BOLOGNA: CORTEO CONTRO LA VIOLENZA MASCHILE E DI STATO

Diffondiamo un piccolo racconto, senz’altro parziale e non esaustivo, del corteo di ieri contro la violenza maschile e di Stato, che ha scaldato il cuore di molte compagne, e anche il nostro. 💜​​​🔥​

Ieri a Bologna un centinaio di compagnx, sorelle, donne, frocie, soggettività queer e non binarie, sono scese in strada, spalla a spalla, contro la violenza maschile e di Stato, per unirsi alla marea di rabbia che ha invaso Roma, cosi come tante altre città.

Il corteo ha attraversato la Bolognina, quartiere storicamente popolare preda di un violento processo di gentrificazione e militarizzazione, fino a raggiungere il centro, in Piazza Verdi.

È stato detto forte e chiaro che se le forze dell’ordine pensano di poter saccheggiare una rabbia che non gli appartiene e che gli è ostile, hanno capito male, che questa sicurezza che spettacolarizza e strumentalizza episodi di violenza per fare pinkwashing istituzionale e coprire campagne securitarie, discriminatorie e razziste, fa parte del problema, non è la soluzione; che se pensano di legiferare sui corpi delle donne, per assoggettare altri corpi, troveranno la strada sbarrata.

Si è ricordato come il sistematico annientamento all’interno delle città di spazi di intersezione e solidarietà alimenti processi di desolidarizzazione nei quartieri, quando é proprio la conoscenza reciproca in quartiere che tante volte ha impedito alla violenza di rimanere un fatto privato, a pemettere che fosse socializzata e affrontata.

Si è ribadito che una società che si autoassolve e che delega a esercito e militari un problema sul quale essa stessa si basa non fa la sicurezza di nessunx, che chi stupra e uccide è un uomo, non un immigrato, e anzi, più spesso è il “bravo ragazzo”, quello “conosciuto”, “inserito”, che “non farebbe male a una mosca”.

Si è ricordata la storia che si ripete da secoli, a ciclo continuo, che stronca le vite di compagne e sorelle per il desiderio maschile di dominarle, assoggettarle, annichilirle, e quanto il risentimento dell’assassino di Giulia verso la sua autonomia sia in perfetta continuità con la violenza istituzionale perpetuata dall’attuale Presidente della Camera Lorenzo Fontana, che accusa della crisi sociale proprio le donne che studiano, pensano, si laureano, non si dedicano alla famiglia e non fanno figli.

Si è gridata l’ostilità verso una società che intende ridurre i corpi femminili al loro ruolo riproduttivo, utili solo come dispensatori univoci di cure sempre disponibili, dediti all’uomo, al padre, al capo, a riprodurre lo stato nazione bianco.

È stata portata per le strade la voce delle soggettività trans, queer, non binarie e intersex in carcere, sono state ricordate le compagne detenute e tutte le persone che subiscono la violenza della reclusione.

E’ stata portata solidarietà alla resistenza dei movimenti femministi palestinesi e a tutte le donne, le soggettività frocie, queer e non binarie, che stanno lottando per la libertà e per l’autodeterminazione, contro il saccheggio colonialista e imperialista delle nazioni, tutte.

E’ stata ribadita l’importanza dell’autodifesa, della sorellanza, di riprendersi strade e spazi, perché nessuna sia lasciata sola con i propri guai e con la propria rabbia, perché non saremo mai libere finché tuttx non saranno liberx!


BOLOGNA: CONTRO LA VIOLENZA MASCHILE E DI STATO

CPR CALTANISSETTA: AGGIORNAMENTI SULLA REPRESSIONE SEGUITA AL TENTATIVO DI BLOCCARE UNA DEPORTAZIONE

A seguito dell’azione di solidarietà concreta che alcunx compagnx hanno portato avanti martedì scorso al Cpr di Caltanissetta, tentando il blocco della deportazione di alcunx prigionerx, la repressione si stringe su di noi e le persone vicine. Oltre alle denunce ricevute, negli scorsi giorni moltx di noi hanno subito dei fermi in strada. Stamattina, durante uno di questi fermi, D., un amico e compagno è stato trovato privo di documenti ed è al momento in stato di fermo al commissariato di Cefalù, in attesa di essere trasferito a Palermo. Chiamiamo tuttx lx compagnx solidali a ritrovarci in presidio di fronte all’ufficio immigrazione di Palermo, in Via San Lorenzo, 271 per manifestare il nostro sostegno e la nostra vicinanza al compagno fermato.

CONTRO IL RICATTO DEL PERMESSO DI SOGGIORNO

CONTRO TUTTE LE FRONTIERE

CONTRO TUTTE LE GALERE

TUTTX LIBERX!!

LA LOTTA CONTRO IL 41-BIS NON È FINITA

CON DOMENICO PORCELLI IN SCIOPERO DELLA FAME

Domenico Porcelli ha 49 anni ed è della provincia di Bari. Dal 2018 si trova in stato di detenzione, condannato a 26 anni e mezzo di carcere per associazione a delinquere di stampo mafioso con una sentenza ancora non definitiva. Da quattro anni si trova recluso in regime di 41-bis nel carcere di Bancali, nei pressi di Sassari, lo stesso regime e lo stesso carcere dove il compagno anarchico Alfredo Cospito ha portato avanti uno sciopero della fame durato oltre sei mesi contro il 41-bis e l’ergastolo ostativo, e dov’è attualmente detenuto.

Dal 28 febbraio scorso anche Domenico Porcelli ha intrapreso uno sciopero della fame contro la tortura del 41-bis, la sua è una protesta contro il decreto di proroga della misura emesso quest’anno dal Ministro della Giustizia, un provvedimento che lo vede ancora recluso in questo duro regime (la legge prevede la reclusione in 41-bis per 4 anni, rinnovabile e prorogabile per altri 2 anni di volta in volta). Nonostante il lungo sciopero della fame non ci sono state passerelle “dem” a Bancali per Domenico Porcelli, la sua situazione, lontana dai riflettori e inutile ai fini di propaganda e strumentalizzazione politica, come molte altre dietro le sbarre, è rimasta sepolta pressochè nel silenzio.

A luglio il magistrato di sorveglianza di Sassari ha respinto la richiesta – presentata d’ufficio – di differimento della pena per motivi di incompatibilità con il regime carcerario a causa della sua situazione di salute aggravata dallo sciopero della fame. La richiesta è stata respinta nonostante l’Asl di Sassari abbia fornito dettagli specifici riguardanti le condizioni critiche in cui versa.

Ad agosto Domenico attraverso i suoi avvocati ha affermato di voler richiedere il suicidio assistito, ovviamente cosa non possibile poiché in Italia è reato. Questo ricorda quanto fatto nel 2007 da un gruppo di ergastolani ostativi, tra cui Carmelo Musumeci, che chiese di convertire l’ergastolo in pena di morte per bucare il silenzio intorno a questa condizione.

I legali di Domenico hanno presentato un reclamo al Tribunale di Sorveglianza di Roma per chiedere l’annullamento del decreto di proroga del 41-bis. La giurisprudenza prevederebbe che ogni provvedimento di questo tipo contenga una motivazione specifica e autonoma sulla persistenza del pericolo per l’ordine e la sicurezza, senza utilizzo di formule stereotipate che giustifichino automatismi o si basino su giudizi presuntivi. Secondo il reclamo presentato dagli avvocati il decreto impugnato non indica invece alcun elemento preciso in tal senso.

L’udienza si è tenuta venerdì 20 ottobre e sembra sia andata molto male. Il relatore, che era anche presidente, non ha dato possibilità all’avvocata di parlare. Il presidente ha asserito che non si tratta di sciopero della fame, dal momento che ingerisce latte, tisane e the. Come già dimostrato nei mesi scorsi, lo Stato non esita ad ignorare totalmente la salute di un detenuto che non sta ingerendo cibo da mesi per soffocare qualsiasi messa in discussione del regime di 41-bis.

Intanto la situazione di salute fisica, e inevitabilmente anche psichica, di Domenico è sempre più compromessa: già a fine agosto accettava un po’ di latte ma gli venivano somministrate delle flebo perché, con pressione molto bassa, battiti cardiaci lentissimi e 55 kg di peso, non si reggeva in piedi.

L’avvocata Pintus riporta che al momento ha smesso di ingerire anche il latte per bere soltanto acqua, the e tisane, e che i valori sono preoccupanti, ha la pelle disidratata e un piede addormentato con formicolio ormai costante.

Recentemente Domenico ha affermato che se l’udienza del 20 ottobre a Roma riguardo la discussione sulla revoca del 41bis, fosse andata male, avrebbe incominciato anche lo sciopero della sete.

DUE PAROLE SU MAFIA E ANTIMAFIA

Tutti i regimi si sono serviti e si servono della costruzione di un nemico comune per manipolare le persone e ottenere consenso. La repressione e la tortura sono sempre state al servizio e a difesa del potere dominante, mai della giustizia sociale.

Quando il potere politico istituzionalizza la repressione e la tortura, il meccanismo per legittimarli agli occhi dell’opinione pubblica è quello di mostrificare chi la subisce, ed esaltare gli aguzzini che la eseguono.

I pronunciamenti marziali dei tanti politici e campioni della legalità che esortano una guerra santa alla mafia, difendono proprio la stessa democratica barbarie che la necessita e la produce.

Mafia e Stato sono indistricabili, gli interessi che li legano sono profondi e molteplici, sin dal principio. La convinzione binaria che l’antimafia rappresenti la legalità e la giutizia suprema, e che il Bene coincida con lo Stato è parte di una propaganda volta a mistificare la realtà e ad alimentare sfruttamento e oppressione. Ad oggi la mafia è colta, inserita, legata a doppio filo al capitale finanziario, agli interessi legati alle grandi opere, alla gestione del sistema degli appalti ecc. L’epitaffio inciso sulla tomba di Peppino Impastato non a caso recita: “Rivoluzionario e militante comunista – Assassinato dalla mafia democristiana.”

ESTENSIONE AI PRIGIONIERI POLITICI

E infatti dal pretesto della “lotta alla mafia” dal 2002 il regime di 41-bis è stato esteso a prigioniere e prigionieri politici e rivoluzionari e alle associazioni cosiddette eversive, perfezionando così l’armamentario della repressione preventiva.

In questo senso ricordiamo la compagna Diana Blefari che si tolse la vita dopo la permanenza in questo duro regime. Ricordiamo Nadia Lioce, Roberto Morandi, Marco Mezzasalma, tutti militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente, che vi resistono da oltre 17 anni.

TORTURA E PENA DI MORTE DEMOCRATICA

Concepito come una vera e propria tomba per vivi, il regime di 41-bis mira a recidere i legami e i contatti con il mondo esterno di chi vi è ristretta/o col proposito di costringerla/o a collaborare con la giustizia. L’isolamento totale e l’annichilimento della personalità che subisce chi vi è internata/o si aggiunge ad una quotidianità carceraria fatta di privazioni, umiliazioni e sofferenze. Un mezzo di pressione pari ai metodi dell’inquisizione, costruito per provocare danni fisici e mentali tramite la tecnica della deprivazione sensoriale allo scopo di indurre al pentimento, estorcere confessioni e dichiarazioni.

Attualmente lo Stato non solo detiene oltre 700 persone in questa tomba per vivi ma sta procedendo all’aumento dei posti disponibili, come al carcere di Uta, nella provincia di Cagliari, dove si sta procedendo nella realizzazione di un nuovo padiglione per detenuti in regime di 41 bis.

UNA LETTERA DEI DETENUTI DI BANCALI
“Vi raccontiamo cosa succede davvero”

A fine settembre dopo la morte in cella di un detenuto di soli 26 anni, i detenuti del carcere di Bancali hanno scritto una lettera:

Raccontano come “non è possibile accedere ai benefici penitenziari come le misure alternative e la liberazione anticipata che, nostro malgrado, viene istituita in condizioni talmente minime che non permettono neanche ad un qualsiasi detenuto con pena in scadenza ormai prossima a pochi mesi, di uscire prima per raggiungere i nostri famigliari. Ciò nonostante la buona condotta, perché la liberazione anticipata, che per ogni semestre è di 45 giorni, non viene istruita dalla stessa area trattamentale. Parimenti si verificano le stesse condizioni su tutti i detenuti, che con i requisiti e i termini di legge raggiunti con buona condotta, ed essendo, in possesso altresì di accettazione e destinazione, nonché di lavoro con contratto e tutto il necessario, non vengono messi in condizioni di accedere al beneficio o alla misura alternativa”. Idem per i detenuti vulnerabili, in condizioni di fragilità psichica o tossicodipendenti, i quali si trovano di fronte al “diniego, in quanto l’Area educativa relaziona detenuti compatibili al carcere.”

“Ci sono persone con disabilità anche gravi, con età superiore ai 75 anni e patologie fisiche e psichiatriche”

Tra i tanti reclusi dentro Bancali con residui di pena di pochissimi anni e addirittura mesi c’è un giovane straniero, raccontano, che da diversi mesi attende la liberazione anticipata “E’ stata più volte sollecitata all’area educativa, ma mai inoltrata all’apposito ufficio di sorveglianza, nonostante il fine pena sia previsto poco prima della fine dell’anno. Tutto ciò è vergognoso e ci sono numerose persone in queste condizioni”.

Nella lettera i detenuti hanno anche messo in luce la condizione ancora più difficile degli stranieri extracomunitari “Queste persone, che escono per permessi premio per buona condotta, devono lavorare come degli schiavi per produrre economia, chissà per chi. Altro che permesso premio, questo si chiama caporalato”.

La morte del giovane di 26 anni non è stata l’unica all’interno del carcere di Bancali, nella lettera i detenuti ricordano un detenuto morto nel settembre 2022 per overdose “Nonostante avesse scontato 7 anni ed era oltre la metà della pena, gli è stata negata la possibilità di accedere ai permessi premio e lo stesso, facendo una riflessione e vedendosi privato di ogni speranza, si è tolto la vita. Come Erik Masala, che, considerata l’età poteva essere il figlio o il fratello di ognuno di noi”.

I detenuti di Bancali hanno organizzato una donazione per sostenere i familiari e le spese del funerale “non doveva più nemmeno essere detenuto a Bancali in quelle condizioni”.

Contro ogni carcere e la tortura del 41 bis, continueremo a lottare!

Testo PDF: Con Domenico Porcelli in sciopero della fame


Link:

Carcere di Bancali (Sassari): Domenico Porcelli in sciopero della fame dal 28 febbraio. 70 indagati per il presidio di solidarietà per Cospito

Al 41 bis e in sciopero della fame da 5 mesi, adesso chiede l’eutanasia

 

https://www.infoaut.org/divise-e-potere/la-lettera-dei-detenuti-dal-carcere-di-bancali-sassari-vi-raccontiamo-cosa-succede-davvero

[È “consuetudine”, non solo a Bancali, che i detenuti scontino pene oltre la detenzione o si vedano precluso l’accesso a misure alternative perché i magistrati di sorveglianza sono in ferie o non ci sono, e non rispondono a nessuna richiesta. Anche l’accesso al lavoro, allo studio o a visite specialistiche è spesso complicato se non impossibile. Tanti detenuti inoltre non vedono mai nessuno, non fanno colloqui con nessuno. Chi ha fragilità psichiche o è gravemente malato viene lasciato senza cure o assistenza. Moltissimi non hanno nessuna disponibilità economica per pagarsi la difesa o una rete per difendere le proprie istanze. Chi ha pene pari o inferiori a tre anni inoltre non può accedere a benefici o a misure alternative a causa delle condizioni ostative.]

https://www.sassarioggi.it/cronaca/morto-in-carcere-bancali-erik-masala-verita-20-settembre-2023/

https://www.reportsardegna24.it/cronaca/3-giugno-presidio-al-carcere-di-uta-no-alla-nuova-sezione-41bis/

TORINO: CORTEO CONTRO IL CARCERE

CORTEO SABATO 11 NOVEMBRE
DALLE ORE 15
Angolo via Val della Torre/corso Cincinnato (Torino)


GOVERNARE (DA)I MARGINI:
CONTRO IL CARCERE E LA SOCIETÀ’ CHE NE HA BISOGNO

Mentre non si riesce più a contare il numero di gente massacrata e la cui vita è in scacco per via di necessità e imperativi di guerra che bussano alle porte di questa Europa apparentemente prossima al collasso sia economico che ecologico; mentre i giornali imperversano in una retorica schiacciante in cui terrorista è nominato colui che lotta, si organizza e risponde – colpo su colpo – alla violenza degli Stati, alla violenza delle colonie e all’ingiustizia strutturale dei sistemi differenziati del capitalismo neo-liberale (ossia la produzione, da parte del capitalismo, di categorie di persone sfruttabili, ricattabili e reprimibili a seconda delle sue necessità); mentre tutto questo succede, il carcere – essenza materiale e simbolica, della dirompenza del sistema di controllo, punizione e messa a valore delle classi oppresse – diventa un nodo centrale contro cui lottare. Non solo per ribadire come il potere si materializzi sulle vite di sfruttati e sfruttabili, ma anche per sottolineare quali alleanze vogliamo ribadire, scoprire e valorizzare nel nostro bisogno di organizzarci contro un’esistenza invivibile e inaccettabile.

Il momento storico in cui ci troviamo a vivere ci impone la necessità di ampliare lo sguardo sul fenomeno carcerario, legandolo non solo a un dispositivo fisico repressivo, ma capendo come la diluizione del sistema carcere al di fuoridelle patrie galere coinvolga inevitabilmente i diversi strati sociali e informi il tessuto sociale tutto. Il governo Meloni e le sue politiche, marcatamente classiste, razziste e securitarie, mostra una continuità a ritmo sostenuto, in rapporto con gli esecutivi precedenti nel creare supposti “soggetti criminali” e nemici da cui difenderci. La tendenza è quella giustizialista che continua a materializzarsi nell’uso della decretazione d’urgenza, sia riguardo al fenomeno della cosiddetta “devianza giovanile” sia a quello della migrazione. Decreti che hanno il medesimo obiettivo politico: privazione della libertà personale e di movimento. Un vero e proprio strapotere penale, e carcerario, quello che si sta sviluppando oltre il perimetro dell’istituzione totale per eccellenza, dove a farne le spese sarà la parte più sfruttabile e ricattabile del tessuto sociale.

Il mito collettivo, secondo cui la prigione protegge (da cosa esattamente?) e quindi sia un male necessario, non è altro che un mito utilizzato per giustificare, quando ancora ce ne sia bisogno, l’istituzione carcere in sé, luogo ove confinare la miseria e soffocare la protesta contro l’ordine stabilito e creare cittadini obbedienti. E questo mito è di sovente ancorato all’idea, quasi religiosa, del “chi ha peccato deve pagare”. Ma invece è ovvio che le carceri, essendo per essenza strutture coercitive, non possono che avere come unico scopo la disciplina e la sicurezza. Questo controllo sociale totalizzante viene esercitato al di là delle mura del carcere, attraverso la paura che esso incute, ma anche per mezzo delle cosiddette pene alternative, ovvero ulteriori strumenti per aumentare la carcerazione diffusa. La prigione è il luogo di punizione per eccellenza, in cui la società capitalista neoliberale rinchiude coloro che dichiara dannosi, per contenere qualsiasi slancio di rivolta sociale e mantenere così al suo interno valori morali basati sulla disuguaglianza, sullo sfruttamento, sul rispetto dell’autorità e sulla sottomissione alla violenza dello Stato.

Le rivolte, gli scioperi della fame, le lotte dei reclusi che caratterizzano la quotidianità delle carceri, sono l’evidenza di una rabbia irriformabile. Una rabbia relegata, dagli organi governamentali, a una totale silenziazione delle sue rivendicazioni, in cui si vuole privare di significato qualsiasi atto di protesta con la conseguente invisibillazione delle condizioni detentive.

Le parole del ministro della Giustizia Nordio, in visita al carcere Lorusso e Cotugno, lo scorso mese in risposta alla morte di due detenute, non fanno altro che speculare sull’accaduto e portare avanti i calcoli politici di governo, di fronte all’evidenza strutturale che il carcere uccide. Lo scopo delle istituzioni penitenziarie è dunque chiaro: controllare, monitorare, punire, uccidere, poiché la necropolitica è parte integrante della logica carceraria.

Essa si basa sul fare della violenza-tortura-morte uno strumento di controllo e deterrenza per gli internati, verso il mondo dei liberi e in particolare verso quegli strati del tessuto sociale che, in diverse forme, escono dagli schemi costruiti attorno ad essi. Grazie allo sciopero della fame di 181 giorni portato avanti da Alfredo Cospito e alla mobilitazione contro il 41bis e l’ergastolo ostativo al suo fianco, è oggi forse maggiormente noto come lo stato utilizzi la tortura, annientando psico-fisicamente le persone detenute nelle carceri per estorcere informazioni, richiedere il pentimento o la dissociazione. Questi sono i meccanismi brutali di cui si avvalgono le istituzioni per il re-inquadramento di massa della società tutta.

Quando il sistema carcerario esplica la sua funzione violenta e mortifera, l’opinione pubblica tende a polarizzarsi in due correnti non dualistiche tra di loro: da una parte si consolida l’approccio giustizialista, dove si criminalizza e si condanna alla responsabilità individuale dell’espiazione della colpa, discorso accettato da un ampia fetta della società. Dall’altra, invece, il paradigma garantista, abbandonate le proprie velleità di assicurazione dello stato di diritto – come il principio di proporzionalità e funzione rieducativa della pena – si riduce alla mera richiesta di più controllo e sorveglianza negli istituti penitenziari, tramite l’assunzione massiccia di guardie, militari e personale sanitario. Nello specifico i sindacati di polizia avanzano rivendicazioni bastate sulla richiesta di più organico con l’obbiettivo di aumentare la loro capacità di coercizione e violenza nei confronti dex detenutx,soprattutto dex rivoltosx.

Entrambi gli approcci danno voce quindi ad un unicum securitario. Un discorso che nel suo complesso va smascherato. La violenza statale si perpetua nell’ordine carcerario anche attraverso il sovraffollamento, la mancanza di cure sanitarie e i pestaggi della polizia. Pensare di riformare le carceri non è un’orizzonte politico desiderabile perché non può esserci una vera emancipazione senza la distruzione totale dei luoghi di reclusione e della società che li necessita.

CONTRO IL CARCERE E LA SOCIETÀ CHE NE HA BISOGNO
Rendiamo tangibile la solidarietà a chi resiste e lotta contro la violenza quotidiana della detenzione, attraversando le strade di Vallette per arrivare fino alle mura del carcere Lorusso Cotugno.

TREVISO: SENTENZA DI PRIMO GRADO PER LE PROTESTE NEL CENTRO DI ACCOGLIENZA EX CASERMA SERENA

Diffondiamo:

Sentenza di primo grado per le proteste nel centro di accoglienza Ex Caserma Serena (Treviso): solidarietà a Mohammed, Abdou e Amadou!

Il 20 ottobre il Tribunale di Treviso ha pronunciato la sentenza di primo grado nei confronti di Mohammed, Amadou e Abdourahmane, per le proteste avvenute l’11 e 12 giugno 2020 dentro il centro di accoglienza Ex Caserma Serena di Treviso, di cui i tre erano accusati.
L’accusa di devastazione e saccheggio è caduta, ma è rimasta quella di sequestro di persona per i fatti del 12 giugno. Il PM aveva inizialmente chiesto condanne di 6 anni, ma al termine di questa udienza due di loro sono stati condannati a 1 anno e 8 mesi, e l’altro a 2 anni.

La repressione che i tre hanno subìto ha voluto fin da subito essere esemplare: si voleva punire una rivolta per dare un segnale a tutte le altre, in un’estate in cui le proteste si moltiplicavano in tutti i luoghi di reclusione per persone immigrate in Italia.
Il quarto imputato di questo processo, Chaka Ouattara è morto in isolamento nel carcere di Verona il 7 novembre 2020 nel silenzio e nell’indifferenza generale.

Abdou, Mohammed e Amadou hanno passato tre anni tra carcere, arresti domiciliari e obblighi di firma. A tutto questo si aggiunge il ricatto quotidiano di non riuscire più a ottenere o rinnovare il permesso di soggiorno, di non avere abbastanza mezzi economici e reti di relazioni per sostenere le spese legali e tutto il peso della repressione.
Per questo è importante tenere viva la solidarietà nei confronti dei tre e di tutt* quell* che spesso nell’isolamento più totale lottano per la propria libertà.

Venerdì mentre il Tribunale di Treviso pronunciava la sua sentenza, c’è stato un presidio solidale davanti al tribunale e diversi striscioni di solidarietà sono apparsi in diverse città d’Italia: a Torino, a Roma in occasione del corteo per la Palestina nelle strade di Torpignattara, e anche a Borgo Mezzanone, in provincia di Foggia, per ribadire ancora una volta che chi lotta non è mai solo.

Per Chaka, in solidarietà con Abdou, Mohammed e Amadou, TUTT LIBER!

FIRENZE: SGOMBERO VIA GRAMSCI 41

Dai canali dell’occupazione Corsica:

Stanno sgomberando viale Gramsci 41! Un compagno è riuscito a prendere il tetto e sta resistendo. Chiunque può raggiunga il posto, un’altra settimana di resistenza sta per iniziare.

Viene segnalato inoltre un fatto grave: la polizia questa mattina ha raggiunto il tetto tramite scale esterne con le torce spente e le pistole in mano.

FIRENZE: CI VOLEVATE FUORI DA RIFREDI? ECCOCI!

Nuova occupazione in via Gramsci 35 mentre continua la resistenza sul tetto del circolo Romito.

Diffondiamo dai canali dell’occupazione Corsica:

Oggi abbiamo aperto questo luogo, lo abbiamo aperto perché in questa città non esistono luoghi di aggregazione, non esistono luoghi di socialità, non esistono case per le persone.
Domenica abbiamo occupato un circolo, un circolo abbandonato nel nostro quartiere, un quartiere che tanto soffre della mancanza di spazi. Un quartiere che sta venendo smembrato dai processi gentrificatori, che dopo aver rovinato il centro dilagano nelle periferie vicine. Ora Nardella, dopo aver reso invivibile il centro parla di vietarci gli air BnB, e non solo questo è troppo poco e troppo tardi ma è proprio sintomo di una precisa volontà di espandere la bolla degli affitti brevi a nuove aree, turistificandole e allontanando ulteriormente i residenti.
Il nostro quartiere lo abbiamo sempre amato ed abitato ma ora non ci vogliono lasciare nessuno spazio. Circolini, parchi, piazze, luoghi occupati e posti di socialità, sempre meno rimane di quello che era il nostro quartiere.

Ma noi non ci arrendiamo. Non siamo disposti a vivere in una città invivibile, in cui si lavora solo per pagare l’affitto (a Firenze la media degli abitanti spendono il 50% del proprio stipendio in affitto) e non c’è spazio per andare a farsi una birra senza spendere dieci euro in un luogo per turisti.
Per questo siamo qui oggi, perché vogliamo dimostrare che questa città di spazi ne ha bisogno e in un modo o nell’altro questi spazi li prenderemo, e se non ci volete nel nostro quartiere ci avrete ovunque, soprattutto dove non ci volete.

UNITI SI VINCE

ROMA: APRIAMO LA STREET PARADE CON UN CARRO CONTRO LA VIOLENZA MASCHILE SULLE DONNE

Diffondiamo da L38Squat:

APRIAMO LA STREET PARADE “IL GRIDO DELLE PERIFERIE PRENDE FORZA IN STRADA” CON UN CARRO CONTRO LA VIOLENZA MASCHILE SULLE DONNE

Saremo in testa alla street parade e non vogliamo che siano altri a parlare al posto nostro.

Ogni giorno i quartieri popolari vengono dipinti come “terra di nessuno”, facile teatro di violenze contro le donne e la gente che li abita come complice silenziosa.
L’Italia femminicida utilizza i mezzi d’informazione per cristallizzare la violenza. Ogni giorno veniamo bombardatx dalle notizie mediatiche con i particolari scavati nella vita delle donne uccise da mariti, fidanzati, amici cugini e zii senza che venga mai rivolta un’accusa alle fondamenta di una società basata sulla sopraffazione.
La politica difende il potere patriarcale e strumentalizza gli episodi di violenza maschile sulle donne per campagne securitarie che hanno lo scopo di terrorizzarci, disciplinarci e spingerci a restare chiuse in casa. La risposta politica ai più eclatanti episodi di violenza sono blitz di polizia nei quartieri popolari, i militari nelle stazioni e un innalzamento delle pene e tutto ciò niente ha a che fare con il contrasto alla violenza sulle donne. Le tante politiche di populismo penale fatte sulla nostra pelle non hanno mai prodotto alcun risultato: i dati pubblicamente noti che riguardano la violenza maschile sulle donne sono invariati. Mai viene nominata l’importanza delle reti di solidarietà e sorellanza, mai ci si riferisce al lavoro dei centri antiviolenza, mai si parla della necessità di educare contro gli stereotipi di genere che collocano le donne sotto il controllo degli uomini.
Viviamo nelle occupazioni di case, sbarriamo i portoni per portare solidarietà a chi è sotto sfratto, ma sappiamo bene che spesso le mura domestiche sono tutt’altro che luoghi sicuri per noi perchè è proprio in famiglia che avviene il maggior numero di violenze.
Chi parla al posto nostro non sa che alcune volte è stato proprio il senso di appartenenza e la conoscenza reciproca in quartiere a permettere a molte di noi di cavarsela, impedendo che la violenza restasse un fatto privato.
Se il primo passo è riconoscere la violenza che su di noi viene agita, il secondo è avere la possibilità di fuggirne. Sappiamo quanto è complicato riuscirci quando non hai una indipendenza economica o una rete di relazioni su cui poter contare.
Questo è per noi un motivo in più per scendere in strada e darci forza insieme, perché nessuna venga lasciata sola coi propri guai. Lo facciamo con la musica che piace a noi, con lo spirito alto di chi non je la darà mai vinta.
Venerdì 27 ottobre – ore 18.30
Partenza dal primo ponte del quartiere Laurentino 38
(via Ignazio Silone altezza via Gian Pietro Lucini)