DI POSTA, PACCHI E COLLOQUI IN CARCERE: FACCIAMO CHE IL NOSTRO PROBLEMA DIVENTI UN PROBLEMA LORO

Riceviamo e diffondiamo:

Dopo 9 giorni dall’arresto per l’esecuzione della misura cautelare in carcere nella sezione comune di Poggioreale, legata ai fatti del corteo di carnevale contro il ponte sullo Stretto, Gabri non ha ancora mai avuto la possibilità di chiamare il suo avvocato.

Già per Andre la possibilità di incontrarlo prima e durante l’interrogatorio di garanzia fu impedita da un trasferimento dell’ultimo minuto al carcere di Potenza e da una connessione malfuzionante della videoconferenza; così come a Guí, al momento dell’arresto, avevano negato di nominare un avvocato di fiducia.

Trascorsi diversi giorni, a Gabri non sono state fornite le informazioni adeguate per poter sentire il suo avvocato difensore, per cui non lo ha ancora chiamato. In più non hanno fatto entrare il pacco di emergenza né quelli inviati successivamente, né ha ancora potuto effettuare i colloqui con le persone familiari. Fortunatamente, sappiamo che la solidarietá e il mutuo aiuto tra detenutx non è mancata.

Intanto, il riesame per Gabri, Guí e Andre, accusatx nello stesso procedimento, è stato fissato per il 25 settembre presso il tribunale del riesame di Messina.

A quanto abbiamo capito, si tratterebbe di intoppi procedurali e burocratici del carcere stesso di Poggioreale, una condizione strutturale legata al sovraffollamento, cosa comune specie in quei luoghi in cui masse di persone vengono riversate quotidianamente nelle galere, come fosse una discarica sociale.

Come Gabri, probabilmente, centinaia di detenutx nelle galere napoletane e in particolare a Poggioreale, uno dei più sovraffollati d’Italia (circa del 160%), vivono questo tipo di problemi come la normalità. Così come è normalità la logorante attesa delle persone detenute e loro affetti di una firma del magistrato di sorveglianza che validi le scartoffie già pronte da mesi sulla sua scrivania per concedere benefici, lavoro esterno per art. 21 o pene alternative.

“Sono veloci quando si tratta di portarti dentro e mai quando devi uscire”. 

Anche se per ragioni e contesto molto diversi, come compagnx diciamo che l’isolamento di chi è detenutx, non ci è nuovo.

Diversx prigionierx anarchicx o rivoluzionarx, nel tempo, così come nell’ultimo periodo, sia in sezioni comuni che di AS, sono statx ostacolatx o hanno subíto privazioni nelle comunicazioni con l’esterno.

Per il compagno anarchico Alfredo, ancora rinchiuso al 41bis di Bancali (Sassari), da tempo la corrispondenza è ormai totalmente bloccata, cosí come l’accesso alla biblioteca e ai pochi libri e CD giá autorizzati. La posta, anche senza passare dalla censura, sparisce nel nulla.

Al compagno anarchico Ghespe, detenuto al carcere di Spoleto, è stata applicata la censura; non abbiamo modo di sapere se la posta sparisca in entrata o uscita e una censura informale è di certo applicata ai pieghi di libri.

Al compagno Paolo, detenuto a Uta (Cagliari), è applicata ormai una censura informale per cui la posta si perde in entrata o in uscita, salvo che non sia posta raccomandata.

Che gli impedimenti a colloqui, pacchi e corrispondenza siano dati da sottorganico dell’amministrazione penitenziaria o da scopi punitivi e vendette politiche, l’effetto afflittivo sulle persone detenute e quelle a loro vicine o solidali non cambia. Allora diciamo che da un problema nostro dobbiamo farlo diventare un problema loro!

Isolare è un modo per punire chi continua a resistere anche dentro le carceri, non accettando di piegarsi ad un sistema oppressivo e repressivo. Il sistema carcerario impone un isolamento dall’esterno, dagli affetti e dallx compagnx, per cui poter ricevere lettere e pacchi è l’unico modo che si ha per oltrepassare quelle mura e mostrare vicinanza.

Negare la possibilità di comunicare con il proprio avvocato è gravissimo, poichè rappresenta la privazione di una minima consapevolezza sulla propria situazione.

Non poter ricevere il minimo indispensabile per l’igiene e una presenza dignitosa in cella è inaccettabile.

La lotta avviene sia dentro che fuori le gabbie, lo insegnano Alfredo, Anan, e tuttx lx compagnx reclusx.

In questi momenti è importante essere complici con lx compagnx, e mettere in difficoltà chi ostacola chi continua a lottare da dentro.

Raccogliendo i vari inviti a scrivere loro, come forma immediata per far sentire la nostra presenza in questi tempi bui e intasare gli uffici della burocrazia, scriviamo a tuttx!!

Sperando sia cosa apprezzata, riportiamo qui gli indirizzi di alcunx prigionierx a cui poter mandare un saluto scrivendo lettere e cartoline:

Gabriele Maria Venturi
C/o C.c. di Napoli Poggioreale “Giuseppe Salvia”
Via nuova Poggioreale 167, 80143 – Napoli (NA)

Guido Chiarappa
C/o Casa Circondariale di Varese,
Via Felicità Morandi, 5, 21100 Varese (VA).

Andrea Berardi
C/o C. c. di Potenza “Andrea Santoro”
Via Appia 175, 85100 Potenza (PZ)

Alfredo Cospito
C. C. “G. Bacchiddu”
strada provinciale 56 n. 4
Località Bancali
07100 Sassari

(per Stecco scrivere a:)
Luca Dolce
C. C. di Sanremo
strada Armea 144
18038 Sanremo (IM)

Paolo Todde
C. C. “E. Scalas”
09068 Uta (CA)

(Per Ghespe scrivere a:)
Salvatore Vespertino
C. D. R. Spoleto,
Loc. Maiano 10
06049 Spoleto (PG)

Anan Yaeesh
C.c. di Terni
Str. delle Campore, 32,
05100 Terni TR

Mauro Rossetti Busa
C. R. di Opera
via Camporgnano 40
20141 Milano

Juan Antonio Sorroche Fernandez
C. C. di Terni
strada delle Campore 32
05100 Terni

Anna Beniamino
C. C. “G. Stefanini” – Rebibbia
via Bartolo Longo 92
00156 Roma

Dayvid Ceccarelli
C. C. “San Lazzaro”
via delle Novate 65
29122 Piacenza

Antonio Recati
c.c. Scandicci
via Minervini 2r
50142 Firenze Sollicciano (FI)

Claudio Cipriani
Via Roma Verso Scampia, 350,
80144 Napoli (NA)

Per Alfredo, Paolo e Ghespe, è preferibile scrivere tramite posta raccomandata.

Per mandare pieghi di libri è meglio informarsi prima tramite lx prigionierx o persone solidali su cosa fa piacere o meno ricevere.

LE GABBIE RINCHIUDONO I CORPI MA NON SPENGONO I FUOCHI

Diffondiamo un intervento letto durante il saluto al carcere di Varese del 13/09:

Oggi siamo qui perché un nostro compagno è stato portato in questo carcere infame per aver preso parte a una manifestazione contro la costruzione del ponte sullo stretto di Messina. L’ennesima opera devastante e colonialista che vorrebbero imporci in una terra, come la Sicilia, già colonia dello stato italiano, una terra martoriata da basi militari americane, petrolchimici, radiazioni elettromagnetiche. Tutto per la gloria dello stato, i profitti del capitale, il ricatto del lavoro, il mito del “progresso” e dello sviluppo.

Ancora una volta vediamo come lo Stato affila i suoi artigli, utilizzando tutti gli strumenti che ha a disposizione, per reprimere qualsiasi manifestazione di dissenso, ma anche e soprattutto per metterci paura, per provare a spezzare la solidarietà, per darci un avvertimento forte e chiaro: per chi intende sfidare l’ordine costituito, per chi intende opporsi a questo modello di sviluppo, il destino è uno solo: dietro le sbarre.

Noi non ci faremo intimorire da queste rappresaglie, perché abbiamo scelto da che parte stare, perché sappiamo bene che in questo mondo di merda in cui ci ritroviamo a vivere, l’unica via possibile è quella della lotta.

Oggi siamo qui per portare un caloroso saluto e tutta la nostra solidarietà al nostro compagno ma anche a tutte le persone rinchiuse qua dentro, speriamo che la solidarietà trapassi queste mura infami.

Il nostro pensiero va a chi sta subendo la vendetta dello stato, a chi è rinchiuso dentro un CPR solo per non avere i documenti giusti, a chi continua a lottare dentro e fuori le galere.

Perché le gabbie possono rinchiudere i corpi, ma non possono spegnere i fuochi 

Con amore e complicità 

Freedom Hurriya Libertà 

 

MODENA: RIPARTE LA LIBRERIA LIBERTARIA LIGERA

Diffondiamo:

Giovedì 11 settembre
Riparte la Libreria Libertaria Ligera
Via Pomposa 8 (Modena)

Original vinyl selecta by Bassa la Connexion,
Dub e Steppa yard con Smog HiFi

Libreria anarchica attiva
Biblio e opuscoli
Birrette, aperitivo veg, biliardino
Bella gente bel sound

BARI: PERQUISIZIONI PER IL CARNEVALE NOPONTE DEL 1° MARZO 2025

Diffondiamo

Nella sera tra il 9 e il 10 settembre, in un piccolo paese della provincia di Bari, alcunx compagnx, hanno ricevuto la notizia dell’arresto di altrx tre compagnx G., A. e G. Questx, infatti, erano statx arrestatx rispettivamente a Napoli a Bari e a Varese, tuttx con molteplici accuse relative al corteo “Carnevale No Ponte” avvenuto a Messina nel marzo 2025.

Una volta ricevuta la notizia, lx compagnx hanno deciso di incontrarsi in una casa privata. Intorno alla mezzanotte, poco dopo aver raggiunto l’abitazione, lx compagnx hanno sentito bussare violentemente e ripetutamente alla porta.

Sei agenti della DIGOS hanno intimato di uscire velocemente dall’abitazione. Una volta fuori hanno specificato di avere un mandato di perquisizione per la compagna S.
S. assieme ad un altro compagno sono statx caricatx nelle macchine della DIGOS e condottx all’abitazione dove risiede S. Una volta entratx nell’abitazione, gli agenti della DIGOS sono raddoppiati. Inoltre è apparso evidente fin da subito che la metà degli agenti non proveniva da Bari.

Come si legge dalle carte, sei di loro provenivano da Messina e l’obiettivo della perquisizione, oltre alla chiara intimidazione, era quello di recuperare materiale inerente alle indagini contro lx compagnx arrestatx. L’atteggiamento della DIGOS è stato quello di sempre, arrogante, violento e prevaricatore.

L’abitazione è stata completamente rivoltata per sequestrare, oltre a due maschere di carnevale, dei poster e degli opuscoli di stampa anarchica. Intorno alle 01.30, dopo la perquisizione S., assieme ad un altro compagno, è stata portata nella questura di Bari per degli accertamenti, effettuare le foto segnaletiche e depositare le impronte digitali. S. ed il compagno che l’aveva accompagnata sono statx lasciatx liberx di andare solo dopo le 5 del mattino.

Al momento G. si trova nel carcere di Poggio Reale a Napoli, A. nel carcere di Bari e G. nel carcere di Varese.

Queste intimidazioni da parte dello stato non ci spaventano.
Non faremo mancare la nostra solidarietà allx nostrx compagnx detenutx.

FUOCO AD OGNI GABBIA!
SIAMO TUTTX NO PONTE!

SUGLI ARRESTI (MOLTO)POST-CARNEVALE NO PONTE

Diffondiamo

Ieri ci siamo svegliate con una brutta notizia: 3 compagnx venutx a sostenere la lotta NOponte alla manifestazione del Carnevale del 1 marzo sono state arrestate nella notte (tra 9 e 10 settembre), e diverse hanno subito fermi e/o perquisizioni.

Per le notizie che abbiamo, le persone arrestate sono accusate, tra le altre cose, di resistenza, danneggiamento, imbrattamento, e due anche di lesioni.

Non ci stupisce ma come sempre ci colpisce la svergognata e pretestuosa narrazione del potere, che ha iniziato a farsi strada sui giornali con articoli tutti uguali, dai termini altisonanti, che riportano (evidentemente dalla velina della questura) la “progressione criminosa” del corteo, i comportamenti “trasmodanti la libera manifestazione del pensiero”, nonché la notizia (finora a noi sconosciuta) che un secondo poliziotto, l’1 marzo, abbia subito lesioni mentre identificava unx dex fermatx.

Come al solito, l’evidente squilibrio di potere, anche mediatico, viene utilizzato per ribaltare e normalizzare la realtà dei fatti.

La violenza, psicologica e fisica, messa in atto dalle forze dell’ordine il giorno del corteo (con la militarizzazione del centro città, la diffusione del panico tra le passanti, minacce e percosse alle manifestanti, cariche spettacolarizzate col corteo bloccato), ma anche nei giorni precedenti e in quelli successivi (in cui loschi figuri giravano per le città siciliane a chiedere alle persone se riconoscessero qualcuno nelle foto del corteo che avevano sul cellulare) viene totalmente normalizzata.

Così come viene normalizzato che per trovare il capro espiatorio da esporre alla pubblica gogna, l’1 marzo, reparti della celere siano stati fatti girare, a corteo finito, nelle strade della movida cittadina e fatti irrompere nella galleria Vittorio Emanuele, luogo chiuso e pieno di adolescenti che si facevano il sabato sera.

Così come è normalizzata la violenza che quella sera, quando due persone sono state “finalmente” fermate, è stata utilizzata per tentare di intimidirle, denigrarle, spaventarle…
E sarebbe da ridere se non fosse così schifoso, che proprio chi ha minacciato di sparare, chi ha ficcato la paletta in bocca durante il trasferimento in questura, chi ha negato di chiamare un avvocato e persino di bere dell’acqua, adesso accusi la sua prigioniera di avergli fatto violenza.

Non ci dilunghiamo oltre… non perché manchi materiale, ma abbiamo già scritto una dettagliata cronaca del teatrino messo in campo dalle istituzioni a ridosso del corteo (lo si può leggere QUI).

Dalle notizie che ci sono giunte, anche gli arresti, i fermi e le perquisizioni di ieri sono state all’altezza della violenza, della negazione dei diritti e della prepotenza già mostrate durante i giorni di marzo. Riportiamo alcuni resoconti diffusi dax compagnx QUI.

È utile ribadire, anche se dovrebbe essere scontato, che non faremo un passo indietro.

È altrettanto scontato (ma necessario ribadire) che rifiutiamo qualsiasi logica di “infiltrati venuti da fuori”: sentire l’ingiustizia sulla propria pelle, ovunque e a chiunque succeda, e mettersi in gioco per portare solidarietà e supporto è la base di ogni sensibilità per la vita.

Gli infiltrati sono ben altri…

Dalle cariche di polizia, ci teniamo inoltre a chiarire, si è difesa con determinazione (e ha difeso lx presentx) buona parte del corteo, non soltanto tre persone, che sono state estratte a caso dal mucchio e a cui sono state addossate tutte le responsabilità della resistenza.

È chiaro che le istituzioni tutte hanno deciso, già dall’inizio dell’anno, che la lotta NO ponte e in particolare le sue frange più determinate debbano essere il grande mostro da sbattere non solo in prigione ma anche in prima pagina per fare propaganda repressiva e lanciare un chiaro segnale: state zitte.

Non smetteremo di evidenziare, attaccare, difenderci dalla violenza delle istituzioni con i mezzi che abbiamo a disposizione.

Non smetteremo di difendere le nostre terre, le nostre compagne, le nostre vite.

Con i cuori stretti intorno alle arrestate, alle perquisite e alle intimidite.

Non vincerete mai.

“NON È UN FILM” – UN’ALTRA OPERAZIONE SBIRRESCA CHE IRROMPE NELLE NOSTRE CASE

Diffondiamo:

Verso la mezzanotte di martedì 9 settembre, una decina di sbirri, tra cui qualche faccia nota della digos di Varese, è entrata nella casa di un nostro compagno. Hanno circondato le persone presenti intorno al divano obbligandole a stare sedutx e hanno subito ritirato i telefoni che hanno trovato in giro, senza dare informazioni o mostrare alcun mandato. L’unica informazione comunicata era che si trattava di notificare un avviso di garanzia.

Hanno iniziato una perquisizione superficiale della casa, distraendo dai loro movimenti le persone presenti e intimando loro di stare fermx, pertanto la perquisizione è avvenuta senza che nessunx compagnx potesse sincerarsi di cosa stesse avvenendo nelle stanze accanto.

La richiesta di poter contattare unx avvocatx è stata negata subito: “Non è un film”, hanno risposto.

La sbirraglia si è mossa indisturbata fra tutte le stanze della casa, senza comunicare nulla di quanto preso e lasciato. Hanno chiesto a Guido tutti i suoi altri dispositivi, sequestrando computer, tablet, un altro computer e il telefono.

Dopo essersene appropriati, hanno detto a Guido che doveva andare in questura con loro.
Inizialmente sembrava fosse solo per verbalizzare la perquisizione, ma alla richiesta di spiegazioni non davano risposta. Gli hanno poi detto di preparare una borsa con dei vestiti, aggiungendo in seguito che doveva portare cinque cambi con sé. Le motivazioni su quanto stava accadendo venivano date solo in seguito alle azioni, con modalità confuse e arroganti.
Alla domanda sul perché dovesse essere portato in questura e passarci la notte, due degli sbirri presenti si sono fatti riconoscere, chiedendogli se si ricordasse di loro. Il compagno non ricordava, quindi, scambiandosi prima uno sguardo e poi la domanda “glielo diciamo?”, gli hanno rivelato di essere gli sbirri di Messina e gli hanno consegnato il foglio con le accuse (violenza) che hanno portato al suo arresto.

Queste sono riferite ai fatti avvenuti durante e dopo il corteo NoPonte di marzo. Hanno aggiunto la frase “il collega ha ancora il braccio rotto”. Per queste accuse hanno proceduto con la notifica dell’applicazione di una misura cautelare. Non siamo riuscite a leggere che tipo di misura nello specifico. Al momento Gui si trova nel carcere di Varese: sappiamo che dovrà rimanerci perché entro cinque giorni gli verrà fatto un interrogatorio di garanzia.

Evidentemente ci vien da aggiungere che se da Marzo il braccio del collega è ancora rotto, probabilmente “era già così”.

Sappiamo anche che ci sono altrx due compagnx coinvoltx in questa operazione repressiva. Arrestatx a Napoli e Bari, attualmente detenutx al carcere di Poggioreale e di Bari, a seguito di perquisizioni in casa e la notte passata in questura. A loro va tutta la nostra solidarietà.

SOLIDARIETÀ A GUI BAK E ANDRE

L’UNICO PONTE CHE VOGLIAMO È LA SOLIDARIETÀ TRA INSORTX

Per scrivere:

Casa Circondariale di Varese
Via Felicità Morandi, 5
21100 Varese (VA)
NOME COGNOME

Gabriele Maria Venturi
C/o C.c. di Napoli Poggioreale “Giuseppe Salvia”
Via nuova Poggioreale 167
80143  Napoli

Andrea Berardi
C/o Casa circondariale di Bari “Francesco Rucci”
Via Alcide De Gasperi 307
70125 Bari

PAROLE CHIARE (détournement di PAROLE SEMPLICI)

Diffondiamo sempre a proposito dello scandalo dell’esclusione e degli scritti usciti di recente su qualche sito di area anarchica:

Chi scrive pensa che la liberazione passi dall’individuo e non dalla brutale collettività, dall’amore per le idee, come dall’odio per qualunque forma di autorità. Agognata è la ricerca della consapevolezza del sé e delle proprie potenzialità e solo la rivolta può demolire la presunta ineluttabilità del mondo che si affronta ogni istante. È agli individui sensibili che si tenta di parlare. I ruoli, le categorie e le identificazioni esistono e vanno distrutti. Il dominio definisce qualunque ruolo per esserci in società. Ogni ruolo ha la sua oppressione e con esso si sviluppa una certa relazione sociale. Ogni clan ha il suo linguaggio, dei gesti specifici e diversi modi di fare che sono propri.

Eccola la prima questione: il tentativo di uniformare forme di versi, come se i vari ostrogoti potrebbero essere recuperati dal primo intellettuale di turno. L’omologazione rimanda ad una istituzione, non al tentativo (oggi impossibile se non si distruggono le basi della civiltà) dell’autonomia individuale; all’ordine delle cose e delle proprie insulse evidenze, non alla scommessa di rivolta anche contro noi stesse e non solo contro il dominio; alle prigioni mentali dell’individuo finito, non alla libertà di quell’individuo fatto della sua storia, dei suoi rimossi e delle proprie torture. La ricerca della libertà o è in estensione con quella di altrx o non è.

Affrontare la problematica di chi disprezza parlare di patriarcato e di violenze di genere è questione fondamentale. Date le molteplici persone di merda che frequentano gli ambienti anarchici il vittimismo a forma di esclusione è diventato attualmente lo strumento cardine per quegli uomini di merda salvati dai kompagni per essersi definiti anarchici, ma profondamente misogini, transfobici e patriarcali: piagnucolano che le compagne anarchiche neanche li degnano di uno sguardo… Poveri narcisi senza il loro specchio, come faranno ad avere un ruolo nell’ambiente sovversivo adesso?

Come faranno, adesso, ad avere la loro platea di gregari?

Il suono del lamento diventa ridondante addirittura quando le compagne non si fermano alla parola ma si vendicano nella pratica. Di solito agli anarchici boriosi piace solo la loro unione di pensiero e azione. Quando essa esce dal loro controllo si turano il naso e non dicono niente. Ormai pochissimx anarchicx difendono le azioni per quello che sono, il complottismo è entrato anche da queste parti. È stato anche fatto un giornale senza motivo per dire che loro sanno quale è l’azione anarchica e quale no. Coglione noi che eravamo rimaste all’azione diretta e al sabotaggio in tutte le forme di libertà possibili e impossibili… Meglio i sex toys che certa stampa anarchica misogina da pari, di giorno e di notte, a pari. Meglio l’ostinazione del nostro immaginario e le compagne con il coltello tra i denti che farsela con chi vuole prendere il posto dell’estrema sinistra stile notav. Meglio tentare la bellezza dell’anarchia che struggersi nella lamentela dell’esclusione dal comitato centrale degli anarchici. Scusate le battute al vetriolo di traverso, ognuna legge quello che vuole ma nessuna porgerà distinti saluti a chi maschera lo stupro con l’agghiacciante archetipo giustificatorio del desiderio maschile.

Spesso le varie questioni si affrontano con l’ottica identitaria di difesa del violentatore di turno, di chi si considera vittima di una cospirazione orchestrata dalle streghe, cioè qualunque individualità al di fuori del maschile. Ora, ciò che non si può accettare è che tale merda stia costringendo a sintomi reazionari e autoritari più che alla libertà, ad una sorta di moralità amicale che produce una avvilente sordità ai mille tentacoli del dominio patriarcale. Non si può dire violenza di genere, ogni gesto contro il patriarcato è tacciato di femminismo accademico alla Butler (qualcunx non se l’è mai cagata quella stronza democratica!!!!!!!!!!!!!!!!), nessun pensiero fuori dal manuale dei comunisti con pose anarchiche può essere detto. O si includono persone di merda e ci si comporta come loro oppure si è tacciati di esclusione, tribunale transfemminista o anarchismo duro e puro. La domanda sorge spontanea: dentro a che cosa? Dall’ansia di tenere la morale della vera idea anarchica che diventa una sorta di polizia storica e del pensiero? Dai retaggi di chi, fondamentalmente, guarda alle persone solo come individui atomizzati senza le loro storie di oppressione? Altro che codici, che ognuna parli come li pare ma che si accolli quello che esprime.

Semplice, come le parole.

È interessante a questo punto fare un parallelo con il modello omologante e stereotipato del dominio. Ogni questione, tranne quella della sua distruzione, viene recuperata dal dominio. Il dominio fagocita (quasi) tutto. Nemici della libertà, si dice oggi, traggono profitto da tutto.

Recupera il femminismo che fa l’occhiolino alla normatività, non quello radicale che sputa su ogni forma di identificazione (che belle stronze queste anarcofemministe sempre incazzate con gli abusanti e i narcisi!). Recupera la questione queer che vuole stare dentro a questo mondo, non quella caotica e antinormazione (a Berlino qualcuno le ha viste, o se non si fanno gli scontri è tutta colpa delle frocie? E poi, ancora con questo sguardo simmetrico del conflitto? Che ovaie!!!) .

Recupera l’autogestione che fa profitto e si allinea a una falsa orizzontalità con gerarchie informali, fino persino a recuperare alcune azioni allo scopo di annacquare i contenuti della radicalità. Al dominio interessa la decrescita felice perché innocua ai suoi piani di sfruttamento, non al possibile ritorno del luddismo. Infine, la parola libertà ormai è il vocabolo più banalizzato di tutti e gli anarcomunisti preferiscono partire insieme e tornare con la stessa congregazione piuttosto che organizzarsi per affinità, fiducia e partire e tornare con chi si vuole, e soprattutto si sceglie, in modo informale.

La tendenza di questa società tecnologica, la quale viene riproposta anche in ambienti cosiddetti sovversivi, è estirpare la singolarità di ognuna. Non da meno, le rivendicazioni tortuose di aver subito delle violenze da parte dei kompagni vengono denigrate perché sono pericolose: fanno saltare il tappo del non detto, dell’abitudine, del codice e della famigliola anarchica. Distruggere la famiglia e i codici rimangono alcune delle tante vie di pensare un mondo di libere e di unici.

Per questo è di distruzione di tutte le oppressioni, anche quella patriarcale che viviamo tuttx, di cui bisognerebbe anche parlare, di diserzione dai ruoli imposti biologicamente e delle categorie conseguenti che vengono appiccicate addosso, di morale introiettata dalla società, di comportamenti che gli individui tendono a riprodurre perché il mondo del dominio è uno con tutte le sue oppressioni latenti. In qualunque ambito si manifesta il potere, anche in quello anarchico ormai pieno zeppo dello spirito comunista, dove è facile scrivere di libertà e urlarlo in piazza, per poi nelle proprie mura domestiche (o negli spazi anarchici) e mentali si continua come se nulla fosse a normalizzarsi nei ruoli di potere. Anormali, sognatrici, creative e ubriachi di stelle ormai non hanno più posto nella quasi totalità degli ambienti anarchici di oggi, quando si parla di confini da sciatta penisola. Si appoggiano i piedi sulla realtà per fortificarla, non sulle nuvole per colpirla. I vetero-normativi con le bandiere rossenere dicono che il problema sia il femminismo, noi, senza nessuna bandiera da difendere, vediamo che la grossa puzza di merda che ristagna nell’anarchismo italico è il prepotente ritorno del comunismo in salsa movimentista del motto mai tramontato “condivisione o stato”.

Se i discorsi sull’oppressione non tengono conto di quanto il patriarcato, ad esempio, abbia inciso e incida ancora sulla determinazione e mantenimento di ruoli ben definiti da cui non si è fatto molto per sfuggire e che si sono reiterati per secoli, come è possibile comprendere ciò che ogni individualità subisce? E come è possibile scardinare il potere, se non si rende il peso necessario, prima di tutto, nelle relazioni quotidiane che viviamo? La critica antiautoritaria o la si fa a tutto il dominio, dalla religione al patriarcato, al capitalismo e alla tecnica, ai ruoli e alla medicalizzazione, alle istituzioni e agli autoritari, ai narcisi e alle bandierine, o diviene recuperabile da chiunque. E ci si chiede: ma come fai a definirti anarchicx se hai atteggiamenti come un qualunque coglionx autoritarix?

Senza l’empatia per le sofferenze altrui, saranno solo le parole del dominio o degli esperti a parlare.

La psicologia è dappertutto: lo è così tanto che qualcuno, per fortificare il proprio Pensiero Unico, scambia l’interrogarsi sugli aspetti emotivi e di cura come comportamenti per controllare gli individui intorno a noi. L’opinione che ne scaturisce è che, in fondo, gli esseri umani sono tutti potenzialmente onnipotenti, non possono aver paura e ansie, soprattutto in una vita ridotta a schermo per esserci, lavoro per sopravvivere e blog o giornali per fomentare le opinioni anarcomuniste. Essere solidali con chi subisce o ha subito un’oppressione vuole dire cercare di sentirla e odiarla per sovvertirla, proprio come chi ha la forza di dire ai propri affetti di aver subito una violenza. Se Adamo ed Eva hanno rappresentato l’immutabilità di una condizione per secoli, Hiroshima e Auschwitz, con le loro conseguenze, sono il mondo di oggi.

Siamo anche il frutto della società in cui viviamo, sarebbe il caso di non nascondersi più anche per chi detiene la fede anarchica (chi è più attuale oggi parla di cultura anarchica, dicendoci quali libri sono fondamentali e quali no, e al bando ogni singolarità, acculturiamoci tuttx, ma come dicono loro!!!!). Oggi alcune e alcuni anarchici sono profondamente antifemministi (che bel termine cognato proprio dai nemici della libertà), credono nell’individuo fatto e finito come fonte di progresso, ma è l’infinito che apre le porte alla libertà. C’è chi si masturba su Kropoktin, c’è chi ci ha propinato che “l’insurrezione che (s)viene” e i suoi autori erano geniali e c’è chi sogna senza limiti con “Il ladro” di Darien. Ad ognuno il suo, in ordine sparso, ma a debita distanza.

E allora è bene dirsi che, comunque vengano presentate, è di questioni personali e sociali che si parla, che il patriarcato e le relazioni che fomenta fanno parte del dominio, e che a furia di non riconoscere gli elementi latenti di oppressione, la critica al mondo e la possibilità della sua demolizione spariscono nel brusio del lamento all’esclusione del solito individuo abusante. Ma se ci pensate bene, ogni individuo può essere soggetto ad avere atteggiamenti oppressivi contro qualcuno di altrx nelle proprie relazioni. Questo modo di relazionarsi lo possiamo riconoscere per tentare di distruggerlo? Non stiamo scrivendo il riformista decostruirlo o destituirlo, ma proprio di demolirlo in noi. E che facciamo, diciamo che le individualità anarchiche vivono fuori dal mondo e che queste cose non possono capitare? Dovremmo elencare la sfilza di relazioni e di incontri occasionali fra anarchicx che si sono rilevati violenti? E l’inclusione delle sopravvissute incazzate che vogliono mettere a ferro e a fuoco il mondo o semplicemente di quelle individue che si sono sentite ascoltate dopo aver subito violenza? Continuiamo a costruire recinti contro le oppresse e le torturate?

Ma è bene anche chiedersi: quali relazioni si stanno costruendo alla luce di dare pacche sulle spalle a chi nelle proprie relazioni amicali, affettive e sessuali usa strumenti autoritari senza neanche riconoscerlo? Esiste ancora qualcosa di intimo, personale, individuale da custodire, che sia irriducibile a qualsiasi categoria che è giocoforza autoritaria?

L’odio e la rabbia provata per le prese di posizione fatte da gente che si è comportata di merda sono una delle fonti che danno senso agli io che vogliono rompere con qualunque pastoia del dominio.

PAROLE, PAROLE, PAROLE.

È una strana sensazione quella provata nel leggere testi tutti uguali, nel deserto del niente, senza emozioni, che non fanno incendiare le menti anche se pieni di parole che divengono slogan mal assemblati. Meccanicismo del cameratismo, altro che parole che osano l’impossibile. L’ossimoro con cui si è deturnato il testo che compare nel titolo è quello che vorremmo sentire nei cuori ardenti, non per dare l’idea di cosa è l’anarchia vera (fanculo gli autorevoli da ricette gastronomiche dell’ordine militante) ma per rendere omaggio a quelle individualità anarchiche (non certamente le uniche, per scardinare ogni mitopoiesi) che hanno dato il loro contributo ad un’idea di anarchia fatta di pensiero, azione e solidarietà contro tutte e tutti. Oggi quell’idea è sempre meno viva: la virtualità ha preso il posto dell’immaginazione, il mito sta uccidendo l’utopia, la realtà sembra un macigno in cui si può solo soccombere e ormai è meglio leggere Bordiga e Gramsci, piuttosto che gli individualisti anarchici.

Quando infatti si diffonde un comunicato in cui usa la parola infame per definire una compagna (metodo trito e ritrito per accusare in modo poliziesco, denigrazione forse imparata da Marx quando dava della spia russa a Bakunin), con all’interno delle minacce contro chi solidarizza con chi ha subito violenza e si mettono per iscritto delle accuse mettendo a rischio le relazioni fra anarchici già ultraparanoici (per dare dell’infame a un individuo bisogna essere sicuri, ogni piagnisteo che giustifica questo modo di comunicare è spazzatura), a che cosa siamo di fronte? Come dovremmo considerare chi mette a rischio l’incolumità delle persone che vivono una vita nell’illegalismo, se non gente con cui non avere nulla a che fare? Noi non ci permetteremmo mai di dare dell’infame senza esserne sicure al cento per cento. Almeno questo dovrebbe essere un concetto scontato; ma se non si riconosce che è inaccettabile dare l’infame a caso, come si fa a rendersi conto di tutti i dispositivi di potere e delle brutture di qualunque mondo che non si voglia liberare di ogni forma di autorità e autorevolezza? Ci si lamenta di nome e cognome su una ristampa di un’autobiografia di un’anarchica, ma non si dice che nello stesso libro c’è una lettera pesantissima di un’altra compagna che racconta di altre violenze subite in una relazione con la stessa persona. Qualunque potere va distrutto, sia quello della censura che della propaganda.

Anarcomunisti delle composizioni di classe con un occhio alla moltitudine desiderante e l’altro all’indifendibile, siete assediati dalle streghe rompigonadi! Avete presente “L’angelo sterminatore” di Buñuel?

Carx compagnx demolitx, vituperatx, offesx, incarceratx, torturatx, sofferentx continuiamo a odiare infinitamente amando senza riserve.

poche ma cattive streghe non tue compagne

P.s.: abbiamo svagato su altre questioni, siamo uscitx dai binari, abbiamo preso a mazzate ciò che ci disgusta perché sappiamo che i problemi dell’autoritarismo nell’anarchismo in questo posto di merda chiamato italia partono da lontano. Ma a noi non ci riguardano, abbiamo già scelto di non respirare neanche l’aria inquinata con certe persone e di assumerci la diserzione, ma sempre con una promessa vitale di sedizione.

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INTACCANDO L’ARROGANZA DEL PRIVILEGIO

Riceviamo e diffondiamo:

Questo testo è stato inizialmente pubblicato sul n° 2 della rivista Caligine primavera-estate 2021 ed è stato pensato come una risposta all’articolo “Distinti saluti! Alcune riflessioni sul femminismo, sulle dinamiche di ammaestramento e sul tentativo di americanizzazione delle lotte” uscito sul Bollettino n. 4 della biblioteca dello Spazio Anarchico “Lunanera” di Cosenza. Decidiamo di dargli una nuova diffusione alla luce del recente dibattito scoppiato in rete perché crediamo contenga delle riflessioni ancora valide visto il contenuto espresso da alcuni testi recenti. L’articolo che segue è stato leggermente rimaneggiato rispetto alla pubblicazione originaria.


INTACCANDO L’ARROGANZA DEL PRIVILEGIO

 “Nella società borghese, è normale sparlare delle persone alle spalle,
ma mai fare critiche costruttive in faccia; allo stesso tempo,
ognuno resiste sistematicamente all’ammettere
qualsivoglia errore commesso.”

David Gilbert
Amore e lotta
Autobiografia di un rivoluzionario negli Stati Uniti

Se mi spingo a scagliare un’altra pietra contro l’ennesima espressione dell’antifemminismo che si annida in seno all’anarchismo italiano non è certo per il piacere di inoltrarmi nel ginepraio velenoso che sembra diventato ultimamente il dibattito attorno a certi argomenti, nella speranza che un giorno le pietre raccoltesi nel tempo attorno al corpo morto del patriarcato possano costituire le fondamenta di un ponderare sovversivo scevro non solo dai suoi dannosi pregiudizi sessisti, ma anche  da tutti quegli orpelli ideologici di cui è uso diffuso agghindare le sue vesti. Questi costituiscono dei veri e propri feticci attorno ai quali il pensiero gregario si raggruma rinnovando il culto alle peggiori espressioni della cultura dominante, quali sono, solo per citarne alcune delle più note e nocive, il dualismo (come separazione di teoria e pratica, mente-corpo, umano-natura, uomo-donna, etc.), il positivismo (inteso come fede nella ragione e nelle sue capacità di discernere una qualsiasi verità), il progressismo (ovvero quella visione della storia come un procedere verso un indiscusso miglioramento futuro).

Lungi da me il voler trattare così difficili e complessi argomenti in questa sede. Il mio contributo vorrebbe essere di ben più modesta portata. Né tanto meno ho intenzione di esprimermi su faccende strettamente femministe o che riguardano la reazione ad una violenza sessuale e sugli strumenti che ci si dà (o che, a piacere, si decide di non darsi) per affrontarla, né sui temi del consenso o dei modelli sessuali che determinano in qualche modo il desiderio. Sono stati già diffusi a questo proposito testi che dimostrano con abbastanza chiarezza la miseria di quella Reazione che appesta l’aria di questi tempi, così come la degna rabbia che è ormai sul costante punto di tracimare ad ogni suo nauseante sentore.

Da parte mia vorrei invece provare ad apportare qualche riflessione su di un tema particolarmente delicato eppure di estrema importanza per quell’anarchismo che prosegue interrogandosi attorno alla cornice epistemologica in cui sono inseriti i suoi tentativi di sovvertire il mondo del dominio: quello del recupero delle lotte da parte del potere, e della posizione di privilegio che è alla radice di un certo modo di concepire ed intendere quest’ultimo.

Credo di poter affermare, senza troppe precauzioni, che una delle caratteristiche di maggior forza che il sistema statale a sfondo democratico-capitalista ha saputo sapientemente sviluppare per sopravvivere è la capacità di recuperare a proprio favore quelle istanze di liberazione che di volta in volta ne mettono in discussione l’ordinamento. Questo elemento costituisce una differenza considerevole rispetto agli stati generalmente definiti autoritari o totalitari, che preferiscono censurare e reprimere duramente qualsiasi voce o gesto dissidente che si discosti dalla norma su cui essi si poggiano e che raramente sono predisposti a concedere alcunché alle insubordinazioni interne. E posso con forse ugual facilità evidenziare che ogni lotta vincente o sconfitta, non avendo raggiunto l’obiettivo del totale e inequivocabile abbattimento del potere, abbia in qualche modo contribuito a rinsaldarlo. Le istituzioni del potere infatti, mantenute intatte le proprie strutture, raccolgono quasi sempre con maggiore efficienza dei loro nemici la lezione tratta dalle peculiarità dello scontro avvenuto, riuscendo poi a utilizzarla a proprio vantaggio. Ne è un chiaro esempio l’evoluzione che costantemente attraversa gli apparati repressivi dal punto di vista giuridico, tecnologico, tattico e strategico. L’argine che gli stati hanno costruito per contrastare l’ondata ribelle degli anni ‘60 e ‘70, tanto per fare un esempio, fornisce ancora numerosi strumenti che la repressione continua ad utilizzare contro chi osa opporsi all’odierna pace sociale.

Ma non è altresì con altrettanta leggerezza che si può affermare che l’esprimersi di una istanza specifica di liberazione “rinforzi il capitalismo e la democrazia”, né in egual modo credo si possa additare le insufficienze teoriche del movimento rivoluzionario come la causa principale delle sue sconfitte. L’insufficienza dei mezzi (anche teorico-analitici) di cui ci si dota lanciandosi all’assalto del cielo si evince con difficoltà nella bolgia del conflitto, ma quasi sempre a posteriori, quando a bocce ferme si ricostruiscono i fattori che hanno stabilito l’esito dello scontro. Dal momento che i risultati di una lotta si determinano nella realtà degli elementi in gioco e la complessità della loro interazione ci impedisce di elaborare una previsione attendibile sullo sviluppo degli eventi è quantomeno presuntuoso pensare di possedere una corretta impostazione teorica che ci tiene al riparo dai rischi della sconfitta.

Storicamente parlando e semplificando all’estremo, il potere ha sempre risposto con un’attitudine repressiva alle esplosioni sociali che ciclicamente mettono in discussione una o più forme del suo operare. Accanto alla dura e cruda violenza è stata però spesso messa in campo una strategia di cooptazione che, attraverso diversi canali e livelli di mediazione, elargendo cariche, beni o privilegi, ha lo scopo di frammentare il fronte delle forze d’opposizione giocando sulle sue differenti disposizioni e condizioni interne. Le porzioni più radicali che rifiutano di adeguarsi alla ragion pratica del compromesso vengono così da principio individuate e isolate dal resto del corpo ribelle, e successivamente stroncate in maniera esemplare. Ogni sollevazione sociale produce infatti nelle circostanze dello scontro delle componenti che si spostano verso posizioni più inclini alla mediazione con le istituzioni del potere al fine di materializzare dei miglioramenti parziali, valorizzando, a seconda delle circostanze, il rapporto di forza raggiunto o altrimenti cercando di garantire la propria sopravvivenza, rinunciando di fatto alle proprie aspirazioni di liberazione totale. Ciò è avvenuto e avviene anche nel movimento anarchico (basti pensare alla Spagna del ‘36), e non c’è impianto teorico che tenga quando si entra nel vivo della violenza controinsurrezionale. Ed è fuori da ogni dubbio che queste tendenze siano utili allo Stato che le recupera per rafforzare la sua legittimità intaccata dalle lotte e indebolire i movimenti di opposizione interni; credo che possiamo facilmente convenirne.

Questa dinamica della repressione è ben riconoscibile nella storia conosciuta, dai tempi delle sommosse dei vari zek, schiavi e plebei contro i loro odiati padroni ed oppressori, passando per le rivolte millenariste e utopiste dei contadini che hanno infiammato l’Europa durante il Medioevo, ai vasti fronti proletari con aspirazioni rivoluzionarie dei secoli XVII, XVIII, XIX e della prima metà del secolo scorso, fino a quelli del contrasto ai movimenti e alla lotta armata nella storia più recente. La sproporzione delle forze in campo e l’astuzia del potere sono elementi che vanno tenuti a mente e soppesati con attenzione quando si vogliono valutare le cause di una sconfitta nei processi di liberazione, sconfitta che non si può imputare (a posteriori) con leggerezza ad una incorretta formulazione teorico-tattica, o alla recuperabilità delle rivendicazioni espresse. Si voglia, per puro amor della memoria storica e dal momento in cui l’argomento è stato di recente menzionato, ricordare ancora l’immensa mole di sforzi che gli stati hanno messo in atto solo nel periodo della contestazione degli anni ‘60 e ‘70. Negli Stati Uniti, la più grande potenza economica e militare del mondo contemporaneo, il movimento contro la guerra del Vietnam e le disuguaglianze, rapidamente evolutosi in movimento antimperialista e rivoluzionario (sintomo di un’approfondita analisi d’insieme sul funzionamento del capitalismo e dello Stato), si vide contrapporre un elevatissimo livello di violenza espresso da tutti gli apparati della repressione, che andò dalla sanguinosa repressione nelle strade e nei campus universitari di coloro che lottavano per l’autodeterminazione dei popoli, all’omicidio mirato e alla tortura delle individualità rivoluzionarie. Basti pensare agli interventi della polizia all’università di Berkeley nel ’64 (circa 800 arresti) e alla Kent State University nel ’70 (quattro morti da arma da fuoco), solo per citare due eventi famosi, o alle stragi dei gruppi militanti afroamericani, vittime di veri e propri agguati e spesso giustiziati sul posto nel corso dei raid delle forze repressive (come l’omicidio a sangue freddo di Fred Hampton, membro delle Pantere Nere, nel 1969). Le stesse tecniche contro-insurrezionali e di contro-guerriglia vennero poi usate anche in Italia e in Europa per contrastare il movimento e il diffondersi della lotta armata grazie alle collaborazioni sul campo all’interno del cosiddetto “blocco occidentale”.

È sintomatico di una qualsivoglia forma di organizzazione societaria che veda minare le fondamenta della propria legittimità aumentare l’uso della violenza per puro e semplice moto di autoconservazione, violenza che cresce in ferocia tanto più si senta messa alle strette. Essa è infatti l’espressione di persone fisiche che hanno paura quanto chiunque altro di perdere il potere che la propria posizione di privilegio gli fornisce all’interno di un determinato sistema di stratificazione sociale.

E’ in questo clima che il femminismo comincia a diffondersi nel movimento contro la guerra aiutandolo – assieme ai contributi analitici di quelle componenti sociali storicamente escluse dall’amministrazione del potere, come le persone non bianche o non eteronormate – ad ampliare il suo sguardo critico circa i rapporti all’interno della società capitalista e a spingere le sue rivendicazioni verso una più coerente e complessiva prospettiva anticapitalista e rivoluzionaria.

Credo quindi che sia alquanto semplicistico indicare il femminismo “storicamente dato” come complice del “rafforzamento della democrazia e del capitalismo” per sminuirlo, dal momento che questa istanza di liberazione oltre ad aver mobilitato un gran numero di donne nel mondo intero, ha dato un contributo fondamentale alla comprensione del funzionamento del potere nelle sue dinamiche più interiorizzate e normalizzate dagli individui che costituiscono il tessuto di una società. Né si può con tanta superficialità incolpare di questo rafforzamento le sue pratiche poiché, se è indubbiamente vero che una parte del movimento femminista ha agito e agisce in maniera riformista e giustizialista, esso ha dato espressione anche a pratiche ben più radicali, dalle azioni dirette contro negozi e aziende complici della mercificazione dei corpi delle donne, agli attacchi contro medici obiettori di coscienza e strutture sanitarie che effettuavano ricerche biotecnologiche, fino ad esperienze di lotta armata con prospettive rivoluzionarie. È perciò il recupero da parte del potere del femminismo a dover essere osteggiato, e non il femminismo in sé. Sottolineare, facendo un bilancio parziale di un movimento, soltanto il contributo che esso ha dato al rafforzamento del potere vorrebbe dire non riconoscere il valore di tutte quelle lotte che pur non avendo causato un sovvertimento del sistema di potere, hanno comunque comportato un reale miglioramento delle condizioni di vita per migliaia, spesso milioni, di individui, nonché all’arricchimento teorico e pratico del movimento rivoluzionario largamente inteso. La critica radicale anarchica osteggia ogni riformismo perché con esso si permette la perpetuazione della presente organizzazione dello sfruttamento, ma dovrebbe guardarsi dallo scadere in un idealismo elitarista e sprezzante.

Questo atteggiamento è già di per sé sintomo e ignara manifestazione del proprio intrinseco privilegio, basato su condizioni sociali come il benessere economico, la razzializzazione o il genere (e molto spesso, soprattutto quando vengono espressi giudizi tanto duri e trancianti sulle lotte altrui, di tutte queste messe assieme). Parlare di privilegio per l’anarchismo non è, come a volte si è tentato di insinuare, incentivare discorsi o atteggiamenti vittimistici o colpevolizzanti, ma un modo per chiarire il posizionamento preciso nella fitta rete dei rapporti di potere. Dalla propria posizione sociale infatti chiunque perpetua (se non agisce altrimenti) l’oppressione che il suo ruolo rappresenta all’interno di un dato ordinamento societario. Non tenerlo in considerazione porta a sviluppare una concezione assai parziale dei meccanismi di oppressione e di riproduzione del potere nelle società umane, troppo spesso individuati nelle sole istituzioni politiche ed economiche, e a fare di conseguenza una gerarchizzazione dei differenti fronti della guerra sociale. Questa attitudine è una chiara eredità di origine marxista, per la quale tra le diverse contraddizioni del divenire societario la principale a cui fare riferimento per sviluppare un processo rivoluzionario è quella di classe. Se per l’anarchismo la questione centrale è invece quella del potere, non dovremmo permettere alla comprensione delle sue molteplici espressioni di limitarsi alle sole configurazioni dello Stato e del Capitale, quanto considerarla nella sua accezione più intrinsecamente sociale che determina i rapporti quotidiani e le relazioni tra gli individui. Credo infatti che lo spargere sermoni dall’alto della propria posizione, ritenuta con arroganza essere la più coerente ed incisiva, rifletta l’autoritarismo insito in chi propende per una gerarchizzazione delle lotte, mentre un impegno a tutto campo dell’individuo nel contrasto ad ogni forma di potere sia ciò che più si avvicini ad un agire anarchico inteso come antitetico a quel “fare militante” largamente ereditato dalla cosiddetta sinistra rivoluzionaria.

L’assumere una posizione contro ogni rivendicazione parziale è sicuramente ciò che impedisce all’anarchismo di abbracciare una logica gradualista o di riforma del sistema di dominio, nonché di identificarsi completamente con movimenti quali sono quello femminista, ecologista, antispecista. Eppure essi hanno al loro interno espresso dei contenuti che assunti radicalmente comporterebbero le messa in discussione totale dell’attuale organizzazione dell’oppressione. Per questo “semplice” motivo le loro analisi sono state da tempo riconosciute come un contributo prezioso per i modelli di comprensione del funzionamento del potere nella nostra società, permettendo di abbandonare ogni retaggio che costituisca un limite per l’analisi anarchica. Le istanze di liberazione particolari dovrebbero quindi essere al centro della sensibilità anarchica, che rivendica la libera e completa espressione dell’individuo contro qualsiasi tentativo di vederlo relegare in secondo piano da una qualsivoglia priorità teorico-strategica. Esse non sono una riduzione, ma piuttosto un allargamento dello sguardo attraverso il quale si osserva e comprende il mondo. Una libera e completa espressione di sé che non deve essere confusa con quelle concezioni dell’individualismo figlie di una certa interpretazione superomista del pensiero nicciano che porta a giustificare la sopraffazione di un essere umano sull’altro e dell’essere umano sul mondo naturale in nome della sua inviolabile volontà di potenza. Concezioni queste che guarda caso furono fatte proprie dal nazismo e dal fascismo e che tanto bene si sposano con l’individualismo liberale per cui la competizione è la più alta forma di regolazione della vita. Questa maniera di concepire i rapporti tra individui ben si discosta dall’Unione degli Egoisti di cui parla Stirner (anarchicamente intesa) e dovrebbe essere rifiutata con forza da coloro che intendono riflettere su come costruire un rapportarsi vicendevole che rafforzi la lotta contro ogni potere. L’etica anarchica mette infatti al centro della sua riflessione la solidarietà tra gli oppressi attraverso il mutuo appoggio e di conseguenza dovrebbe perseguire il benessere dell’individuo che partecipa all’Unione per il vantaggio dell’Unione stessa. Indi per cui ragionare su come sovvertire le nostre relazioni è una pratica altamente rivoluzionaria perché permette di comprendere il potere come una forza che attraversa, imputridendola fin dalle radici, l’intera società e che coinvolge inevitabilmente anche i gruppi anarchici. È infatti dal riconoscimento delle diverse forme di potere che l’individuo può comprendere l’esperienza dell’oppressione che attanaglia sé stessx e i propri simili e decidere di intessere relazioni il più possibile libere nella comune volontà di secessione dalla società del dominio, oltre che di combattere anima e corpo contro questo mondo di sfruttamento e oppressione che lo incatena.

Credo che la teoria sovversiva non dovrebbe essere utilizzata per innalzarsi su di un pulpito dal quale spargere giudizi sprezzanti, così come la critica assuma una dubbia efficacia se armata di strumenti come la denigrazione o la calunnia al fine di tirare a lucido il proprio ego sovradimensionato. Teoria e critica radicale dovrebbero invece servirci per analizzare il presente e le lotte nell’ottica di rafforzare la guerra sociale, nella consapevolezza che non esiste formulazione teorico-strategica rivoluzionaria che possa condurci con certezza al trionfo e che è necessaria una costante riformulazione dei propri paradigmi per attizzare un conflitto sempre a rischio di soffocamento a causa delle dinamiche di recupero e di rigenerazione del potere. In quest’ottica sarebbe utile che un’analisi di questo tipo si sviluppasse in termini costruttivi sottolineando le proprie mancanze in quanto ad intervento sovversivo (mancanze che si continuano a registrare negli ambienti anarchici, sia a livello pratico che in quanto a comprensione del contingente storico), piuttosto che concentrarsi su quelle altrui con l’obiettivo di screditarne le posizioni in una sorta di competizione di radicalismo o, peggio, per attribuirgli la responsabilità dei propri continui fallimenti. Questi atteggiamenti e comportamenti invece di acuire il pensiero critico, a mio giudizio portano solo scoramento e disillusione. Invece di abbandonarsi ad essi sarebbe più lungimirante e utile investire le proprie energie nel contribuire a migliorare il dibattito con lo scopo di un innalzamento della qualità generale del conflitto sociale, considerando che se il potere un giorno cadrà non sarà con ogni probabilità grazie alla forza soverchiante di una “giusta” e corretta pratica o teoria radicale, ma per la somma dei singoli atti individuali di rivolta. Perciò ben venga la contaminazione e la sinergia delle lotte inserita in una comune ricerca dell’Anarchia piuttosto che qualsiasi forma di “celodurismo” e di purismo, di cui sarebbe bene cominciare a liberarsi in fretta, assieme a tutti gli altri residui di quella cultura machista militante che da troppo tempo ammorba ormai l’anarchismo.

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CATANIA: PROIEZIONE DEL FILM GRECO “LA TEGOLA” E DIBATTITO

Diffondiamo

Proiezione del film greco Κεραμίδι -“La Tegola” (42 min)

In un futuro prossimo, lo squat, Fabrika Yfanet, verrà sgomberato e l’edificio sarà riutilizzato. Pano, un urbanista che supervisiona il progetto, si troverà ad affrontare una forza incomprensibile.

Questo film auto-autogestito è stato girato nell’aprile 2022, dentro e fuori lo squat Yfanet, con l’intenzione di ripercorrere attraverso una storia di fantasia i sentieri labirintici di una memoria perduta . Allo stesso tempo, è un piccolo contributo allo sforzo di liberare forme di comunicazione ereditate dall’industria dell’intrattenimento.

⛓️‍💥Fabrika Yfanet è uno spazio occupato a Salonicco, in Grecia, dal 2004. Tempo addietro era una fabbrica tessile che cessò l’attività nel 1967. Il 20 marzo 2004 questo spazio fu occupato da centinaia di persone, riaprendo le porte alla città dopo 36 anni di abbandono.

A seguire, chiacchiera sul contesto attuale in cui stanno vivendo gli/le occupanti della Fabbrica Yfanet a Salonicco e uno sguardo necessario sugli sventramenti urbanistici a Catania, che vorrebbero coinvolgere anche il Laboratorio Urbano Popolare Occupato.🐺

📌Inoltre, durante l’evento sarà attiva la raccolta dei beni per i reclusx nei CPR.

Vi aspettiamo il 31 agosto alle ore 18:30
Alla L.U.P.O. Piazza Pietro Lupo 25

SOSTENIAMO IL LIBRO DI CLAUDIO!

Diffondiamo

PER NON DIMENTICARE I MORTI NELLA STRAGE DI STATO NELLE CARCERI DEL 2020, E PER CHI CONTINUA A LOTTARE NELLE GALERE, SOSTENIAMO IL LIBRO DI CLAUDIO

A marzo del 2020, in concomitanza con l’inizio del lockdown, decine e decine di rivolte scoppiarono nelle carceri italiane. Tra evasioni tentate e in parte riuscite e la distruzione di intere sezioni carcerarie, centinaia di persone detenute si ribellavano a quei veri e propri luoghi di sofferenza e morte, che sono le galere dello Stato italiano.

Per sedare questo stato di agitazione che aveva per un frangente messo in crisi quel sistema, lo Stato rispondeva ancora una volta con torture, mancati soccorsi e uccisioni: 14 detenuti morirono tra il carcere Sant’Anna di Modena e i trasferimenti verso altri penitenziari. Nel mondo di fuori, con pochi mezzi ma tanto cuore, un moto di solidarietà verso le persone detenute si è mosso in diverse parti della penisola, tra azioni dirette, presidi, controinformazione e relazioni umane tra persone sconosciute ma unite dal comune orizzonte di abbattimento dei muri delle galere.

Per alcuni frangenti, l’isolamento tra fuori e dentro che lo Stato cerca in ogni modo di difendere è stato spezzato. Non si trattò solo della più grande ondata di rivolte e proteste di detenuti comuni e della più grande strage di stato dal secondo dopoguerra nelle carceri italiane: fu anche un momento storico importante che dobbiamo tenere a mente per comprendere anche il presente della condizione detentiva attuale. A 5 anni di distanza, dopo le archiviazioni di Stato e la rimozione dalla memoria collettiva, c’è chi ancora tiene vivido ricordo di quelle giornate e che vuole estenderne memoria viva, non soltanto per chi ha perso la vita per vigliacca mano di guardie e amministrazione penitenziaria e che impunemente continuano la loro misera vita per complicità di giudici e tribunali, ma anche come monito per tutte quelle persone più giovani cui lo Stato vuole destinare una vita di galera e pena costante.

Infatti, Claudio, uno dei cinque detenuti che per primi decisero di esporsi nel 2020 presentando un esposto in cui denunciavano ciò che lo Stato aveva agito in quei giorni, tuttora detenuto nel carcere di Secondigliano (Napoli), ha scritto un libro che ripercorre dalla sua prospettiva gli accadimenti di quelle giornate e presenta un’analisi della situazione carceraria a partire dalla sua diretta esperienza in diversi penitenziari. La pubblicazione di questo libro, da parte di tutti lx compagni che hanno supportato il suo processo di realizzazione, rappresenta per noi una di quelle fratture al muro di isolamento “tra dentro e fuori” creato dallo Stato e per questo crediamo nell’importanza di sostenerne la più ampia diffusione.

Il libro sta per approdare alla fase di stampa, per cui invitiamo chiunque voglia contribuire economicamente a farlo attraverso questa cena o altre modalità che ritenga opportune. Ci teniamo anche a ricordare che per volontà di Claudio, il ricavato del libro, una volta che sarà pronto per la distribuzione, sarà destinato a sostenere la battaglia per la verità, portata avanti dalle famiglie dei detenuti morti nella strage di Modena. Consapevoli che allo Stato lasciamo le “verità ufficiali”, mentre noi ci teniamo i pezzi di storia raccontati dal lato di chi è oppressi.

CHE LA SOLIDARIETÀ FACCIA MACERIE DI OGNI GALERA
STRAGISTA È LO STATO