COME L’EGITTO ANCHE L’ITALIA TORTURA E UCCIDE NELLE CARCERI

Assistiamo in questi giorni a una grande ipocrisia istituzionale circa il ritorno in italia di Patrick Zaki, arrestato in Egitto a febbraio 2020 e detenuto fino a dicembre 2021. Il processo si conclude il 18 luglio 2023, con una condanna a tre anni e mezzo di reclusione da parte del tribunale egiziano. Il giorno dopo, il presidente Al-Sisi gli concede la grazia, e Patrick ritorna in Italia con tutti gli onori del caso.

Non possiamo che accogliere con gioia la notizia del suo ritorno in libertà, tuttavia non possiamo restare cieche di fronte alla grandissima ipocrisia di politici e media mainstream. Da destra a sinistra, da Giorgia Meloni a Matteo Lepore, la liberazione di Patrick Zaki è stata presentata come un successo raggiunto grazie a una strenua battaglia portata avanti dal governo italiano, culla di “civiltà” e dei “diritti umani”.

Noi non ci stiamo a questa retorica fuorviante, smascheriamo la vostra ipocrisia ricordando che esattamente come l’Egitto anche l’Italia tortura e uccide nelle carceri!

Ricordiamo i 40 suicidi in carcere dall’inizio del 2023.
Ricordiamo i 14 detenuti ammazzati durante le rivolte in carcere nel 2020, l’omertà diffusa volta a insabbiare la responsabilità di secondini, medici e dirigenti.

Ricordiamo Liborio Davide Zerba e Victor Pereshchako, due detenuti morti nel carcere di Augusta, in Sicilia, mentre conducevano uno sciopero della fame nel silenzio più assordante.
Ricordiamo Domenico Porcelli, attualmente in sciopero della fame nel carcere di Bancali contro il 41 bis.
Ricordiamo Diana Blefari Melazzi, morta suicida in regime di carcere duro (tolta dal 41 bis a causa delle sue condizioni psico fisiche e trasferita a Rebibbia dove si è suicidata).
Ricordiamo il compagno anarchico Alfredo Cospito che per oltre 6 mesi ha portato avanti uno sciopero della fame contro la tortura democratica del 41-bis, a cui è attualmente sottoposto.
Ricordiamo Nadia Lioce, detenuta da 17 anni nello stesso regime.

Ricordiamo tutte le persone lasciate affogare in mare.
Ricordiamo le torture a Bolzaneto e alla Diaz e tutte le persone che hanno trovato la morte in una cella, in una caserma, ad un posto di blocco, per colpa del braccio armato dello Stato!

Ricordiamo chi ha la responsabilità di tutto questo! Basta ipocrisia, basta passerelle istituzionali!

ANCHE LO STATO ITALIANO TORTURA E UCCIDE NELLE CARCERI
NO 41 BIS
FUOCO ALLE GALERE

GLI INTERESSI MILITARI DIETRO AL PONTE SULLO STRETTO DI MESSINA

L’INSOSTENIBILE PONTE SULLO STRETTO SPINTO DAL GOVERNO PER COLLEGARE BASI NATO

Il Ponte sullo Stretto di Messina non è solo un’infrastruttura devastante dal punto di vista sociale, economico e ambientale ma rappresenta anche il cavallo di Troia per legittimare l’ulteriore escalation del processo di militarizzazione e riarmo della Sicilia e del Mezzogiorno d’Italia, accelerando la conversione del territorio in piattaforma avanzata per le operazioni di guerra e distruzione del pianeta. Il progetto rientra nel Trans-European Transport Network (TEN-T), il cui scopo, tra gli altri, è quello di creare una rete in grado di soddisfare “un piano di azione sulla mobilità militare 2.0″. A sostenerlo economicamente ci pensa l’UE con i finanziamenti provenienti dal Connecting Europe Facility (che finanzia progetti di infrastrutture di trasporto a duplice uso) e dal Fondo Europeo per la Difesa (che sostiene lo sviluppo di sistemi logistici e digitali interoperabili).

Antonio Mazzeo su Radio Onda Rossa


Gli interessi militari dietro al ponte sullo stretto di Messina

OPUSCOLO: LA TRANSIZIONE ALLA GUERRA IN CASA

Riceviamo e diffondiamo questi appunti sulla ristrutturazione energetica e digitale delle forze armate, il suo contesto e il mondo che prepara.


Introduzione

Che il complesso militare nostrano si sia mosso con crescente determinazione nella direzione di una sempre più accentuata penetrazione nella cosiddetta “società civile” è un fatto che si è reso sempre più evidente negli ultimi decenni, con una più marcata accelerazione in tempi recenti dettata dalle esigenze della ristrutturazione capitalistica in corso e dagli equilibri politico-militari globali in via di ridefinizione.

La società e la sua cultura sono sempre più penetrare e irradiate dei valori e dei modelli del bellicismo, in funzione dei vecchi e nuovi interessi del complesso tecno-industriale e finanziario. Come ha notato qualcuno, “la logistica della guerra” segue (e anticipa) le velocità, le maniere e, aggiungiamo, le necessità dello Stato capitalista, ne mutua il paradigma di produzione just in time come adeguamento quasi in tempo reale ai mutamenti e ai bisogni del momento.

Dalla firma nell’ormai lontano dicembre 2017 di un protocollo di collaborazione nei progetti di alternanza scuola-lavoro tra il Ministero della Difesa e quelli di Lavoro, Istruzione e Università e Ricerca, alla stipula, il 24 febbraio 2022, di un accordo tra i rappresentanti della Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (CRUI) e la Fondazione Leonardo Med-Or di Marco Minniti, al fine di “promuovere attività culturali, di ricerca e formazione scientifica”; dall’istituzione, nel febbraio 2023, di un “Comitato per lo sviluppo e la valorizzazione della cultura della difesa” che dovrebbe, nelle parole del ministro guerrafondaio Guido Crosetto, spostare l’attenzione “anche sull’impatto che la difesa nel suo complesso ha sulla vita di tutti i giorni” grazie all’aiuto di una schiera di servi volontari economisti, giornalisti, intellettuali, accademici, dirigenti d’azienda, all’ormai strutturale penetrazione del comparto bellico industriale in tutte le università italiane, centri di ricerca e laboratori, dipartimenti e consorzi interuniversitari, la lista delle brecce aperte in quasi tutti gli ambiti appare già ampissima e in continua e inarrestabile espansione.

Si assiste alla stretta relazione tra l’evolvere di nuovi scenari bellici a scala globale e l’aumento esponenziale della militarizzazione interna, non solo in termini di sempre più pervasiva presenza militare e poliziesca nei territori, ma anche e non secondariamente, in termini sociali e culturali, per non parlare delle ormai dilaganti strette repressive.

Un tema passato forse un po’ sottotraccia, di cui si è parlato meno, è quello legato al processo di ristrutturazione energetica e logistica che le forze armate, non solo nostrane, stanno intraprendendo e agli obiettivi ad essa strettamente connessi. Ad eccezione infatti di alcuni grandi contesti metropolitani o comunque locali, sembra che la questione degli smart military district e delle caserme verdi dell’Esercito, degli aeroporti azzurri dell’Aeronautica e delle basi blu della Marina militare, di cui si inizia a parlare intorno al 2019, raggiunga raramente gli onori delle cronache nazionali. Ed è proprio a partire da una situazione locale interessata da uno di questi progetti che si è sentita la necessità di iniziare una ricerca sul tema, nel proposito di fornire un primo contributo alla conoscenza dei mutamenti in atto e in procinto di essere attuati all’interno del comparto bellico nostrano nella prospettiva di scenari di conflitto futuri.

Questo contributo, molto lungi, come si vedrà, sia dall’essere esaustivo sia dal voler affrontare la grande complessità della materia oggetto di indagine nella sua interezza, i cambiamenti in atto nel settore militar-industriale – tanto nostrano quanto globale – e la complessità delle sue sempre più strette relazioni dual use con l’ambito civile, si propone di gettare un po’ di luce sui progetti che la difesa sta avviando nella direzione di una generale preparazione a futuri scenari bellici sul fronte interno, nascosti, manco a dirlo, dietro le tende della transizione green e digitale.

Link al testo pdf: Transizione alla guerra in casa_ lettura  
Transizione alla guerra in casa_stampa

AGGIORNAMENTO SU ZAC

E’ stata notificata dal P.M. l’apertura del processo con rito immediato per Zac, arrestato a Pozzuoli (Napoli) il 28 marzo e attualmente prigioniero nel carcere di Terni. Il rito immediato richiesto dal P.M. prevede che venga saltata la fase dell’udienza preliminare (g.u.p). La prima udienza si terrà quindi direttamente in corte d’assise il 13 settembre a Napoli.

Solidarietà e complicità, Zac libero!

Per scrivere a Zac:
Marco Marino
c.c di Terni
Strada delle Campore, 32
05100 Terni
Per chi volesse inviare contributi a sostegno invitiamo a spedire soldi tramite bonifico bancario:
IBAN: IT07V3608105138299544199741
Codice BIC/SWIFT: PPAYITR1XXX
Intestario: Luca d’Esposito
Causale: ricarica

BOLOGNINA: UN DESERTO CHIAMATO SICUREZZA

Questo testo affronta gli ultimi risvolti di un attacco iniziato da tempo al quartiere Bolognina (Bologna), un processo che, seppur nelle sue specificità, non è differente da quanto stanno subendo altre città e territori: la speculazione e la cementificazione chiamata “riqualificazione”, la strumentalizzazione “dell’emergenza droga” e “dell’allarme sicurezza”, la discriminazione della popolazione migrante, la militarizzazione della vita quotidiana, il progressivo restringimento della sanità e dei servizi. Una realtà in cui la sistematica distruzione di comunità e territori è l’esito di quella violenza istituzionale che si nutre di politiche razziste, proibizioniste e repressive, per sostenere e alimentare economie assassine e rendere più docili le classi sfruttate. Città in cui il continuo rinforzarsi delle retoriche della legalità e del decoro si traduce negli abusi sempre più legittimati delle forze dell’ordine e nella violenza del carcere. Un tempo che rende sempre più evidente la necessità di sovvertire l’esistente e lottare.


Con il patto integrato sulla sicurezza tra Prefettura e Comune di Bologna siglato durante la visita in città del ministro dell’interno Piantedosi del 21 gennaio, l’amministrazione bolognese ha inaugurato una nuova stagione repressiva per dare il colpo definitivo a quei quartieri nel mirino dei piani di “pulizia”, “riqualificazione” e messa a profitto della città, non ancora del tutto asserviti all’ideologia della sicurezza e del decoro.

Lo Stato c’è e si deve vedere” aveva detto Piantedosi; lo abbiamo visto e lo stiamo vedendo.

SPECULAZIONE ED “EMERGENZA DROGA”

La Bolognina in particolare negli ultimi mesi è stata oggetto di un feroce accanimento mediatico volto a normalizzare una militarizzazione della vita pressoché quotidiana. Con le retoriche della lotta al “degrado” e alla “droga” si stanno legittimando agli occhi dell’opinione pubblica sistematici interventi di polizia per le strade, che, a ben vedere, non hanno mai inciso e non incideranno affatto sulle “criticità” millantate, anzi, le esaspereranno ulteriormente, isolandole sempre più.

Oggetto del terrore la così detta “m-i-c-r-o-c-r-i-m-i-n-a-l-i-t-à”, una categoria in cui fasce già marginalizzate di popolazione vengono liquidate come problema di ordine pubblico.

Non spaventa il problema di un diffuso impoverimento, di un sostentamento e di una vita sempre più difficile per moltx, di un accesso alla casa sempre più proibitivo, delle barriere che deve affrontare chi è senza documenti e senza diritti di cittadinanza; non interessano realmente le problematiche legate all’uso e all’abuso di sostanze legali o illegali ecc. Ciò che interessa è soprattutto che tutto ciò non si veda, disturbi o intralci i progetti di speculazione.

Il 18 luglio si è tenuta in Bolognina una riunione della “cabina di regia” istituita col Patto sulla sicurezza, in cui, in continuità con la strategia avviata a gennaio, è stato deciso un ulteriore inasprimento dei controlli “al fine di prevenire e reprimere la vendita e il consumo di sostanze stupefacenti”. Il Sindaco ha colto l’occasione per fare la sua passerella promozionale tra i commercianti e gli abitanti della zona nel tentativo di esacerbare e strumentalizzare quelle difficoltà, pressoché endemiche, espressione di un quartiere storicamente popolare.

Dopo gli “street tutor” in centro arrivano le nuove ronde di periferia, riqualificate per l’occasione come “sentinelle di condominio”. A promuovere il fascino discreto della delazione questa volta Confabitare, associazione per la tutela della proprietà immobiliare che nel 2020, insieme ad Ape-Confedilizia Bologna, si schierò contro la proroga del blocco sfratti, e che nel 2022, in prima linea contro il “degrado”, ha firmato il protocollo di intesa col Comune di Bologna contro il “vandalismo grafico”, per la rimozione dei graffiti in città.

Dopo aver chirurgicamente fatto a pezzi comunità, sfrattato famiglie, addomesticato realtà e sgomberato spazi sociali, in un contesto di delega e atomizzazione generalizzato, l’amministrazione si appresta a colpire ancora la Bolognina in nome della “legalità” e della “lotta alla droga”, esasperando quella guerra tra poveri utile soltanto ai padroni, cavalcando con retoriche emergenziali quello scarto presente tra sicurezza reale e percepita, e incoraggiando sentimenti quali la paura e la diffidenza tra persone, per una “sicurezza” che ha sempre meno a che fare con la solidarietà e le “comunità”, parole ampiamente abusate dall’amministrazione di questa città, e sempre più con l’esercizio della disciplina e dell’ordine pubblico.

Trattare il consumo di sostanze psicotrope, legali o illegali, in termini sensazionalistici, o liquidarlo come qualcosa da “estirpare”, come avvenuto in questi giorni con le passerelle del Sindaco e la spettacolarizzazione di operazioni “antidroga” dal tempismo quantomeno sospetto – comprese di scenografici elicotteri a sorvolare il quartiere – si inserisce in una propaganda volta per lo più a promuovere speculazioni economiche e manovre politiche.

Militarizzare la bolognina, rastrellare “casa per casa” per “passare al setaccio” con squadre di polizia “le cantine dello spaccio” e riempire il quartiere di agenti in borghese, non migliorerà la vita di chi ha un utilizzo problematico di sostanze legali o illegali, o di chi già subisce discriminazioni di classe, genere, razza e cittadinanza, ne peggiorerà la condizione. Un’occasione per “ripulire” la zona e preparare il terreno a quei progetti di riqualificazione, museificazione e turistificazione pianificati da tempo dall’amministrazione, che esaspereranno ulteriormente l’accesso alla casa e alla reale vivibilità del quartiere.

RAZZISMO ISTITUZIONALE

La sovrarappresentazione della popolazione straniera nel discorso pubblico quando si parla di “allarme sicurezza” è lo specchio della violenza del razzismo istituzionale, e della paura e del pregiudizio che questo riproduce nella “società civile”, piuttosto che di una reale “emergenza sicurezza” in “correlazione con l’immigrazione”, un’equazione distorta e riduzionista.

La dinamica è la stessa subita da chi migrava dalle regioni del sud Italia.

Naturalizzare lo stato di subordinazione che molta popolazione migrante e straniera subisce in termini di sfruttamento, discriminazione, diritti, è utile soltanto a Stato e padroni che si nutrono di questo allarmismo per portare avanti le loro economie assassine.

LE RILEVAZIONI DEI SERVIZI PER LE DIPENDENZE A BOLOGNA

Volendo prendere in considerazione le statistiche e le relazioni – parziali – fornite dall’Ausl di Bologna, queste identificano due categorie di consumatori che si rivolgono ai servizi per le dipendenze (SerD): i consumatori considerati “socialmente integrati”, indicati in aumento, persone pressochè inserite nel tessuto sociale e produttivo, coinvolte in particolare dal consumo problematico di alcol e cocaina, o come policosumatori, consumatori problematici di più sostanze – legali e/o illegali – e non di una sola sostanza elettiva (anche qui con la prevalenza di alcol e cocaina), e i consumatori considerati “socialmente marginalizzati”, una fascia di popolazione indicata in cambiamento (per età media e consumo) ma non in aumento per quanto riguarda l’afferenza ai servizi. Si tratta di una categoria di consumatori costituita in gran parte da persone ai margini del tessuto sociale, fuori dal processo produttivo, con scarsa disponibilità economica e spesso con problemi legati alla legge (consumatori di sostanze assunte per via innettiva, oppioidi, cocaina e consumatori di crack, sostanza il cui utilizzo si sta allargando e che sembra sostituire nel consumo l’eroina). L’Ausl indica che per ogni persona che si rivolge ai servizi sanitari per difficoltà di questo tipo, ce ne sono almeno altre cinque che non lo fanno. Per quanto riguarda la popolazione migrante l’accesso ai servizi resta difficile e complicato, sia per la burocrazia e le norme legate ai documenti, sia per le barriere linguistiche.

LA TESTIMONIANZA DI UNA LAVORATRICE

La testimonianza di un’operatrice ci informa di come all’interno dei SerD bolognesi (Servizi per le dipendenze) sia sempre più privilegiato un approccio burocratico, medicalizzante, psichiatrizzante e contenitivo, con ampio abuso della delega agli psicofarmaci nel “trattamento”, mentre trova sempre meno spazio la relazione, l’ascolto e la possibilità di accesso a supporto sociale concreto. Emerge un problema specifico per quanto riguarda la popolazione non residente, senza documenti e senza fissa dimora, per cui i servizi sono drasticamente ridotti e di minor qualità.

Aumenta anche il numero delle così dette “doppie diagnosi”, persone con problematiche di dipendenza certificate e una concomitante valutazione psichiatrica, in carico quindi contemporaneamente ai Serd (servizi per le dipendenze) e ai Csm (Centri per la salute mentale). Questo non necessariamente si traduce in un miglioramento dell’offerta di sostegno, anzi, spesso e volentieri determina un processo di delega e “rimpallo” tra servizi che può paralizzare percorsi e possibilità, oltre che determinare un accavallamento delle figure professionali coinvolte, generando lentezze e a volte confusione nella persona. Viene inoltre segnalato come tra le persone migranti in condizioni di fragilità sia diffuso l’abuso di rivotril e crack. In generale i tempi di attesa per una “prima visita” in alcuni servizi possono essere estremamente lunghi, in particolare in quello alcologico e in quello istituito per la popolazione considerata “vulnerabile” non residente; medici e operatori non possono dedicare molto tempo a persona, un po’ per un’organizzazione socio-sanitaria assolutamente scellerata, insensata e inefficace, un po’ per la legittimazione di una cultura sempre più miope in tema di sostanze e mortificante per quanto riguarda la relazione d’aiuto, i ruoli delle “professionalità” coinvolte e la loro formazione.

TRA PROIBIZIONISMO, CRIMINALIZZAZIONE, REPRESSIONE E CARCERE

Davanti a questo quadro la risposta statale continua ad essere la criminalizzazione di intere fasce di popolazione, il progressivo depauperamento dei servizi pubblici territoriali e di prossimità, l’appalto sempre maggiore dell’assistenza a cooperative-azienda e a lavoro sfruttato, e lo speculare rinforzo di strategie e interventi di tipo securitario e carcerario, tanto che alla Dozza, carcere della città, davanti a celle bollenti come forni e un sovraffollamento che sta sfiorando il 160% della capienza consentita – oltre 800 detenuti a fronte di 500 posti previsti, quindi circa 300 persone recluse in più – dopo gli arresti sensazionali degli ultimi giorni si stanno bloccando i nuovi ingressi. Una situazione decisamente in contraddizione con i recenti tentativi di maquillage e “re-branding” volti a coprire la violenza strutturale che caratterizza l’istituto carcerario cittadino.

Nonostante i laboratori antiproibizionisti da oltre 20 anni indichino come l’unico modo per stroncare alla radice i narcotraffici sia la depenalizzazione della coltivazione di cannabis per uso personale e il commercio legale delle foglie di coca – come chiedono le popolazioni indigene sudamericane da decenni – le politiche repressive e la caccia alle streghe su categorie sociali già marginalizzate e stigmatizzate non si arresta, anzi, appunto, li arresta: gli ultimi dati indicano che circa il 35% della popolazione detenuta è in carcere per violazione della legge sulle droghe, e che oltre il 40% di chi finisce in cella in Italia fa uso di sostanze o ha problemi di dipendenza che spesso esordiscono o si cronicizzano/acutizzano proprio durante la detenzione, alla faccia del tanto declamato “recupero sociale”. Questo è accaduto grazie a leggi razziste, discriminatorie e liberticide come la Fini/Giovanardi, la Bossi/Fini, la Cirielli, le leggi sulla sicurezza volute da Minniti e Salvini. Politiche repressive il cui bersaglio non è mai stato il grande narcotraffico – un giro miliardario che allo Stato e alle sue mafie fa evidentemente comodo così – ma, come sempre, chi non ha documenti, mezzi di sostentamento, reti sociali o non è spendibile in termini di profitto.

IL TESTO UNICO DELLE LEGGI IN MATERIA DI DISCIPLINA DEGLI STUPEFACENTI

Nell’ordinamento giuridico italiano la detenzione di sostanze stupefacenti è sanzionata dal DPR n.309/1990, Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza. In particolare i due articoli rilevanti per quanto riguarda “droghe” e galera sono il 73, per il caso di detenzione ai fini di spaccio e il 75, per il caso di detenzione al fine di utilizzo personale.

L’articolo 73 recita “Chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I prevista dall’articolo 14, è punito con la reclusione da sei a venti anni e con la multa da euro 26.000 a euro 260.000”.

Questa legge continua a rappresentare la principale causa di ingresso nel sistema giudiziario italiano e di detenzione nelle patrie galere.

MANGIATE LE CAROTE RESTA SOLO IL BASTONE

Mentre sanità e servizi sprofondano inesorabilmente verso il baratro sotto gli occhi – e sulla pelle – di tutti, e le spese militari aumentano, le politiche della “tolleranza zero” si confermano strumento di governo delle diseguaglianze per il mantenimento dello status quo, una dissimulata guerra ai poveri e alle dissidenze volta ad isolare chi, per rifiuto o necessità, vive ai margini delle città, mirando a spostare questi margini, sempre un po’ più in là.

Distrutte comunità e legami, ridotti quegli ammortizzatori sociali che consentivano di scaricare parzialmente i danni prodotti dal capitalismo sulla “cosa pubblica”, accentuato lo sfruttamento, la precarizzazione e l’insicurezza lavorativa, non deve stupire il naturale determinarsi di situazioni di conflitto e attrito all’interno delle città, non riconducibili ad ambiti di compatibilità. Per neutralizzarli, esaurita la strada del welfare state, non rimane che quella repressiva. A noi, non resta che la lotta.


Link alla versione pdf del testo e alle note: UN DESERTO CHIAMATO SICUREZZA

LUNGO LENZUOLA ANNODATE

A Perugia come è accaduto altrove in Italia, i reparti antiterrorismo hanno trasmesso notifica ad alcuni compagne/i di un’indagine a loro carico per apologia di terrorismo e istigazione alla violenza (avvalendosi del solito 270 bis) motivata da uno striscione in solidarietà ad Anna Beniamino e Alfredo Cospito.

Condividiamo di seguito un testo del “Collettivo Lavanderine” diffuso da Osservatorio Repressione:

In questi afosi giorni estivi, a Perugia come nel resto d’Italia, le indagini sull’ondata di proteste contro 41bis ed ergastolo ostativo danno i loro primi frutti. Da Trieste a Roma a Bologna e per tutta la penisola, si mette in moto l’ingranaggio repressivo.

Per quanto concerne la nostra realtà, un amicx e compagnx è statx interrogatx per due ore da agenti del ROS (Raggruppamento Operativo Speciale) in merito a, udite udite… uno striscione. Un lenzuolo su cui era riportata una frase in solidarietà ad Anna Beniamino e Alfredo Cospito. I reati che si configurano sono istigazione alla violenza e apologia del terrorismo. Ecco spiegato perché ad occuparsene sono i reparti d’élite dell’Arma (come si autodefiniscono). Altrx amicx e compagnx, pescatx a caso tra le aree di movimento perugine, sono indagatx per “concorso” nei suddetti reati.

Il Paese può dormire sonni tranquilli, certo che la crème de la crème dei corpi speciali si dedica, infaticabile, alla repressione di biancheria sovversiva. Vi siete mai soffermatx a riflettere sulle potenzialità destabilizzanti delle trapunte? Ci si può scrivere sopra pensate, e, se annodate, possono essere mezzo di evasioni rocambolesche.

Per non parlare delle federe, con quel malcelato aspetto da sacco.

Loschi guanciali. Ora non vedete più l’apparentemente innocuo corredo de nonna sotto la stessa luce, non è vero?

Ci ridiamo su, ma di un riso amaro e a denti stretti, consapevoli che questo è solo l’inizio del solito copione: ramazzare gente a casaccio ed entrare nelle loro vite, passare al setaccio relazioni, infiltrarsi nel loro quotidiano, intimidire e mettere sotto pressione, tentando di avvelenare legami e isolare vittime sacrificali. Alla ricerca di inesistenti cellule terroristiche, fantomatici capi bastone e complotti sanguinari. Non ultimo, di facili opportunità di carriera nei reparti investigativi. “Un encomio per aver brillantemente risolto il caso della Banda Lenzuola, agente!”.

E siamo solo a metà spettacolo. Passata la fase di indagine, viene il momento di formulare ipotesi di reato arbitrarie e sproporzionate, per giustificare il proprio teorema e pesare al massimo su movimenti e collettivi, e in fondo per punire chi ha osato mettere in discussione lo status quo. Per castigo e per rappresaglia, nei confronti di sempre più persone e nel tentativo di reprimere anche i gesti più innocui (che, d’altro canto, qualcuno non sembra considerare tali. Ma se solo levare una voce contro uno strumento di tortura è giudicato una minaccia diretta all’ordine costituito, a voi trarne le conseguenze: si sta forse suggerendo che questo stesso ordine si regge su strumenti di tortura?)

Perché se ora parliamo di uno striscione in solidarietà ad un detenuto in sciopero della fame, altrove si tratta di vernice lavabile lanciata sui muri per cercare di destarci dal torpore con cui procediamo verso la catastrofe climatica. O ancora, di lavoratori colpevoli di aver rifiutato di essere sfruttato a morte. Tuttx terroristx, tuttx vandalx, tuttx associatx per delinquere. Tutti meritevoli di venire messx sotto la lente dell’antiterrorismo, e condannatx a pene individui. La lista si allunga di giorno in giorno, ma la vendetta a mezzo di tribunali e Forze dell’Ordine non conosce tregua. Ogni tanto qualcunx ci rimette la libertà, ogni tanto la pelle. Il più delle volte, sono anni passati nell’attesa snervante di un verdetto ingiusto, o a scontare assurde restrizioni che condizionano la propria vita nei più minimi particolari.

Ma è necessario per mantenere la quiete. Quella stessa quiete, quel vuoto assordante, in cui si può indisturbati seviziare e uccidere dentro carceri e cpr, contaminare e distruggere il pianeta che abitiamo, guardare esseri umani crepare alle porte della Fortezza Europa o nelle sue segrete, fare osceni profitti sulle schiene di uno stuolo di schiavx affamatx.

Solidali e complici con chi non si rassegna a questo stato di cose e cerca di cambiarlo, anche con un semplice lenzuolo. Chi pensa che ci basti sentire un po’ di fiato sul collo per disperderci e tornare nei ranghi, ha sbagliato i suoi calcoli. Noi ci muoviamo insieme, fosse anche in discesa lungo lenzuola annodate.

MOBILITIAMOCI PER DOMENICO


Riceviamo e diffondiamo dall’Assemblea permanente contro il carcere e la repressione del Friuli e di Trieste:

A cavallo tra il 2022 e il 2023, il rivoluzionario anarchico Alfredo Cospito ha rischiato di morire, conducendo uno strenuo sciopero della fame, che ha interrotto volontariamente, anche perché era chiaro che le istituzioni lo avrebbero volentieri lasciato morire. La sua lotta e il movimento di solidarietà e di appoggio nei suoi confronti ha messo sotto i riflettori pubblici, in maniera inedita, la barbarie del 41 bis e dell’ergastolo ostativo nel sistema penale e penitenziario italiano.

Nella scorsa primavera, altri due detenuti nel carcere di Augusta sono morti in sciopero della fame, stavolta però nel silenzio generale. Si chiamavano Davide Liborio Zarba e Victor Pereshchako, finiti nell’anonima conta dei morti da carcere che, in Italia, nel 2022 hanno raggiunto la cifra record di 214, e che nel 2023 sono già 83.

Ora un altro detenuto sta conducendo uno sciopero della fame contro il 41 bis: Domenico Porcelli, rinchiuso nel carcere di Bancali, le cui condizioni di detenzione si stanno deteriorando pesantemente.
Per rompere il silenzio omertoso di regime, per compiere un minimo gesto di solidarietà con la lotta di Domenico, per tentare di impedirne l’omicidio di Stato, scriviamo in massa delle mail al ministero della giustizia – dipartimento amministrazione penitenziaria.
dgdetenutietrattamento.dap@giustizia.it – prot.dgdt.dap@giustiziacert.it

Mobilitiamoci MARTEDÌ 25 LUGLIO tra le 9 e le 13, intasiamo le mail dei funzionari con questo testo base:

«Esprimo la mia solidarietà con la lotta di Domenico Porcelli contro la tortura del 41 bis. Non voglio venga lasciato morire. Toglietelo immediatamente da quel regime di annientamento psico-fisico. Contro la tortura mafiosa di Stato non intendo stare in silenzio!».

AGGIORNAMENTI SU DOMENICO PORCELLI DAL CARCERE DI BANCALI

Domenico è sceso sotto i 59 kg, l’avvocata l’ha trovato pelle e ossa, con dolori in tutto il corpo e incredulo sul fatto che nessuno lo vada ad ascoltare e a dare risposte. L’udienza del 41bis a Roma fissata per il 20 Ottobre, quando saranno passati 8 mesi dall’inizio dello sciopero della fame. Come se non bastasse, il Tribunale di Sorveglianza di Sassari ha dichiarato inammissibile la richiesta di differimento pena per gravi motivi di salute che era stato attivato d’ufficio.

FACCIAMO GIRARE E NON LASCIAMOLO SOLO!

NUOVA OPERAZIONE A TORINO

Diffondiamo:

Nei giorni scorsi la polizia di stato ha notificato a due compagni l’obbligo di firma trisettimanale in merito a delle lesioni provocate durante una colluttazione nel corteo del 5 dicembre a Torino.

Il pm Scafi (che ha affiancato Saluzzo durante il processo scripta manent) aveva chiesto 13 misure cautelari: una custodia in carcere per istigazione a delinquere riguardo ai contenuti degli interventi pubblici espressi in svariate occasioni a Torino; 3 arresti domiciliari per i fatti del 5 dicembre di cui sopra; 9 obblighi di firma, di cui 4 per resistenza durante una azione di disturbo nella chiesa della Gran Madre a Torino e 5 per istigazione a delinquere in merito ai cori scanditi in aula durante l’udienza al tribunale di Torino del 5 dicembre.

Il gip ha rigettato in toto le richieste del pm salvo imporre l’obbligo di firma per i due compagni in quanto pregiudicati (il terzo infatti non ha avuto misure poiché non gravato da precedenti).

L’operazione si inserisce nel contesto generale repressivo riguardo alle mobilitazioni durante lo sciopero della fame di Alfredo Cospito, operazioni che hanno già colpito diverse realtà.

Ribadiamo la nostra solidarietà ai compagni e alle compagne in carcere, ad Alfredo ancora sequestrato in 41bis, ai compagni e compagne con le misure.

Che la lotta continui!
Per l’anarchia

Solidali e complici