenaba apartarse, de lo contrario se la habría llevado por delante–, la Alcaldesa no tuvo más remedio que irse, escoltada por los Carabinieri. Así se evitó la entrada de más agua.

Obviamente, este ejemplo no es para demostrar la filantropía de un patrón. Está claro que tenía unos beneficios que proteger. Seguramente era el único capaz de “salvar el pueblo” precisamente porque, en cuanto jefe, dispone de medios y de grandes cantidades de dinero. En este episodio he visto una contradicción del Estado que, bajo el ropaje de Alcaldesa, no ha podido –o no ha querido– tutelar esa parte de población, la burguesía, a la que normalmente representa.

Narración VS realidad

Antes de partir, me informé para ver que carreteras eran transitables. La percepción que tuve al leer varias advertencias era la de una situación similar al primer confinamiento. Carreteras cortadas, controles policiales, control de los movimientos de la población. Por la E45 también vi carteles que sugerían dejar libres las carreteras para que los medios pesados de Protección Civil, Bomberos y Ejército pudieran circular sin problemas. La narración que se estaba construyendo sobre un gran tráfico de vehículos pesados de las autoridades resultó ser falsa. Las carreteras, tanto las principales como las secundarias estaban libres. El tráfico era regular y había pocos vehículos pesados de las autoridades.

Se podía entrar en los pueblos inundados. Encontré controles policiales a la entrada de Sant’Agata sul Santerno que impedían el acceso a los no residentes. Pero los Carabinieri y la Policía Local tenían cierta dificultad para parar a las personas que, con determinación, argumentaban que debían circular libremente. Algún solidario se dejaba intimidar o creía a los Carabinieri que afirmaban que en el pueblo “todo estaba en orden y no se necesitaban voluntarios”, y se daba la vuelta. Pero la mayoría de las personas pasaban de todos modos. O a pié, o cambiando de camino, o inventándose alguna excusa. Dado el gran número de solidarios, a las fuerzas del orden les resultaba muy difícil controlar a todos, a pesar de que en algunos casos había dos filtros para entrar al pueblo.

Unas palabras respecto a la aplicación VolontariSOS… Según las autoridades, solo los registrados podían acceder a las zonas rojas y ayudar a la población. Esto por motivos de aseguración en caso de accidentes, de control y de organización. En esta app, el voluntariado tenía que dar sus datos personales y reservar un “turno”. En la práctica, la mayoría de personas que me he encontrado no se habían registrado. Algunas estaban en contra, y veían en esta app un intento de control y rastreo. Los que se habían registrado contaban que esta aplicación era un rotundo fracaso, ya que todos los “turnos” resultaban ocupados. A pesar de ello, estas personas se habían acercado al lugar igualmente, considerando que era más fácil ir casa por casa ofreciendo ayuda en lugar de depender de una plataforma digital.

Por tanto, se puede afirmar que la circulación de solidarios en estos pueblos estaba bastante fuera del control de las autoridades. Lo mismo se puede decir respecto a la gestión de algunos centros de clasificación de mercancías. En Conselice, por orden del Ayuntamiento, había un gran centro dedicado exclusivamente a la recepción de ayudas. Los bienes, una vez clasificados, tenían que llevarse a los puntos de distribución, a los que la población acudiría a por aquello que necesitase. En la práctica, las personas se acercaban directamente a este centro a por los bienes necesarios y partían con los coches llenos para ir repartiendo calle por calle a quien lo pidiera. Esto gracias al buen criterio de las personas que pasaban por el, que de mutuo acuerdo, decidieron que tenía más sentido distribuir directamente en lugar de acumular bienes en un almacén central y dejar con las manos vacías a las personas como había ordenado el Ayuntamiento.

En este sentido, hay que señalar que, llegados a cierto punto, el Prefecto de Ravenna hizo llamamientos públicos para que los voluntarios abandonasen las zonas inundadas porque molestaban en la operaciones de las autoridades.

A propósito de los Ángeles del fango

La combinación de personas acudidas a ayudar ha resultado ser una mezcla interesante. Conspiracionistas, anti vacunas, animalistas de todas las edades, no green pass… Personas que por un motivo u otro, hace tiempo que habían madurado una conciencia crítica y unas prácticas, no necesariamente bajo la bandera de algún grupo u organización. De hecho muchos han acudido individualmente, desconfiando de grandes organizaciones centralizadoras, metiendo en el coche todo lo que podía ser útil (limpiadoras de presión, comida para animales, ropa, mantas) y yendo por los pueblos ofreciendo la propia disponibilidad en lugar de acudir a las convocatorias gestionadas por las autoridades.

La retórica de los ángeles del fango propuesta por los medios era ridiculizada por la mayoría de la gente y escucharlo no generaba orgullo, mas bien ponía de los nervios. Muchos voluntarios eran personas afectadas por la inundación que, una vez arreglada su casa donde “el agua les había llegado al cuello”, fueron donde todavía hacía falta, interrumpiendo sus actividades cotidianas, incluido el trabajo. He respirado un clima de colaboración y amigabilidad, privo de prejuicios (por ejemplo ligados al género) y he encontrado a personas con una sensibilidad particular. Una tarde, estando con otras personas ayudando a una familia que estaba viviendo un gran sufrimiento psicológico a causa del aluvión. En un momento dado a alguien del Ayuntamiento se le ocurrió mandar una pareja de Policía Local. Corrí fuera para ver que querían, pero antes de mí, una mujer había salido y les estaba diciendo a los guardias que se fueran inmediatamente, porque la situación era tranquila y ellos sólo habrían causado problemas.

Durante la jornada se alternaban momentos de trabajo duro, momentos de discusión a 360º. Una exigencia común era precisamente la de hablar juntos: del Covid, de la guerra, de estas continuas emergencias que parecen no terminar nunca, de los responsables de todo esto.

Otro aspecto importante ha sido compartir el dolor y el sufrimiento. Puesta en común especialmente “demandada” por las personas afectadas por la inundación que, con frecuencia, te paraban por la calle para charlar, para llorar, para desahogarse. Detrás de estos arrebatos, la conciencia que el aluvión no ha sido simplemente una catástrofe natural imprevista. Sino una catástrofe provocada y no anunciada, o anunciada con gran retraso, con responsables concretos: Protección Civil, Consorcios ‘di bonifica’4, administraciones municipales y regionales.

Resumiendo, esta experiencia ha sido, a pesar del drama, en términos humanos un soplo de aire fresca. Puede que la humanidad todavía sea un riesgo a correr.

¿Qué protocolo?

Sería demasiado fácil afirmar que el Estado no estaba preparado para esta inundación, así como decir que no ha sido capaz de gestionar la situación por culpa de la falta de medios, de un exceso de burocracia o de la incompetencia. Sus acciones son el fruto de una suma de circunstancias y elecciones. Seguramente la población local y los solidarios han creado dificultades a las autoridades. El intento de controlar los movimientos (mediante app y controles policiales), de evacuar zonas enteras, de centralizar la distribución de bienes, de vacunar a la mayor parte de la población… por lo que he visto no ha tenido mucho éxito. Por otro lado, el estado de abandono de estos pueblos me ha dado que pensar. Obviamente se trata de una elección deseada y motivada. Sinceramente a día de hoy no encuentro respuestas definitivas. Se me ocurren hipótesis, pero considero necesario iniciar un debate sobre las formas mediante las que el Estado afronta este tipo de emergencias locales. Visto el próximo colapso al que la sociedad industrial nos está llevando, estas catástrofes serán cada vez más frecuentes. ¿Tal vez el Estado pretenda acostumbrar a la gente a la posible falta de agua, gas, electricidad y bienes de primera necesidad durante días? ¿o bien abandona por completo a la población de modo que esta reclame “más Estado”? ¿O hay intereses que desconocemos en desalojar estos territorios concretos afectados por el aluvión?

Creo que es urgente reflexionar de forma colectiva, sobre todo con quien ha vivido más de cerca el aluvión. Con la experiencia de la pandemia, me he acercado a estos territorios esperando encontrar un determinado dispositivo (militarización, control de desplazamientos, imposibilidad de acceder a las zonas rojas), en la práctica me he encontrado con algo totalmente distinto y eso, debo decirlo, me ha tomado por sorpresa. Entonces, puede que sea importante seguir hablando sobre los estados de emergencia que se nos imponen continuamente, con el objetivo de orientar nuestro actuar. Para transformar una pequeña grieta en el sistema en una vorágine.

Una anarquista

1Alluvione, la mia solidariettà è selettiva, Bezmotiivny, anno III, numero 10

2Con este término entiendo la fase en la que una vez desalojada el agua, toca encontrar material, retirar fango, tirar todo lo dañado y la posterior limpieza.

3NdT – Básicamente “riesgo de infección, intoxicación/envenenamiento, alergia”. Me parece interesante poner el foco en la segunda. ¿Qué pasaría si unas lluvias torrenciales inundan Huelva, con un vertedero de fosfoyesos a 500m. de la ciudad, que además de muy tóxico también es radioactivo?. Es sólo uno de los muchos ejemplos que se podrían citar dentro del legado tóxico de esta sociedad tecnoindustrial. Seguro que se te ocurre algún ejemplo por tu zona…

4NdT – Bonificare, en italiano la primera acepción es: “Rehabilitar tierras pantanosas para hacerlas productivas; drenar, escurrir”. Romaña es una región con importante producción agrícola y numerosos canales.
Las responsabilidades de las administraciones puede referirse, entre otras, a la superficie cementada (y por tanto impermeabilizada): 650ha en un año, en una zona donde el 80% es de riesgo hidrológico. O en el caso del Consorcio de Bonifica, los trabajos de cementar los fondos de los canales y eliminar la vegetación de los lados realizados hace pocos años.

PDF – CON EL AGUA AL CUELLO

Traducidos de: https://brughiere.noblogs.org/post/2023/05/20/sullalluvione-in-emilia-romagna/#ACQUA%20ALLA%20GOLA