Carcere: altro che malasanità, questa è vendetta!

Mattia è uno dei cinque detenuti che hanno sottoscritto l’esposto per i fatti di Modena del Marzo 2020, i pestaggi dopo la rivolta e la morte in cella di Salvatore Piscitelli, avvenuta nel carcere di Ascoli Piceno.

Già circa un anno fa fu valutato in Pronto Soccorso ad Ascoli Piceno mentre si trovava in quel carcere (prima che uscisse l’esposto), ed in tale occasione gli fu indicata la necessità di programmare un intervento chirurgico per un grave problema di salute, destinato a peggiorare se trascurato. Attualmente Mattia si trova recluso nel carcere di Montacuto (Ancona). È passato oltre un anno e ancora l’intervento suggerito non è stato effettuato. Nelle ultime settimane la sua situazione di salute si è ulteriormente aggravata ed è stato trasferito ben due volte in Pronto Soccorso. Qui i medici hanno nuovamente programmato un intervento e prescritto la somministrazione di un antibiotico che tuttavia, al rientro in carcere, non gli è stato dato per svariati giorni. Nonostante i ricoveri in Pronto Soccorso il medico del carcere sostiene che le condizioni di salute di Mattia siano buone e che possa effettuare una nuova visita fra 6 mesi.
Nel frattempo, nonostante sia stata disposta l’autorizzazione per l’ingresso di un medico di fiducia da circa un mese, non viene comunicata una data per effettuare la visita.

Come leggere tutto ciò?
Partiamo da una considerazione certamente non originale: la sanità in carcere è pessima di prassi. L’eccezione non è la malasanità, ma trovare un medico non connivente con le guardie.
L’abbiamo visto e continuiamo a vederlo, basti ripensare alle rivolte di un anno fa con cui i detenuti hanno chiesto a gran voce la tutela della propria salute, concetto incompatibile con quello di reclusione. Basti guardare oggi, dopo oltre un anno, quanto la pandemia attraversi ancora quelle mura e continui a diffondersi, senza che vengano adottate misure dignitose per frenare tutto questo. Basti ascoltare cosa ci dicono detenuti e detenute a cui il vaccino anti-COVID viene presentato più come una costrizione che come una scelta: se non ti vaccini ti mettiamo in isolamento, ti blocchiamo ogni attività, ti impediamo ogni visita medica.

Ma torniamo un istante alla situazione di Mattia.
Sono ripetute le vessazioni destinate a lui e agli altri detenuti che hanno sottoscritto l’ ormai noto esposto; tra pacchi e corrispondenza rifiutati o trattenuti, posta sottoposta a censura, soldi spediti dai familiari che non vengono recapitati, rifiuti di protocollare richieste interne, e l’onnipresente ricatto sul corpo e sulla salute.
La macchina statale, dopo le brutalità e gli omicidi di massa commessi nelle carceri un anno fa, ha apertamente deciso di non invertire la rotta e di dare chiari segnali a tutti/e coloro che non stanno zitti di fronte ai quotidiani soprusi di carcerieri e personale sanitario.
Il pugno duro messo in campo in decine di galere nel marzo 2020 è una prassi tuttora rivendicata dallo Stato. E chi alza la voce per denunciare la violenza delle guardie e la connivenza dei medici deve essere messo a tacere. Hanno provato a vessare i 5 detenuti autori dell’esposto con trasferimenti, con continue minacce e ripetuti interrogatori. Nulla di tutto ciò, ad oggi, ha avuto l’effetto desiderato. Ora rincarano la dose facendo aggravare volontariamente la situazione di
salute di uno di loro. Vogliono la vendetta. Questo stanno dicendo a Mattia trascurando la sua salute, questo stanno dicendo a tutti noi.

Sempre solidali e complici con chi non chiude gli occhi e non abbassa la testa di fronte agli aguzzini di Stato! Facciamo sentire tutta la nostra solidarietà e rabbia.

Sosteniamoli ancora, come meglio crediamo!
Per scrivere a Mattia, Claudio, Cavazza e Francesco:

Belmonte Cavazza_, C.C. Piacenza, Strada delle Novate 65, 29122 Piacenza.
Claudio Cipriani,_ C.C. Parma, Strada Burla 57, 43122 Parma
Francesco D’Angelo,_C.C. Ferrara, Via Arginone 327 44122 Ferrara
Mattia Palloni, _C.C. Ancona Montacuto, Via Montecavallo 73, 60100 Ancona

Nuova indagine in relazione all’attacco contro la caserma dei carabinieri di Bologna

Da: Inferno Urbano

Nei primi giorni di aprile i carabinieri hanno notificato a Robert, già a processo per l’operazione Prometeo, un avviso di garanzia per l’articolo 280 (attentato con finalità di terrorismo) con annessa la richiesta di accertamenti irripetibili urgenti da svolgersi in data 13 aprile 2021 presso la sede dei RIS di Parma sui materiali repertati in data 27 e 28 novembre 2016 nelle aree prossime alla stazione carabinieri di Bologna- Corticella.

Appena un paio di giorni dopo vengono notificate le stesse carte a Giuseppe, rinchiuso attualmente nel carcere bolognese, indagato sempre per l’inchiesta Prometeo. I fatti contestati riguardano l’esplosione di un ordigno avvenuta la notte del 27 novembre 2016 sotto la caserma dei carabinieri.

Occorre fare un breve excursus sulla genesi repressiva che seguì quell’episodio. Il giorno dopo l’esplosione era ospite in città l’allora premier Matteo Renzi che, unitamente alla procura, dichiarò che i responsabili di quel riprovevole gesto sarebbero stati acciuffati a tutti i costi e che sarebbero state messe in campo tutte le risorse necessarie ad assicurare alla giustizia chi aveva osato oltraggiare coi fatti l’autorità indiscussa dell’arma. E in effetti la risposta repressiva non si fece attendere, visto che appena due settimane dopo arrestarono  un giocoliere di strada di origine francese. Per 4 mesi fu rinchiuso in AS2 a Ferrara, ma in breve l’entusiasmo della procura capeggiata da Giuseppe Amato (noto per altre inchieste su “associazioni sovversive”) si smorzò a seguito della scarcerazione del malcapitato dopo che una testimone ritrattò le dichiarazioni fatte. L’inchiesta fu tenuta aperta per circa un altro anno per poi essere chiusa senza ulteriori indagati. Il giocoliere fu condannato in primo grado per possesso (solo presunto per via della testimonianza poi ritrattata) di materiale esplodente, per poi essere completamente assolto in appello.

A quasi 5 anni dai fatti, questa inchiesta viene riesumata dalla stessa pm Antonella Scandellari che, dopo i fallimenti precedenti, ora ci riprova indagando altri due compagni.

Il 10 maggio inizierà a Genova il processo per l’operazione Prometeo e, per rimediare alla pochezza probatoria, gli inquirenti infilano i compagni inquisiti in altri procedimenti: allo scopo di rafforzare la coltre di suggestione con cui imbastiscono le inchieste, si basano su mere ipotesi legate alle idee degli indagati piuttosto che ad azioni concrete. Natascia infatti è stata magicamente inserita nell’operazione Scintilla alla chiusura dell’indagine, mentre ora Beppe e Robert si ritrovano inquisiti in questo nuovo procedimento.

La nullità di chi mette in campo queste farse più che paura ci fa quasi ridere.

Non lasceremo da soli i nostri compagni e le nostre compagne.

Sardegna: solidarietà a Paolo

La vostra gabbia, la nostra rabbia

Dopo il marzo 2020 se la situazione nelle carceri non è migliorata, nemmeno il fermento e la rabbia sono cessati. Episodi in cui singoli o gruppi di detenuti e detenute alzano la testa e prendono coraggio contro i loro aguzzini si sono susseguiti numerosi in quest’anno. Fra questi c’è Paolo.

Paolo è un compagno sardo che vive e lotta a Cagliari da molti anni, il 31 ottobre 2017 è stato arrestato immediatamente dopo aver rapinato un ufficio postale insieme a due altri complici. In secondo grado è stato condannato a 5 anni di reclusione. In questi primi tre anni e mezzo di carcerazione a Uta non è riuscito a godere nenache una volta del beneficio dei 45 giorni di sconto di pena previsti per ogni sei mesi senza rapporti. La sua instancabile tenacia a non voltare lo sguardo di fronte ai soprusi delle guardie oltre ai rapporti gli è costata anche la denuncia per cui il 12 aprile verrà portato a giudizio.
Pochi giorni fa il direttore del carcere ha sottoposto la sua corrispondenza a censura perché “corrisponde con anarchici e organizzatori di presidi al carcere”.

Non abbiamo intenzione di lasciarlo solo. Storie simili alla sua nelle galere sono il quotidiano. Se qualcuno, un compagno questa volta, ha deciso di non lasciar correre e lottare avrà allora tutto il nostro sostegno. Alzare la testa contro l’abominio carcerario è un atto di coraggio. Sostenere questo coraggio è il minimo che chi sta fuori può fare per riconoscerlo.

Paolo libero!

Solidali contro il carcere


Udine: denunce per istigazione a delinquere

Siamo spiacenti: continueremo a fare apologia della ribellione e ad oltraggiare l’oppressione.

Alcuni giorni fa, una compagna e un compagno hanno scoperto di essere nuovamente indagat* per istigazione a delinquere-apologia (art. 414 c.p.) e diffamazione (art. 595 c.p.) per alcuni contenuti della trasmissione radiofonica Zardins Magnetics, realizzata dalla nostra Assemblea e messa in onda ogni giovedì alle 20.00 su Radio Onde Furlane.

Si tratta dell’ennesimo attacco poliziesco e giudiziario alle attività dell’Assemblea tramite accuse basate su reati definibili come “d’opinione”. Infatti, la compagna e il compagno sotto indagine stanno già subendo un processo, per i medesimi reati, presso il tribunale di Udine per vari interventi a manifestazioni e un’intervista radiofonica nel 2019.

Analogamente, una compagna sta subendo ben tre processi a Trieste per imputazioni di istigazione e oltraggio, per vari interventi sotto il locale carcere. Pare che le Digos e le procure di Udine e di Trieste vogliano farci pesare penalmente ogni nostra parola che, superando la sterile libertà di indignarsi, rivendichi la libertà di lottare.

E così, tanto per fare degli esempi dei nostri capi di accusa, affermare che è giusto colpire con l’azione diretta chi (veramente) istiga al razzismo e alla guerra tra poveri, come la Lega, diventa istigazione a delinquere. Dire che la malasanità in carcere è tortura e dunque denunciare come torturatori i medici che se ne fregano dei/delle detenut*, diventa diffamazione.

Raccontare ad un presidio presso un carcere di una rivolta accaduta in un altro carcere, diventa anch’essa istigazione. Gli orizzonti miseri del diritto borghese si rivelano appieno. Con le nostre parole, infatti, non vogliamo spingere nessuno a fare nulla, né intendiamo sporcare il nome di chicchessia che non sia già sporcato dal suo ruolo e dalle sue azioni.

Vogliamo invece valorizzare -questo sì -la ribellione e le lotte che inevitabilmente sorgono, senza bisogno di fantomatici istigatori o istigatrici, dall’oppressione. Riconosciamo in quest’ultima l’unica vera istigatrice alla ribellione, aldilà di tutti gli incubi di una pace sociale totalitaria da parte dello Stato e delle classi dominanti.

Nel nostro piccolo, noi siamo parte di questa ribellione e lotta inestinguibile. Siamo, ad esempio, stat* al fianco dei detenuti del carcere di Udine, quando ci hanno denunciato la loro condizione di malasanità. Così come delle detenute del Coroneo di Trieste, quanto hanno rivendicato sanità, salute e libertà nel pieno dell’attuale epidemia. Siamo stat* e saremo al fianco delle prigioniere anarchiche e dei prigionieri anarchici, rinchius* nelle galere perché lottano per distruggerle.

Pensiamo che sia la nostra pratica in tal senso, più che le parole in sé, a voler essere colpita con questi procedimenti. Si sforzino pure i nostri inquisitori di centellinare ogni parola per darvi un “rilievo penale”.

Noi continueremo a dire quello che pensiamo e soprattutto a praticare l’appoggio e la solidarietà a chi si ribella, lottando contro il carcere e resistendo alla repressione.

Assemblea permanente contro il carcere e la repressione

liberetutti@autistiche.org


Udine: Denunce per istigazione a delinquere

Carcere: Rompiamo il silenzio

da Assemblea parenti e solidali delle persone detenute.

CHI HA DIFESO LA PROPRIA VITA NON SI PROCESSA!

Un anno fa le persone detenute hanno indicato l’unica soluzione possibile per evitare il contagio di massa in celle sovraffollate: svuotare le galere.

Alle proteste e alle richieste di salute e libertà lo Stato ha risposto con pestaggi, trasferimenti punitivi, morti e torture: strano modo di tutelare la salute delle persone…

Il tracollo sanitario che ha trasformato le carceri in focolai era in corso già da tempo, così come il sovraffollamento. Quanto sta accadendo in queste settimane nella sezione femminile di Rebibbia, al pari di altre carceri, ne è una terribile conseguenza: ad oggi si parla di 40 donne contagiate e sono le stesse detenute a raccontare del mancato ricovero per chi è in gravi condizioni, della mancanza di mascherine e di tamponi, dell’isolamento totale cui sono costrette tra la chiusura dei colloqui e l’obbligo di stare in cella 24 ore su 24.

L’8 aprile, 54 detenuti di Rebibbia verranno processati in aula bunker per la rivolta del 9 marzo 2020. Altre 20 detenute sono sotto indagine per una protesta avvenuta in contemporanea nella sezione femminile.

Noi siamo al loro fianco e vogliamo che la nostra solidarietà arrivi forte e chiara. Chi ha protestato aveva ragione: l’unica sicurezza contro il contagio non può che essere la libertà.

GIOVEDÌ 8 APRILE – ORE 9:30
presidio davanti l’aula bunker di Rebibbia (via del Casale di San Basilio 168)

VENERDÌ 9 APRILE – ORE 17
a un anno dalla morte di Salvo, compagno che ha lottato dentro e fuori le carceri fino all’ultimo respiro, in via dei Volsci, sotto la sede di Radio Onda Rossa

DOMENICA 11 APRILE – ORE 10:30
presidio con microfoni aperti davanti alla sezione femminile di Rebibbia (pratone) per portare i nostri saluti alle detenute

Chiunque abbia voglia di contattarci, può farlo a uno di questi indirizzi:

Punto Solidale, via Augusto Dulceri 211 – 00176 Roma
indirizzo mail: dulceri211[at]gmail.com

Assemblea parenti e solidali delle persone detenute

Link: Rete evasioni

Chi ha compagnx non morirà, ciao Sante.

Ciao Sante,
noi lo sappiamo
che le loro prigioni,
sono sempre per noi.

Oggi abbiamo una responsabilità in più,
sulla memoria, su tutto.
Chi ha compagni non morirà.

“Non ho nulla da vendere. Ci ho messo 50 anni a diventare Comunista. E 20 anni 8 mesi ed 1 giorno di prigione. E 11 anni di carcere di massima sicurezza. E cinque anni di celle punitive. E la posta censurata. E i vetri divisori ai colloqui (per 3 anni non ho potuto accarezzarti, Severina). E le cariche dei carabinieri nei cortili delle prigioni. E il sangue nelle celle. E il sangue dal naso. E il sangue dalla bocca. E i denti rotti. E la fame all’Asinara. E il silenzio obbligatorio al bunker della Centrale, a Cala d’Oliva. E i racconti dei torturati. E i colpi contro le porte per non farti dormire. E i colloqui respinti senza un motivo. E la posta sottratta. E il linciaggio del vicino di cella. E il vivere col cuore in gola. E la pressione che sale. E il cuore che senti ingrossare. E il compagno che se ne va con la testa. E le divisioni a cinque unità nei cortili. E le rotture politiche. E le divisioni che teoricamente avrebbero dovuto rafforzarci. E il dilagare del soggettivismo. E i vetri infranti ai colloqui. E le rivendicazioni coi pugni chiusi. E la ritirata strategica. E gli scioperi della fame condannati. E i sorrisi spariti. E i soggettivisti sconfitti. E gli odi tra i compagni. E le demolizioni personali. E la disgregazione umana. E le perquisizioni anali. E le sei diottrie perse. E l’assalto coi cani nelle celle. E i compagni colpiti da schizofrenia. E i primi tradimenti. E la massa dei dissociati. E l’isolamento politico. E l’isolamento umano. E la piorrea che avanza. E gli anni che passano e i giorni che conti. E i silenzi, i silenzi, i silenzi.
Questo, tutto questo ho pagato. Questo e altro ancora ho da difendere”

“Liberi dal silenzio” Sante Notarnicola

Manifestino: il carcere uccide

Liberiamo nelle brughiere un manifestino da diffondere.

IL CARCERE UCCIDE

Cure negate
Contenzione psicologica, farmacologica, meccanica e fisica
Deprivazione, spersonalizzazione e pestaggi
SONO TORTURA

Dove non arrivano ad ammazzare il sistema giudiziario e le guardie,
arrivano la psichiatria e l’omertà degli operatori sanitari.

DENTRO LE CARCERI ESISTONO ANCORA ‘REPARTINI’ E CELLE LISCE
Trattamenti sanitari obbligatori
A DISCREZIONE DI GUARDIE E DIREZIONE

(nella foto: la ‘stanza 150’, cella liscia, carcere di Torino)

STATO ASSASSINO

Femminismo, transfemminismo e lotta anticarceraria

In una civiltà ultra-capitalista dove la giustizia è nelle mani di chi detiene i maggiori privilegi economici, la questione del carcere, ingranaggio centrale del modello eteropatriarcale societario imposto e mantenuto, non può che essere una questione che riguarda tutte e tutti noi.

Nelle carceri sono reclusi prevalentemente uomini ma questo dato non deve sorprendere, lo Stato patriarcale ha per le donne e le soggettività non cisgender tutta una specifica rete di oppressioni, gabbie e meccanismi di disciplinamento che permeano l’intero arco e contesti di vita dall’infanzia all’età adulta per reprimere lo scontro con l’autorità. Ci sono già il marito, la famiglia, il misconoscimento costante, le oppressioni, le violenze, la psichiatria…

La donna subisce spesso il carcere anche quando il carcere non lo vive direttamente sulla propria pelle. Donne, madri, mogli, sorelle, cui spesso è scaricato il lavoro di cura della famiglia, dei figli, oltre che il compito di sostenere fratelli, compagnx, mariti e padri detenuti, con lo sfinimento che implicano le visite, il pregiudizio della società, della famiglia, dei vicini, le lunghe attese, i controlli e le ispezioni corporali, gli interminabili viaggi di andata e ritorno, le spese sistematiche ed elevate, la perdita della propria vita privata,  le ripercussioni sul proprio lavoro, dei propri sogni e progetti.

E’ ormai evidente come il  carcere non  solo non protegga nessunx dalle oppressioni, ma  come sia in verità un ingranaggio centrale nel riprodurle sulle classi subalterne, non solo su uomini migranti e poveri, ma anche e soprattutto sulle donne (cisgender e trans), gli uomini trans, le persone di genere non binario e/o intersessuali.

Chi subisce una violenza e si rivolge al sistema legale non trova protezione alcuna. A volte la polizia allontana l’aggressore per alcuni giorni ma ciò non ferma la violenza. A volte i tribunali emettono un’ordinanza restrittiva, un pezzo di carta che l’aggressore palesemente  ignora.  A  volte  la  polizia  non fa nulla. A volte l’aggressore fa parte della polizia stessa.

Il carcere ha fallito nel proteggere dalla violenza poichè perpetua il ciclo della violenza piuttosto che interromperlo.

Rinchiudere un partner violento può fermare la violenza soltanto temporaneamente, ma non affronta il problema alla radice e crea altre forme di violenza e di abuso.

Lo stesso sistema legale che non è riuscito a proteggere le persone come ‘vittime’, le punisce quando sopravvivono alle aggressioni: numerose  vittime  di  violenza  domestica sono incarcerate  per  essersi  difese. Le  sopravvissute  alla violenza tra le mura domestiche piuttosto che sui luoghi di lavoro o per strada  sono spesso  ritraumatizzate  dalla  vita  in carcere,  in  modo particolare  quando  vengono sottoposte alle aggressioni, alle mancanza di cure mediche, all’isolamento o  alla separazione  dalle proprie  famiglie. La violenza subita all’interno delle mura domestiche si riproduce con la violenza dell’esperienza in prigione.

In carcere le donne (cisgender e trans), gli uomini trans, le persone di genere non binario e intersessuali reclusx soffrono continui abusi sessuali e maltrattamenti sia per mano di altri detenuti, che da parte delle forze dell’ordine o per colpa delle umilianti pratiche quotidiane come la perquisizione corporale, vissuta da molte come forma di stupro.

Le persone transessuali sono tra le comunità più criminalizzate e vulnerabili in carcere: «Le persone transgender non entrano nella classificazione binaria uomo/donna che il carcere stesso produce e consolida socialmente» sottolinea Angela Davis.

Persone queer, trans e gender-variant, proprio   perché   visibili   nella   loro  differenza   di   genere, hanno difficoltà nel trovare lavoro, subiscono allontanamenti da parte delle famiglie, persecuzioni, aggressioni, nelle scuole, per strada, che portano ad esclusione ed emarginazione, aumentando la loro vulnerabilità e il rischio di incriminazione, quindi la probabilità che una persona di genere non binario sia fermata dalla polizia, perquisita, arrestata, accusata, condannata, e che sconti un periodo di carcere.

La detenzione risulta inevitabilmente discriminatoria per queste soggettività.

Persone trans  e  queer oltre a vedersi negato un  adeguato  percorso  medico  sia  per quanto riguarda l’operazione chirurgica che per le cure ormonali, sono  ad  alto rischio  di  aggressioni  sessuali  e  abusi  in  carcere, in commissariato e nei centri di permanenza temporanea, non-luoghi dove spesso vengono richieste prestazioni sessuali in cambio di “protezione”.

In alcune carceri vi sono sezioni dedicate all’interno degli istituti maschili mentre in altre sono adiacenti alle sezioni femminili. In altre carceri invece le persone transessuali e transgender vengono inserite nei reparti precauzionali insieme ai sex offenders, ai collaboratori di giustizia e agli ex appartenenti alle Forze dell’ordine, con tutto quello che ne può comportare.

Anche le sex-worker subiscono la repressione del sistema giudiziario e sono soggette alle stesse vulnerabilità.

Con la ‘lotta al degrado’ e all’immigrazione irregolare le città hanno imparato subito ad applicare il Daspo urbano con l’obiettivo di riportare il ‘decoro’ nelle strade e allontanare persone sgradite alla collettività: diverse sex worker sarebbero state allontanate con questo sistema.

Le istituzioni hanno il potere di emanare facilmente il daspo urbano anche a chi viene sorpreso in strada con loro. La criminalizzazione dei clienti rientra appieno nel sistema di vittimizzazione e alienazione delle lavoratrici del sesso, considerate tutte persone da salvare, cui viene negata l’autodeterminazione della propria esistenza e che, oltre a subire lo stigma che colpisce chi lavora nel settore del sesso,  ora rischiano ulteriore  emarginazione a causa delle politiche securitarie sempre piu dure.

L’isolamento dei luoghi dove sono spinte le lavoratrici le rende inoltre più facilmente soggette a controllo e violenze da parte di polizia e clienti.

Il sistema penitenziario e il carcere sono l’asse portante del controllo patriarcale attraverso cui si perpetra la riduzione strumentale e svilente delle persone a oggetti. Una macchina repressiva sempre più specializzata in ogni luogo che zittisce e neutralizza le contraddizioni sociali prodotte dal capitalismo, rinchiudendo e castigando quelle soggettività che queste contraddizioni esprimono e subiscono sottoforma di molteplici oppressioni.

Pensare che il carcere sia necessario non è nient’altro che quel che ci hanno fatto credere.

Il giustizialismo prescinde dalle cause e considera i crimini esclusiva responsabilità delle persone che li commettono, per cui le uniche contromisure che si adottano in merito sono basate sul castigo.

Il punire individualmente e nella maniera più dura, si scontra frontalmente con l’obiettivo di lavorare a intersezioni che agiscano nei conflitti sociali in maniera proficua e vitale.

Se parliamo della violenza maschilista come una serie di problemi individuali scollegati fra loro otterremo soltanto l’invisibilizzazione della loro reale causa: la struttura eteropatriarcale.

Combattere  per  un  mondo oltre il carcere, dove  siamo  tutti  e  tutte  libere dalla violenza, dalla povertà, dal razzismo, dagli abusi e da ogni forma di oppressione, non può prescindere dalla riflessione transfemminista.

Per riprendere la Davis, fervente abolizionista del sistema carceraio, più che porre l’accento su chi perpetra la violenza, bisognerebbe interrogarsi sulla violenza come istituzione,  sull’istituzionalizzazione  dei  meccanismi  di violenza  e  sulle discriminazioni di genere che le istituzioni incarnano tramite l’intervento paternalista e patriarcale.

La violenza di genere non e’ un problema di ordine pubblico, è necessario stravolgere in modo radicale e nel profondo la cultura patriarcale e machista che ancora oggi tiene in piedi questo sistema basato sullo sfruttamento che si riproduce nelle relazioni individuali e collettive.

E’ necessaria una critica integrale e radicale alle fondamenta della violenza e dell’oppressione razziale, di classe e di genere su cui si appoggiano le nostre società, e con queste le carceri, ed è proprio il rifuto di ogni binarismo che oggi ci ispira alla ricerca di formule nuove per esprimere i rapporti di forza e oppressione: contro ogni autorità, contro ogni forma di sfruttamento,  contro le carceri e contro il dominio patriarcale, di qualsiasi genere.

Carcere: “articolazioni salute mentale”

Ma Opg e ‘repartini’ nelle carceri esistono ancora?

Alla Dozza, carcere bolognese, è presente una sezione ‘FEMMINILE ARTICOLAZIONE SALUTE MENTALE’

Si parla di salute mentale, ma è di psichiatria in mano ai carcerieri che si tratta.

A Bologna per altro solo femminile, perchè alla donna è sempre riservato un posto d’onore nella persecuzione e nella stigmatizzazione psichiatrica: nei luoghi di reclusione, nei reparti femminili degli istituti manicomiali, le donne sono sempre state oggetto di un maggior accanimento da parte di medici, infermieri, e del potere costituito.

Ma cosa sono?

Le ‘Articolazioni salute mentale’ sono sezioni speciali per quelle detenute e quei detenuti definiti “rei folli”, cioè con una valutazione psichiatrica sopravvenuta (successiva) alla detenzione.

In sintesi il carcere crea la menomazione, produce sofferenza, esaspera la tenuta psichica di chi vive la reclusione sulla pelle, e poi vuole contenere i ‘comportamenti problema’ (definizione amata da psichiatri ed educatori) reprimendoli ancora di più in ‘speciali repartini’.

Bisogna sapere che gli Opg contenevano tutte le autrici e gli autori di reato con diagnosi psichiatrica, sia quelli dichiarati non imputabili per ‘vizio di mente al momento del fatto’, e perciò prosciolti e rinchiusi in OPG in quanto ‘socialmente pericolosi’, sia quelli condannati a pena detentiva e ‘colpiti’ da ‘disturbi mentali gravi’ durante la permanenza in carcere.

Con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari in Italia (31 marzo 2015) l’istituzione totale dell’ospedale psichiatrico giudiziario veniva sostituita da più piccole istituzioni di reclusione non molto diverse nella sostanza, le cosiddette «residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza» (Rems), luoghi destinati a recluse e reclusi giudicati incapaci di intendere e volere al momento del giudizio e non successivamente.

Le ‘articolazioni salute mentale’ riguardano perciò  detenute e detenuti che non possono essere accolti nelle residenze sanitarie per l’esecuzione delle misure di sicurezza istituite dopo la chiusura degli Opg.

In Italia ci sono 47 Atsm in 36 penitenziari per un totale di 303 celle in cui a inizio 2019 erano presenti 318 detenuti (Fonte Relazione del ministero sull’amministrazione della giustizia 2018).

Come sono e cosa si sa?

Queste sezioni carcerarie sono sotto la responsabilità dell’Amministrazione Penitenziaria ma ‘a prevalente gestione sanitaria’, che non si capisce cosa significhi.

A quanto emerge non presentano nè una reale copertura giuridica, nè un qualsiasi tipo di chiarezza circa la ‘gestione’ delle articolazioni stesse e che tipo di aspetti ‘sanitari’ siano tenuti in considerazione e in che termini.  ‘Chiarezza’ poi, sappiamo non ce ne sarà mai finchè esisteranno quelle mura, ma se già ciò che avviene nelle sezioni non deve essere detto, ciò che avviene dentro i repartini, non deve essere detto ancora di più. Che cosa si intende con ‘a prevalente gestione sanitaria’?

La Magistratura di sorveglianza è stata chiamata a pronunciarsi su un caso di differimento pena, inviato nell’articolazione psichiatrica della Dozza di Bologna dopo la chiusura dell’OPG. Il responso è stato che la persona non poteva stare lì perché l’articolazione non aveva niente di sanitario.

Nel 2016 a Bologna sindacati e compagnia bella si opponevano all’apertura del repartino femminile per la sempre vittimistica carenza di organico e per le condizioni strutturali del luogo.

Quanto tempo vengono trattenute le persone nell’articolazione femminile della Dozza? Quale tipo di regolamentazione e ‘gestione’ vige e in che tipo di condizione?

Il garante nel 2018 dice che le tre donne detenute nell’articolazione salute mentale del carcere di Bologna  sono tenute in estremo isolamento.
“I numeri esigui, però, e la collocazione fisica di questi ambienti detentivi, collocati al piano terra, comportano un significativo stato di isolamento per queste donne detenute.”

“All’interno delle articolazioni si trovano infatti le persone che non possono essere curate e assistite nelle sezioni ordinarie, la maggior parte delle quali, giuridicamente, in “osservazione psichiatrica” (un periodo di 30 giorni prorogabile, in cui viene valutata la compatibilità dello stato di salute psicofisico e la detenzione). L’ingresso e l’uscita avvengono su decisione interna dell’amministrazione sanitaria e penitenziaria, ed è ‘prorogabile’ senza alcuna previsione di un controllo giurisdizionale (che avviene invece nel caso di ricovero in luogo esterno al carcere).”

Significa che direzione e guardie possono usare questo strumento e relative proroghe discrezionalmente e che la reclusa e il recluso non hanno gli stessi ‘diritti sanitari’ dei liberi come si millanta nelle varie norme e riforme.

L’ultimo rapporto di Antigone riporta la raccapriciante storia di M. presso l’articolazione salute mentale “Il Sestante” della Casa Circondariale di Torino.

La stanza 150 : “Il rispetto dei diritti della persona è spesso violato. Si segnalano casi di contenzione e si è rilevata (nella Casa Circondariale di Torino, anche filmata, l’esistenza di ‘celle lisce’ spoglie e senza suppellettili.”

“nonostante infatti formalmente venga dichiarato che la permanenza nella stessa dura generalmente qualche ora, in realtà vengono registrati in alcuni casi la permanenza di soggetti per periodi superiori a venti giorni.”

Eppure la Sentenza della Corte  Costituzionale  n.99/2019 ha stabilito  che,  se  durante  la  carcerazione  sopravviene  una  grave  ‘infermità psichica’,  si  potrà  disporre  che  la  persona  detenuta  venga  ‘curata’  fuori  dal carcere,  applicando  la  misura  alternativa  della  detenzione  domiciliare o in luogo di ‘cura’, così come già dovrebbe accadere per le gravi malattie di tipo fisico.

Una cosa importante da sapere è che dal 14 giugno 2008 le prestazioni/funzioni sanitarie fino ad allora svolte dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dal Dipartimento della Giustizia Minorile del Ministero della Giustizia sono state assimilate integralmente al Servizio Sanitario Nazionale. Assieme alle funzioni, sono state trasferite al Fondo sanitario nazionale e ai Fondi sanitari regionali le risorse, le attrezzature, il personale, gli arredi e i beni strumentali afferenti alle attività sanitarie nelle carceri. Il personale sanitario che ad oggi opera nelle carceri italiane è dunque inquadrato contrattualmente quale dipendente dell’usl e non più del DAP.
Questa riforma poneva il principio  della  parità  tra detenuti e soggetti liberi, soprattutto nella tutela del diritto alla salute e, quindi, del diritto  a  godere  di  prestazioni  sanitarie  celeri  ed  efficienti,  in  ottemperanza  al ‘problema  medico  che  si  presenta  nel  caso  concreto’.

Sappiamo invece come questo non sia assolutamente vero, le persone muoiono in carcere e di carcere, con o senza ‘patologie’, oggi come ieri, ne parliamo inoltre ad un anno dalla strage di Stato nelle carceri e dall’esplosione dell’emergenza sanitaria, che ha messo in evidenza l’omertà degli operatori sanitari e come la reclusione sia strutturalmente in antitesi con qualsiasi concetto di salute.

Suicidi in carcere

Le statistiche mostrano che i suicidi sono in continuo aumento, e tra i piu giovani. Emerge inoltre che la popolazione detenuta muore per suicidio esponezialmente di più rispetto la popolazione libera.

Nel 2020 sono stati 61 i suicidi, dall’inizio dell’anno 2021 già 6.


La sofferenza si traduce in isolamento, contenzione fisica, farmacologica e psicologica,
aggravata dall’annientamento, dalla violenza e dalla repressione carceraria.

La reclusione genera disturbi e menomazione (da problemi psichici, a problemi cardiovascolari e metabolici sino a malattie infettive), patologie e fragilità che spesso esordiscono in carcere e si protraggono anche dopo la scarcerazione.

La riflessione sulla contenzione della sofferenza mentale e della dissidenza ci deve mettere in guardia, la strumentalizzazione del disagio si traduce in termini ancora piu repressivi: dove non arriva il sistema giudiziario e il carcere, arriva la psichiatria,.

Oggi, oltre al profondo buio che circonda queste ‘articolazioni salute mentale’,  sindacati e guardie tornano a chiedere anche ‘particolari sezioni agitati’  per stringere una morsa repressiva ancora maggiore intorno a chi è reclusa e recluso in carcere e si ribella.

Il carcere è intrinsecamente non solo la negazione di qualsiasi concetto di salute, ma della vita e dell’esistenza stessa.

Rompere l’omertà che avvolge quelle mura e abbattere ogni prigione, qualsasi prigione, è una responsabilità di tutte e tutti.