“ALLARME DROGA” ED “EMERGENZA SICUREZZA” ERRICO MALATESTA ANTIPROIBIZIONISTA [1923]

In un testo del 10 agosto del 1923 Errico Malatesta su Umanità Nova (numero 181), con disarmante semplicità, snocciolava i principi base dell’antiproibizionismo.

Si poneva il problema della cocaina.

In sintesi Malatesta constatava come il grido d’allarme di esperti e scienziati contro il pericolo della cocaina si traducesse nell’ottusa richiesta continua di nuove e più severe leggi, nonostante l’esperienza avesse sempre, invariabilmente dimostrato che mai nessuna legge, per barbara che fosse, è mai valsa a estinguere fenomeni problematici, che invece malgrado le leggi e forse proprio a causa delle leggi, si estendono.

Senza nessuna banalità, evidenziava quanto il punire severamente consumatori e venditori non avrebbe fatto altro che aumentare negli speculatori l’avidità del guadagno, che sarebbe cresciuta ancora con l’inasprimento delle leggi.

Di conseguenza affermava quanto fosse inutile sperare nella legge, e proponeva, nel 1923, un altro rimedio: dichiarare l’uso ed il commercio libero, aprire “spacci” dove la sostanza fosse venduta a prezzo di costo, e poi fare riduzione del rischio, informazione, nessuno avrebbe fatto propaganda contraria, scriveva, perché nessuno avrebbe potuto guadagnare e speculare sull’uso di sostanze.

E ancora molto lucidamente non si illudeva: con questo non sarebbe sparita la possibilità di un uso dannoso della sostanza, poiché le cause sociali che creano le dipendenze non sarebbero sparite, ma in ogni modo il male sarebbe diminuito, perché nessuno avrebbe potuto guadagnare sull’uso di droga, e nessuno avrebbe potuto speculare sulla caccia agli speculatori.

Così concludeva:

“La nostra proposta o non sarà presa in considerazione, o sarà trattata da chimerica e folle. Però la gente intelligente e disinteressata potrebbe dirsi: poiché le leggi penali si sono mostrate impotenti, non sarebbe bene, almeno a titolo di esperimento, provare il metodo anarchico?”

TRIESTE: LE CHECCHE SCHECCANO

Riceviamo e diffondiamo:

Martedì 27 febbraio, con i nostri corpi e le nostre voci abbiamo portato disordine a un evento al Caffè San Marco a Trieste, che dovrebbe essere tutt’altro che ordinario: la presentazione di due libri, scritti da Silvia Guerini e Costantino Ragusa, che riportano contenuti estremamente transfobici e complottisti sulla stessa esistenza delle persone trans e queer.

Nel libro “Dal corpo neutro al cyborg postumano. Riflessioni critiche all’ideologia gender”, Silvia Guerini, sedicente anarco-ecologista radicale, sostiene che le rivendicazioni transfemministe e LGBTQ+ non trattino dei diritti di una parte di popolazione repressa, ma facciano parte di un’agenda più ampia e potente (ah ah, magari) con al vertice le Big Tech e vari padroni globali.

Gli autori incolpano il capitalismo e lo stato della diffusione della cosidetta “teoria gender” e contestano con pratiche violente la medicalizzazione dei corpi, in particolare dei minorenni che decidono di intraprendere un percorso di affermazione di genere. A marzo 2023, presso l’azienda ospedaliero-universitaria Careggi di Firenze, queste stesse persone hanno organizzato un presidio per denunciare “le conseguenze irreversibili dei bloccanti della pubertà”: un tentativo violento di sovradeterminare le scelte e i percorsi individuali delle persone trans*, invalidandone l’esperienza. Secondo le loro narrazioni, i percorsi di affermazione di genere sarebbero troppo facilmente accessibili. Peccato che gli iter serratissimi, con liste d’attesa infinite, ambienti discriminatori e pratiche istituzionali violente, dobbiamo affrontarli noi e non loro. E che i corpi medicalizzati, psichiatrizzati e messi continuamente in discussione, siano i nostri e non i loro.

Questa visione del mondo è indicativa di quanto i soggetti che la diffondono siano funzionali alla riproduzione dello stato di marginalizzazione e sfruttamento che viviamo: narra un ribaltamento dei rapporti di potere che racconta una realtà in cui froc3 e trans* sono una sorta di classe obbediente e funzionale al capitalismo, che trae guadagno e giovamento dall’attuale organizzazione della società e da chi la governa. Tutto ciò è ridicolo: alla violenza e alla discriminazione che subiamo ogni giorno sui nostri corpi (come accaduto anche martedì!) si somma l’ulteriore marginalizzazione sul piano economico, sociale, sanitario e su ogni aspetto materiale delle nostre vite.

La serata del 27 è stata l’ennesima occasione in cui persone cis-etero hanno tentato di schiacciarci, dettando regole da applicare sui nostri corpi e sulle nostre esistenze, vittimizzandosi e sostenendo che la sofferenza, l’autodeterminazione e la libertà siano retoriche che usiamo per “trasformare i nostri capricci in diritti umani”.

Il potere che queste persone hanno di spingere all’odio e alla queerfobia, di influenzare il pensiero di menti non informate, è pericoloso e mette a rischio la nostra libertà. Troviamo inaccettabile che gli sia stato messo a disposizione un luogo in cui farlo: il Caffè San Marco, che paradossalmente tra i suoi “punti forti” su google indica l’essere queer-friendly, ha concesso a queste persone uno spazio all’interno di uno dei locali storici di Trieste per diffondere messaggi di discriminazione e disinformazione.

Le parole d’odio risuonano se ci sono appoggio e ascolto, ed è per questo che abbiamo deciso di portare disturbo con la nostra presenza, di esprimere la nostra rabbia, di contestare con la nostra stessa esistenza di persone trans* quanto sostenuto da Guerini, Ragusa e Boscarol. Le checche hanno scheccato, abbiamo interrotto questo triste spettacolo di falsa informazione e contenuti queerfobici portando la nostra esperienza, la nostra rabbia, urlando assieme che “l’uomo violento non è malato, ma figlio sano del patriarcato”, nel momento in cui Ragusa ha alzato le mani su più compagn3, dimostrando in azione l’atteggiamento violento e machista che queste persone hanno verso la nostra esistenza, dimostrando che la loro intenzione è di decidere sui nostri corpi, di negarne l’esistenza e la validità.

Siamo dissidenti, siamo indecoros3, le nostre voci non saranno silenziate, i nostri corpi non saranno schiacciati, le nostre esistenze non saranno minate.

QUEER RAGE

Per approfondire lasciamo i link ad articoli di compagnx:
https://infernourbano.altervista.org/sulla-deriva…/

Postscriptum al testo “Sulla deriva reazionaria di alcuni/e “compagni/e”…”

NAPOLI: SORVEGLIANZA SPECIALE, SORVEGLIANZA SOCIALE

Riceviamo e diffondiamo:

Lo Stato ha individuato il nemico interno nelle frange dissidenti e nella parte più emarginata del tessuto sociale. Contro di esse viene dispiegato un apparato repressivo sempre più pervasivo, utilizzando decreti legge, pacchetti sicurezza e misure di prevenzione, con la finalità di una
carcerazione di massa.

Ne discuteremo assieme ad alcune avvocate.

Domenica 3 marzo  alle 18 a Santa Fede Liberata, in via S. Giovanni Maggiore Pignatelli 2, Napoli.

AL FIANCO DI ZAC, COMPAGNO ANARCHICO DETENUTO A TERNI IN AS2 E RAGGIUNTO DALLA MISURA DELLA SORVEGLIANZA SPECIALE

CONTESTI DI CURA O LUOGHI DI TORTURA? UN DOSSIER SULLA FONDAZIONE STELLA MARIS

Riceviamo e diffondiamo un dossier sulla fondazione “Stella Maris”- Istituto scientifico, Ospedale specializzato e Centro di assistenza – che di fatto gestisce, in appalto da Università e Asl nella provincia di Pisa, l’assistenza e la cura dei disturbi e delle disabilità dell’infanzia e dell’adolescenza.

Una fondazione dalla fortissima impronta cattolica  in prima linea nel crescente e preoccupante fenomeno della medicalizzazione e della psichiatrizzazione dell’infanzia. Vediamo infatti le giovani generazioni sottoposte da un lato al fuoco incrociato di una catalogazione in categorie mediche che spieghino in termini “scientifici” il loro distacco dal feticcio della normalità e, dall’altro, al conseguente uso dilagante e in crescita esponenziale di psicofarmaci che attaccano e minano la salute psicofisica con effetti devastanti per la vita futura.

Non solo, nell’utimo anno il Collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud ha rotto il silenzio intorno agli abusi avvenuti nella struttura di Montalto di Fauglia: si parla di aggressioni fisiche e verbali, trattamenti degradanti quotidiani, spintoni, schiaffi, minacce e vessazioni costanti. Tra gli ospiti della struttura ricordiamo Mattia, morto nel 2018 per soffocamento in seguito al blocco della glottide dovuto alla somministrazione prolungata ed eccessiva di psicofarmaci. I continui cambi di terapia avevano comportato disfunzionalità e rischi al momento dei pasti di cui la famiglia – in lotta per la verità contro l’omertà e gli interessi che proteggono questa mega istituzione – non era mai stata informata.

Nonostante ciò la Stella Maris continua a ricevere  abbondanti finanziamenti e onorificenze dalla Regione Toscana e ad essere considerata un’eccellenza a livello nazionale. Il 20 gennaio 2022 il Comune di Pisa ha rilasciato alla Fondazione il permesso per costruire un nuovo enorme centro, in prossimità dell’Ospedale Cisanello, nella periferia pisana.

All’interno del Dossier due testi:
– “Che cos’è Stella Maris”
– “Generazioni da sedare – il ‘caso’ ADHD – Ritalin – Progetto Prisma”

Qui il testo PDF Dossier Stella Maris
Qui un opuscolo a cura del Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud sulla storia di Mattia La storia di Mattia

Qui il comunicato diffuso dalla Rete Antipsichiatrica  al presidio che si è tenuto di recente a Brescia contro la violenza che regola la vita all’interno di moltissimi centri residenziali “di cura” per persone con disabilità o fragilità psichica. Luoghi dove la contenzione fisica e farmacologica è consuetudine e dove le prepotenze sono ordinarie e strutturali: dai maltrattamenti nella struttura di Montalto di Fauglia gestita dalla Stella Maris, agli abusi all’interno delle strutture della Cooperativa Dolce di Bologna, fino agli orrori della Comunità Shalom, nel bresciano. Riteniamo sia importante non spegnere i riflettori su una violenza così estesa, capillare, non episodica, accettata e sostenuta quotidianamente dal silenzio di tanta società “civile”.

Sul sito del collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud altri riferimenti utili https://artaudpisa.noblogs.org/post/category/dossier-stella-maris/

NAPOLI: ALCUNI TESTI DIFFUSI DURANTE LO SCIOPERO GENERALE DEL 23 FEBBRAIO

Riceviamo e diffondiamo alcuni testi diffusi durante lo sciopero generale del 23 febbraio

– Palestina, aiutiamoli a casa nostra.
– Contro la militarizzazione della società
– Mappa campana delle complicità dello stato italiano nel genocidio palestinese.
– Sorveglianza sociale, sorveglianza speciale

PALESTINA: AIUTIAMOLI A CASA NOSTRA

Che sia in atto un genocidio dei palestinesi da parte degli israeliani è fuori dubbio, come è fuori dubbio che questo sia iniziato molto prima del 7 ottobre (almeno dal 1948) con l’appoggio diretto degli Stati Uniti e dei governi europei.

La mobilitazione che si è generata in Europa in sostegno alla Palestina ha sicuramente avuto un ruolo importante nel far emergere un racconto differente da quello propinato dai media oltre a rendere palese la distanza tra le politiche governative e il sentire comune della gente, tuttavia non hanno potuto rallentare la macchina di morte dello stato israeliano né tanto meno intaccare le relazioni che i vari governi hanno stretto o stanno stringendo con esso.

Per quanto riguarda l’Italia, innanzitutto, è stata tra i primi paesi a riconoscere il neonato stato ebraico nel 1949 e da allora i rapporti con Israele sono stati vivificati con frequenti scambi diplomatici e affari commerciali. Ha sostenuto fin dall’inizio il diritto alla difesa di Israele, si è astenuta nella risoluzione per l’immediato cessate il fuoco, ha tenuto incontri bilaterali con Netanyahu e ha impedito l’apertura dei corridoi umanitari. Inoltre, non ha mai esitato a fornire armi, infatti la marina israeliana monta cannoni della Oto Melara (Leonardo) con i quali bombarda quotidianamente la striscia di Gaza e, attraverso l’Eni, sfrutta giacimenti di gas in acque territoriali palestinesi.

Altro ruolo fondamentale lo stanno ricoprendo i mass media di regime che attraverso una narrazione a senso unico, che vede il popolo israeliano vittima dei feroci attacchi dei “terroristi di Hamas”, tentano di creare le condizioni etiche che possano giustificare l’annientamento della popolazione palestinese.

Siamo stanchi della quotidiana conta dei morti a Gaza, della retorica dell’antisemitismo che tenta di bloccare qualsiasi forma di dissenso verso lo stato israeliano, dei benpensanti ottusi che vedono in Israele un avamposto democratico in un territorio popolato da “feroci barbari”, come siamo stanchi di ascoltare una propaganda ad uso di decerebrati che parla di bambini decapitati, stupri di massa e massacro di civili inermi israeliani.

Non siamo disposti a tollerare ulteriormente questa situazione. Coscienti della difficoltà di aiutare materialmente la popolazione di Gaza e della Cisgiordania nella loro terra, possiamo e dobbiamo intraprendere dei percorsi di lotta radicale che mettano in luce le responsabilità criminali del governo italiano, oltre che tentare di bloccare i meccanismi, basati sul mero interesse economico e strategico, che alimentano questo stato di cose.

Bloccare la macchina tecno­industriale che lavora nella produzione di strumenti civili e militari oltre che i progetti che varie università italiane portano avanti con aziende israeliane, ribaltare la narrazione dei pennivendoli di stato è possibile oltre che necessario.

Anarchici/e per la resistenza palestinese

Testo in PDF


CONTRO LA MILITARIZZAZIONE DELLA SOCIETA’

Militarizzazione significa ampliare il campo dell’azione militare, tanto in forma teorica quanto in forma concreta in un territorio e nella società, ed è quello che negli ultimi anni stiamo vivendo in forma sempre più evidente.
I recenti conflitti dall’Ucraina al genocidio che Israele sta attuando in Palestina e i conseguenti effetti in medio oriente, passando per altri conflitti accesi ma meno conosciuti e presenti nei media, hanno spinto gli Stati ad armarsi in forma sempre maggiore. Per diversi paesi occidentali in questi anni gli investimenti bellici sono cresciuti raggiungendo livelli che non si vedevano dalla fine della guerra fredda. Basti pensare che l’Italia spende mediamente 74 milioni di euro al giorno in spese militari e che queste cifre sono considerate ancora poco dagli alleati della Nato.
Questa corsa agli armamenti, non si manifesta solo attraverso la compravendita di armi e i conflitti in paesi “lontani”, ma si esercita anche nei nostri territori e nelle nostre vite, contro i nemici interni, che sono di volta in volta i derelitti più sacrificabili in nome della sicurezza: poveri, migranti, dissidenti.
Qui a Napoli è da anni che lo Stato risponde a qualsiasi problema di natura sociale aumentando la presenza di polizia e militari nelle strade, basti pensare all’operazione Strade Sicure che dal 2008 prevede una massiccia presenza di pattuglie che ormai nell’indifferenza più totale della popolazione controllano strade e quartieri della città.
Una grande salto in avanti in questo senso è stato fatto durante la pandemia da Covid-19, di nuovo nell’indifferenza della maggior parte, il governo ha disposto polizia e militari nelle strade mentre terrorizzava con una funzionale propaganda di guerra chiunque disertasse dalla linea dettata.
Un’altra forma in cui la militarizzazione dei territori si manifesta è nell’investimento in infrastrutture che hanno come scopo quello di facilitare la mobilità per le truppe e gli armamenti. Tentativo cioè di adattare la geografia della penisola allo scacchiere di guerra globale, esempio di questo ne è, fra gli altri, la costruzione del ponte sullo stretto, che come è stato appurato, dovrebbe rientare nel Trans European Transport Network TEN-T il cui scopo dichiarato è quello di creare una rete in grado di soddisfare “un piano di azione sulla mobilità militare 2.0”
La volontà dello stato di portare la disciplina di guerra ovunque ha trovato un grande laboratorio nelle scuole e nell’università. Da un lato sempre più scuole indottrinano giovani menti alla disciplina militare invitando militari a mettersi in cattedra. Dall’altro le caserme diventano sempre più luogo ideale per portare bambine e ragazze in gita. A spianare la strada a questo processo, l’uso sempre piu’ normalizzato del linhuaggio bellico nella vita quotidiana.
La questione del sapere e della ricerca universitaria funzionale alla guerra è poi un grande tema.
Infatti il doppio uso delle tecnologie e delle ricerche prodotte dalle università in ambito civile che poi vengono trasmesse all’ambito militare e viceversa è una grande questione aperta dai tempi della bomba atomica. Il fatto che le università collaborino con industrie belliche, come sempre di più sta succedendo, non solo permette una maggiore permeabilità nello scambio di ricerche fra civile e militare, ma contribuisce ad una sempre maggiore legittimazione del campo militare.
Il fatto che la militarizzazione permei la societa’ civile e la corsa agli armamenti sia sempre piu’ evidente rendono chiaro quanto uno scenario di guerra alle nostre latitudini sia sem- pre piu’ possibile.

FUORI LA GUERRA DALLE UNIVERSITA’, DALLE SCUOLE, DAI TERRITORI E DALLE NOSTRE VITE! LA GUERRA E’ OVUNQUE E CONTRO TUTTI, ESCLUSO CHI NE TRAE PROFITTO… QUINDI GUERRA ALLA GUERRA!

Testo PDF


Lo stato italiano è complice di Israele nel genocidio palestinese. La guerra che vediamo in televisione si produce qui. 


SORVEGLIANZA SOCIALE E SORVEGLIANZA SPECIALE

A dicembre il tribunale di sorveglianza di Napoli, su richiesta firmata dal questore di Napoli Maurizio Agricola, ha disposto l’applicazione della misura di sorveglianza speciale per Zac (ora prigioniero nel carcere di Terni) per due anni e sei mesi con le seguenti restrizioni: di non allontanarsi dall’abitazione senza preventivo avviso dell’autorità di sorveglianza, di non uscire prima delle 7 e non rientrare dopo le 20, di non associarsi “abitualmente” a persone condannate o preposte a misura di prevenzione o sicurezza, di non accedere a esercizi pubblici e di pubblico trattenimento, vivere onestamente rispettando le leggi, non detenere né portare armi, darsi alla ricerca di un lavoro, non partecipare a pubbliche riunioni, di portare sempre con sé la carta di permanenza, di presentarsi ogni domenica, o comunque a ogni invito, all’autorità preposta alla sorveglianza. A ciò si aggiunga una cauzione di 3000.00 euro da versare come garanzia, ma frazionabile in cinque comode rate.

La misura sarà eseguita non appena Zac uscirà dal carcere, a prescindere dall’esito del processo per 280 bis e 270 quinques, che intanto continua.

Ad oggi, la guerra contro il nemico interno si è sovrapposta irrimediabilmente a quella contro il nemico esterno, in un unico movimento per l’accumulo di predominio politico, economico e culturale che va innanzitutto a svantaggio delle popolazioni e degli oppositori.

In questo quadro l’accorpamento della magistratura antimafia e antiterrorismo (2015) ha generato una macchina strapotente che si autoalimenta con sempre nuove inchieste e mezzi a disposizione per sorvegliare sempre più persone o far credere di farlo, con l’obiettivo di instillare la paura e fare il vuoto intorno a chi viene colpito più direttamente.

Contro ogni distinzione tra colpevoli e innocenti, che è puro arbitrio dell’inquisizione democratica, sostenere le ragioni della rivolta e le identità messe sotto attacco, è una questione di autodifesa collettiva. Gli strumenti repressivi sempre più duri che vengono usati contro determinate categorie di persone sono destinati ad espandersi. L’ampliamento del regime del 41 bis, la storia recente dello strumento repressivo del 270 (associazione sovversiva), l’imputazione di Zac per 270 quinquies (autoaddestramento), il pacchetto sicurezza, il decreto Caivano, l’estensione della sorveglianza e della carcerazione a tutti i livelli, ne sono un esempio. Su questa stessa scia, i sindacati autorganizzati vengono accusati di associazione a delinquere, la lotta dei disoccupati organizzati diventa estorsione, gli scontri in strada puniti con l’aggravante camorristica, le pubblicazioni o gli striscioni censurati con l’accusa di istigazione a delinquere o apologia di terrorismo.

Anche l’estensione delle misure di prevenzione e del dispositivo della “sorveglianza speciale” – storicamente usate per punire poveri, briganti e antifascisti – è una delle tante conseguenze della fusione di apparati antimafia e antiterrorismo e della necessità di equiparare l’armamentario di guerra contro la criminalità organizzata e quello (mediatico, giuridico, linguistico) contro i dissidenti. Non è un caso che nell’odierno stato di emergenzialità permanente queste misure vengano richieste e elargite automaticamente e parallelamente all’accusa di terrorismo – come nel caso di Zac – o anche ben prima. Basta essere costretti in una delle categorie costruite, col linguaggio e col diritto, come “socialmente pericolose”, per vedere le proprie residuali “libertà”, già di per sé forme illusorie del sistema democratico, ulteriormente ristrette dalla sfilza di obblighi e divieti prescritti dalle misure di prevenzione. Questo sistema è storicamente espressione di una radicata cultura del sospetto e della tendenza, fin dalla colonizzazione del Sud Italia, a trasformare le questioni sociali, gli ideali e le lotte in problemi giudiziario-criminali.

Fino ai nostri giorni, quando l’obbligo di dimora, il domicilio coatto, il coprifuoco, il divieto di frequentare luoghi pubblici e di intrattenimento, che sono l’armamentario dispiegato dalle misure di prevenzione, sono stati oggetto di una sperimentazione di massa in tempi di guerra contro un nemico invisibile, quando il terrorista era un virus, e tutti indiscriminatamente, dovevano mettersi al riparo seguendo le regole di distanziamento sociale, umano e politico.

La morale securitaria che connota il XXI secolo e il terrorismo di Stato che opera attraverso l’apparato mediatico e giudiziario antiterroristico porteranno all’estensione su scala sempre più ampia di questi strumenti già impugnati contro gli oppositori del passato, grazie all’indeterminatezza costitutiva della norma e all’attuale momento storico. Tradendo i presupposti dello stesso (raccapricciante) diritto borghese, nato sul principio (comunque di impossibile applicazione se laddove c’è Stato non c’è libertà) che il corpo dovesse restare “libero” fino all’accertamento in sede processuale di una presunta colpevolezza (che non è già vero nel caso della carcerazione preventiva), le misure di prevenzione avvinghiano alle loro catene di carta intere categorie di persone senza alcun bisogno di processare degli atti come reati, perché a essere “rea” è già solo la personalità, l’ambiente, la condotta, l’idea. Questi dispositivi di psicopolizia, del resto, non sono volti a punire “reati”, ma a evitare che possano verificarsi, perciò impongono sequele di processi alle intenzioni, o meglio, ai pensieri potenzialmente trasformabili in atti… prima che si trasformino in atti. La sorveglianza speciale, quindi, è potenzialmente elargibile a chiunque, persino (si veda il decreto Caivano) a degli adolescenti. Un mezzo strapotente.

La criminalità organizzata di Stato che ha ipotecato le nostre vite al capitale sembra avere campo sempre più largo per reprimere il dissenso e per poter eseguire il prelievo necessario alla ristrutturazione capitalistica in corso, resa possibile dalla transizione digitale. Questa neoschiavitù, in cui ogni corpo è diventato una miniera da cui estrarre dati, è la più infame delle estorsioni.

Ma una cosa è certa. Quando pandemia, guerra e “transizione” digitale richiedono una sorveglianza sempre più estesa e la rendono possibile affiancando le catene di carta che ci legano al controllo poliziesco-giudiziario con le catene di fibra ottica che ci connettono alla rete del controllo elettronico, diventa sempre più visibile e tangibile quanto l’intera società sia ora più che mai un carcere a cielo aperto. Tra strumenti di carcerazione preventiva e luoghi di carcerazione punitiva, la distinzione, benché concreta, diventa sempre più sfumata nella testa di quanti vivono con insofferenza la proliferazione di catene multiple, e di quanti hanno come orizzonte la libertà.

La repressione poliziesco-giudiziaria selettiva contro anarchici e dissidenti, e la repressione culturale e digitale contro intere popolazioni si somigliano sempre più nei fini quanto nei mezzi, per un mondo di deradicalizzati da memoria, personalità e idee. In un mondo diviso da sempre più sbarre fisiche e digitali, chi potrà dire di non essere un sorvegliato speciale?


IL FRONTE INTERNO DELLA GUERRA

Questa società non ha più nulla da offrire se non malattie, morte, guerre.

E ottuso realismo politico, il più meschino nemico dei sogni. La vittoria del realismo contro l’utopia cercherà sempre più di far quadrare i conti in un’equazione senza scampo, di farci credere che la vita in ogni suo aspetto è totalmente sotto vigilanza, che il controllo totale può esistere a dispetto di ogni imprevisto.

Dalla fine della seconda guerra mondiale, la ghigliottina nucleare sospesa sulle nostre teste è stata un attacco senza precedenti alle possibilità di autodeterminazione di popoli e individui, perché la morte collettiva è diventata un bottone da premere. Un ricatto senza se e senza ma.

Oggi, l’intelligenza artificiale che sta per pervadere ogni infrastruttura sociale, economica e politica è una rivoluzione senza confini, se non quelli che le nostre coscienze e mani sapranno porre, perché finirà per eliminare anche la necessità ultima dell’operatore umano che preme quel dannato bottone. Al suo posto, un banale algoritmo. Quello stesso algoritmo che in un futuro prossimo si sostituirà nelle aule di tribunale al meccanismo già diabolico delle (im)perizie tecno-scientifico-industriali (un vero e proprio business) che ad oggi decide della libertà di migliaia di persone incarcerate.

È davvero questa la banalità del male, un insieme di ripetitive, automatiche e cieche procedure tecniche che attraverso software di elaborazione dei dati secondo parametri arbitrari pretendono di costruire verità inconfutabili in questa parte del mondo e massacri altrove. Se non vogliamo che in un domani non troppo remoto sia un algoritmo a decidere della vita e della libertà, è necessario attaccare il paradigma tecno-scientifico-industriale che domina tanto nella società, nelle aule di tribunale e sui campi di guerra, col suo ventaglio di mezzi (dalla videosorveglianza, alla videoconferenza, ai droni).

Più il male è banale, ancora più banale dell’impiegato burocrate, banale quanto una macchina robotica, più si cercherà di banalizzarlo: l’intelligenza artificiale, in fondo, è solo una soluzione tecnica ai problemi dell’umanità – non importa quanto questi siano il prodotto di scelte tecniche passate. E poi permetterà di curare malattie incurabili, di vincere la guerra, di costruire città più sicure e funzionali alla frenesia del nostro tempo. Non importa quanto i ritmi del lavoro e della competitività diventeranno insostenibili per gli esseri umani che non vorranno collaborare, o peggio, assimilarsi alla macchina. Non importa quanto la creazione di immagini false ma assolutamente verosimili ci renderà totalmente incapaci di informarci e irrimediabilmente diffidenti verso le nostre possibilità di comprendere qualcosa del mondo e di intervenire su di esso, azzerando ogni prospettiva che guardi al futuro e mettendoci all’angolo con la sensazione di essere caduti nella trappola di un controllo totale. È contro questo realismo che rischia di imporre una volta per tutte la più orribile delle distopie, che è fondamentale andare al sodo, selezionando le sole informazioni che contano davvero per metterci di traverso a un futuro fatto di isolamento, infelicità e ingiustizia.

L’accumulazione capitalistica di miliardi dati per far funzionare le tecnologie che servono a combattere la guerra, nel dominio di poche multinazionali che stringono accordi con le università finanziandone la ricerca, sarebbe impensabile senza i data-center localizzati che li conservano. Una guerra per il controllo delle materie prime e delle risorse che servono a realizzare le tecnologie che governeranno il futuro non può essere combattuta senza fabbriche di armi, senza le infrastrutture che servono al flusso di informazioni e uomini; senza la ridefinizione giornalistica e accademica dei nuovi nemici interni e esterni; senza il pacifico consenso del fronte interno dell’opinione pubblica all’economia di guerra che ci hanno imposto col rincaro dei generi primari (cibo e energia); e alla cultura dell’odio tra sfruttati.

Perciò, non possiamo avere paura di estendere l’idea che abbiamo della guerra. È necessario prendere atto dell’impossibilità di distinguere la guerra al nemico interno dalla guerra contro il nemico esterno, tra i tempi di guerra e i tempi di pace, così come tra produzione e ricerca tecnologica militare e civile, perché fino a che esisterà, lo Stato è e sarà sempre uno strumento di guerra: contro altri stati, contro popoli e territori colonizzati, contro la natura e gli individui in rivolta. L’accumulo e il mantenimento di potere nelle mani di pochi a danno dei più è una guerra permanente combattuta quotidianamente con tutti i mezzi necessari, dallo sfruttamento senza confini sui luoghi di lavoro alla cascata di bombe sui cieli di interi territori. Il pericolo di distruzione dei posti di lavoro legato all’intelligenza artificiale è direttamente proporzionale al pericolo di distruzione materiale della sua applicazione alle tecnologie militari. Questo stato di guerra a tutti i gradi si esprime all’interno dei confini nazionali con la riabilitazione del lavoro minorile per mezzo dell’alternanza scuola-lavoro, con la militarizzazione dei quartieri, delle scuole, del conflitto sindacale. Per quanto non sia mai esistita una scuola neutrale, la sua attuale militarizzazione le rende sempre più luogo di arruolamento forzoso, di uniformazione per accettare l’esistenza dell’uniforme, della forza armata che tiene l’umanità divisa tra oppressi e oppressori e che si oppone a ogni tentativo di liberazione.

Mentre piovono bombe dai cieli d’Israele, da questa parte del mondo siamo bombardati dalla frenesia violenta di un flusso di notizie in cui è impossibile distinguere ciò che importa. La nostra coscienza diventa muta davanti a questa difficoltà di comprensione e di immaginazione, il nostro sguardo cieco a ogni prospettiva futura. Come possiamo ripartire dall’utopia per combattere la resa a questo destino dominato dalla razionalità del meno peggio? Il realismo politico vuole intimidirci col ricatto che due o tre guerre piccole contro gruppi terroristi e Stati canaglia siano meglio di una grande guerra da cui si potrebbe anche uscire sconfitti. In parte ci sono già riusciti, paralizzando ogni movimento di solidarietà internazionalista tra oppressi che potesse ostacolare l’invio di armi e imporre dal basso il cessate il fuoco, con l’operazione mediatica che ha beceramente assimilato la resistenza ucraina alla lotta partigiana contro il nazi-fascismo.

Ma se continuiamo a sentirci “al sicuro” perché “tanto la guerra è lontana”, abbiamo fatto davvero male i conti. L’assassinio, o, ancora peggio, il suicidio di ogni etica non conforme alla logica realista di un mondo dominato da guerra e intelligenza artificiale significa la vittoria di una logica di conquista e mantenimento del potere di pochi, in fondo talmente irrazionale, da rischiare il massacro dell’intera umanità.

Come soli antidoti: disfattismo rivoluzionario e solidarietà a chi si ribella! rendendo impossibile la percezione e la realizzazione di un sistema di guerra e controllo totale.

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PARMA: STREET RAVE PARADE [6 APRILE 2024]

Diffondiamo:

Il 6 aprile alle 13:12 a Parma: street rave parade 🔥

Sabato 6 aprile a Parma confluiremo nelle strade per riappropriarci di spazi in cui sperimentare nuove forme di socialità libere da sfruttamento e mercificazione. Attraverseremo la nostra città a suon di musica per esprimere il nostro dissenso nei confronti di una realtà sempre più soffocante, autoritaria, militarizzata, bigotta, alienante e insostenibile economicamente. Scenderemo in strada contro un modello di sviluppo insensato, contro ogni galera, frontiera, guerra e discriminazione razziale, di genere e di specie. Solidali e complici con chiunque lotti contro ogni forma di autorità e oppressione, balleremo per la costruzione di nuovi mondi in una prospettiva anticapitalista, ecologista e transfemminista radicale. Faremo bordello per farla finita con un presente in macerie fatto di miseria e repressione, e una realtà in cui nel nome del decoro e di una versione pervertita della sicurezza e della salute, ci sono fioriere che valgono più delle vite umane.

Siamo un insieme di individualità e collettivi che animano la vita sociale, politica e culturale di questa città. Ci siamo incontratx perché crediamo nella potenza dell’interconnessione dei percorsi e della trasversalità delle lotte.

Se anche a te questo mondo ti sta stretto e senti l’esigenza di esprimere la tua creatività per costruire un qualcosa di diverso, partecipa in prima persona alla costruzione di questo nuovo esperimento di liberazione dello spazio e dei corpi.

Nei nostri cuori portiamo un nuovo mondo che viene.

Per info: parmesanparade@bastardi.net
Canale telegram https://t.me/+smg7gLBT2dcwZmM0

ORA COME ALLORA

Riceviamo e diffondiamo un testo in solidarietà ai condannati/e del Brennero da Udine.

Il 7 maggio del 2016 un corteo di diverse centinaia di persone si batte per diverse ore al passo del Brennero bloccando autostrada e ferrovia per più di mezza giornata, in risposta alla proclamata intenzione del governo austriaco di costruire un muro anti-immigrati alla frontiera italo-austriaca con la complicità dell’Italia.
Lo Stato decise di processare per quella giornata in totale più di 120 compagni e compagne. La sentenza d’appello ha alla fine condannato 63 di loro a più di 125 anni di carcere. Qualora le condanne fossero confermate in Cassazione, il 5 marzo prossimo, una trentina tra compagne e compagni potrebbero finire in carcere, molti altri e altre ai domiciliari.

Erano gli anni in cui il governo italiano di centro-sinistra iniziava a pagare i signori della guerra libici e le loro milizie di assassini per il blocco e l’internamento nei lager libici di centinaia di migliaia di donne e uomini in fuga da comunità e territori devastati dal colonialismo occidentale e il Mediterraneo diventava un cimitero sempre più vasto; in cui i Balcani ridiventavano costante luogo di transito verso l’Europa, con quella che venne definita rotta balcanica; in cui, all’interno dei confini nazionali, con i “pacchetti sicurezza” Minniti e Salvini lo Stato e il capitale nostrano imprimevano un’ulteriore accelerata – all’interno di una generale continuità inaugurata già molti anni prima – alla guerra ai poveri, ai marginali, ai devianti, ai ribelli, a chi non può o non vuole piegarsi ai ricatti dello sfruttamento, del decoro, del lavoro salariato, della repressione.
Da quei giorni le cose non sono certo migliorate, anzi. Chi cerca di fare ingresso nella fortezza Europa dopo aver affrontato il deserto e i lager libici, o i campi, le deportazioni e i pestaggi delle polizie balcaniche, francesi o ungheresi viene lasciato deliberatamente affogare in mare o morire di freddo in montagna o per strada.
Il genocidio portato avanti (col fondamentale supporto degli alleati occidentali) dallo Stato sionista di Israele verso la popolazione palestinese a Gaza e in Cisgiordania, la guerra tra la Nato e la Federazione Russa in Ucraina generano profitti enormi per l’industria militare e per il comparto della ricerca al servizio dello sviluppo e del rinnovamento del sistema bellico-industriale, la quale è la prima complice e responsabile della morte, del ferimento, della tortura e dello stupro di milioni di oppressi e oppresse.

Sui fronti interni, solo per considerare il nostro, il lascito della gestione militare dell’“emergenza” Covid-19 – oltre ad un riuscito esperimento di mobilitazione generale della popolazione in un simulato scenario di guerra – è un deciso avanzamento del controllo dello Stato e delle sue polizie in ogni ambito della vita, reso possibile non solo dalla presenza fisica di sempre più sbirri e militari nelle strade, ma soprattutto dalla digitalizzazione che tritura quasi ogni anfratto della quotidianità.
Un avanzamento che prefigura e prepara – tanto nel discorso pubblico e quanto nelle realtà dei territori – a conflitti che potrebbero estendersi ben oltre le loro dimensioni attuali.
La guerra di Stato e padroni a sfruttati e sfruttate si fa ogni anno, ogni mese, sempre più aperta e brutale; basti citare l’ultimo pacchetto sicurezza del 2023, i decreti “Piantedosi”, “Cutro” e “Caivano”. Quest’ultimo nato a seguito di due fatti di violenza di genere, che però non è affatto centrale nel decreto ma funge da mera giustificazione per la repressione autoritaria dei minorenni delle periferie. Tutti questi decreti sono volti ad aumentare il carico di sfruttamento e repressione per lavoratori e studenti in lotta, occupanti di case, migranti, per chi si rivolta in carcere o nei CPR, per tutti gli esclusi e le escluse da un ordine in via di lento disfacimento e per questo sempre più aggressivo nel portare avanti i propri progetti di ristrutturazione – in senso tecnico, economico,
sociale, ed in definitiva autoritario – nel tentativo di sopravvivere al tracollo innescato dalle sue stesse incessanti attività distruttive.
Ogni giorno che passa il legame tra frontiere e guerra è sempre più lampante anche nel territorio del Friuli Venezia Giulia, “ultima tappa” della rotta attraverso i Balcani percorsa da coloro che abbandonano luoghi devastati dalle guerre presenti e passate condotte dell’Occidente nel continente asiatico per il saccheggio di materie prime e il controllo dei territori dove vengono estratte; dove il fiume Isonzo, il CPR ed il CARA di Gradisca offrono, a pochi metri di distanza uno dall’altro, un ottimo esempio dei diversi gradi di selezione delle “eccedenze umane” di cui il sistema dell’“accoglienza” è complice; dove si fanno enormi profitti con le commesse per regimi democratici e dittatoriali in guerra permanente, negli stabilimenti Leonardo di Ronchi dei Legionari, di Fincantieri e Goriziane Spa; dove ci si prepara pian piano alla guerra all’interno dei patrii confini, con ben quattro progetti di cosiddette caserme verdi, ossia il concetto di integrazione civile-militare applicato direttamente alla vita quotidiana dei territori intorno agli avamposti delle forze armate.

Ora come allora siamo dalla parte di chi, con l’azione diretta, decide di attaccare le strutture e i responsabili di questo sistema di annientamento e devastazione, anche perchè “abbattere le frontiere non può essere solo uno slogan con cui reclamare il ritorno a Schengen o una diversa politica di “accoglienza” da parte delle istituzioni e nemmeno una mera espressione di solidarietà nei confronti dei profughi. Significa battersi autonomamente – con quelli che ci stanno – per sconvolgere un ordine sociale marcio fino al midollo”.

Solidali e complici con i condannati/e per il corteo del Brennero

Udine, febbraio 2024

ROMA: PRESIDIO DAVANTI AL CPR DI PONTE GALERIA

Diffondiamo:

Domenica 3 MARZO ore 16.00 Presidio davanti al CPR DI PONTE GALERIA [fermata Fiera di Roma del treno per Fiumicino]

Ad un mese dalla morte di Ousmane Sylla e dalla rivolta delle persone recluse repressa tra pestaggi, lacrimogeni ed arresti, andiamo davanti alle mura del centro di espulsione per portare solidarietà e non permettere che cada il silenzio.
La prigionia nei CPR, oggi prolungata fino ad un anno e mezzo, è una pena inflitta sulla base di leggi razziste che associano la pericolosità sociale all’esistenza stessa delle persone immigrate.
Un esempio vicino di ciò che accade in larga scala nei confronti della popolazione palestinese, bombardata, espulsa, assassinata ed imprigionata perché esiste.
L’appuntamento solidale sarà anche l’occasione per raccontare le proteste in corso in altri centri di espulsione e la repressione che sta colpendo Anan Yaeesh, palestinese carcerato a L’Aquila perché Israele ne pretende l’estradizione e il governo italiano ha deciso di servire il colonialismo sionista con ogni mezzo.

Tuttx liberx-Dei CPR solo macerie

Assemblea di solidarietà e lotta

BOLOGNA: IN STRADA CONTRO LA SCHEDATURA GENETICA

LUNEDÌ 19 FEBBRAIO ORE 17 in PIAZZA DEL TEATRO TESTONI a Bologna.


CONTRO LA SCHEDATURA GENETICA SOLIDARIETÀ AI COMPAGNI E ALLE COMPAGNE COLPITE

In questi giorni a Bologna alcune/i compagnx sono stati raggiunti dalla disposizione di prelievo coatto del DNA, braccati sul proprio luogo di lavoro o nelle loro case, altrx compagnx rischiano di andare incontro alle medesima sorte nei prossimi giorni.

Questa operazione si inserisce nell’ambito di un’inchiesta per 270 bis (associazione con finalità di eversione dell’ordine democratico) che vede coinvolti 19 compagnx: inchiesta che prende le mosse dalla mobilitazione in solidarietà allo sciopero della fame di Alfredo Cospito, contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo.

Durante lo sciopero della fame di Alfredo, a Bologna come in tante altre città, la solidarietà è stata ampia e trasversale: non stupisce perciò questa disposizione generalizzata di prelievo coatto del DNA, che concretizza la possibilità di schedare geneticamente chiunque, anche solo per l’accusa di aver partecipato o portato solidarietà ad un presidio!

E’ interessante notare come nonostante si cerchi la corrispondenza con tracce biologiche appartenenti a un individuo di sesso maschile, rinvenute su di un accendino trovato in prossimità del luogo dove erano stati incendiati alcuni ripetitori, fatto per cui sono indagatx solo 5 persone; il prelievo del DNA sia stato disposto per tuttx lx 19 indagatx, poiché, come si legge nell’ordinanza siglata dalla GIP, si rende necessario verificare “se l’accendino rivenuto sul luogo dell’attentato incendiario sia riconducibile direttamente o indirettamente (per le donne) agli attuali indagati o agli altri soggetti appartenenti alla galassia anarco-insurrezionalista che ha rivendicato l’attentato”.

Ci troviamo di fronte a un cambio di paradigma della procedura repressiva: se prima si dovevano avere delle prove da associare a dei presunti sospettati, adesso si trovano dei sospettati predeterminati su cui cucire le prove.

Una vera e propria schedatura genetica su base ideologica, che colpisce non solo le individualità anarchiche e le loro azioni, ma anche chi ha inteso portare la propria solidarietà sostenendo, ciascuno secondo il proprio sentire e con le proprie modalità, lo sciopero della fame di Alfredo e la lotta contro il regime di tortura del 41 bis.

Ribadiamo la nostra solidarietà alle persone indagate, braccate dagli sbirri e costrette a farsi prelevare il DNA. Ribadiamo che aldilà dei fantasiosi castelli inquisitori e delle fantomatiche associazioni eversive, in quei giorni nelle strade e nelle piazze al fianco di Alfredo, a dire che il 41 bis è tortura e che il carcere uccide c’eravamo tutte e tutti…

Più forte dell’amore per la libertà c’è solo l’odio per chi ce la toglie

Compagne solidali

VOCI DALLA VORAGINE DEL 41BIS

Senza nessuna fiducia nello Stato, nella legalità e nella democrazia, men che meno in un qualunque Dio, riceviamo e pubblichiamo questa dolorosa testimonianza dalla voragine del 41bis.

Sappiamo che le donne subiscono spesso il carcere anche quando il carcere non lo vivono direttamente sulla propria pelle. Donne, madri, mogli, sorelle, cui spesso è scaricato il lavoro di cura della famiglia, dei figli, oltre che il compito di sostenere fratelli, compagnx, mariti e padri detenuti, con lo sfinimento che implicano le visite, il pregiudizio della società, della famiglia, dei vicini, le lunghe attese, i controlli e le ispezioni corporali, gli interminabili viaggi di andata e ritorno, le spese sistematiche ed elevate, la perdita della propria vita privata, le ripercussioni sul proprio lavoro, dei propri sogni e progetti.

I pronunciamenti marziali dei tanti politici e campioni della legalità che esortano una guerra santa alla mafia, difendono proprio la stessa democratica barbarie che la necessita e produce.

IL 41BIS È TORTURA!

Di seguito il testo:

“Sono la moglie di un detenuto ristretto dal 2008. Quando mio marito è stato arrestato, non immaginavo l’abisso che si celava dietro le mura del 41 bis, un universo di isolamento estremo e sofferenza umana. La mia fiducia nella giustizia è stata scossa quando ho visto mio marito tornare dalla detenzione con ematomi alla testa e lividi in faccia. Nel 41 bis, il peso della punizione sembra superare ogni limite umano.[…]”

“Sono la moglie di Pasquale Condello, un uomo detenuto dal 2008 nel regime del 41 bis. La mia storia inizia quando ero una giovane appena diplomata e incontrai per la prima volta Pasquale, nel 1982. All’epoca, lui aveva trent’anni, leggermente più grande di me. Nonostante provenissi da una famiglia tranquilla con genitori commercianti, la mia vita prese una svolta quando decisi di fidanzarmi con lui. Pasquale aveva solo due anni di pena definitivi da scontare, e speravamo che potesse mettere da parte il suo passato e lavorare con suo fratello nel settore dei sanitari e delle ceramiche. Purtroppo, le brutte sorprese non tardarono ad arrivare. Appena sposati, mentre aspettavo la nostra prima figlia, Pasquale venne arrestato per scontare gli anni di pena rimasti. Ma la tragedia colpì ancora più duramente quando scoppiò la guerra di mafia a Reggio Calabria, da quel momento, la mia vita è stata segnata dalla sofferenza”. (Nell’ottobre del 1985, scoppia un’autobomba a Villa S. Giovanni nei riguardi di Antonino Imerti; qualche giorno dopo venne ucciso Paolo De Stefano e il 13 gennaio 1986 uccisero il fratello di Pasquale, anche se lui era estraneo agli eventi). “La guerra portò solo morte e distruzione, e Pasquale era in carcere, lontano dagli eventi ma comunque coinvolto indirettamente. Nel 1991, finalmente, la guerra ebbe fine, ma i segni indelebili rimasero nella nostra città. Molte madri, mogli e fratelli erano stati uccisi, e nessuno potrà più riabbracciare i propri cari. Le guerre portano solo distruzione e morte, e non vi sono motivazioni valide per scatenarle, specialmente per interessi economici. Spesso piangevo al pensiero che mio figlio maschio potesse un giorno essere ucciso o finire coinvolto in organizzazioni criminali. Ho cresciuto i miei tre figli da sola, con l’aiuto della mia famiglia, ringraziando Dio per il loro sostegno. Oggi, dopo tanti anni, la situazione non è migliorata. Pasquale è ancora in isolamento in regime di 41 bis, mentre io e i nostri figli viviamo nell’incertezza e nella paura per il suo futuro. La speranza è che possa ricevere le cure di cui ha bisogno e che possiamo riunirci come famiglia, nonostante le avversità che ci separano. Nel 2008, dopo una lunga latitanza, mio marito è stato arrestato e portato nel carcere di Parma dove, ci raccontò, di aver subito torture. Nonostante la sofferenza di non poterlo abbracciare, riuscivamo a vederlo dietro un vetro una volta al mese.

Anche i nostri nipotini erano felici di vederlo, ma quando Pasquale iniziò ad avere problemi psichiatrici, decidemmo di non portarli più in visita, per rispetto nei suoi confronti. Nel 2012, Pasquale fu ricoverato per ematomi alla testa, e noi venimmo a saperlo casualmente, poiché non fummo informati dalla direzione del carcere”. ( Inizialmente detenuto nel carcere di Parma, precisamente nell’area riservata nota come “super 41 bis”, Pasquale manifestò allucinazioni e lamentò di ricevere scosse elettromagnetiche. In seguito una testimonianza ci svelò dettagli sulla sua cella, descritta come notevolmente diversa, con un aspetto più simile alla “cella liscia/nuda). “La sua salute mentale peggiorava, e ciò ci riempiva di preoccupazione. La situazione era diventata insostenibile, ma non potevamo abbandonarlo. La nostra famiglia continuava a sperare in un cambiamento, nella possibilità di riunirci e di vederlo guarire. Non abbiamo potuto vederlo, non ci è stato permesso, solo l’avvocato è potuto andare quando era ricoverato in ospedale. Dopo 9 anni di detenzione a Parma, è stato trasferito nel carcere di Novara. Eravamo speranzosi che fosse meglio per lui, che ci fossero meno torture, ma il primo colloquio è stato devastante. Abbiamo visto che delirava, diceva cose senza senso, vedeva e sentiva persone estranee alla sua situazione carceraria. Abbiamo capito che stava male, i test hanno confermato che era affetto da disturbi psichiatrici. La situazione è peggiorata durante il lockdown: non siamo potuti andare in visita, abbiamo potuto solo telefonare al carcere qui a Reggio Calabria”. (Durante la pandemia, i familiari si dirigevano al carcere di Reggio Calabria e dovevano presentare la documentazione necessaria, poiché non era possibile ricevere telefonate normali a causa del regime 41 bis). “Ad un certo punto, ha smesso di voler parlare, ha rifiutato colloqui con noi, con l’avvocato, persino con i medici che volevamo mandare per visite”. ( Da febbraio 2021 Condello, che si trova nel carcere di Novara, rifiuta ogni incontro con i figli, la moglie, i legali ed i medici ). “Non sappiamo nulla di lui, non lo vediamo, non riceviamo notizie. Immagino come possa essere in questo periodo, ma la sua condizione mi tormenta. Non so se si cura, se si fa la barba, se ha i capelli lunghi o come si veste. Non mi manda più indumenti da anni, non so in che condizioni possa essere, e questo è un grande dolore per me. Quando andavamo a vederlo in carcere e facevamo i colloqui con i miei figli, eravamo contenti perché almeno lo vedevamo e, quando stava bene, anche colloquiava con loro, dando consigli e parole che ci facevano stare bene. Ora non lo vediamo più, non abbiamo più notizie. Non riesco a descrivere questo dolore che mi pesa nel cuore. Cerco di vivere la mia vita normalmente, lavoro come insegnante e cerco di mettere da parte questo dolore, ma nel mio cuore c’è sempre questo chiodo che mi fa male, soprattutto pensando ai miei figli che soffrono tanto. La nostra speranza è di vederlo agli arresti domiciliari, anche se sappiamo che è difficile per il suo nome pesante. Vogliamo che venga curato, che sia messo in una struttura dove possa ricevere le cure di cui ha bisogno, perché vogliamo tornare a vivere come una famiglia normale, a poter fare colloqui e parlare con lui tranquillamente. Non possiamo abbandonare un malato nelle carceri, non è giusto, non è corretto in uno Stato democratico. Viviamo nell’angoscia di ricevere una brutta notizia da un momento all’altro e non possiamo permetterci di aspettare ancora tanto senza notizie. Vivere con questa incertezza è un incubo per me e per i miei figli. Cerco di mettere da parte questi pensieri durante la giornata, ma la sera, quando vado a letto, mi sembra di impazzire. Mio marito rifiuta tutto, non sappiamo come aiutarlo, ci sentiamo impotenti. Cerchiamo di prenderlo, ma sembra sfuggirci da tutte le parti. La sua vita è chiusa dentro quella cella, e non sappiamo più cosa fare. Anche se non sappiamo come, mio marito rifiuta completamente il mondo fuori e non legge neanche la corrispondenza che riceve. I miei nipotini, specialmente i gemellini, mi chiedono spesso del nonno Pasquale, chiedendo perché non lo vedono mai. Vorrebbero tanto conoscerlo e gli prometto che prima o poi lo vedranno, ma la situazione è difficile da spiegare ai bambini. Queste sofferenze si aggiungono a tutte le altre che già viviamo. Ultimamente, una delle mie figlie si è sposata e ha avuto un’altra nipotina. Mio marito non lo sa, e non abbiamo idea se abbia ricevuto le lettere che gli abbiamo mandato per informarlo.

Anche mio figlio si è sposato quest’anno, ma non sappiamo se abbia avuto modo di ricevere la notizia. Nonostante tutto, la vita deve andare avanti, e cerchiamo di trovare conforto nelle piccole cose. La mia fede in Dio è ciò che mi dà la forza di andare avanti, insieme al sostegno della mia famiglia e al lavoro. Non riesco a immaginare quanto mio marito stia soffrendo, e vorrei tanto poterlo sentire e vedere che sta bene. La sua salute e il suo benessere sono sempre nelle nostre menti, e non vediamo l’ora di poterlo riabbracciare. Per ora, ci aggrappiamo alla speranza di vederlo trasferito in una struttura adeguata, dove possa ricevere le cure di cui ha bisogno. Questo è il nostro desiderio più grande, anche se sappiamo che il percorso sarà lungo e difficile. Ma continueremo a lottare per lui e a sperare che un giorno possa tornare a casa, dove merita di essere. Il mio grande dilemma è che mio marito, pur avendo subito torture in passato, rifiuta assolutamente qualsiasi cura in carcere. Non ha fiducia nei medici, né nelle carceri, né nelle medicine che gli vengono somministrate. La nostra speranza come famiglia è che possa essere trasferito in una struttura adeguata, mantenendo eventualmente il regime 41 bis. Attualmente, il carcere non è un ambiente adatto per la sua malattia e ci aggrappiamo alla speranza che possa ricevere le cure di cui ha bisogno. Sono orgogliosa di come ho cresciuto i miei figli. Nonostante le difficoltà e il coinvolgimento passato del padre in situazioni criminali, sono tutti impegnati nel loro lavoro e hanno costruito una vita onesta. Anche se uno dei miei figli è stato arrestato in passato, ritengo che non abbia meritato quelle accuse. La legalità è un valore fondamentale per me, insegnare ai miei alunni il significato di questo concetto è parte integrante del mio lavoro. Quando vedo ragazzi disinteressati allo studio, cerco sempre di far loro capire l’importanza dell’istruzione. Lo studio non solo apre la mente e le opportunità di lavoro, ma può anche proteggerli da scelte sbagliate che potrebbero compromettere il loro futuro. Ho reso la promozione della legalità e dell’istruzione un impegno costante nella mia vita e nel mio lavoro di educatrice. Spero che chiunque abbia il potere di fare qualcosa per aiutare i malati nelle carceri rifletta sulla gravità della situazione e si adoperi per fare la propria parte nell’assistenza a coloro che ne hanno bisogno”.

(Nel 2022, l’associazione Yairaiha, impegnata nella difesa dei diritti dei detenuti, aveva evidenziato la grave condizione psichiatrica trascurata di Condello. L’appello rappresentava un vigoroso richiamo alla giustizia, non solo per la trasparenza, ma anche per assicurare il diritto alla salute, persino nel contesto del regime 41 bis. L’ex boss dell’ndrangheta Pasquale Condello, noto come ‘U Supremu, ha ricevuto una dura condanna di 4 ergastoli e 22 anni di reclusione. La sua discesa negli abissi inizia a Parma, tra allucinazioni e lamentele di scosse elettromagnetiche. Una spirale di malattie mentali lo avvolge, trasportandolo in un regno di sofferenza inimmaginabile. La sua famiglia è intrappolata in un limbo di angoscia per il suo destino, senza notizie da oltre tre anni. A causa delle sue patologie, Condello rifiuta le cure indispensabili, creando un’ombra sulla sua già difficile strada. La data del fine pena, è previsto il 31/12/9999 distante 7975 anni, 797 secoli da oggi, si presenta come una condanna senza prospettive, una pena di morte mascherata dallo Stato. Un verdetto privo di futuro diventa una forma di tortura, creando una trama di sofferenza che abbraccia non solo lui ma anche coloro che gli sono vicini ).

Luna Casarotti, Associazione Yairaiha ETS


Lo sportello di supporto psicologico per i familiari dei detenuti, da cui prende le mosse anche questa rubrica, va allargandosi progressivamente. Non solo vi partecipano i familiari delle persone uccise dal carcere, ma anche i familiari dei detenuti che vivono un calvario all’interno del sistema penitenziario a causa di patologie non conciliabili con la detenzione, mancanza di cure fisiche e psicologiche. Vi sono inoltre ex detenuti che hanno vissuto l’oscurità delle celle e che condividono la propria storia. Tutti sono benvenuti a partecipare, ogni contributo è importante. Le riunioni si svolgono ogni venerdì dalle 17:45 alle 20:00. Il link per accedere alla riunione settimanale viene pubblicato qualche giorno prima dell’incontro sul gruppo Telegram “Morire di carcere” e su quello Whatsapp “Sportello di supporto psicologico per i familiari dei detenuti” . Adesioni e lettere possono essere inviati all’indirizzo e-mail dell’associazione Yairahia Ets (yairaiha@gmail.com).

TESTO PDF – Condello Pasquale