CEMENTO MORI

Diffondiamo un testo scritto da alcunx compagnx sicilianx in vista del corteo No Ponte del 18 maggio a Villa San Giovanni (RC).

CEMENTO MORI
“Oggi mi libero della paura. La pazienza si vendica”.

Scilla «Latra terribilmente: la voce è quella di un cucciolo di una cagna, ma è un mostro spaventoso, e nessuno, neanche un dio, avrebbe piacere a trovarsi sulla sua strada. Ha dodici piedi, tutti orribili e sei colli lunghissimi, e su ognuno di loro una testa spaventosa e tre file di denti fitti e serrati, pieni di nera morte. Per metà è immersa nella grotta profonda, ma sporge le teste fuori dal baratro orribile e là pesca, frugando intorno allo scoglio, delfini e foche e bestie anche più grandi. Nessun navigante può vantarsi di esserle sfuggito illeso sulla sua nave; con ogni testa afferra un uomo, portandolo via dalla nave nera». «Di fronte a Scilla sta Cariddi in agguato all’ombra del fogliame di un immenso fico, su una rupe inaccessibile. Il mostro Cariddi per tre volte al giorno inghiotte e vomita dall’orrenda bocca enormi quantità di acqua con tutto quel che contiene».

Così Circe descrive a Odisseo questo pezzetto di mare, crocevia dei più diversi popoli che lo attraversano da sempre, incontrandosi, commerciando e scontrandosi.
Due mostruose figure femminili che distruggono chiunque passi fra loro, come due lame di una stessa cesoia. E se fossero invece le anime di una terra stanca di essere stuprata? Di un sud, tra i ‘sud’ del mondo, dal quale stato e capitale estraggono valore?
Succhiano vita, cacano disperazione e ce la spacciano per progresso:

“Gioite selvaggi, lavorerete per costruire la vostra stessa miseria. Sarete lavoratori e lavoratrici in nero al servizio dell’industria turistica e i vostri figli cresceranno in placente con alto contenuto di plastica. Sarete operai e operaie del petrolchimico, vi spetta in premio un cancro per famiglia. Sarete operatori e operatrici nei lager per migranti, secondini, militari e poliziotti: e mangerete pane condito col sangue e le lacrime dei vostri vicini di casa. La maggior parte di voi rimarrà disoccupata, ma se ci supplicherete come si deve potremmo sempre edificare altre magnifiche opere che vi daranno da sopravvivere e vi condurranno più rapidamente alla morte, vi libereremo così anche dall’onere di lavorare!”

Ma noi, avanzi di furti subìti, dignità del dubbio che sa imporsi, grideremo il nostro discorso politico senza saliva: “Se invece fossimo il vento e la sabbia che si incontrano e si fanno bufera? Se fossimo le onde che stanno per rompersi? Siamo la forza delle nostre montagne e i nostri sogni sono radici di ginestra che cresce nel fuoco. Siamo pazienze stanche pronte a vendicarsi. E la zagara ci accompagna e la madonna nera ci protegge. E i cormorani e i pescispada ci sono amici. Nelle vene ci scorre il sangue brigante delle lotte passate. La nostra vita non è in vendita!”

Il ponte sullo stretto, nell’ideologia prima e nella messa in opera dei lavori poi, è l’ultimo manifesto dell’economia simbolica del potere. Ma chi è questo potere? Nella fitta maglia dei rapporti sociali e politici è possibile cercare, con l’anima in spalla e la determinazione in mano, i redattori di questa storia che ha ancora la possibilità di finire in modo diverso. Una rapida occhiata al sito di WeBuild suggerisce un’impresa non solo attenta a valori come la sostenibilità o la compatibilità delle sue mega-infrastrutture con i territori e chi li abita, ma anche promotrice di uno sviluppo incentrato su “un domani migliore” – per dirla con le parole dell’amministratore delegato Pietro Salini.

Ma la domanda qui sorge spontanea: migliore per chi? Infatti, a guardar bene gli effetti degli interessi economici del gruppo in determinate aree si può nitidamente vedere quale sia il modello di sviluppo tanto caro a WeBuild e a chi appalta la realizzazione di opere per il “bene pubblico” – che coinciderebbe con l’aumento dei profitti per i soliti noti. La necessità di estrarre valore ad ogni costo ha troppo spesso indotto a nascondere volutamente tutta una serie di effetti di questa visione del mondo: ma quegli effetti sono invece ciò che non si può più tacere, né tantomeno accettare.


WEBUILD: ANATOMIA DEL CEMENTO

La specializzazione del gruppo WeBuild è la costruzione di dighe: operando principalmente nel continente africano, in Asia e nel latino-america, ha costruito più di 300 impianti.

Ma WeBuild è solo il capitolo più recente di un percorso imprenditoriale che ha inizio negli anni 30’ del secolo scorso. Un capitolo che ha inizio quando la Salini S.p.a. si consolida nel mercato edilizio ed infrastrutturale in Italia, dopo Impregilo ed Astaldi.

Diversi sono gli esempi in cui il gruppo imprenditoriale, con il suo agire, ha determinato una serie di effetti devastanti sui luoghi interessati dalle sue opere e sulle persone che li abitavano. Pensiamo alla costruzione della diga di El Quimbo, in Colombia, per la quale sono stati inondati circa 8.500 ettari di terra, che erano prima coltivati e servivano in qualche modo da sussistenza per chi viveva quelle zone; inoltre, non si sarebbe veramente tenuto in conto di quanto la deviazione dei flussi idrici interessati nella costruzione della diga avrebbe potuto impattare negativamente sull’abitabilità di quelle zone per diverse specie, tra cui quella umana. In altre parole, il tessuto sociale, economico e biologico è stato del tutto lacerato dalla predominanza del cemento. L’imposizione di un processo tecnologico, giustificato dalla necessità di produrre energia elettrica (ma per chi? e per cosa?), ha avuto conseguenze devastanti ovunque si sia verificato. Altro progetto esemplificativo del progresso targato webuild è la diga Gibe III, costruita sulla valle dell’Omo tra Etiopia e Kenya. Gli scopi di questa infrastruttura idro-elettrica sono quello di produrre energia per il compartimento industriale (ossia da vendere sul mercato) e quello di deviare l’acqua per l’irrigazione di circa 500 ettari di terreno destinati ad uso commerciale dallo Stato etiope. Si possono anche solamente immaginare quali siano stati gli effetti della costruzione della Gibe III su popolazioni per cui l’acqua e la terra erano tutto. Vengono private dei mezzi di sussistenza di base parecchie persone che sono costrette per lo più ad andare a (soprav)vivere altrove. Inoltre, da un rapporto dell’human right watch del 2012, emergono dettagli tetri circa il trattamento riservato a chi aveva avuto l’ardire di opporsi a questo stupro della Terra. Il nome Gibe III proviene dall’esistenza di Gibe I e Gibe II, altre due turbine idro-elettriche costruite nella Valle dell’Omo. Tra l’altro per la Gibe II anche il governo italiano prese parte all’opera attraverso il ministero degli affari esteri. Ma i dettagli inquietanti sembrano non finire mai quando si scava nel passato della ex Salini Impregilo, coinvolta anche nella costruzione della diga del Chixoy, in Guatemala: per portare a termine i ‘lavori’, in quel caso, intere comunità vennero disgregate e centinaia di persone massacrate a morte. Attualmente WeBuild ha in corso, solo nel Meridione d’Italia, circa 19 mega progetti (che spaziano dalla realizzazione di nuove linee ferroviarie ad alta velocità ed alta capacità, a tutta una serie di lotti autostradali, ed infine ad alcune linee metropolitane). Tutto questo apparato cantieristico per l’infrastruttura è retto da due “centri di addestramento avanzato per il lavoro” che si trovano in Sicilia e in Campania: terminologia niente affatto casuale, implicita ammissione di una vera e propria invasione, nella cui logica interna la persona che lavora in cantiere è considerata alla stregua di personale militare. Questa occupazione economico-militare dei territori fa tanto pensare ad un dislocamento bellico pronto alla grande operazione, come potrebbe essere la costruzione del ponte sullo Stretto di Messina. Le modalità sono sempre le stesse, la predatorietà pure.

Sembra quasi che le loro reti, i loro jersey e le loro ruspe appaiano tutte all’improvviso, precedute da una retorica di miglioramento delle condizioni dei luoghi dove operano, praticano senza pietà le loro amputazioni su di un corpo che ai loro occhi algoritmici appare ridotto in fin di vita ed è pertanto un’ottima cavia per sperimentare e per arricchirsi.

La logica dell’invasione pervade in tutti i sensi la comunicazione e le modalità operative di queste corporazioni; WeBuild non è l’unica a leccarsi i baffi dinanzi a un bottino appetibile a molti interessi – tutti volti al mero guadagno, al crescere dei flussi turistici, alla necessità di una sempre maggiore quantità di energia elettrica, beffardamente spacciata per green. La logica dell’invasione, le sue ruspe e gli scudi e i manganelli che le ‘scortano’ quando alziamo la testa, incalza ogni giorno i nostri corpi, bracca le fibre di cui è fatta la nostra vita. Ma la cattura non è mai completa: ogni giorno succede che qualche sensibilità si incammini, da sola o in compagnia, in direzione ostinata e contraria; e non smettono di aprirsi crepe, e varchi, ogni volta che i nostri polmoni riescono a non arrendersi all’aria del tempo, e i nostri cuori a respirare, disertare, insorgere.

“L’unico organo della virtù è l’immaginazione. Ed è solamente in base a questa forza che si giudica la moralità del tuo comportamento. Il tuo primo imperativo ordunque sia: <immagina!>. E il secondo, immediatamente connesso al primo: <combatti coloro che coltivano l’indebolimento di questa funzione.>”

‘A zzoccula ‘nta l’ingranaggi

Link alla versione PDF: Cemento_Mori_

 

CORTEO A TORINO – 2 GIUGNO 2024

CORTEO A TORINO – 2 GIUGNO 2024

ALLA REPRESSIONE SI RISPONDE CON LA LOTTA

Contro la militarizzazione che da decenni procede a piè sospinto nelle
strade, nelle scuole, nelle università e lungo le frontiere.

Contro la mobilitazione feroce della società tutta verso la guerra.

Contro l’intensificarsi della repressione, dove il 41bis e l’ergastolo
ostativo sono l’apice che dà forma al sistema carcerario e alla società
che lo necessita.

Per la creazione di complicità tra chi viene colpito dalla violenza di
Stato e Capitale.

In risposta al fronte di guerra aperto dallo Stato contro nemici interni
e dissidenti, di cui l’ultima operazione torinese “City” (misure
cautelari a riguardo al corteo del marzo 2023 in solidarietà ad Alfredo
Cospito) è l’ennesimo esempio.

Per rivendicare la presenza auto-organizzata in strada, sempre più
criminalizzata, e ribadire che la risposta alla repressione è continuare
la lotta!

TORINO: LA REPRESSIONE NON FERMERÀ LE NOSTRE LOTTE [ASSEMBLEA PUBBLICA]

La repressione non fermerà le lotte.

Alla repressione rispondiamo con la lotta.

All’alba del 22 aprile 2024, la Digos di Torino eseguiva 19 misure cautelari nei confronti di altrettante/i compagni/e accusati/e, insieme a molti/e altri/e, a vario titolo, di devastazione e saccheggio, violenza e minaccia a pubblico ufficiale, resistenza e istigazione a delinquere. Il tutto con numerose aggravanti e incorniciato dall’ormai noto strumento repressivo del concorso.

I fatti imputati risalgono al corteo che si è svolto a Torino il 4 marzo 2023 contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo in solidarietà ad Alfredo Cospito in sciopero della fame. Quel momento di piazza era la risposta alla decisione della Corte di Cassazione di confermare la detenzione in 41bis di Alfredo, già in sciopero della fame da più di 4 mesi, e si inseriva all’interno di una mobilitazione internazionale in cui si sono susseguite innumerevoli iniziative e azioni, contro due dei pilastri più coercitivi del sistema giuridico/carcerario italiano volti ad annientare e torturare l’individuo.
Questa inchiesta non è stato un caso isolato,in tante città d’Italia le procure non hanno tardato ad attaccare la solidarietà creatasi in quei mesi.

A fronte di questo ennesimo tentativo di rendere le lotte di piazza sempre più residuali, reprimere e isolare la solidarietà, è fondamentale incontrarci per discutere in una pubblica assemblea come procedere nel contesto attuale.

Del resto, lo Stato ha la necessità intrinseca – sempre più stringente in questi tempi di guerra – di eliminare ogni “moto” contrario all’ordine costituito ed al pensiero unico, di eliminare ogni pratica che ci dia gli strumenti per difenderci e per non farci arretrare.

La nostra volontà è quella di rilanciare una risposta collettiva all’ennesimo tentativo di reprimere i momenti di piazza e la conflittualità. Proprio oggi – mentre Israele porta avanti un genocidio trasmesso in mondovisione, mentre l’economia mondiale punta sempre di più sull’industria bellica, mentre la presenza dei militari nei territori è sempre più pervasiva – stare in strada risulta urgente e necessario.

Di fronte all’attacco diretto ad ogni forma di conflittualità nel contesto di guerra permanente; di fronte al tentativo dello Stato di criminalizzare le pratiche di piazza; al fianco delle indagate e agli indagati per il corteo del 4 marzo 2023, in solidarietà con Alfredo Cospito in sciopero della fame contro il 41 bis ed ergastolo ostativo.

Assemblea pubblica, atrio di Palazzo Nuovo, Torino. Ore 18:00

BOLOGNA: MISURE CAUTELARI PER LA MOBILITAZIONE IN SOLIDARIETÀ AD ALFREDO E CONTRO IL 41BIS

Diffondiamo:

A Bologna sono state disposte 3 misure cautelari (obbligo di firma per 2 compagnx, obbligo di dimora con rientro notturno e obbligo di firma per una compagna) in relazione all’indagine in corso a seguito della mobilitazione in solidarietà ad Alfredo e contro il 41 bis. Le misure sono disposte per 2 reati: il danneggiamento della recinzione di un cantiere durante l’occupazione di una gru in centro città con presidio solidale per Alfredo nel dicembre 2022 e danneggiamento di alcuni ripetitori nel maggio 2022. Le indagini sono ancora in corso per 270bis, ma in sede di applicazione delle misure cautelari la GIP non ha ritenuto sussistenti il reato di associazione con finalità di terrorismo e delle aggravanti con finalità terrorismo.
Seguiranno aggiornamenti.

TUTTA LA NOSTRA SOLIDARIETÀ E COMPLICITÀ AI COMPAGNI E ALLE COMPAGNE COLPITE

ALFREDO LIBERO, 41BIS TORTURA

TUTTA LA NOSTRA SOLIDARIETÀ A BACHCU!

Diffondiamo:

Tutta la nostra solidarietà a Bachcu, arrestato lo scorso 11 aprile. Chiunque conosca Bachcu come lo conosciamo noi, grazie alle battaglie in cui siamo spesso fianco a fianco, contro politiche migratorie assassine e vessatorie, contro carceri e CPR, per la liberazione degli spazi e dei corpi, sa perfettamente che il teorema accusatorio che lo ha investito è pura invenzione. Ci stringiamo alla famiglia e alla comunità bengalese di Roma, di cui Bachcu è un punto di riferimento imprescindibile proprio per le sue battaglie contro quelle violenze di cui ora lo si accusa. Chiunque voglia metterlo a tacere sappia che questo non potrà mai accadere, e che la sua voce è anche la nostra, e continueremo a portarla nelle strade e nei quartieri come abbiamo sempre fatto, fianco a fianco. Bachcu libero!

https://www.facebook.com/share/p/y9KcLaePgi2hGr4T/ via Campagne in Lotta

BOLOGNA: PRESIDIO AL CARCERE DELLA DOZZA

Riceviamo e diffondiamo:

SABATO 27 APRILE alle 15.00 ci vediamo davanti alla sezione femminile del carcere della Dozza. Appuntamento al benzinaio Eni di Via Ferrarese, dietro al carcere.

Contro le violenze di stato, contro il nuovo piano carceri, libertà per tutte e tutti!

– A gennaio al carcere della Dozza un detenuto ha tentato il suicidio.

– Nei primi mesi dell’anno due detenuti a distanza di poche settimane hanno dato fuoco alla loro cella.

– A marzo nella sezione femminile due detenute si sono tolte la vita mentre una terza è rimasta gravemente ferita.

– Di recente un detenuto si è rivoltato ai suoi aguzzini con il supporto di un estintore.

Questi sono solo alcuni degli episodi riportati dalla stampa locale, chissà invece quante sono le storie e le proteste che non riescono a oltrepassare quelle mura.
Mentre nei quartieri vediamo aumentare ogni giorno la guerra contro i poveri, il razzismo e la repressione, con l’ausilio delle violenze quotidiane delle forze dell’ordine per le strade, nelle carceri le condizioni di detenzione diventano sempre più dure, in celle sempre più sovraffollate, dove d’estate si soffoca e di inverno si gela, senza acqua calda, tra cibo scadente e i soprusi costanti delle guardie.
Con il piano carceri gli stessi governanti che hanno riempito le galere fino a farle scoppiare intendono continuare ad investire nella costruzione di nuovi centri detentivi e padiglioni.
In un momento in cui il carcere si sovrappone sempre più al manicomio, e sempre più persone sono private della libertà, torniamo sotto al carcere della Dozza per ribadire che la città per cui lottiamo non ha carceri né quartieri con le sbarre! Portiamo la nostra solidarietà ai detenutx, facciamogli sentire che non sono solx!

Compagnx solidalx⁩

BOLOGNA: SOLIDARIETÀ ANTIPSI/ANTI-INPS

Riceviamo e diffondiamo:

Scriviamo questo testo per rompere il silenzio su quanto sta accadendo ad un compagno, per portargli la nostra solidarietà e complicità, e per condividere la sua storia, consapevoli che come la sua ce ne sono molte altre.

Un compagno che percepisce una pensione di invalidità sta subendo la ritorsione di vedersela quasi totalmente sottratta perché l’INPS, a seguito della verifica dei requisiti – a posteriori – per il reddito di cittadinanza percepito tra il 2021 e il 2022, ritiene non ne avesse diritto.

Si parla di una cifra complessiva di 7000 euro.

Per riavere i soldi indietro l’INPS intende però, da maggio, decurtargli quasi il 90% dell’invalidità, rischiando così di compromettere un intero percorso di emancipazione.

Inutile dire quanto questo metterebbe seriamente in difficoltà la quotidianità del compagno, che da anni non solo lotta per la sua autodeterminazione, ma contro un paradigma medico-psichiatrico in cui senza una rete sociale o un welfare familiare, non si ha nessuna reale scelta.

Non possiamo accettare che per riavere il reddito di cittadinanza lo Stato sottragga ad una persona tutta l’invalidità prelevandogli quel poco che le permetteva a malapena di fare fronte alle necessità primarie.

Durante la pandemia le difficoltà sono state tante, e così il compagno, come tante persone, ha fatto domanda per il reddito di cittadinanza, on-line. Ma le insidie della digitalizzazione sono infinite, basta una crocetta o una dichiarazione scorretta, che l’onere è tuo.

Per qualche tempo il compagno ha potuto sperimentare una vita più indipendente e autonoma, dalla famiglia, dai servizi. La verifica retroattiva a posteriori irrompe nella sua vita con quella violenza secca che solo la burocrazia statale è in grado di esprimere ed esercitare.

A questo mondo chi non ce la fa a stare al passo della cultura capitalista e lavorista ultra competitiva dominante è spronato ad adeguarsi con il bastone o con la carota alle misure assistenziali, obbligato a dimostrare il proprio status di ‘persona bisognosa’ tra servizi e procedure spesso mortificanti e impersonali, in cui barcamenarsi non è affatto scontato. Servizi spesso lontani anche dalla condizione sociale delle persone ‘utenti’, che giustamente tendono a volersene sbarazzare con il rischio però di non vedersi più riconosciuta alcuna forma di diritto a condizioni di inserimento lavorativo o di lavoro ‘protetto’ nè alcun tipo di tutela.

Al momento, per quanto il debito non si possa cancellare, il compagno sta tentando ogni via possibile per fare in modo che l’invalidità non sia colpita in modo così importante, tra colloqui con figure e operatori del sistema sanitario, affinchè un’ingiustizia del genere non passi inosservata, e sportelli sociali non istituzionali che offrono anche servizi di patronato, per la possibilità di avviare anche un ricorso.

Consapevoli che non ci vanno a genio nè i servizi istituzionali paternalisti nè l’impatto che il progressivo abbandono delle misure di welfare e di sostegno ha su chi vive sulla propria pelle stigma e discriminazioni, condividiamo quanto sta accadendo al compagnx perchè pensiamo ci riguardi tuttx e chiamiamo alla solidarietà.

strappi@canaglie.org – https://antipsi.noblogs.org


A Bologna il 2 maggio cena solidale ANTIPSI/ANTI-INPS  al Mercatino autogestito Senza Chiedere Permesso.

FONDAZIONE STELLA MARIS E TAPPETO CONTENITIVO: COME SE FOSSE UNA COSA NORMALE

Riceviamo e diffondiamo questo testo a cura del Collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud sull’ultima udienza del processo sui maltrattamenti ai ragazzi con disabilità ospiti della struttura di Montalto di Fauglia (Pisa) della Stella Maris, dove è venuto fuori dell’uso del tappeto contenitivo.

Come se fosse una cosa normale

In attesa della prossima udienza in programma il prossimo 14 maggio, abbiamo fatto alcune riflessioni sull’andamento del processo che seguiamo da circa un anno. Abbiamo impiegato un po’ di tempo per rimettere a posto le idee, dopo aver assistito all’ennesima udienza (per intenderci, quella dello scorso martedì 12 marzo) del processo sui maltrattamenti ai ragazzi con disabilità ospiti della struttura di Montalto di Fauglia (Pisa) della Stella Maris. Terminato l’interrogatorio di operatori e operatrici è stato il turno delle dottoresse, Paola Salvadori (ascoltata nel corso della precedente udienza) e Patrizia Masoni.

Proprio le parole di Masoni sono quelle che ci hanno fatto più riflettere. Per il loro contenuto, certo. Ma, forse, ancora di più, per la pretesa di neutralità, di naturalità con cui sono state pronunciate.

Ha dichiarato la dottoressa Masoni, psichiatra e responsabile dell’IRM (l’Istituto di riabilitazione, l’altra struttura dipendente dalla Stella Maris, accanto alla struttura residenziale), che a Montalto di Fauglia venivano usati, in caso di crisi degli ospiti, i cosiddetti “tappeti contenitivi”.

Come se fosse una cosa normale, appunto, la dottoressa ha ribadito e meglio specificato uno dei punti più oscuri emerso già anche dalle testimonianze di altri operatori. Quando qualcuno degli ospiti diventava particolarmente irascibile e ingestibile veniva giocata la carta del tappeto contenitivo.

Nella triste logica della contenzione, che ha giustificato e giustifica tuttora metodi, violenti e irrispettosi della dignità umana, di inibizione, di immobilizzazione, di privazione anche assai prolungata dell’uso del corpo (corde, camicie di forza, cinghie, cinture, stanze chiuse a chiave, contenzione farmacologica), la vicenda maltrattamenti alla Stella Maris riesce a conquistarsi un posto di tutto rispetto.

Il tappeto contenitivo funziona in un modo semplice e in un certo senso prevedibile: il paziente viene immobilizzato e arrotolato nel tappeto.

Al presidio di Fauglia, ci ricorda la dottoressa, l’idea del tappeto contenitivo comincia a prendere piede dopo che un non meglio identificato dottore americano ne aveva consigliato l’uso nel corso di un convegno di studi, esaltandone gli innegabili effetti pratici e il fatto che «questo tipo di pazienti non gradisce il contatto fisico» (sempre secondo le parole della dottoressa, qui citate letteralmente).

L’altra tutt’altro che condivisibile motivazione a favore del tappeto contenitivo indicata dal medico americano era che il tappeto avrebbe consentito di avere meno problemi con le famiglie in caso di crisi dei pazienti. Ha affermato testualmente la dottoressa Masoni: «il medico ci aveva detto: ma voi in Italia non avete problemi con le assicurazioni quando i vostri pazienti si fanno male o tornano a casa con i lividi? Da noi il tappeto evita molte di queste problematiche…».

E così, negli anni 2008-2009, ascoltando le parole di questo medico e presumibilmente senza accertarsi della loro veridicità e dell’effettiva possibilità di praticare una simile contenzione in Italia, anche le dottoresse della Stella Maris avrebbero cominciato a utilizzarlo nella struttura, anche se solamente nel 2014 la Regione Toscana lo avrebbe inserito tra gli strumenti contenitivi accreditati.

Questo sempre secondo le parole della dottoressa Masoni: ma, al momento, a noi non risulta che questo metodo sia stato mai accreditato da nessuno, tanto meno dalla Regione Toscana. Tra l’altro gli accreditamenti dovrebbero, in ogni caso, passare dalle Unità sanitarie locali.

Nel frattempo, nella struttura si faceva di necessità virtù. All’inizio operatori e operatrici – secondo il racconto della dottoressa – si arrangiavano con quel che c’era: portavano i tappeti da casa! Solamente dopo qualche tempo sarebbe stato possibile un investimento ulteriore: la dottoressa ha raccontato che, accompagnata da altre operatrici, si sarebbe recata di persona all’Ikea a fare una scorta di tappeti a basso prezzo, come lei ha affermato. E stiamo parlando di un istituto – la Stella Maris – che ogni anno riceve dalla Regione Toscana milioni di euro.

Un’ulteriore questione riguarda il numero delle persone che avrebbero dovuto utilizzare questo tappeto contenitivo formato Ikea. Nelle testimonianze presentate al processo prima del 12 marzo alcuni operatori e la stessa dottoressa Salvadori (direttrice della Residenza Sanitaria per Disabili a Montalto dove sono avvenuti i maltrattamenti) avevano parlato della necessità di cinque persone per poterlo utilizzare: uno per arto più uno per la testa. E proprio questa disposizione avrebbe molte volte impedito l’utilizzo del tappeto a causa della carenza del personale.

Il racconto della dottoressa Masoni continua, invece, con altri particolari che descrivono una realtà (se possibile) ancora peggiore, completando un quadro allucinante. La dottoressa ha, infatti, sostenuto che in realtà un solo operatore sarebbe bastato per l’utilizzo del tappeto, e proprio per facilitare un intervento di questo tipo avevano pensato di aggiungere al tappeto delle “maniglie”, in modo da prendere come con una rete da pesca la persona recalcitrante per procedere successivamente alla procedura dell’arrotolamento.

Dulcis in fundo: in mancanza del personale previsto per svolgere la manovra di contenimento tramite tappeto più volte gli addetti avrebbero impedito un possibile “srotolamento” del malcapitato apponendo una sedia come “fermo” sopra il tappeto arrotolato su cui poi, per completare l’opera, si sarebbero posti a sedere. Cosa che è stata raccontata da altri operatori nel corso del processo.

Dal nostro punto di vista, tutto ciò è veramente troppo. Abbiamo ancora gli occhi offesi dalle immagini scorse ormai due anni fa sullo schermo del tribunale, che testimoniavano in maniera inconfutabile le – altroché presunte… – percosse rivolte agli ospiti della struttura. Abbiamo sentito le ingiurie – pesantissime – ripetute alle stesse persone solamente per il gusto di schiacciare, sottomettere, annichilire le personalità.

Questo ulteriore retroscena ci inorridisce e allo stesso tempo ci spinge a formulare alcune – dovute – considerazioni.

L’uso dei tappeti contenitivi pone a nostro avviso alcune problematiche su due ordini di riflessione. Da una parte il piano giuridico-legale: come è possibile che un crudele quanto rozzo marchingegno di questo tipo possa essere considerato regolare?

Non ci risulta che i tappeti siano presidi sanitari accreditati al pari di altri, pur crudeli, annichilenti e ugualmente inaccettabili strumenti di contenzione usati in lungo e in largo nella quasi totalità delle strutture psichiatriche di “accoglienza e cura”, come ad esempio le cinghie.

E se anche in qualche modo fossero stati legittimati da qualche protocollo interno, dubitiamo che si possano considerare regolari e accreditati i tappeti portati da casa o comprati all’Ikea. Sotto questo aspetto, giudice e/o avvocati di parte civile forse dovrebbero approfondire la questione per rilevare eventuali ulteriori profili di reato.

Ma quello che ci colpisce di più, al di là delle parole accomodanti della dottoressa, è un secondo aspetto della questione, le cui implicazioni vorremmo fossero ben inquadrate.

Non si possono arrotolare esseri umani in un tappeto. Le persone non si legano. Mai.

Non ci sono ragioni che possano giustificare una violenza del genere: tanto più in una istituzione di (presunta) eccellenza deputata all’”accoglienza” e alla “cura”; tanto più verso persone, ragazzi indifesi e bisognosi di altro che di trattamenti disumani e degradanti.

L’oltraggio ai corpi costretti da corde e tappeti di contenzione, annichiliti dagli psicofarmaci, segregati e deumanizzati in quelle strutture sanitarie che continuano a essere istituzioni totali, costituiscono la «negazione agita» (per dirla con le parole del professor Alfredo Verde, estensore della relazione tecnica per la componente di parte civile del processo di Pisa) di quanto asserito dalla stessa Carta dei servizi del presidio di Montalto di Fauglia, dove si afferma che il modello adottato ≪mette prima di tutto al centro il paziente come persona, nella sua individualità, nei suoi bisogni relazionali e personali […].

La nostra filosofia di intervento è ‘prenderci cura’ oltre che curare […]. La nostra organizzazione è centrata sul modello del piccolo gruppo di pazienti condotto da educatori professionali e da assistenti con funzioni educative, che fungono da ‘io’ ausiliario o ‘compagni adulti’ dei pazienti, che li supportano concretamente e psicologicamente in ogni atto della vita quotidiana. […] ogni ragazzo […] è visto come portatore di affetti, bisogni emotivi, aspirazioni, competenze≫.

La presunta eccellenza della Stella Maris è un grande bluff. A Fauglia non si mettevano in atto cure o trattamenti terapeutici ma violenze e trattamenti degradanti e umilianti ai danni degli ospiti. Al di là di procedure, protocolli e linee guida, che possono offrire un imprimatur giuridico e professionale alla necessità, costi quel che costi, di ridurre all’impotenza una persona, tutte le pratiche di contenzione, tra cui anche i tappeti di contenzione rappresentano, oltre che una inaccettabile violenza, uno dei tanti simboli del fallimento dell’utopia psichiatrica.

Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud
via San Lorenzo 38, 56100 Pisa
antipsichiatriapisa@inventati.org
www.artaudpisa.noblogs.org 3357002669

PARMA: DI SCIOPERI, CARCERE, E IL MONDO CHE LI PRODUCE

Riceviamo e diffondiamo un testo sul recente sciopero della fame nel carcere di Parma, sezione AS3.

DI SCIOPERI, CARCERE, E IL MONDO CHE LI PRODUCE

Fino a pochi giorni fa 114 detenuti dell’AS3 del carcere di via Burla di Parma stavano portando avanti uno sciopero generale di quattro settimane (che comprende la sospensione della spesa, del vitto giornaliero, di tutte le attività lavorative e formative, e anche lo sciopero della fame).
Lo sciopero è stato annunciato con una lettera in cui vi è una lista di 25 punti di condizioni e disagi che “rendono il trattamento carcerario debilitante, fisicamente e psicologicamente, tanto da incidere negativamente sulla vita del detenuto e dei suoi affetti famigliari”.
Non è di certo una novità che le condizioni di (non)vita nelle carceri italiane vengano contestate. Sovraffollamento, pessime condizioni igienico sanitarie, assenza o scarsità di servizi basilari [1], visite e cure mediche spesso superficiali – quando ci sono – (a meno che non si tratti di somministrare psicofarmaci, in quel caso, per la terapia che tiene “buoni” i detenuti, l’efficienza è di prima classe), ma anche i frequenti pestaggi – come abbiamo visto più volte, pure molto recentemente, anche sulle immagini delle televisioni nazionali -, o la lontananza da affetti e famigliari; e la lunga lista di problematiche potrebbe andare ancora avanti.
Questo sciopero non si slega dal contesto delle più o meno frequenti proteste e rivendicazioni dei detenuti che abbiamo visto negli ultimi anni, a partire dalle drammatiche rivolte del 2020, all’inizio del COVID (che hanno portato alla morte di tredici detenuti tra varie carceri italiane) fino allo sciopero della fame di Alfredo Cospito – e successivamente altri detenuti come ad esempio Domenico Porcelli – contro le condizioni disumane del 41BIS.
Queste condizioni – spesso alienanti, degradanti e umilianti, quando non dannose e lesive, anche per la salute – fanno parte di una guerra alle persone escluse.
Il carcere, infatti, è frutto e cardine di una società che opprime chi si discosta dalla norma per qualsiasi ragione, che razzializza e discrimina chi non ha il giusto pezzo di carta – o dalla pelle un po’ più scura del tollerato, fondata sullo sfruttamento (delle persone più povere, della terra, degli animali), che divide e relega a ruoli predeterminati in base a quel che abbiamo tra le gambe.
E infatti chi finisce in carcere, maggiormente, sono proprio queste persone, deviate e devianti, criminalizzate perché indesiderabili, o refrattarie in qualunque modo a questo status quo, e quindi indesiderate.
Il carcere serve, tra le altre cose, a fare da spauracchio per il dissenso sociale, a placare l’insorgere di pratiche conflittuali. Ne sono la dimostrazione l’aumento delle pene per tutte quelle pratiche di lotta degli ultimi decreti sicurezza.
E risulta sempre più evidente come la favoletta del carcere come strumento rieducativo non regga. La sua reale faccia, quella punitiva e vendicativa, si mostra a ogni rivolta, a ogni protesta, a ogni pestaggio, a ogni morte tra quelle mura. E infatti il numero dei suicidi in prigione è sempre in aumento, e proprio qualche giorno fa un detenuto anche qua a Parma si è suicidato allargando le fila di quelle persone che decidono di togliersi la vita non tollerando le condizioni carcerarie (venti volte più alto dei suicidi fuori).
Ma non prendiamoci in giro, il confine tra dentro e fuori è tanto concreto quanto fittizio. Il carcere comincia dalla repressione nelle strade, dall’inasprimento delle pene per i reati legati al dissenso o a pratiche di resistenza e sopravvivenza, che mette sullo stesso piano pratiche solidali con pratiche da aguzzini. Ricordiamo Eugenio Tiraborrelli, morto nel 2019 a 82 anni proprio nel carcere di Parma, dopo nove mesi di detenzione, che, per aver aiutato una donna straniera a superare i sacri confini nazionali (ma per solidarietà umana, non per profitto), è stato equiparato a un trafficante di esseri umani.
Tutto questo è legato a doppio filo dal profitto, in un mondo che ci affama e alla guerra interna si sta concretizzando (o meglio avvicinando) sempre più anche quella esterna, il tutto per i privilegi e gli interessi economici di pochi. Se i sistemi di sorveglianza testati sui terreni bellici vengono poi perfezionati e impiegati anche nella pacificazione di guerre a bassa intensità negli Stati occidentali, nella maggior parte dei casi sono proprio aziende che hanno sede nei paesi del blocco atlantico, vedi Elbit nel Regno Unito o Leonardo in Italia, a brevettare e vendere armi negli scenari di guerra aperta.
A questo proposito va ricordato che ormai da mesi si sta compiendo un genocidio in quella che persino l’ONG Human Rights Watch ha definito una prigione a cielo aperto, ovvero Gaza, sotto gli occhi indifferenti dei potenti del mondo.
Non vogliamo un carcere più umano, vivibile, vogliamo un mondo in cui non sia necessario lo spauracchio repressivo, un mondo, insomma, senza esclusione, oppressione e sfruttamento.

Alcune persone refrattarie a questo mondo
28/03/24

P.S: apprendiamo mentre scriviamo queste righe che il 4 di Aprile nel medesimo carcere si terrà uno sciopero itinerante delle guardie, sciopero che andrà a toccare diverse carceri della penisola. Ovviamente è inutile dire come nell’eccesso di grottesco prodotto dalla narrazione dell’autorità, i secondini diventano “vittime” dello Stato allo stesso modo delle persone detenute. Ma lasciamo qui la notizia, di modo che ognunx possa farsi una propria idea al riguardo:
https://www.parmatoday.it/attualita/sciopero-fame-poliziotti-carcere.html


Note

[1]
https://brughiere.noblogs.org/post/2024/02/16/voci-dalla-voragine-del-41bis/

OLTRE QUELLA MURA: A FIANCO DEI RECLUSI DI GRADISCA D’ISONZO, DI JAMAL, DEI COMPAGNI/E ARRESTATI/E A MALPENSA

Diffondiamo un comunicato di solidarietà ai reclusi di Gradisca d’Isonzo, a Jamal e ai compagni/e arrestati a Malpensa.

OLTRE QUELLE MURA: a fianco dei reclusi di Gradisca, di Jamal, dei compagni/e arrestati/e a Malpensa

Il pomeriggio del 24 marzo siamo stati/e sotto le mura del Cpr di Gradisca d’Isonzo per far arrivare la nostra solidarietà ai reclusi in un centro che da mesi vede succedersi continuamente rivolte, atti di ribellione, tentativi di evasione e fortunatamente anche molte fughe riuscite.

Se la zona più vicina all’accesso, quella dalla quale normalmente era più facile udire le voci dei prigionieri, questa volta è rimasta completamente silenziosa, poco dopo esserci spostati/e sul retro ci è arrivata distintamente per molti minuti la rabbiosa risposta dei reclusi in quell’ala, con urla e battiture, prima che anche queste venissero ridotte al silenzio. Nel campo di Gradisca, dalla sua riapertura alla fine del 2019, sono morte da quel che si sa 4 persone: Vakhtang Enukidze, Orgest Turia, Anani Ezzedine e Arshad Jahangir. La sua gestione è ancora in mano alla cricca di aguzzini preferita della prefettura di Gorizia, e cioè la cooperativa Ekene di Battaglia Terme (Padova), il cui capo Simone Borile è finito rinviato a giudizio per “omicidio colposo” per la morte nel gennaio 2020 di Vakhtang Enukidze, in realtà ucciso di botte dalle guardie.

La deportazione di Jamal, imprigionato per alcuni giorni a Gradisca prima di essere deportato in Marocco – come tutte le deportazioni che avvengono ogni settimana – non spengono la lotta, ma semmai le donano ancora più forza, nella spinta a far sì che tutti i lager di Stato vengano distrutti. Le lotte presenti e passate, non solo contro i campi di deportazione, ci dicono che la solidarietà e il supporto alle rivolte è tanto doverosa e necessaria quanto l’attacco diretto ai responsabili e ai complici – persone, aziende, enti, istituzioni – dell’esistenza di questi luoghi, coloro il cui operato ne rende concreto e possibile il funzionamento. Ci sono e ci saranno momenti di angoscia e scoramento, ma le continue evasioni, le continue azioni di rivolta e distruzione interne ai campi, l’azione determinata e coraggiosa dei reclusi che hanno chiuso il Cpr di Torino, dei compagni/e che a Malpensa hanno bloccato la deportazione in atto e di quelli/e che a Caltanissetta si sono messi di traverso, ci dicono che “la macchina delle espulsioni vorrebbe sembrare, ed essere mostrata, come un’inattaccabile fortezza costruita sulle fondamenta del razzismo” ma che a volte “basta poco a tirare giù il muro disumanizzante che silenzia la violenza e avvalla l’inaccettabile”.

Ci uniamo ancora alle parole seguite agli arresti del 20 marzo, “tutto ciò che è successo a Torino e a Malpensa è potenzialmente replicabile e riproducibile. La lotta contro la macchina delle espulsioni e la detenzione amministrativa è possibile ed è reale nei suoi obbiettivi e nelle sue prospettive. Sappiamo che alla repressione si risponde con la lotta come ci insegna la resistenza palestinese tutti i giorni”.

La nostra solidarietà va a tutti/e i/le reclusi/e, a Jamal che oggi si trova in Marocco, a Josto, Ele, Miri, Peppe, a tutti/e i compagni/e prigionieri/e e in ogni modo privati della loro libertà

FUOCO AI CPR

FUOCO A TUTTE LE GALERE

TUTTI LIBERI, TUTTE LIBERE

compagne e compagni

Da: https://nofrontierefvg.noblogs.org/post/2024/03/27/oltre-quelle-mura-a-fianco-dei-reclusi-di-gradisca-di-jamal-dei-compagni-e-arrestati-e-a-malpensa/