Manifestino: il carcere uccide

Liberiamo nelle brughiere un manifestino da diffondere.

IL CARCERE UCCIDE

Cure negate
Contenzione psicologica, farmacologica, meccanica e fisica
Deprivazione, spersonalizzazione e pestaggi
SONO TORTURA

Dove non arrivano ad ammazzare il sistema giudiziario e le guardie,
arrivano la psichiatria e l’omertà degli operatori sanitari.

DENTRO LE CARCERI ESISTONO ANCORA ‘REPARTINI’ E CELLE LISCE
Trattamenti sanitari obbligatori
A DISCREZIONE DI GUARDIE E DIREZIONE

(nella foto: la ‘stanza 150’, cella liscia, carcere di Torino)

STATO ASSASSINO

Femminismo, transfemminismo e lotta anticarceraria

In una civiltà ultra-capitalista dove la giustizia è nelle mani di chi detiene i maggiori privilegi economici, la questione del carcere, ingranaggio centrale del modello eteropatriarcale societario imposto e mantenuto, non può che essere una questione che riguarda tutte e tutti noi.

Nelle carceri sono reclusi prevalentemente uomini ma questo dato non deve sorprendere, lo Stato patriarcale ha per le donne e le soggettività non cisgender tutta una specifica rete di oppressioni, gabbie e meccanismi di disciplinamento che permeano l’intero arco e contesti di vita dall’infanzia all’età adulta per reprimere lo scontro con l’autorità. Ci sono già il marito, la famiglia, il misconoscimento costante, le oppressioni, le violenze, la psichiatria…

La donna subisce spesso il carcere anche quando il carcere non lo vive direttamente sulla propria pelle. Donne, madri, mogli, sorelle, cui spesso è scaricato il lavoro di cura della famiglia, dei figli, oltre che il compito di sostenere fratelli, compagnx, mariti e padri detenuti, con lo sfinimento che implicano le visite, il pregiudizio della società, della famiglia, dei vicini, le lunghe attese, i controlli e le ispezioni corporali, gli interminabili viaggi di andata e ritorno, le spese sistematiche ed elevate, la perdita della propria vita privata,  le ripercussioni sul proprio lavoro, dei propri sogni e progetti.

E’ ormai evidente come il  carcere non  solo non protegga nessunx dalle oppressioni, ma  come sia in verità un ingranaggio centrale nel riprodurle sulle classi subalterne, non solo su uomini migranti e poveri, ma anche e soprattutto sulle donne (cisgender e trans), gli uomini trans, le persone di genere non binario e/o intersessuali.

Chi subisce una violenza e si rivolge al sistema legale non trova protezione alcuna. A volte la polizia allontana l’aggressore per alcuni giorni ma ciò non ferma la violenza. A volte i tribunali emettono un’ordinanza restrittiva, un pezzo di carta che l’aggressore palesemente  ignora.  A  volte  la  polizia  non fa nulla. A volte l’aggressore fa parte della polizia stessa.

Il carcere ha fallito nel proteggere dalla violenza poichè perpetua il ciclo della violenza piuttosto che interromperlo.

Rinchiudere un partner violento può fermare la violenza soltanto temporaneamente, ma non affronta il problema alla radice e crea altre forme di violenza e di abuso.

Lo stesso sistema legale che non è riuscito a proteggere le persone come ‘vittime’, le punisce quando sopravvivono alle aggressioni: numerose  vittime  di  violenza  domestica sono incarcerate  per  essersi  difese. Le  sopravvissute  alla violenza tra le mura domestiche piuttosto che sui luoghi di lavoro o per strada  sono spesso  ritraumatizzate  dalla  vita  in carcere,  in  modo particolare  quando  vengono sottoposte alle aggressioni, alle mancanza di cure mediche, all’isolamento o  alla separazione  dalle proprie  famiglie. La violenza subita all’interno delle mura domestiche si riproduce con la violenza dell’esperienza in prigione.

In carcere le donne (cisgender e trans), gli uomini trans, le persone di genere non binario e intersessuali reclusx soffrono continui abusi sessuali e maltrattamenti sia per mano di altri detenuti, che da parte delle forze dell’ordine o per colpa delle umilianti pratiche quotidiane come la perquisizione corporale, vissuta da molte come forma di stupro.

Le persone transessuali sono tra le comunità più criminalizzate e vulnerabili in carcere: «Le persone transgender non entrano nella classificazione binaria uomo/donna che il carcere stesso produce e consolida socialmente» sottolinea Angela Davis.

Persone queer, trans e gender-variant, proprio   perché   visibili   nella   loro  differenza   di   genere, hanno difficoltà nel trovare lavoro, subiscono allontanamenti da parte delle famiglie, persecuzioni, aggressioni, nelle scuole, per strada, che portano ad esclusione ed emarginazione, aumentando la loro vulnerabilità e il rischio di incriminazione, quindi la probabilità che una persona di genere non binario sia fermata dalla polizia, perquisita, arrestata, accusata, condannata, e che sconti un periodo di carcere.

La detenzione risulta inevitabilmente discriminatoria per queste soggettività.

Persone trans  e  queer oltre a vedersi negato un  adeguato  percorso  medico  sia  per quanto riguarda l’operazione chirurgica che per le cure ormonali, sono  ad  alto rischio  di  aggressioni  sessuali  e  abusi  in  carcere, in commissariato e nei centri di permanenza temporanea, non-luoghi dove spesso vengono richieste prestazioni sessuali in cambio di “protezione”.

In alcune carceri vi sono sezioni dedicate all’interno degli istituti maschili mentre in altre sono adiacenti alle sezioni femminili. In altre carceri invece le persone transessuali e transgender vengono inserite nei reparti precauzionali insieme ai sex offenders, ai collaboratori di giustizia e agli ex appartenenti alle Forze dell’ordine, con tutto quello che ne può comportare.

Anche le sex-worker subiscono la repressione del sistema giudiziario e sono soggette alle stesse vulnerabilità.

Con la ‘lotta al degrado’ e all’immigrazione irregolare le città hanno imparato subito ad applicare il Daspo urbano con l’obiettivo di riportare il ‘decoro’ nelle strade e allontanare persone sgradite alla collettività: diverse sex worker sarebbero state allontanate con questo sistema.

Le istituzioni hanno il potere di emanare facilmente il daspo urbano anche a chi viene sorpreso in strada con loro. La criminalizzazione dei clienti rientra appieno nel sistema di vittimizzazione e alienazione delle lavoratrici del sesso, considerate tutte persone da salvare, cui viene negata l’autodeterminazione della propria esistenza e che, oltre a subire lo stigma che colpisce chi lavora nel settore del sesso,  ora rischiano ulteriore  emarginazione a causa delle politiche securitarie sempre piu dure.

L’isolamento dei luoghi dove sono spinte le lavoratrici le rende inoltre più facilmente soggette a controllo e violenze da parte di polizia e clienti.

Il sistema penitenziario e il carcere sono l’asse portante del controllo patriarcale attraverso cui si perpetra la riduzione strumentale e svilente delle persone a oggetti. Una macchina repressiva sempre più specializzata in ogni luogo che zittisce e neutralizza le contraddizioni sociali prodotte dal capitalismo, rinchiudendo e castigando quelle soggettività che queste contraddizioni esprimono e subiscono sottoforma di molteplici oppressioni.

Pensare che il carcere sia necessario non è nient’altro che quel che ci hanno fatto credere.

Il giustizialismo prescinde dalle cause e considera i crimini esclusiva responsabilità delle persone che li commettono, per cui le uniche contromisure che si adottano in merito sono basate sul castigo.

Il punire individualmente e nella maniera più dura, si scontra frontalmente con l’obiettivo di lavorare a intersezioni che agiscano nei conflitti sociali in maniera proficua e vitale.

Se parliamo della violenza maschilista come una serie di problemi individuali scollegati fra loro otterremo soltanto l’invisibilizzazione della loro reale causa: la struttura eteropatriarcale.

Combattere  per  un  mondo oltre il carcere, dove  siamo  tutti  e  tutte  libere dalla violenza, dalla povertà, dal razzismo, dagli abusi e da ogni forma di oppressione, non può prescindere dalla riflessione transfemminista.

Per riprendere la Davis, fervente abolizionista del sistema carceraio, più che porre l’accento su chi perpetra la violenza, bisognerebbe interrogarsi sulla violenza come istituzione,  sull’istituzionalizzazione  dei  meccanismi  di violenza  e  sulle discriminazioni di genere che le istituzioni incarnano tramite l’intervento paternalista e patriarcale.

La violenza di genere non e’ un problema di ordine pubblico, è necessario stravolgere in modo radicale e nel profondo la cultura patriarcale e machista che ancora oggi tiene in piedi questo sistema basato sullo sfruttamento che si riproduce nelle relazioni individuali e collettive.

E’ necessaria una critica integrale e radicale alle fondamenta della violenza e dell’oppressione razziale, di classe e di genere su cui si appoggiano le nostre società, e con queste le carceri, ed è proprio il rifuto di ogni binarismo che oggi ci ispira alla ricerca di formule nuove per esprimere i rapporti di forza e oppressione: contro ogni autorità, contro ogni forma di sfruttamento,  contro le carceri e contro il dominio patriarcale, di qualsiasi genere.

Carcere: “articolazioni salute mentale”

Ma Opg e ‘repartini’ nelle carceri esistono ancora?

Alla Dozza, carcere bolognese, è presente una sezione ‘FEMMINILE ARTICOLAZIONE SALUTE MENTALE’

Si parla di salute mentale, ma è di psichiatria in mano ai carcerieri che si tratta.

A Bologna per altro solo femminile, perchè alla donna è sempre riservato un posto d’onore nella persecuzione e nella stigmatizzazione psichiatrica: nei luoghi di reclusione, nei reparti femminili degli istituti manicomiali, le donne sono sempre state oggetto di un maggior accanimento da parte di medici, infermieri, e del potere costituito.

Ma cosa sono?

Le ‘Articolazioni salute mentale’ sono sezioni speciali per quelle detenute e quei detenuti definiti “rei folli”, cioè con una valutazione psichiatrica sopravvenuta (successiva) alla detenzione.

In sintesi il carcere crea la menomazione, produce sofferenza, esaspera la tenuta psichica di chi vive la reclusione sulla pelle, e poi vuole contenere i ‘comportamenti problema’ (definizione amata da psichiatri ed educatori) reprimendoli ancora di più in ‘speciali repartini’.

Bisogna sapere che gli Opg contenevano tutte le autrici e gli autori di reato con diagnosi psichiatrica, sia quelli dichiarati non imputabili per ‘vizio di mente al momento del fatto’, e perciò prosciolti e rinchiusi in OPG in quanto ‘socialmente pericolosi’, sia quelli condannati a pena detentiva e ‘colpiti’ da ‘disturbi mentali gravi’ durante la permanenza in carcere.

Con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari in Italia (31 marzo 2015) l’istituzione totale dell’ospedale psichiatrico giudiziario veniva sostituita da più piccole istituzioni di reclusione non molto diverse nella sostanza, le cosiddette «residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza» (Rems), luoghi destinati a recluse e reclusi giudicati incapaci di intendere e volere al momento del giudizio e non successivamente.

Le ‘articolazioni salute mentale’ riguardano perciò  detenute e detenuti che non possono essere accolti nelle residenze sanitarie per l’esecuzione delle misure di sicurezza istituite dopo la chiusura degli Opg.

In Italia ci sono 47 Atsm in 36 penitenziari per un totale di 303 celle in cui a inizio 2019 erano presenti 318 detenuti (Fonte Relazione del ministero sull’amministrazione della giustizia 2018).

Come sono e cosa si sa?

Queste sezioni carcerarie sono sotto la responsabilità dell’Amministrazione Penitenziaria ma ‘a prevalente gestione sanitaria’, che non si capisce cosa significhi.

A quanto emerge non presentano nè una reale copertura giuridica, nè un qualsiasi tipo di chiarezza circa la ‘gestione’ delle articolazioni stesse e che tipo di aspetti ‘sanitari’ siano tenuti in considerazione e in che termini.  ‘Chiarezza’ poi, sappiamo non ce ne sarà mai finchè esisteranno quelle mura, ma se già ciò che avviene nelle sezioni non deve essere detto, ciò che avviene dentro i repartini, non deve essere detto ancora di più. Che cosa si intende con ‘a prevalente gestione sanitaria’?

La Magistratura di sorveglianza è stata chiamata a pronunciarsi su un caso di differimento pena, inviato nell’articolazione psichiatrica della Dozza di Bologna dopo la chiusura dell’OPG. Il responso è stato che la persona non poteva stare lì perché l’articolazione non aveva niente di sanitario.

Nel 2016 a Bologna sindacati e compagnia bella si opponevano all’apertura del repartino femminile per la sempre vittimistica carenza di organico e per le condizioni strutturali del luogo.

Quanto tempo vengono trattenute le persone nell’articolazione femminile della Dozza? Quale tipo di regolamentazione e ‘gestione’ vige e in che tipo di condizione?

Il garante nel 2018 dice che le tre donne detenute nell’articolazione salute mentale del carcere di Bologna  sono tenute in estremo isolamento.
“I numeri esigui, però, e la collocazione fisica di questi ambienti detentivi, collocati al piano terra, comportano un significativo stato di isolamento per queste donne detenute.”

“All’interno delle articolazioni si trovano infatti le persone che non possono essere curate e assistite nelle sezioni ordinarie, la maggior parte delle quali, giuridicamente, in “osservazione psichiatrica” (un periodo di 30 giorni prorogabile, in cui viene valutata la compatibilità dello stato di salute psicofisico e la detenzione). L’ingresso e l’uscita avvengono su decisione interna dell’amministrazione sanitaria e penitenziaria, ed è ‘prorogabile’ senza alcuna previsione di un controllo giurisdizionale (che avviene invece nel caso di ricovero in luogo esterno al carcere).”

Significa che direzione e guardie possono usare questo strumento e relative proroghe discrezionalmente e che la reclusa e il recluso non hanno gli stessi ‘diritti sanitari’ dei liberi come si millanta nelle varie norme e riforme.

L’ultimo rapporto di Antigone riporta la raccapriciante storia di M. presso l’articolazione salute mentale “Il Sestante” della Casa Circondariale di Torino.

La stanza 150 : “Il rispetto dei diritti della persona è spesso violato. Si segnalano casi di contenzione e si è rilevata (nella Casa Circondariale di Torino, anche filmata, l’esistenza di ‘celle lisce’ spoglie e senza suppellettili.”

“nonostante infatti formalmente venga dichiarato che la permanenza nella stessa dura generalmente qualche ora, in realtà vengono registrati in alcuni casi la permanenza di soggetti per periodi superiori a venti giorni.”

Eppure la Sentenza della Corte  Costituzionale  n.99/2019 ha stabilito  che,  se  durante  la  carcerazione  sopravviene  una  grave  ‘infermità psichica’,  si  potrà  disporre  che  la  persona  detenuta  venga  ‘curata’  fuori  dal carcere,  applicando  la  misura  alternativa  della  detenzione  domiciliare o in luogo di ‘cura’, così come già dovrebbe accadere per le gravi malattie di tipo fisico.

Una cosa importante da sapere è che dal 14 giugno 2008 le prestazioni/funzioni sanitarie fino ad allora svolte dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dal Dipartimento della Giustizia Minorile del Ministero della Giustizia sono state assimilate integralmente al Servizio Sanitario Nazionale. Assieme alle funzioni, sono state trasferite al Fondo sanitario nazionale e ai Fondi sanitari regionali le risorse, le attrezzature, il personale, gli arredi e i beni strumentali afferenti alle attività sanitarie nelle carceri. Il personale sanitario che ad oggi opera nelle carceri italiane è dunque inquadrato contrattualmente quale dipendente dell’usl e non più del DAP.
Questa riforma poneva il principio  della  parità  tra detenuti e soggetti liberi, soprattutto nella tutela del diritto alla salute e, quindi, del diritto  a  godere  di  prestazioni  sanitarie  celeri  ed  efficienti,  in  ottemperanza  al ‘problema  medico  che  si  presenta  nel  caso  concreto’.

Sappiamo invece come questo non sia assolutamente vero, le persone muoiono in carcere e di carcere, con o senza ‘patologie’, oggi come ieri, ne parliamo inoltre ad un anno dalla strage di Stato nelle carceri e dall’esplosione dell’emergenza sanitaria, che ha messo in evidenza l’omertà degli operatori sanitari e come la reclusione sia strutturalmente in antitesi con qualsiasi concetto di salute.

Suicidi in carcere

Le statistiche mostrano che i suicidi sono in continuo aumento, e tra i piu giovani. Emerge inoltre che la popolazione detenuta muore per suicidio esponezialmente di più rispetto la popolazione libera.

Nel 2020 sono stati 61 i suicidi, dall’inizio dell’anno 2021 già 6.


La sofferenza si traduce in isolamento, contenzione fisica, farmacologica e psicologica,
aggravata dall’annientamento, dalla violenza e dalla repressione carceraria.

La reclusione genera disturbi e menomazione (da problemi psichici, a problemi cardiovascolari e metabolici sino a malattie infettive), patologie e fragilità che spesso esordiscono in carcere e si protraggono anche dopo la scarcerazione.

La riflessione sulla contenzione della sofferenza mentale e della dissidenza ci deve mettere in guardia, la strumentalizzazione del disagio si traduce in termini ancora piu repressivi: dove non arriva il sistema giudiziario e il carcere, arriva la psichiatria,.

Oggi, oltre al profondo buio che circonda queste ‘articolazioni salute mentale’,  sindacati e guardie tornano a chiedere anche ‘particolari sezioni agitati’  per stringere una morsa repressiva ancora maggiore intorno a chi è reclusa e recluso in carcere e si ribella.

Il carcere è intrinsecamente non solo la negazione di qualsiasi concetto di salute, ma della vita e dell’esistenza stessa.

Rompere l’omertà che avvolge quelle mura e abbattere ogni prigione, qualsasi prigione, è una responsabilità di tutte e tutti.

Appunti sulla psichiatrizzazione e sulla contenzione della dissidenza

Qualcuno volo sul nido del cuculo di Milos Forman 1975
Foto di scena della Fantasy Film and United Artists Corporation USA


“Quadro di personalità allarmante”
“Inclinazione alla violenza”
“Sintomatico di una personalità incapace di controllare l’impulso criminale”

Queste sono le parole usate di recente dal Gip per descrivere i fatti di Torino.

Lo Stato risponde alle sollevazioni di malcontento prospettando anni di carcere e guai per qualche vetrina del lusso in frantumi confermando il suo cieco ruolo di tutore dell’ordine e garante dei privilegi: i poveri devono rimanere poveri, chi è ai margini deve rimanere ai margini a guardare le scintillanti vetrine.

Si parla di ‘punire’ le famiglie delle persone coinvolte con la sospensione del reddito di cittadinanza e non si esita a psichiatrizzare il comportamento individuale.

Rompere una vetrina diventa “Sintomatico di una personalità incapace di controllare l’impulso criminale”.

La psichiatrizzazione del comportamento considerato ‘oppositivo’ ha origini lontanissime, l’estensione capillare che oggi viene fatta del paradigma psichiatrico in  ogni ambito della vita – vedi la medicalizzazione dell’infanzia nelle istituzioni scolastiche – viene ad assumere una valenza enorme che riporta al centro del discorso collettivo la contenzione, la medicalizzazione e la stigmatizzazione psichiatrica dei comportamenti, paradigmi e pratiche coercitive e spersonalizzanti che vanno  a sostenere ‘profili criminosi’ e ‘quadri di personalità’ usati come arma per togliere di mezzo il dissenso.

Ad un anno dalla strage di Stato nelle carceri

Un intervento letto a Modena il 6 marzo sotto al carcere Sant’Anna:

Sono qui fuori perché credo che quello che succede dietro quelle mura ci riguardi tutte e tutti!

E’ passato un anno da quei giorni di marzo. 
Ricordo che seguivo le notizie al computer, e la conta dei morti continuava a salire!

Dicono che sono morti di overdose, lo hanno detto dal primo giorno, ma queste sono morti di Stato e qui fuori lo sappiamo bene!

Io non sono un medico ma ho avuto le mie esperienze, e so, che anche con l’assunzione di quantitativi rischiosi ed elevati di metadone, la morte per insufficienza respiratoria non sopraggiunge subito, ci sono segnali, sonnolenza, diminuzione delle capacità vitali, è un processo non immediato, che avrebbe permesso ad eventuali soccorsi di intervenire.

Ma chi interviene se chi ha la tua vita in mano è lo stesso che ti ha riempito anche di calci e manganellate? Se è proprio lui che vuole la tua morte?

Quattro morti sono sopraggiunte durante e dopo i trasferimenti in altri carceri, questo conferma che non sono stati soccorsi!

Il silenzio di medici e infermieri è assordante rispetto gli abusi compiuti in quei giorni e rispetto agli abusi che si perpetuano ogni giorno in tutte le carceri! Infermieri, medici, tecnici, operatori, complici di un sistema che li vede colpevoli per l’omertà con cui attraversano quelle mura.

Perché al carcere è evidentemente riconosciuto il diritto di provocare  malattia, menomazione e anche di uccidere!

Lo ha detto la procura di Modena: “Indagini da archiviare”

. Nessuna responsabilità! Sono morti per overdose. Nessun pestaggio. Assistenza sanitaria garantita. Tutto a posto.

Vogliono mettere a tacere non solo le ragioni delle rivolte, ma tutto ciò che ne è seguito.

Non possiamo permetterlo! Non dobbiamo permetterlo! Perché ne approfitteranno per stringere una morsa ancora più stretta intorno a chi vive l’oppressione carceraria!

In carcere si muore, oggi come ieri, oggi piu di ieri. I suicidi sono in continuo aumento!

Questa pandemia ha portato allo scoperto l’incompatibilità della condizione detentiva con qualsiasi concetto di salute, non solo per le ridicole condizioni igieniche, per il sovraffollamento, o per l’assistenza sanitaria inesistente, ma strutturalmente: il carcere è in sè stesso l’antitesi della salute, della prevenzione e della cura per la violenza e la deprivazione su cui si fonda.

Isolamento, solitudine, sradicamento, attese e procedure alla mercé completa della discrezionalità di guardie e direzione, sono la prima fonte di deterioramento psicologico per chi subisce la reclusione.

L’impossibilità di comunicare annienta e distrugge corpi e menti, generando handicap, disturbi e malattie psico-somatiche.

Il carcere non deve esistere e le persone devono uscire!

Sovvertire le ingiustizie è l’unica possibilità che abbiamo per non soccombere allo schifo che ci circonda e la solidarietà è l’arma che il potere teme di più!

Se il carcere è lo strumento che lo Stato ha per mantenere le diseguaglianze,  controllare il conflitto sociale e far si che nulla cambi, combatterlo è una necessità per tutte e tutti noi!

Cinque detenuti hanno avuto il coraggio e la determinazione di esporsi e alzare la testa, si sono messi a rischio scegliendo la loro coscienza al silenzio!

Ma più saremo, ad alzare la testa, piu qualcosa potrà cambiare.

Soltanto lottando possiamo rompere il filo spinato dell’omertà che avvolge queste mura affinché le rivolte, e il sacrificio di chi non c’è più non siano stati inutili!