NO AL 41 BIS, LIBERX TUTTX

Il 25 maggio, la Corte di Cassazione deciderà in merito al processo relativo all’inchiesta Scripta Manent, processo nel quale una compagna, Anna, è stata condannata a 16 anni e 6 mesi, e tre compagni, Nicola, Marco e Alfredo rispettivamente a 13 mesi, 21 mesi e 20 anni.

Fra i reati per cui sono stati condannati, oltre all’associazione sovversiva e i reati fine ad essa collegati, per alcuni di loro vi è quello di strage. Come al solito lo Stato attua la politica dell’inversione delle responsabilità, quando nella realtà è lo stesso Stato che ogni giorno commette stragi impunite nelle guerre, nelle carceri, nei mari, sul lavoro, nelle strade, in una costante pratica affermata del monopolio della violenza.

Quando qualcuno prova a rompere questo monopolio, restituendo un’infinitesimale parte della violenza statale, viene duramente represso. Per questo, sotto processo ci sono le pratiche rivoluzionarie che gli anarchici e le anarchiche hanno sempre sostenuto e che da sempre fanno parte del loro percorso.

Dietro a questa, come ad altre vicende giudiziarie, c’è il tentativo degli inquirenti di voler rileggere sotto la loro lente di ingrandimento la storia del mondo anarchico, dividendolo tra buoni e cattivi.

Finalità del processo è la volontà di zittire i compagni distribuendo anni di galera. A conferma di tutto ciò, dallo scorso 5 maggio ad Alfredo è stata applicata la tortura legalizzata del 41-Bis, il più pesante regime di isolamento previsto dallo Stato italiano.

Opponiamoci a queste logiche repressive, rimandiamo al mittente la responsabilità delle stragi, difendiamo le pratiche rivoluzionarie.

No al 41-Bis, liber* tutt*!

Sabato 21 maggio saremo in strada a Torino, ore 10 P.zza Borgo Dora, zona Balon.

Cassa Antirepressione Alpi Occidentali

Saluto a Santa Maria Capua Vetere

Riceviamo e diffondiamo:

Domenica scorsa, alcune decine di solidali transfemministx hanno portato un saluto alle persone recluse dentro il carcere di Santa maria capua vetere in occasione del secondo anniversario della “mattanza della settimana santa” del 6 aprile 2020. Le urla da dentro si sono alzate mentre ancora si stava raggiungendo il punto più vicino possibile alle finestre. Tante erano le persone detenute che si sono affacciate chiedendo aiuto e libertà; molte delle grida raccontavano dell’assenza di acqua e cibo immangiabile, nonché delle condizioni pessime e insostenibili della vita dentro. I tentativi di parlare con loro sono stati quasi subito impediti dalle sirene accese dalla penitenziaria per ostacolare la comunicazione e intimidire lx solidalx. Da dentro alcuni hanno iniziato a gridare di andare via per segnalarci l’arrivo delle guardie.

Le urla erano forti e determinate, il tempo a disposizione poco. Appare quantomeno necessario diffondere queste poche notizie sulle condizioni pessime e al limite della sopravvivenza. Nonostante la visibilità mediatica data a ciò che accadde due anni fa e al processo tuttora in corso a carico delle guardie per torture, pestaggi e omicidio colposo, le condizioni per chi è reclusx lì dentro continuano a essere inumane. Questo a dimostrazione che per Stato e istituzioni, ciò che non è sotto i riflettori, può tranquillamente continuare a marcire.

Che delle galere restino soltanto macerie.
LIBERTA PER TUTTE LE PERSONE RECLUSE

Niente da spartire

Di seguito diffondiamo un volantino distribuito ieri a Bologna:

NIENTE DA SPARTIRE

– Niente da spartire nè col machismo omofobo, transfobico, misogino e assassino di Putin, nè con la chiamata alle armi del buon padre di famiglia Draghi e dei suoi alleati Nato pronti a dividersi il mondo a costo di un bagno di sangue.

– Niente da spartire con le analisi geopolitiche, non è affar nostro scegliere sull’altare di quale stato e a quali interessi si può sacrificare la vita delle persone.

– Niente da spartire con i mercanti e produttori di armi, prestigioso comparto dell’export Made in Italy che fanno soldi a palate e non hanno cessato i loro sporchi traffici neanche un giorno in piena pandemia, attività essenziali, dicevano, mentre milioni di persone vivevano confinate nelle loro case senza deroghe a costo di sofferenze mentali e fisiche.

– Niente da spartire con l’economia della guerra su cui il capitalismo strutturalmente si regge.

– Niente da spartire con lo spettacolo della guerra. I media sciacalli vanno in cerca instancabilmente di immagini e storie tragiche da dare in pasto all’opinione pubblica al servizio della propaganda guerrafondaia dell’Occidente.

– Niente da spartire con il pietismo sulle badanti ucraine che fino a quando non sono diventate funzionali alla narrazione dei governati di casa nostra erano invisibili, democraticamente sfruttate e ricattatte col cappio al collo dei permessi di soggiorno.

– Niente da spartire con il razzismo dell’accoglienza per cui sulla linea del colore si decide chi far passare e chi far inseguire coi cani alle frontiere e far morire in mare.

– Niente da spartire con i signori del nucleare e della guerra (che sono gli stessi, fatalmente) quelli che di mestiere producono devastazione ambientale e morte.
Sono il problema e non la soluzione.

– Niente da spartire con chi ha fatto dei nostri territori una polveriera disseminando basi Nato massicciamente nel sud dell’italia e nelle isole,e reprimendo duramente chi vi si oppone. In queste periferie dell’impero, a Taranto, in Sardegna e in Sicilia le acciaierie e l’industria pesante avvelena e fa ammalare ad ogni respiro e uno dei motivi per cui non si può dismettere è la natura “strategica” della produzione per l’autarchia dell’industria bellica.

Sappiamo di vivere in un mondo che si regge sulle stragi in mare, al lavoro, nelle carceri, nelle case, nei campi di concentramento ai confini dell’Occidente in cui milioni di persone vengono usate come strumenti di pressione e merce di scambio, una guerra a bassa intensità in cui, come per la pandemia, il problema dei governanti è stabilire quante morti e quanta sofferenza è “tollerabile” dalla società civile come danno collaterale procurando di spostare il limite sempre un po’ più in là.
Sappiamo altresì che la rimozione collettiva di questa ferocia serve allo Stato per conservare saldamente il primato della violenza.

Guerra alla vostra guerra e Guerra alla vostra pace

Niente da spartire – pdf

PER UN MONDO SENZA PSICHIATRIA, SENZA CARCERE E SENZA FRONTIERE

A luglio del 2021 è stata aperta una sezione ‘nido’ al femminile della Dozza proprio accanto alla sezione psichiatrica – la cosi detta ‘sezione articolazione salute mentale’, l’unica femminile in Emilia Romagna.

Il carcere che annienta gli adulti si è organizzato per l’infanzia: un nido dietro le sbarre accanto al repartino psichiatrico, due dispositivi che insieme esprimono tutta la ferocia del sistema carcerario.

Sabato 22 gennaio dalle 18:00 alle 18:30 su Mezz’ora d’aria, trasmissione radio anticarceraria bolognese sulle frequenze di Radio Città Fujiko, una puntata per parlare di carcere femminile, infanzia reclusa e psichiatria.

PER UN MONDO SENZA PSICHIATRIA, SENZA CARCERE E SENZA FRONTIERE

Il podcast della puntata

La puntata si troverà anche sul sito della trasmissione
https://www.autistici.org/mezzoradaria/

Diffondi

Il 15 febbraio 2021 muore Isabella P., 37 anni,  ‘temporaneamente trasferita’ dall’articolazione femminile di Bologna in quella di Pozzuoli per il tempo dei lavori di ‘ristrutturazione’ nel repartino psichiatrico della Dozza.

Una crisi respiratoria.

Isabella è solo un nome in più nell’elenco dei tanti morti di carcere e di psichiatria.

Isabella non c’è più, l’articolazione ‘salute mentale’ c’è ancora, oggi con una sezione ‘nido’ accanto.

Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems): i nuovi manicomi

Contributo su carcere, psichiatria e Rems a cura del Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud di Pisa per l’agenda “Scarceranda 2022”

La Legge n°81 del 2014 ha disposto la chiusura degli OPG (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) e ha previsto l’ entrata in funzione delle REMS (Residenze per l’Esecuzione Misure Sicurezza) su tutto il territorio nazionale. La misura di affidamento ai servizi sociali e sanitari, anziché a quelli giudiziari, costituisce un passo in avanti nella riduzione delle misure reclusive totalizzanti, ma, mantenendo inalterato il concetto di pericolosità sociale, non cambia l’essenza della questione.

Come si finisce in una REMS ? In Italia, in caso di reato, se vi sia sospetto di malattia mentale, il giudice ordina una perizia psichiatrica; se questa si conclude con un giudizio di incapacità di intendere e di volere dell’imputato, lo si proscioglie senza giudizio e se riconosciuto pericoloso socialmente, lo si avvia ad un percorso in una REMS o in una struttura residenziale psichiatrica per periodi di tempo definiti o meno, in relazione alla pericolosità sociale.

La legge 81/2014 non ha intaccato il sistema del “doppio binario”: quello che riserva agli autori di reato – se dichiarati incapaci di intendere e di volere per infermità mentale – un percorso giudiziario speciale, diverso da quello destinato agli altri cittadini. Chiudere i manicomi criminali senza cambiare la legge che li sostiene vuol dire creare nuove strutture, forse più pulite, ma all’interno delle quali finiscono sempre rinchiuse persone giudicate incapaci d’ intendere e volere. Una carenza che non ha reciso la logica sottesa al trattamento dei “folli rei”, quella del mancato riconoscimento di una piena dignità alle persone, anche attraverso l’attribuzione della responsabilità per i propri atti.

Per superare realmente il modello manicomiale occorre non riproporre i criteri e i modelli di custodia e metter mano a una riforma degli articoli del codice di procedura penale che si riferiscono ai concetti di pericolosità sociale del “folle reo, di incapacità e di non imputabilità”, che determinano il percorso di invio alle REMS.

Al contrario con le REMS viene ribadito il collegamento inaccettabile cura-custodia riproponendo uno stigma manicomiale. Ci si collega a sistemi di sorveglianza e gestione esclusiva da parte degli psichiatri, ricostituendo in queste strutture tutte le caratteristiche dei manicomi. La proliferazione di residenze ad alta sorveglianza, dichiaratamente sanitarie, consegna agli psichiatri la responsabilità della custodia, ricostruendo in concreto il dispositivo cura-custodia, e quindi responsabilità penale del curante-custode. Tradotto significa l’inizio di un processo di reinserimento sociale infinito, promesso ma mai raggiunto, legato indissolubilmente a pratiche e percorsi coercitivi, obbligatori, e contenitivi.

Il manicomio non è una struttura, bensì un criterio; la continua ridenominazione di tali strutture, infatti, non può nascondere la medesima contraddizione di fondo: l’isolamento del soggetto dalla realtà sociale per la sua incapacità di adattamento nei confronti di un mondo su cui nessuno muove mai alcuna questione e che nessuno mette mai in discussione. Sarebbe essenziale superare il modello di internamento, non riproporre gli stessi meccanismi e gli stessi dispositivi manicomiali. Il manicomio non è solo una questione di dove e come lo fai, se c’è l’idea della persona come soggetto pericoloso che va isolato, dovunque lo sistemi sarà sempre un manicomio.

Non ci aspettiamo che lo Stato cancelli l’articolo che istituisce la pericolosità sociale, visto che negli ultimi anni è stato utilizzato molto dalla magistratura per colpire e reprimere le lotte.

Nelle REMS la durata della misura di sicurezza non può essere superiore a quella della pena carceraria corrispondente al medesimo reato compiuto. Spesso invece accade che le persone che hanno già scontato in carcere tale pena finiscano nelle REMS e non vengano liberati subito e senza condizioni. Infatti la normativa in vigore effettua questa equiparazione solo per la misura di sicurezza definitiva ma questo non vale per le persone che hanno la libertà vigilata con affidamento ai servizi di salute mentale che può estendersi all’infinito. Sono molti anche i pazienti psichiatrici non imputabili detenuti in carcere in attesa di andare nelle REMS, attesa che può richiedere mesi o addirittura anni, con la conseguenza di tenere dietro le sbarre senza limiti di tempo soggetti che non  dovrebbero starci. La soluzione non è certo costruire nuove REMS né aumentarne la capienza.

Le condizioni delle carceri italiane continuano ad essere pessime: le strutture sono fatiscenti, il cibo insalubre, le docce e acqua calda carenti e esiste un sovraffollamento perenne. A tutto questo è da aggiungere annientamento, deprivazione, contenzione fisica, farmacologica, violenza fisica e psicologica.  La reclusione genera disagi, patologie e fragilità che spesso esordiscono in carcere e si protraggono anche dopo la scarcerazione. Nel 2019 sono stati 53 in totale i suicidi negli istituti penitenziari italiani (dato confermato sia dalla fonte del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria che da Ristretti Orizzonti) a fronte di una presenza media di 60.610 detenuti ovvero un tasso di 8,7 su 10.000 detenuti mediamente presenti. Per quanto riguarda gli atti di autolesionismo, nel 2019 svetta il carcere di Poggioreale a Napoli con 426 atti (18,79 su 100 detenuti); mentre il valore più alto ogni 100 detenuti lo detiene l’istituto penitenziario di Campobasso con 110,43 atti ogni 100 detenuti, seguito da quello di Belluno che sfiora quota 100 (98,72).

La salute nei luoghi di reclusione è inesistente, manca personale medico e infermieristico , non si trova un banale farmaco per il mal di stomaco ma i detenuti possono avere accesso a svariati psicofarmaci.

Più di un detenuto su 4 è in terapia psichiatrica, con una media del 27,6%. In alcuni istituti addirittura quasi tutti i detenuti sono in terapia psichiatrica: nel carcere di Spoleto risulta psichiatrizzato il 97% dei reclusi, a Lucca il 90% mentre a Vercelli l’86%.

Noi crediamo nel bisogno e nella costruzione di reti sociali autogestite e di spazi sociali autonomi, in grado di garantire un sostegno materiale, una vita senza compromessi di invalidità o Amministratori di Sostegno che gestiscono le esistenze delle persone seguite dalla psichiatria, nonché un reddito e un lavoro non gestiti dai servizi socio-sanitari, bensì autonomamente dal soggetto.

Un concreto percorso di superamento delle istituzioni totali passa necessariamente dallo sviluppo di una cultura non segregazionista, largamente diffusa, capace di praticare principi di libertà, di solidarietà e di valorizzazione delle differenze umane contrapposti ai metodi repressivi e omologanti della  psichiatria.

Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud-Pisa

per info e contatti:
Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud
via San Lorenzo 38 56100 Pisa
antipsichiatriapisa@inventati.org
www.artaudpisa.noblogs.org / 335 7002669

Protesta e battiture nel carcere di Santa Maria Capua Vetere

Dalla Vampa, Napoli.

Il 1 gennaio nel reparto Senna del carcere di Santa Maria Capua Vetere le donne detenute, circa 50, hanno protestato dopo l’ennesimo maltrattamento di una di loro da parte del medico di turno. C’è stata una battitura e sono stati bruciati alcuni asciugamani.
Della notizia non ha parlato quasi nessuno, se non un paio di articoli che concludono invocando più sicurezza per la polizia penitenziaria, che sarebbe oggetto di continue violenze da parte delle persone detenute. Gli stessi secondini noti per la mattanza dell’Aprile 2020 e di cui un centinaio sono ora sospesi e sotto processo, insieme a diversi funzionari del DAP. La stessa penitenziaria che ogni giorno maltratta, abusa e uccide in questa e in tutte le altre carceri italiane.
Mentre i sindacati di polizia penitenziaria piangono miseria e i vertici del ministero di giustizia fanno di Santa Maria Capua Vetere un caso esemplare per ripulirsi la faccia della strage di Stato avvenuta a Marzo 2020 nelle prigioni italiane, ricominciano a scoppiare focolai in diversi reparti dappertutto. In Campania, sia a Poggioreale che a SMCV sono diverse decine le persone detenute positive. Ma i contagi all’interno non fanno più notizia. Dopo l’iniziale clamore della campagna vaccinale, è evidente che la situazione strutturale di malasanità e sovraffollamento non è mai cambiata.
Ieri un piccolo gruppo di solidali è andato sotto le mura della prigione per portare un grido di solidarietà alla lotta delle detenute di SMCV. Dopo i primi cori, la risposta da dentro è stata immediata, con battiture e urla – “Libertà, hurryia, indulto”. Il saluto è durato poco, ma il messaggio di rabbia e resistenza da dentro è stato forte e chiaro. Torneremo, non mollate.
Tuttx liberx! 🔥



https://lavampa.noblogs.org/post/category/comunicati/

“Credevano che simulasse”

Antonio Raddi, 28 anni, morto il 30 dicembre 2019 alle Vallette di Torino per un’infezione polmonare dopo aver perso 25 chili nell’indifferenza dei suoi aguzzini.

Cominciò ad affermare di avere problemi ad alimentarsi ad agosto ma “credevano simulasse”. Il suo compagno di cella racconta che non era più in grado di mangiare e bere quando il 13 dicembre iniziò a “vomitare sangue e defecare, e svenire”. Era entrato in carcere il 28 aprile 2019 con il peso di circa 80 chili: a novembre erano diventati 50. Chi ne certificò l’estremo stato di denutrizione sottolineò di non avere “mai visto niente del genere in 40 anni”.

Nonostante le diverse segnalazioni la direzione del carcere riferiva di non individuare particolari criticità rispetto allo stato di salute del detenuto.

Il 20 novembre, il medico del carcere rispondeva all’ennesima lettera indicando che la perdita di peso fosse voluta: “Una modalità strumentale per ottenere benefici secondari”.

Il 4 dicembre Antonio si presenta al Garante sulla sedia a rotelle. “Implora di intervenire, ha le stesse sembianze di Stefano Cucchi”, verrà scritto, con la richiesta di “una opportuna e urgente rivalutazione clinica con conseguenti provvedimenti del caso”.

Il 10 dicembre il direttore ancora rassicurava sulle sue condizioni: “Il soggetto è ampiamente monitorato”.

Solo tre giorni dopo il ricovero,  il coma e la morte.

Tra qualche giorno verrà discussa la richiesta dei familiari del giovane di non archiviare l’inchiesta. Il pm che ha chiesto l’archiviazione arriva ad indicare il detenuto come “non collaborativo” per giustificare e sollevare da qualsiasi responsabilità lo staff medico e le guardie.

Sanitari complici delle torture in carcere!
Finchè esisteranno quelle mura non ci sarà mai giustizia


Antonio Raddi morto per incuria nel carcere Vallette di Torino. La Procura vuole archiviare

https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2021/12/27/carceri-muore-dopo-aver-perso-25-kg-inchiesta-a-torino_c9fd38b9-33ba-4dd9-bb69-cccc3b5c0c42.html

http://www.ristretti.org/index.php?option=com_content&view=article&id=92345:torino-deperito-in-carcere-e-morto-unaltra-inchiesta-sulle-vallette&catid=220:le-notizie-di-ristretti&Itemid=1

Carcere di Torino: sezione psichiatrica Il Sestante

“Ho visitato la sezione psichiatrica del carcere di Torino: spero che ciò che ho visto non si ripeta mai più”

Link al testo completo qui
di Susanna Marietti, Coordinatrice associazione Antigone

[..]

Al Sestante si trovano circa venti celle, dieci su ogni lato del corridoio. In ciascuna è reclusa una singola persona detenuta. La cella è piccola, sporca, quasi completamente vuota. Al centro vi è un letto in metallo scrostato e attaccato al pavimento con i chiodi. Sopra è buttato un materasso fetido, a volte con qualche coperta e a volte no. Qualcuno, ma non tutti, ha un piccolo cuscino di gommapiuma. Non vi è una sedia né un tavolino. Solo un piccolo cilindro che sembra di pietra dove ci si può sedere in posizione scomodissima. L’intera giornata viene trascorsa chiusi là dentro, senza nulla da fare e nessuno con cui parlare. Unico altro arredo, un orrendo bagno alla turca posizionato vicino alle sbarre, di fronte agli occhi di chiunque passi per il corridoio.

Noi ci siamo passati. Abbiamo dovuto insistere un po’ affinché ci aprissero il cancello della sezione. Ci siamo passati, per quel corridoio, e abbiamo guardato dentro ciascuna di quelle stanze detentive. Ognuna teneva dentro un essere umano. Ma certamente trattato in maniera contraria a quel senso di umanità che la nostra Costituzione chiede alle pene legittime. Alcuni erano solo dei mucchietti di stracci buttati immobili sulla branda. In una cella vi era un uomo sdraiato al buio sul pavimento. Nessuno lo tirava su di là. In un’altra vi era un ragazzo che stava in piedi con la faccia a pochi centimetri dal muro. Non si è girato al nostro passaggio. Teneva i palmi delle mani rivolti verso l’altro, all’altezza delle spalle. Parlava verso quella parete, ogni tanto si girava verso il letto, poi tornava a rivolgere la faccia al muro e parole a chissà che cosa. Barcollava e aveva gli occhi a mezz’asta. Nessuno ci faceva caso.

Qualcuno si è avvicinato alle sbarre al nostro passaggio. Un uomo mi ha chiesto se potevo fare in modo che la turca della sua cella venisse aggiustata. Erano quattro giorni che non scaricava le sue feci, mi ha spiegato. L’ho detto al poliziotto del reparto.

Un altro uomo era al buio. Si è sporto dalle sbarre e mi ha detto che avrebbe voluto un po’ di luce. Il poliziotto che era con me, un po’ imbarazzato, gli ha detto di accenderla con l’interruttore interno, che sicuramente avrebbe funzionato. Ma lui ha detto di no, mancava proprio la lampadina. Mi sono fermata per capire chi avesse ragione. Effettivamente la luce non si accendeva. Non so da quanti giorni quel signore fosse al buio dalle quattro e mezza di pomeriggio fino all’alba del giorno dopo.

Un giovane uomo si teneva a stento in piedi sulle gambe. Aveva un filo di bava che gli colava sulla blusa. Gli occhi semichiusi, come se stesse per addormentarsi in piedi da un momento all’altro. Ha tentato di pronunciare qualche parola rivolto a me che mi ero fermata lì davanti. Faceva fatica ad articolare i suoni. Ha balbettato la parola ‘avvocato’. Gli ho chiesto se avesse avuto modo di parlare con il suo legale. Si è chinato e da un mucchietto di carte per terra ha preso un foglietto con un numero di telefono. L’ho copiato sul mio quaderno e gli ho detto che l’avrei avvisato che si trovava lì. Mi è stato spiegato che l’uomo era a Torino per un periodo di 30 giorni di osservazione psichiatrica, mandato lì da un altro istituto. Non so cosa si possa osservare e diagnosticare in un uomo imbottito di farmaci fino al punto da non riuscire a parlare e a reggersi in piedi.

Nell’ultima cella prima dell’uscita c’era un ragazzino. Avrà avuto 25 anni. Gli ho chiesto come andasse. Le lacrime hanno cominciato a scendergli dagli occhi. Mi ha detto che non capiva perché fosse lì, che gli mancava sua madre e che aveva tanta paura tutte le notti. Mi ha pregato di farlo trasferire. Gli ho spiegato che non avevo alcun potere in questo senso, ma mi sono fatta dare il numero di telefono della mamma, che lui sapeva a memoria.

Gli operatori mi hanno spiegato che erano in attesa che si liberasse un posto in una Rems, le residenze a vocazione sanitaria per l’esecuzione delle misure di sicurezza psichiatriche. Il ragazzo non avrebbe dovuto trovarsi lì, non c’era titolo per la sua detenzione. Sono uscita e ho chiamato la madre. Era contenta che almeno qualcuno avesse visto suo figlio. Lei non ci era riuscita, nessuno le aveva detto dove lo avessero portato. Adesso si apprestava a recarsi a Torino.

[…]

Legami con i prigionieri condannati per violenze sessiste: tracce di riflessione e azione

Legami con i prigionieri condannati per violenze sessiste: tracce di riflessione e azione

Pubblicato su hurriya
Traduzione da
: Paris Luttes

I membri della «Assemblée contre les Centres de Rétention Administrative (CRA) » (Assemblea contro i Centri di Detenzione Amministrativa (CRA)) a volte entrano in contatto con dei prigionieri accusati o condannati per violenze sessuali e sessiste. Se in genere partiamo piuttosto dal presupposto di interagire con le persone nel CRA in quanto persone che subiscono il razzismo di Stato e la reclusione, senza distinguere i loro percorsi di provenienza, che fare una volta che scopriamo che quella persona ha commesso uno stupro o menava la sua compagna? Proviamo qui a proporre qualche spunto.

L’assemblea dell’Île-de-France contro i centri di detenzione esiste da tre anni e può capitare che dobbiamo confrontarci con situazioni complicate nell’intessere legami con le persone detenute all’interno del CRA. Alcuni detenuti con cui eravamo in contatto erano stati condannati per violenze sessiste e sessuali (moleste, violenze coniugali, aggressioni sessuali, stupri). Nella maggior parte dei casi l’abbiamo scoperto perché è stata la persona stessa a dircelo (in generale in seguito al trasferimento al CRA dopo la fine della detenzione in carcere), o perché ce l’ha detto la sua compagna. Nel marzo 2021, a seguito dell’incendio al CRA di Mesnil-Amelot, 7 persone sono state portate di fronte al tribunale di Meaux: durante le campagne anti-repressione che abbiamo tentato di portare avanti, abbiamo messo mano sui loro faldoni giudiziari e abbiamo scoperto molti di loro erano stati condannati per violenze sessiste.
Abbiamo fatto quindi molte discussioni sul tipo di supporto che avevamo voglia di dare loro: anche se eravamo tutt* d’accordo a continuare l’attività minima contro la repressione per esprimere loro la nostra solidarietà dopo la rivolta avvenuta a gennaio, non c’era però consenso sul fatto di supportarli oltre questo (ovvero mantenendo con loro una corrispondenza, andandoci a parlare, mandando loro dei vaglia). Avevano davvero voglia di fare queste cose? Se in genere partiamo piuttosto dal presupposto di interagire con le persone nel CRA in quanto persone che subiscono il razzismo di Stato e la reclusione, senza distinguere i loro percorsi di provenienza, che fare una volta che scopriamo che quella persona ha commesso uno stupro o menava la sua compagna? Nel caso dei prigionieri dell’incendio, eravamo venut* a conoscenza di questi fatti tramite i faldoni giudiziari: volevamo davvero basarci sul casellario giudiziale delle persone, ovvero un prodotto della polizia e della giustizia che rifiutiamo, per costruire la nostra azione politica?

Varie riflessioni hanno attraversato l’assemblea e, alla fine, abbiamo deciso di organizzare una discussione specifica sull’argomento: l’idea era quella di fare un passo indietro, di andarci a cercare altre risorse, di vedere cosa avevano fatto prima di noi altre persone o collettivi. Nel preparare la discussione, non abbiamo trovato quasi nessuna risorsa pratica in francese. C’erano dei testi teorici sul femminismo anti-carcerario che potevano darci degli spunti: tra di noi eravamo in generale d’accordo sul fatto di essere contro il carcere, sul fatto che la prigione non è una risposta efficace o desiderabile contro le violenze sessiste, sul fatto che le persone razzizzate vengono sovra-rappresentate tra i prigionieri sessisti quando, allo stesso tempo, uno stupratore è diventato Ministro dell’Interno e alcuni discorsi femministi vengono strumentalizzati dallo Stato a fini razzisti e repressivi … Ma pur essendo d’accordo sulla teoria, non avevamo risposte per le situazioni concrete con cui dovevamo confrontarci. Abbiamo comunque letto varie cose e discusso a lungo, e anche se non abbiamo trovato la soluzione magica, ci siamo dett* che avevamo voglia di condividere le nostre riflessioni con questo testo.

Qualche riferimento teorico ma poche risorse pratiche

Innanzitutto, abbiamo discusso un po’ di femminismo anti-carcerario e di qualche elemento su cui eravamo d’accordo.

– Siamo contro tutte le forme di reclusione e siamo solidali con le persone prigioniere in cella e nel CRA: non chiediamo di sapere perché ci sono finite. Nel caso del CRA, è più facile perché le persone vengono rinchiuse letteralmente per il solo motivo di non possedere il giusto pezzo di carta; ma essere contro i CRA senza essere contro le prigioni implica un posizionamento moralista e umanitario (il buon prigioniero migrante che non ha fatto niente a differenza del prigionieri cattivo e colpevole) che non ci appartiene. Inoltre, il passaggio dalla prigione al CRA e viceversa è sempre più frequente: non ha alcun senso, quindi, limitare le nostre lotte ai centri di detenzione, perché i due luoghi costituiscono un continuum della stessa politica razzista e repressiva.

– Alcuni discorsi femministi vengono strumentalizzati dallo Stato per mettere in campo politiche razziste e carcerarie: le donne vengono rese soggetti deboli da difendere e i colpevoli sono sempre i poveri, le persone non bianche che rappresentano di fatto la maggioranza della popolazione detenuta. Siamo contro le politiche che affermano che aumentare il numero degli sbirri e dei posti in carcere possa essere d’aiuto nella “lotta contro il sessismo”. Sappiamo che queste politiche non prenderanno mai di mira gli uomini cisgenere bianchi ricchi, che però beneficiano anch’essi del patriarcato.

– La prigione non ci salverà dal patriarcato nel senso che denunciare/intraprendere un processo/mettere in carcere uno stupratore o un marito violento non costituisce in genere una risposta soddisfacente quando si è vittim* di stupro o violenze coniugali. Non si tratta di giustizia riparativa: la vittima viene in genere esposta a un processo penale che può amplificare il trauma e i suoi bisogni (psicologici, materiali, emotivi, ecc.) non sono mai al centro del procedimento. Non si tratta di giustizia trasformativa: i numeri mostrano che il tasso di recidiva dopo la pena in carcere è enorme e il fatto di individuare un colpevole individuale (“tu sei uno stupratore”) permette al resto della società di non affrontare mai le cause strutturali e sistemiche delle violenze sessuali. Infine, se la detenzione in carcere può consentire di allontanare temporaneamente un uomo violento da sua moglie e, quindi, di dare a lei una parvenza di sicurezza, nei fatti la situazione delle persone vittime di violenza coniugale è spesso più complessa (questo spiega anche perché molte donne non sporgono denuncia): la donna si ritrova spesso a doversi occupare della famiglia da sola, oltre a dover inviare denaro al marito in carcere, ecc. Abbiamo incontrato spesso delle donne che continuavano a svolgere una qualche forma di lavoro (quotidiano, invisibilizzato e non remunerato) per il proprio marito detenuto per violenza domestica (andare a colloquio, mandargli dei vaglia o procurargli dei vestiti, per esempio).

Un primo spunto di riflessione per uscire dall’impasse: creare più legami con le donne vicine ai prigionieri

Nella maggior parte dei casi, è il prigioniero a raccontarci che, prima di finire al CRA, aveva scontato un periodo in carcere per violenze sessiste o sessuali. Ci siamo dett* che uno spunto di riflessione potrebbe essere quello di andare a cercare il punto di vista delle donne e di partire da lì nella nostra azione. Dobbiamo sforzarci di più a creare un legame con le persone vicine ai prigionieri: visto che spesso queste continuano a sostenere il loro compagno detenuti, organizzarsi con loro significa fare un lavoro politico vero e proprio.
In effetti, ci rendiamo conto che nelle lotte anticarcerarie, si tiene poco conto del patriarcato. Le lotte delle donne vengono invisibilizzate: sia dentro quando sono prigioniere, sia fuori in quanto vicine ai prigionieri. Spesso le ascoltiamo in quanto testimoni della prigionia dei loro cari, o come messaggere, ma non come persone colpite in prima persona dal – o in lotta contro il – carcere. C’è la tendenza a occuparci più di quello che succede dentro la prigione che dei suoi effetti su chi sta fuori. Questo ha a che fare anche con delle forme di romanticizzazione della rivolta, sotto forma, per esempio, di rivolta dentro al carcere, incendio, prigionieri che salgono sul tetto o in sciopero della fame; e molto meno spesso intesa come una resistenza quotidiana, quella delle donne che vanno a colloquio, che si occupano dell’avvocato, che svolgono il lavoro di cura, che si battono contro l’amministrazione penitenziaria per ottenere i colloqui, ecc. Conoscere meglio queste pratiche di resistenza ci permetterebbe forse di escogitare nuove prospettive di lotta. Se cambiamo la prospettiva, se smettiamo di partire sistematicamente dagli uomini prigionieri per partire invece dalle loro persone care, questo non farà certo sparire il fatto che alcuni di loro hanno commesso delle violenze sessiste, ma può farci considerare le donne (che siano vittime di violenza o no) come attrici della lotta, in una posizione che ridà loro il potere, la capacità di agire e di decidere. Tentare di creare più legami con le donne fuori dal carcere significa anche costruire una solidarietà femminista anticarceraria che non dipende dagli uomini reclusi.

La necessità di rendere più visibili i percorsi e le lotte delle donne prigioniere

È chiaramente più facile a dirsi che a farsi: abbiamo già provato ad avvicinarci a chi è vicino alle persone detenute ed è sempre stato più o meno un fallimento. Tutto è reso ancora più difficile dal fatto che le persone restano recluse nel CRA “solo” 3 mesi: è spesso complesso creare un legame di lungo periodo, sia con loro che con l* loro car*, rispetto ai casi di pene lunghe. Ci siamo comunque dett* che poteva essere uno spunto di risposta interessante alle domande che ci facevamo rispetto ai prigionieri accusati di violenze sessiste e sessuali; e questo ha dato l’avvio a ulteriori discussioni e questionamenti sulle nostre pratiche di lotta.

Innanzitutto, ci siamo dett* che avevamo la tendenza a dare più attenzione ai prigionieri che alle prigioniere. Facendo questo, abbiamo spesso contribuito a riprodurre l’invisibilizzazione che colpisce le detenute e le loro lotte. Ovviamente ci sono più uomini che donne nei CRA, ma il CRA di Mesnil-Amelot è comunque la più grande sezione femminile di tutta la Francia. Uno dei motivi per cui abbiamo dato più spesso spazio ai prigionieri che alle prigioniere sta nel fatto che le rivolte degli uomini vengono più velocemente considerate come tali, perché utilizzano delle modalità d’azione considerate più radicali (come spiegato sopra).

Questa idea secondo la quale le donne sarebbero “naturalmente” meno radicali deve essere messa in discussione. In primo luogo, abbiamo visto varie volte le detenute organizzare delle rivolte in modo più o meno collettivo, per esempio contro le espulsioni o contro le condizioni di detenzione. In alcuni casi, le donne si sono organizzate insieme agli uomini contro le espulsioni, assicurando delle reti di solidarietà all’esterno e sostenendo all’interno un confronto serrato con gli sbirri. Inoltre, se le lotte e le forme di resistenza messe in campo dalle donne possono apparire a volte meno radicali o meno collettive rispetto a quelle degli uomini, è anche perché le condizioni di detenzione di donne e uomini non sono le stesse: di conseguenza, il contesto in cui si esprime la loro resistenza è diverso. Le persone recluse nelle sezioni femminili sono sempre meno numerose (raramente più di 20-30 persone), sono più isolate rispetto ai detenuti maschi, e hanno maggiori difficoltà a comunicare tra di loro a causa di origini nazionali molto diverse. È quindi molto più complicato per loro organizzarsi collettivamente. L’opposizione feroce al controllo che gli sbirri esercitano sull’accesso ai medicinali o ai beni di prima necessità (per esempio ai tamponi o agli assorbenti) costituisce un esempio potente di una resistenza a cui bisogna prestare maggiore attenzione, se vogliamo capire come si è espressa la lotta di alcune prigioniere con cui siamo stat* in contatto.
È necessario anche dire che abbiamo spesso avuto più difficoltà a creare dei legami di fiducia con le donne rispetto agli uomini: in molti casi, i contatti che avevamo tramite chiamate telefoniche non creavano delle condizioni adeguate perché le detenute si sentissero in confidenza di parlare della situazione all’interno. Per questo motivo, abbiamo semplicemente meno informazioni su quello che succede nella loro sezione, e quindi conosciamo meno le loro lotte e le loro resistenze che possono assumere delle forme diverse rispetto a quelle degli uomini. Su questo c’è ancora molto lavoro da fare …

Abbiamo notato anche che tendiamo spesso a considerare d’ufficio le donne come persone in condizioni di vulnerabilità, e quindi a percepirle come soggetti meno politici degli uomini: ci siamo ritrovat* più facilmente a fare lavoro di cura e umanitario con loro rispetto a quanto lo facevamo con gli uomini. Questa differenza rispecchia la divisione genderizzata del lavoro che riproduciamo spesso nell’assemblea: gli uomini dell’assemblea vengono generalmente considerati dai prigionieri come interlocutori legittimi per discutere di mobilitazioni e rivolte, mentre alle donne dell’assemblea vengono formulate delle richieste impegnative di cura. Ma non sono solo i prigionieri a creare questa situazione: gli uomini dell’assemblea (come avviene un po’ in tutti gli spazi militanti) hanno la tendenza ad accaparrarsi i compiti visti come più prestigiosi e a delegare alle donne quelli associati al lavoro di cura. Cambiare questo aspetto richiede una partecipazione attiva dei maschi cis dell’assemblea per rimettere in discussione queste abitudini. Questo cambiamento necessita di una riflessione sui nostri atteggiamenti al telefono o durante i colloqui, su come ci dividiamo i contatti con i prigionieri e più in generale sulla distribuzione dei compiti nell’assemblea.

In conclusione, alcuni spunti per l’azione:

Per concludere, alcuni spunti di riflessione ancora da sbrogliare:

– Riflettere sul ruolo dei maschi dell’assemblea rispetto alle detenute: i maschi devono essere più coinvolti nello stabilire un contatto con le donne prigioniere, e allo stesso tempo fare attenzione al fatto che le prigioniere potrebbero non avere voglia di parlare o incontrare dei maschi, soprattutto se hanno subito violenze sessiste e sessuali in precedenza, ecc. Fare dei gruppi di contatto misti potrebbe essere una prima soluzione.

– Che fare quando ci ritroviamo di fronte a dei detenuti che sappiamo essere stati condannati per violenze sessuali o sessiste o che sono violenti con l* loro car*? Abbiamo discusso molto di questo: alcun* pensano che il loro casellario non dovrebbe interessarci dal momento che subiscono comunque l’istituzione carceraria; altr* pensano che bisognerebbe interrompere i contatti e non perdere tempo con gli stupratori (privilegiando per esempio il contatto con le donne); altr* ancora che non hanno una posizione netta su questo tema. Uno spunto possibile per uscire da questa impasse potrebbe essere quello di non cercare una soluzione magica ma di riflettere su cosa fare caso per caso. Interrompere i contatti con un prigioniero stupratore o mantenerli dipende innanzitutto dalle energie che hanno le persone in assemblea che sono in contatto con lui: in ogni caso, la loro decisione deve essere rispettata. È importante comunque far circolare l’informazione affinché l* altr* compagn* siano al corrente e possano prendere liberamente una decisione. Soprattutto, è fondamentale creare degli spazi all’interno dell’assemblea dove collettivizzare la gestione dei contatti con l’interno e discutere di questo genere di problematiche. Non lasciare l* compagn* sol* a gestirle è forse la cosa più importante.

Questo testo non è che un primo tentativo di riflessione sul tema delle violenze sessiste e sessuali di cui purtroppo si parla troppo poco nei nostri ambienti militanti. Anche se questo testo si basa in alcuni punti su analisi teoriche, vuole essere innanzitutto un punto di partenza per rispondere a delle questioni che ci poniamo spesso nel quotidiano della lotta contro i CRA. Propone più domande che risposte, ma offre comunque, secondo noi, qualche spunto interessante che deve ancora essere testato. Questo testo è soprattutto un invito a continuare il dibattito e la riflessione. Quindi non esitate a farlo circolare e a interagire scrivendoci in privato (per esempio a: anticra at riseup.net) o tramite altri testi pubblici.

Abbasso i CRA !