SARDEGNA: COMPLICI E SOLIDALI CON LUCA

Diffondiamo

Venerdì scorso è stato arrestato e messo ai domiciliari, Luca, compagno sardo. Per un corteo che vi era stato qualche settimana prima a Cagliari contro l’occupazione militare dell’isola e per la Palestina.
Il suo arresto è stato proprio il giorno prima della manifestazione contro la base militare di Decimomannu, in cui i manifestanti sono riusciti ad entrare nell’area e il lancio di lacrimogeni da parte delle forze dell’ordine ha provocato alcuni incendi.
Quelle che seguono sono le parole di Luca, a cui ci stringiamo con affetto, solidarietà e complicità.

“I fatti sopra descritti possono essere considerati indici di un’indole incline alla prevaricazione e alla sopraffazione, specie nei confronti delle istituzioni militari, sintomatica di una personalità pericolosa e socialmente allarmante.”
Con queste parole, tra le tante, nel pomeriggio di ieri 13 giugno, è stato disposto il mio arresto domiciliare in seguito ai fatti avvenuti il 10 maggio a Cagliari durante un corteo in solidarietà al popolo palestinese. In quell’occasione nel porto di Cagliari era presente la nave militare Trieste nella quale venivano eseguiti screening pediatrici gratuiti sponsorizzati dalla fabbrica di Bombe RWM, da Amazon, Terna e altre multinazionali.

Sono nato e cresciuto in una terra colonizzata e piegata agli interessi di uno Stato che ci usa come discarica, come laboratorio di guerra e come luna park per gli eserciti di mezzo mondo, come luogo in cui costruire super carceri anziché ospedali, un luogo buono per piantare pale eoliche e pannelli fotovoltaici, anziché permettere lo sviluppo di attività autoctone e sostenibili per l’ambiente. La miseria in cui ci hanno ridotto è la stessa che ci porta ad accettare tutto, a non lamentarci mai di nulla, a non lottare per modificare la nostra condizione subalterna, la stessa che porta tante persone a non capire le mie scelte, che sono poi quelle che mi hanno portato a questa condizione. Ma le condizioni sono buone o cattive in base a dove le si guarda, se per tanta gente la mia situazione è considerata una disgrazia, perché sono rinchiuso in casa, per un’abitante di Gaza non sono altro che un privilegiato che almeno una casa ce l’ha. Cosa c’è da aggiungere davanti alle immagini dello sterminio e dei bombardamenti, davanti alle più atroci azioni di prevaricazione e sopraffazione?

Per me l’unico posto giusto è quello a fianco a chi prova ad opporsi.
Sempri ainnantis
Po una vida e una terra liberas dae sa gherra e dae sa tirrania
Cun sa Palestina in su coru.


IL SILENZIO DEGLI INNOCENTI

SOLIDALI CON LUCA

Gli innocenti non fanno rumore, non si sporcano le mani, neppure quando le stringono agli sbirri, dialogando con loro e accettano le loro prescrizioni. Opposizione democratica, gradita al sistema.

I petardi fanno rumore, il rumore dei colpevoli di combattere questo Stato di guerra autore e complice del genocidio che non si può fermare né con passeggiate, né con discorsi.

Stasera un nostro compagno è stato posto agli arresti domiciliari con l’accusa di aver lanciato un petardo durante la manifestazione pro Palestina del 10 maggio a Cagliari.

Non ci interessa sapere chi l’abbia lanciato; l’abbiamo lanciato tutti, e continueremo a lanciarli, sperando che in futuro siano molto più rumorosi ed efficaci.

Con la Palestina nel cuore

Luca libero, Tuttx liberx

Anarchicx contro carcere e repressione

[da rifiuti.noblogs]


 

CATANIA: TAZ NO BORDER

Diffondiamo

Domenica 22 giugno ore 16
Piazza Carlo Alberto

Torniamo in piazza, lo facciamo per rilnciare il presidio che si terrà fuori dall mura del CPR di Trapani-Milo il 28 Giugno

Questa sarà occasione per stringerci alle persone recluse nei centri per rimpatrio, iniziando una raccolta beni e fondi che da questa occasione e nei prossimi mesi sarà fondamentale per ridurre le distanze che questo stato razzista cerca di imporci.

(Nelle slide i beni che possono entrare dentro un CPR – servono vestiti leggeri freschi per l’estate e cibi confezionati – raccogliamo questi e anche maledetti euri per la cassa No Border)

Lo faremo in una giornata di sport popolare, con compagnx della San Berillo ASD, una realtà che pratica lo sport in maniera orizzontale e trasversale

Musica e bella vita – porta quello che vuoi trovare e che hai piacere di condividere

Ci sarà spazio anche per banchetti di autoproduzione, porta il tuo sbanchetto in maniera autogestita

Ci vediamo in Piazza Carlo Alberto alle h.16.00

LE COMMEDIE DI MAGGIO. RIFLESSIONI SUL CONFLITTO SIMULATO

Riceviamo e diffondiamo queste riflessioni da alcunx studentx della Sapienza di Roma.

Le Commedie di Maggio

Riflessioni sul conflitto simulato

«Intellettuali d’oggi, idioti di domani, ridatemi il cervello che basta alle mie mani»

F. De André

L’abbaglio

Le giornate di mobilitazione andate in scena lo scorso Maggio in diverse città d’Italia, aprono un momento di riflessione importante sull’utilizzo del conflitto simulato come pratica di lotta e sul significato della sua continua riproposizione.

Per lx più informatx non è niente di nuovo, il conflitto simulato è un logoro prodotto italiano che a più riprese, da quasi 30 anni, torna nelle piazze con grande carica estetica e abbaglia le telecamere.

Spesso nel dibattito militante questo tema viene ripreso ma mai rivendicato seriamente da chi lo agisce, nascosto tra confuse giustificazioni e vittimizzazioni, ammiccamenti complici del “famo gli scontri!” o fantasmagoriche narrazioni di esplosive giornate di lotta sulle piattaforme di movimento.

Questa primavera però non è servito un naso allenato per sentire la puzza, dato che la cagata è stata chiaramente proposta a favore di telecamera se non apertamente rivendicata e sbrodolata sui giornali da uno dei “capoccia”, con tanto di giustificazioni ai «poliziotti che fanno bene il loro lavoro» contrapposto a quelli che «si fanno prendere la mano» e andrebbero bacchettati (parole tanto infami non meritano di essere analizzate oltre la loro semplice citazione). 1

Questo asservimento alla politica del compromesso e dello spettacolo, che vuole piazze disciplinate e orchestrate, non è solo una fastidiosa stortura con cui fare i conti ma un’abitudine radicata che crea mostri, spezza le gambe e soffoca la Rivolta; trascinarsi questo cadavere al seguito è una fatica che, se in tempi storici più lontani si diluiva in un conflitto sociale più alto e un apparato repressivo più debole, ad oggi, non possiamo più permetterci.

Queste righe non hanno lo scopo di indicare un modo giusto di fare la lotta, né tracciare una strada da percorrere. Al contrario, sono un invito a valutare seriamente l’abolizione della nostra normalità e la rottura degli argini militanti, per tuffarsi finalmente nell’ignoto, lì dove può nascere l’impensabile.

Conflitto simulato, perché proprio a noi?

Partecipando a giornate di lotta europee, emerge subito un dato evidente: il conflitto a volte c’è, a volte non c’è, è più intenso, meno intenso ma di certo gli unici a tenerlo sotto controllo sono gli sbirri. Non ci sono, né tantomeno potrebbero esserci, avanguardie organizzate che sovrintendono e trattano tempi e modi del conflitto di piazza.

Ma allora perché proprio a noi? Porsi questa domanda è ambizioso e circoscrivere il discorso obbliga a sorvolare discorsi importanti, come il modo in cui l’autorità ha gestito l’ordine pubblico dagli anni ‘70 ad oggi attraverso l’uso della polizia politica e il consequenziale protagonismo storico che la sinistra ha avuto nella repressione del fermento insurrezionale di quegli anni.

Consapevoli di mancare qualche pezzo di storia militante la traiettoria più immediata e utile ai fini del testo è quella che ci porta a individuare nelle “Tute bianche” la genesi, o più probabilmente il perfezionamento, di questa modalità.

Quella delle Tute bianche fu un’esperienza che nacque dall’area più morbida e riformista dei centri sociali (principalmente nel Nord – NordEst) e che ebbe, o almeno provò ad avere, la sua più importante espressione politica nelle giornate di Genova 2001.

Un perfetto inquadramento lo troviamo in un articolo di Repubblica del 14 luglio 2001, in cui un grande simpatizzante del movimento, Luigi Manconi, ex portavoce dei Verdi, elogia la capacità pacificatoria delle Tute bianche, ecco due passaggi iconici:

«…da un decennio, in Italia, non si verificano scontri di piazza paragonabili, per intensità di violenza, a quelli degli anni ’70. Ci sono, piuttosto, rappresentazioni di battaglie di strada e scontri simulati. Spesso, queste performance belliche – grazie alla raffigurazione fotografica o televisiva – sono apparse come vere. Ma, a parte rare eccezioni, si è trattato esclusivamente di rappresentazioni. Posso dirlo perché ho partecipato ad alcune di esse.»

E ancora:

«(…) L’attività delle “tute bianche” è, dunque, letteralmente, un esercizio sportivo, che depotenziа e disinnesca la violenza: perlomeno, la gran parte di essa. Certo, questo presuppone un’idea della violenza di piazza come una sorta di flusso prevedibile, indirizzabile, controllabile: ma è proprio in questi termini che viene trattata da numerosi responsabili dell’ordine pubblico e da molti leader di movimento.»

Successivamente Manconi racconta una riunione svoltasi in una prefettura del Nord-Est dove veniva contrattato con le autorità un punto, segnato da un numero civico, in cui si sarebbe poi svolto uno scontro totalmente simulato con la polizia il quale però apparve veritiero nello schermo televisivo.

Quello che poi saranno le giornate del G8 purtroppo è impossibile da raccontare ma a questo testo interessa solo un pezzo di questa storia.

Dopo roboanti minacce di guerra le Tute bianche arrivano a Genova pensando di portarsi a casa la giornata proprio nel modo profetizzato da Manconi.

La mattina di venerdì 20 luglio non manca nulla: tute, scudi di plexiglas, caschi e i leader in testa a guidare il “Gruppo di contatto”; un feroce servizio d’ordine che disarma e aggredisce i “facinorosi”; la violazione della zona rossa ben organizzata e concordata con la controparte. Insomma tutto è pronto… ma poi il conflitto arriva sul serio.

A Genova migliaia di ribelli, disinteressati allo scontro diretto con la polizia scelgono di disertare l’appuntamento mediatico e, lontano dalla trappola militare della zona rossa, rovesciano interi quartieri, sollevando al cielo l’asfalto e ciò che ci sta sopra; il fuoco non risparmia nulla e arriva fino al carcere di Marassi. Per alcune ore la libertà travolge impetuosa alcune aree della città.

La polizia, presa alla sprovvista e incapace tatticamente di far fronte a questa orda di insorti, è sotto scacco.

L’idea di uno scontro simulato, militarmente tutelato da una manciata di manifestanti organizzati, non può assolutamente soddisfare i migliaia di furiosi presenti a Genova e i primi a rendersene conto sono proprio gli sbirri, i quali non hanno più nessuna intenzione di andare avanti con la sceneggiata concordata con i rappresentanti. Gli ultimi ad accorgersene, in colpevole ritardo, è il gruppo di contatto delle Tute bianche che in via Tolemaide viene travolto da una spietata carica dei carabinieri che li costringe alla fuga.

I restanti 15 mila manifestanti, mozzati della loro testa, si alzano dalla poltrona del pubblico in cui erano stati costretti e ingaggiano una disperata battaglia nelle vie adiacenti, scontrandosi con un dispositivo poliziesco omicida che lancia blindati sulla folla, usa armi fuori ordinanza e infine, messa alle strette dalla tenacia dei manifestanti, spara, uccidendo Carlo Giuliani, 23 anni.

La reazione immediata, poi in parte ritrattata, di una buona parte della società civile, nonché dei referenti delle Tute Bianche, sarà quella di gridare agli “infiltrati” accordati con la polizia per rovinare la manifestazione e prendendo le distanze dai manifestanti come Carlo Giuliani, il quale «…non era una tuta bianca, bensì un punkabbestia, uno squatter, uno degli “utili idioti” contro i quali le tute bianche avevano cercato di mettere in guardia il movimento.» Come riportarono tutti i quotidiani il giorno dopo.

Dirà Oreste Scalzone, ex Autonomia Operaia:

«Come si fa a fare per settimane una “guerriglia mediatica” dicendo “Violeremo la zona rossa, sfonderemo”, usare simbologie ossessivamente militari, guerresche salvo poi precisare “naturalmente, tutto è metaforico, ludico, lasciateci fare, veniamo con le pistole ad acqua…” e poi, a quelli che a sfondare ci vanno con le pietre, oppure, altrettanto simbolicamente, sfondano vetrine di banche o fanno riots, andare a dire che come minimo sono dei rozzi, che non capiscono i sottintesi, non hanno humour, e hanno rovinato tutto?… Come si fa a dare dei teppisti e dei barbari a coloro che hanno lanciato pietre e sfasciato vetrine, e poi gestire tutti assieme la morte di Carlo Giuliani? Carlo chi era?»

Dopo le giornate di Genova si conclude il progetto delle Tute Bianche e rinasce, poco dopo, in quello della “Disobbedienza” il quale terminerà a sua volta nel 2004.

Una precisa area politica raccoglie le pratiche di questo progetto e le porta avanti immutate, rendendole la norma, o peggio l’abitudine, nelle piazze di tutta Italia.

«Solo una cieca ottusità può pensare di razionalizzare secondo criteri di moralità o utilità politica il gesto gratuito e passionale della distruzione, inibendo la sfrenatezza del piacere che è invece l’unica garanzia di autenticità e di senso di una rivolta.»2

Lo spettacolo

I due modi di vedere la lotta proposti negli episodi genovesi si basano sulla contrapposizione tra la “Spettacolarizzazione del rifiuto e il rifiuto della spettacolarizzazione”3 che trovano nelle “Commedie di Maggio” delle iconiche riproduzioni in miniatura.

-La spettacolarizzazione del rifiuto:

Il copione è più o meno sempre lo stesso: un gruppo di contatto, inventandosi una zona proibita da raggiungere, si lancia a peso morto sulla polizia per essere manganellato a favore di telecamera finché un Capo macho non si butta in mezzo insieme alla DIGOS e, tra urla scimmiesche e cenni di intesa, ognuno spinge indietro “i suoi”; una volta portata a casa la credibilità rivoluzionaria grazie agli scontri si conclude la pantomima sui giornali, romanzando la giornata e lamentandosi delle sorprendenti violenze della polizia e della sospensione dello Stato di diritto.

Il passo successivo e tutto contemporaneo è poi l’ossessiva esaltazione estetica delle immagini degli scontri, accompagnate da musiche di sottofondo e slogan ricondivise sui social, per il giubilo della polizia, proprio dalle stesse persone che vi hanno partecipato.

È tragicomico fermarsi un attimo a pensare che tutto questo, senza una telecamera a riprendere la scena, sarebbe completamente inutile (più di quanto già lo sia); ciò che succede in piazza, le persone presenti o l’obiettivo dichiarato, non hanno nessun valore reale, il fine ultimo è unicamente quello di raccontare sé stessi, firmare la giornata e apparire sui social, in una spirale di autocompiacimento senza fine.

Intere comunità politiche fondano le loro battaglie sulla convinzione di poter utilizzare lo strumento mediatico a proprio vantaggio, venendo poi tragicamente recuperati e fagocitati dallo spettacolo stesso o quando il nemico contrattacca davvero.

Dietro questa convinzione ci sono da un lato consapevoli opportunistx elettorali, dall’altro c’è il tentativo di qualche illusx di incasellare il gesto della rivolta come una piccola parte di un grande puzzle che ci porterà tuttx, un giorno, tramite compromessi e confronti democratici, ad una poco chiara “presa del potere” e che finisce poi, nel migliore dei casi, ad essere l’accettazione di un capitalismo un po’ più democratico, un po’ più umano (che mai sarà).

Infine fa riflettere quanto questi scontri alla giornata siano prerogativa unica di persone bianche e privilegiate; per qualcunx invece lo scontro con la controparte non è solo la totalità di un programma ma la diretta conseguenza di una postura nel mondo, nella maggior parte dei casi nemmeno voluta ma obbligata dal fatto di appartenere ad una minoranza minacciata e oppressa.

– Il rifiuto della spettacolarizzazione:

Basterebbe citare, tra i tumulti più recenti, quelli per Alfredo Cospito o per Ramy, le rivolte contro il lockdown, le eccedenze durante i cortei per la Palestina, le passeggiate rumorose dopo i femminicidi o le rivolte dentro le carceri e i CPR, dove è importante anche notare che la polizia ha tutt’altro approccio all’ordine pubblico, molto più violento e senza compromessi.

Alcuni episodi però parlano più di mille giornate e vanno riportati:

Luglio 2017, due persone fanno sesso sul balcone mentre sotto le strade di Amburgo vengono date alle fiamme dalle proteste contro il G20.

Ottobre 2019, Santiago De Chile, sono le giornate dell’Insurrezione Cilena, intorno alla carcassa di un autobus incendiato delle persone si radunano per ballare al ritmo dei colpi sul metallo, qualcuno finge di guidarlo, qualcuno suona l’arpa.

Giugno 2020, una manifestante con la maglietta “Black Lives Matter” twerka verso la polizia durante le proteste dopo la morte di George Floyd.

Non serve comunque cercare esempi in momenti di sommossa generale né tantomeno uscire dai nostri confini per rendere ancora più chiara l’idea:

Una ragazza sale sul cofano di una Tesla e ci piscia sopra durante una passeggiata rumorosa, qualcunx riscopre la sua chitarra o la gamba di un manichino come clava contro la celere, qualcun altrx gioca ad “Un, due, tre, Stella!” o improvvisa un karaoke circondatx dalla celere.

Il filo che lega tra loro queste vicende è l’interruzione della normalità a favore di un capovolgimento del significato degli oggetti e dei luoghi.

Il fine di una rivolta, che sia il calcio in bocca ad un maschio violento o i tre giorni di un rave party, è la sospensione del tempo e l’apertura di squarci nel quotidiano dentro la quale sperimentare gioiosamente avventure di libertà reale e collettiva.

Chiunque abbia provato almeno una volta la sensazione di sovversione del quotidiano conosce la bellezza di riappropriarsi di una parte di ciò che ti viene sottratto ogni giorno ma soprattutto sa perfettamente che il gesto della rivolta non ha bisogno di nessuna legittimazione o argomentazione, è giusto perché è sempre un atto d’amore spontaneo verso sé stessi e gli altri.

Ciò che ci divide dalla possibilità di vivere un gesto rivoluzionario è la difficoltà di scorgerlo quando se ne presenta l’occasione, per il semplice fatto che l’atto rivoluzionario è per definizione qualcosa che nessuno conosce ma che va inventato da zero sul momento.

Agire, bucare questo Velo di Maya, questo muro invisibile che divide noi dall’azione, richiede di coltivare una tensione al pensiero rivoluzionario capace di generare un’intuizione, un’idea; che sia quella di infrangere una vetrina o comunicare un pensiero profondo ad una persona in un momento speciale, in entrambi i casi il peso enorme dei dubbi, delle paure e delle abitudini possono facilmente oscurare il rapidissimo lampo dell’intuizione o appesantirlo fino a spegnerlo.

È desolante che proprio chi cammina al nostro fianco ed è più intimo a questi pensieri, non dia spazio a tutto questo ma anzi si adoperi attivamente per gettare acqua sul fuoco. Lx “Compagnx” che hanno appreso la militanza come un mestiere, annegatx dentro le ideologie e le strutture verticali, per lx qualx il momento di esprimere i desideri non è mai adesso ma domani, nell’avvenire rivoluzionario che loro stanno costruendo per noi.

Si finisce dunque per avere piazze in cui, invece di trovare alleatx, trovi qualcunx che, in perfetto stile “Società dello spettacolo”, mette in scena i tuoi sentimenti al posto tuo, come nel mondo di tutti i giorni; tu rimani in disparte a guardare, a consumare il prodotto e se mai ti venisse in mente di voler anche tu indossare quel casco, armare la tua ira, allora devi prima scalare la gerarchia militante o quantomeno chiedere il permesso.

Domandiamoci perché le nostre piazze, anche le più rabbiose a seguito di tragici eventi, si siano ridotte a veri e propri concerti itineranti per la città, nelle mani di qualche microfonatx che ci traghetta nella miserabile esperienza di urlare la nostra rabbia a ritmo di musica e cori esplosivi, circondatx da un cordone di polizia che ci tutela dal mondo reale.

Alcuni collettivi, nati dal furore di rivendicazioni incandescenti, si sono ridotti ad un team di organizzatori di viaggi turistici delle ricorrenza di lotta, con le istanze politiche ridotte a badge di riconoscimento e finendo poi, a volte, ad abbassarsi al ruolo di guardie quando qualcunx ha l’ardore di arrabbiarsi davvero invece di godersi il ballo di gruppo.

Non c’è da stupirsi poi se, durante i momenti di sommossa questx “Grandi compagnx” restino a braccia conserte mentre bruciano le camionette della Gendarmerie a Saint Soline o sprofondino nel divano quando esplode la rabbia per un ragazzo ucciso dai carabinieri.

È proprio questo quello che dovrebbe spaventarci di più, la messa a nudo davanti alla realtà.

La prova concreta di non saper affrontare quello che hai scimmiottato per anni, e che ti porterà, inesorabilmente, a mancare il tuo appuntamento con l’Insurrezione, a non saperla riconoscere e soprattutto a non sapere come vivertela, perché ti sei dimeticatx pure cosa desideravi.

La lotta anticapitalista non si esaurisce nella giornata di mobilitazione, nell’appuntamento col nemico, ma nella diffusione di comportamenti sovversivi, nella condivisione di spazi di libertà illegale collettivi, dove mettersi alla prova davvero in prima persona, e dove, a volte, poter anche sbagliare ma con la dignità di aver compiuto qualcosa di tuo.

Questo può accadere solo tenendo accesa la tensione verso un agire sovversivo, capire cosa significa per noi, riconoscerlo nei gesti altrui e sceglierlo tutti i giorni, dandogli spazio vitale.

Imparare a prendersi cura di se stessx e di chi ci sta vicino, decostruirsi, boicottare la linea, perché “Il conflitto non avanza linearmente, per linee di classe o soggetti affinitari, bensì si diffonde per risonanza, per cerchi di intensità, attraverso la polarizzazione dei vissuti comuni.”4

«Ai contestatori dell’Impero che insegnano alle persone a lottare per farsi concedere dei “diritti”, i nemici del totalitarismo capitalista ribattono che non ci sono diritti da elemosinare, ma la totalità della vita da conquistare. Ai primi che organizzano scontri e conflitti simbolici funzionali al mercato della rappresentazione politica, i secondi controbattono la necessità di rivolte autentiche e spontanee capaci di creare momenti di libertà immediati, effimere schegge spazio-temporali sottratte all’oppressione del dominio totalitario capitalista.» 5

Vivere nella verità

L’utilizzo del conflitto simulato, con tutte le sue aberrazioni al seguito, è figlio di un’epoca dove saper vendere la rappresentazione spettacolare di sé stessx è la chiave del successo.

La porta d’emergenza per uscire da questo teatro è quella di riconquistare una forza estetica molto più attraente, quella della verità.

Mentire su ciò che succede in piazza, esagerare nei comunicati trionfalistici tutti uguali, decuplicare i numeri delle manifestazioni, ripetere come mantra slogan fiammeggianti in piazze finte e costruite; chi pensate di prendere in giro?

A rimanere imbrigliatx in questa rete di bugie sono lx numerosx poser, opportunistx e abusers, animatorx di quelle relazioni sociali neutralizzanti che intossicano gli spazi di movimento.

A non cadere nella trappola sono invece lx migliaia di possibili giovani ribelli che a ogni spazio non concesso, ad ogni bugia, abbandonano schifatx e delusx la lotta collettiva per chiudersi nell’individualismo ed egoismo capitalista.

Invece di sacrificare energie nelle autonarrazioni teatrali è urgente tornare ad agire azione diretta, tornare a rendere le strade cornici di rivolte autentiche, capaci di attrarre almeno una parte di quella tensione che, costretta nel sottosuolo, trema sempre più forte e irrequieta. Sarà stupefacente riscoprire la potenza sovversiva del dilagare della rabbia di moltitudini furiose, per ora ancora sonnecchianti e represse.

Con la definitiva approvazione del dl Sicurezza, sotto il cielo più nero degli ultimi ottant’anni, è ora di riscoprire la nostra più feroce voglia di vivere e stare insieme, stringendosi a chi, all’ombra dello show, alleva il dubbio, si prende cura della verità e, in silenzio, affila il coltello.

Il più grande pensiero di solidarietà e affetto a Maja e Paolo in sciopero della fame per le brutali condizioni di vita nelle carceri, contro tutte le galere.

GIUGNO 2025
Teppistx, incivili, guastafeste


1 https://www.romatoday.it/politica/intervista-luca-blasi-scontri-no-decreto-sicurezza.html

2 Detour – la canaglia a Genova: https://www.rivoluzioneanarchica.it/detour-la-canaglia-a-genova-2/#/

3 Detour – la canaglia a Genova: https://www.rivoluzioneanarchica.it/detour-la-canaglia-a-genova-2/#/

4 Guy Debord. La società dello spettacolo. Parigi, 1967

5 Marcello Tarì, Il Ghiaccio era sottile – per una storia della Autonomia, Derive e Approdi, 2012, Roma

NUOVO OPUSCOLO: CHI TENE ‘O MARE – L’IMPERO MSC E GLI IMPATTI SU NAPOLI

Riceviamo e diffondiamo

Msc (Mediterranean Shipping Company) è una compagnia leader del trasporto marittimo globale che, anche se si presenta sul mercato globale o locale con nomi diversi, è tra gli attori principali che veicolano questi processi.  Parlare di Msc significa allargare lo sguardo sulle logiche estrattive, di territori e del lavoro, che la velocità della merce impone: l’ampliamento della darsena di Levante a Napoli Est, finalizzata a duplicare il volume dei traffici di container, mentre fa crescere i profitti di pochi, devasta un intero territorio e sottrae tratti di costa alla città.

La navi da crociera (di cui Msc è ancora una volta leader di mercato), sono giganti del mare che restano accesi per tutto il tempo di ormeggio in porto, sprigionando emissioni tossiche per l’ambiente e la salute, inquinando e riversando orde di turisti in una città preda delle loro smanie di consumo.  Durante la pandemia, poi, Msc, attraverso Gnv (Grandi Navi Veloci), ha compensato le perdite del traffico passeggeri affittando i suoi traghetti come “navi quarantena” per rinchiuderci migranti, accaparrandosi appalti da milioni di euro.

A comandare, come disse una volta il proprietario Gianluigi Aponte, è la merce e chi la serve. Che si tratti di armi, turisti, dispositivi tecnologici, semi-componenti o scarpe da ginnastica.  Questo opuscolo prova a ricostruire una breve storia di chi controlla i flussi, dell’impero che ha creato e dell’impatto delle sue strategie espansive sul territorio
napoletano. Nella prospettiva, tutta da costruire, di contrastarli.

PDF OPUSCOLO  : chi tene o mare

MESSINA: COSA SONO I CPR? – DISCUSSIONE COLLETTIVA SU LIBERTÀ DI MOVIMENTO E RECLUSIONE

Diffondiamo

Cosa Sono i CPR? Centri Permanenza Rimpatrio, frontiere, territori, corpi.

Parliamone in vista del presidio al CPR di Trapani-Milo  del 28 giugno

Sabato 28 giugno sarà una giornata densa, in Sicilia: a Messina ci sarà un corteo in solidarietà alla causa palestinese (di cui seguiranno presto maggiori informazioni), mentre a Trapani ci sarà un presidio sotto le mura del Centro di Permanenza e Rimpatrio.

Una rete solidale che da tempo si muove in aiuto e solidarietà alle persone migranti, tornerà ad esprimere la propria vicinanza, nel tentativo di rompere l’isolamento che subiscono per il solo motivo di aver avuto il desiderio di muoversi da dove sono nate senza avere il pezzo di carta giusto.

Il sistema politico-economico che vuole decidere del mondo è sempre più stringente sui corpi delle persone. Si intesifica la violenza contro chi vive in Palestina e chi gli è solidale; negli USA si intensificano le deportazioni dei migranti; in Italia la stretta repressiva è stata coronata dal dl sicurezza, che criminalizza anche la resistenza passiva, fuori e dentro carceri e cpr; ed, in ultimo, l’approvazione in Senato del decreto sicurezza a firma Piantedosi-Nordio, un decreto liberticida che amplia la possibilità di carcerazione, creando altresì un collegamento diretto tra detenzione penale e quella nei cpr. Si saldano sempre più tra loro il compartimento carcerario, quello delle deportazioni di persone migranti e le industrie. Inoltre, un’Europa complice che rivede il sistema comune d’asilo, legittimando di fatto la possibilità di detenere persone migranti in appositi centri costruiti extraterritorialmente. Ma d’altronde trattasi di un’attitudine ben consolidata; dai campi inglesi in Ruanda, passando per i memorandum e vari rapporti d’intesa in materia di migrazione tra paesi europei (particolarmente quelli cosi detti di frontiera) e paesi attraversati e/o origine di flussi migratori. Insomma il messaggio è chiaro, in tempo di guerra non si gradiscono stranieri all’interno dei confini, motivo per cui, a livello globale, vi è una vera e propria caccia alle streghe nei confronti delle migranti e dei migranti, che vedono i propri corpi marginalizzati, criminalizzati, detenuti e, nel caso in cui si resti in vita tra le braccia dello Stato, deportati. La chiamano detenzione amministrativa, quella determinata dall’assenza di documenti, quella che permette che una persona venga detenuta in dei veri e propri lager, nel caso dell’italia i Centri di Permanenza per il Rimpatrio, dei veri e propri non luoghi dove la persona è ridotta a nulla, una vita condita di psicofarmaci, abusi ed urla di aiuto inascoltate. Detenzione amministrativa la chiamano, la stessa che lo Stato d’Israele esercita contro quelli che definisce “terroristi”, gente di Palestina, invasa, torturata e poi brutalmente uccisa.

La legge Turco-Napolitano, del 1998, è la norma che ha istituito i Centri di Permanenza Temporanea (CPT), centri destinati al trattenimento della persona migrante soggetto di provvedimento di espulsione o allontanamento con accompagnamento coatto alla frontiera che non è eseguibile immediatamente. Così con Decreto Legislativo 25 Luglio 1998, n.286 (“testo unico sull’immigrazione”) viene concepita la possibilità di detenzione amministrativa non relativa alla commissione di fatti di rilevanza penale. Appena dopo quattro anni, nel 2002, si valutò che le disposizioni previste dal decreto legislativo 1998/286 non offrivano valide soluzioni alla questione dell’immigrazione clandestina ed alla criminalità ad esse collegata, così si giunse alla così detta legge Bossi-Fini, la n.189 del 30 Luglio 2002. Le modifiche sono sostanziali e riguardano i diversi aspetti della gestione e prevenzione dell’immigrazione clandestina. Va segnalato che poco tempo prima dell’emanazione della legge Bossi-Fini entra in funzione il sistema EURODAC, sostanzialmente un sistema per la raccolta di informazioni circa il migrante in sede di frontiera, questo risulta utile al fine di stabilire il paese di primo ingresso che vedremo essere il criterio fondamentale per determinare lo Stato competente dell’analisi della domanda d’asilo. Ancora una volta viene prevista la possibilità di trattenere il cittadino straniero nei CPT per un periodo di sessanta giorni, saldando però il trattenimento amministrativo al mondo penitenziario. Viene infatti introdotta la responsabilità penale per lo straniero che non rispetta l’ordine di allontanamento ricevuto. L’articolo 12 della legge Bossi-Fini, in sostituzione dell’articolo 13 della precedente legge “testo unico”, al comma 13 stabilisce che il cittadino straniero soggetto di decreto di allontanamento o espulsione non possa rientrare nei confini dello Stato senza uno specifico permesso del Ministero dell’Interno, pena la reclusione da sei mesi ad un anno, che aumentano da uno a quattro anni nel caso in cui il decreto di espulsione sia stato emesso da un giudice. Con la Legge Bossi-Fini, i CPT vengono trasformati in CIE (Centri Identificazione ed Espulsione), mettendo quindi l’accento sull’aspetto dell’identificazione e dell’espulsione dei cittadini stranieri irregolarmente presenti nei confini dello Stato italiano. Nel 2017 viene varato il decreto legge n.13, il così detto Decreto Minniti, convertito con modificazioni dalla legge 13 aprile 2017, n.46. Il decreto Minniti-Orlando riguarda specificatamente “l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale e le disposizioni su minori stranieri non accompagnati”, ed è nel contesto di tale decreto legislativo, trasformato poi in legge, che vengono trasformati i CIE, già CPT, in CPR (Centri di Permanenza per i Rimpatri). Si prevede l’ampliamento della rete dei centri per i rimpatri e si eleggono come aree preferibili quelle extra-urbane. Si amplia il periodo di trattenimento possibile attraverso convalida della proroga da parte del giudice di pace. L’ultimo aggiornamento dell’apparato giuridico che riguarda, anche, la questione migranti è il “DL Sicurezza” del Governo a guida Meloni. Approvato poi come decreto legge, nella sua gran parte ricalca la ratio di quelli precedenti. Viene allargata a ventaglio la possibilità di carcerazione o, più in generale, di detenzione; e viene implementata la possibilità di espulsione, allontanamento, perdita della cittadinanza o revoca dello status di protezione internazionale per persone straniere soggette a condanna penale. Al Capo III del DdL, precisamente all’articolo 27, sono previste “disposizioni in materia di rafforzamento della sicurezza delle strutture di trattenimento ed accoglienza per i migranti e di semplificazione delle procedure per la loro realizzazione” e si riportano modifiche al Decreto Legislativo 1998 n.286, cui al comma 7 dell’articolo 14 (“esecuzione dell’espulsione”) viene aggiunto il comma 7.1, che prevede la misura della carcerazione e le sue diverse aggravanti nel caso “si partecipi ad una rivolta mediante atti di violenza o minaccia di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti […], costituiscono atti di resistenza anche la condotta di resistenza passiva”. Inoltre il DL aumenta il tempo possibile di trattenimento del cittadino straniero presso un Centro di Permanenza per il Rimpatrio, rendendo possibile il rinnovo sino a due volte del trattenimento, dunque, sino ad un totale di 180 giorni, contemplando la rinnovabilità della misura di trattenimento anche in conseguenza a ritardi burocratici ed a prescindere dalla condotta collaborativa o meno del migrante trattenuto. Oggi, a seguito dell’approvazione del decreto “Albania III”, la trasformazione del centro di Gjader (Albania), precedentemente predisposto per le “procedure accellerate di frontiera”, in CPR, aggiungendolo di fatti alla rete dei centri per il rimpatrio già presenti sul suolo nazionale. Nel testo del DL 2025/37 si evince la “staordinaria necessità e urgenza di adottare misure volte a garantire la funzionalità e l’efficace utilizzo delle strutture di trattenimento” ed a tal fine con il decreto si stabilisce che i centri albanesi potranno essere utilizzati come centri di trattenimento non “eslusivamente” per persone soccorse e recuperate in mare da navi dell’autorità italiana, ma anche per quelle “destinatarie di provvedimenti di trattenimento con validita o prorogati”, ossia si predispone la possibilità di trasferire persone trattenute nei centri su suolo italiano nei centri, a gestione e giurisdizione italiana, invece presenti in territorio albanese.

Nei CPR, in Italia, lo Stato ci rinchiude le persone destinatarie di un decreto di rimpatrio, per il tempo necessario ad organizzare la deportazione. Se non fosse che li dentro la gente ci entra e non ci esce più. Abusi ed abbandono di ogni genere ed intanto le cooperative spilorchiano spicci sulle sofferenze umane. La polizia pesta brutalmente chi, per richiedere assistenza medica, è costretto a bruciare un materasso, altrimenti le sue sole urla strazianti o quella dei compagni non basterebbe a determinare alcun tipo di intervento, il cui più delle volte si traduce in occasioni per intervenire in assetto antisommossa e picchiare ciecamente chiunque trovino a segno. L’elenco delle persone che muoiono dentro quei maledetti non luoghi è infinito. E questi centri si trovano in tutta Europa ed oltre, come in centri italiani in Albania o quelli finanziati dall’allora governo Renzi in Libia, luoghi dai quali le persone piuttosto che finirci rinchiuse preferiscono tuffarsi in mare aperto al buio.

I CPR sono galere che restano in piedi grazie all’uso quotidiano di idranti, manganelli e psicofarmaci, e in cui lo Stato fa di tutto per non fare uscire le voci dellx reclusx.

…e tutto questo è molto più vicino a noi di quanto sembra.

In Sicilia esistono 2 CPR e altri 5 centri per la detenzione delle persone migranti, più che in qualsiasi altra regione della penisola. Come per esempio ricordiamo anche l’hotspot di Bisconte. Peraltro oggetto di una barbara campagna elettorale che ne millantava la chiusura in una retorica intrisa di paternalismo e becero assistenzialismo. Ma la realtà è che l’ex caserma militare ora hotspot per migranti continua a funzionare. Messina città di frontiera, messina città di passaggio. Cosi le rive dello Stretto si vedono attraversate tanto da fuggitive e fuggitivi, alcunx vittime di qualche decreto d’espulsione quanto dai peggiori degli assassini. L’intreccio che avviene sullo Stretto è micidiale. Caronte&Tourist, un esempio fondamentale di come la messinessissima estorca denaro dalle deportazione lo forniscono i laudi versamenti per il trasporto migranti ed FF.OO dall’isola di Lampedusa, noto punto di sbarco della rotta del Mediterraneo Centrale, sino all’isola siciliana, dove poi vengono smistati nei diversi luoghi della così detta “accoglienza” e deportazione. Poi, Medihospes, cooperativa dell’accoglienza e della cura della persona, si occupa di imbottire di psico-farmaci i pasti  (scaduti) dei detenuti nei CPR e di fiancheggiare l’operazione di tortura ed annullamento della persona messa in opera dallo Stato, tra le altre, ha recentemente acquisito la gestione dei centri albanesi, entrati a far parte della rete di CPR italiani, come scritto sopra, a seguito del decreto ‘Albania III’.  Poi veniamo all’azienda trans-nazionale Webuild, società di punta del consorzio Eurolink, affidatario dei lavori per il ponte sullo Stretto. La società in questione è l’esempio lampante di come l’industria del cemento permei nel mondo della detenzione. Infatti, vediamo Webuild siglare accordi con il DAP (Dipartimento Amministrativo Penitenziario) per la formazione ed assunzione di mano d’opera detenuta, circa 25 mila unità sostengono. Con il preciso intendo di impiegare queste braccia nei cantieri infrastrutturali e quelli che riguardano il PNRR. Così mentre l’ex capo del DAP, Giovanni Russo, avviava un processo di pacificazione ed ammorbidimento delle condizione delle persone detenute al 41-bis, con il duplice interesse di rispondere alle critiche mosse al sistema italiano circa il rispetto dei diritti umani e quello di poter (potenzialmente) estenderne l’applicazione a sempre più detenuti e detenute, il colosso della devastazione ambientale si sfregava le mani. Abbiamo già visto nella costruzione degli stadi in Qatar come ‘Webuild’ intende trattare mano d’opera che viene sostanzialmente schiavizzata, migliaia di morti. Così la necessità di occupare persone detenute giustifica l’ingresso a gamba testa dell’industria dell’infrastruttura nel mondo della detenzione e se contemporaneamente teniamo in conto il corridoio diretto esistente tra istituti penali e i CPR ci rendiamo conto di quanto Webuild sia parte integrante di questa guerra totale ai migranti ed alle persone detenute più in generale.

Quella della privatizzazioni delle carceri ebbe inizio con il decreto “salva Italia” del governo Monti, con la supposta costruzione del primo carcere completamente privato a Bolzano (progetto che poi non ha avuto seguito). Quindi lo Stato domanda ancora come capitalizzare le persone che tiene sequestrate alle grandi aziende. E se le carceri diventano via via bacini di assunzione e di profitti possiamo osservarlo come un mercato, dunque chi ne beneficia economicamente avrà bisogno di sempre più clientela, ossia gente da rinchiudere. L’inaugurazione di ciò che si può definire il “carcere cantiere” in Italia. Quindi carceri e CPR divengono luoghi che non devono lasciare possibilità di scrutare all’interno, degli spazi ben marcati dal “fuori”, ma contemporaneamente divengono simbolo del sadico potere dello Stato, che si sciacqua la sua faccia criminale con progetti di lavoro e “reinserimento” che non sono altro che l’ennesima estrazione di valore da corpi altrimenti inerti. Carcere, 41-bis e CPR, diventano dunque oggetto di ostentazione, spettacolarizzazione delle condanne e rivendicazione del loro potenziale punitivo . Si opacizzano le condizioni interne e se ne esaltano le capacità di propaganda per i governi che si susseguono. Ed infine, se da un lato divengono sempre più bacini di estrazione di forza lavoro in maniera centralizzata, certamente questi non luoghi di sequestro statale sono da sempre luoghi dove si sperimentano tecnologie di controllo e di rilevazione biometrica, lo stesso vale per le frontiere. La guerra ai migranti ed alle migranti e la sempre maggiore necessità di controllo negli istituti detentivi sono da sempre gli strumenti necessari ad un continuo guadagno del compartimento scientifico-militare-tecnologico. Così attraverso una percepita crisi migratoria e di sicurezza (in particolare dei centri urbani) si normalizzano pratiche di schedatura bio-metrica e forme di controllo e detenzione varie. Dai riconoscimenti biometrici, ai pattugliamenti delle frontiere, la millantata crisi migratoria crea la possibilità per svariate sperimentazioni e smisurati guadagni. Droni, telecamere, software, piattaforme di gestione integrata, scambio di dati, leggi sempre più marcatamente liberticide, connivenza istituzionale fanno si che ogni persona che arriva in Europa per prima cosa dev’essere detenuta e da questa condizione di detenzione e controllo provare a seguire gli iter burocratici per la legalizzazione e, così, si agevola il processo di deportazione di tutte le persone che non hanno il “diritto” di rimanere sul suolo europeo, processo che viene del tutto normalizzato come questione di serietà delle istituzioni europee. Mentre si potenziano le tecnologie di controllo sul corpo di migranti, prendono campo progetti come ‘Rearm EU’, con la previsione di spese sino a 800 milioni per armamenti e controllo di frontiere (che sono tanto i confini degli Stati, luoghi di conflitto, luoghi di detenzione). Quindi vi è la conformazione di un gigantesco campo di sperimentazione di tecniche di controllo e repressione attraverso la disumanizzazione delle persone detenute e il loro sempre più stretto controllo. Sicurezza, innovazione, controllo e progresso sono gli elementi fondanti di una società che assumono sempre più spiccatamente un carattere punitivo. La sicurezza di tutti si raggiunge solo attraverso l’oppressione di un gruppo specifico di persone, questo è il mantra che ci viene continuamente sbattuto in faccia.

Diversi dunque i quesiti che vogliamo porci. Capire il funzionamento e la logica che presiede questi mattatoi è senza dubbio utile. Ma la presenza di questi presidi militari di trattenimento sui territori che significano? In che modo detenzione, deportazione di persone migranti e guerra si possono alimentare a vicenda? Come stare vicine a chi chiede a gran voce e con il corpo la libertà?

Discutiamone insieme, scambiamoci informazioni, idee, desideri; costruiamo complicità. Anche in vista del prossimo presidio al CPR di Trapani-Milo di sabato 28 giugno.

FREEDOM, HURRYIA, LIBERTÀ 

 


Presidio al CPR DI Trapani-Milo

28 giugno ore 16

PALERMO: DISCUSSIONE E AGGIORNAMENTI SU CPR IN SICILIA

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In seguito alla distruzione di maggior parte della struttura, e dopo gli ennesimi lavori di ristrutturazione e ammodernamento, il CPR di Milo è tornato ad essere agibile ad Ottobre del 2024, aumentando la capienza fino a 204 posti. Le persone recluse, che in un primo momento erano una 40ina, sono presto diventate più di cento. La vicinanza con l’aereoporto di Palermo, snodo a livello nazionale per le deportazioni in Tunisia ed in Egitto, ha così permesso di far riaccendere anche a Trapani i motori della macchina che uccide, tumula e deporta le persone migranti. Da quel luogo di tortura escono notizie di rivolte e resistenze da parte dei reclusi: portare la nostra solidarietà a chi si ribella al sistema di frontiere e respingimenti è sempre più urgente e doveroso.

Martedì 17 h18:00 in via Carrettieri, 14 a Palermo ci vediamo per discutere di detenzione amministrativa in vista del presidio al CPR di Trapani-Milo del 28/06

NUOVO OPUSCOLO: DALL’INTERNAZIONALISMO ALLA SOLIDARIETÀ UMANITARIA

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DALL’INTERNAZIONALISMO  ALLA SOLIDARIETÀ UMANITARIA
o di come la solidarietà si è trasformata in un investimento economico neoliberista e in uno strumento di ricatto in Palestina e non solo

Questo testo nasce da un’iniziativa che si è svolta a Genova nell’ aprile 2024 e di cui porta il titolo. La discussione voleva abbozzare una breve riflessione critica sulla funzione della cooperazione allo sviluppo (ma anche degli enti caritatevoli, ONG, ecc.) come strategia ufficiale (o latente) della politica estera degli Stati imperialisti, senza la pretesa di esaustività, vista l’ampiezza della tematica.

Attraverso i contributi di un compagno del collettivo Hurriya! di Pisa e di una compagna di GPI, il testo prova a fornire alcuni spunti di riflessione e di approfondimento sulla solidarietà “umanitaria” quale fenomeno ampio, collaterale (e il più delle volte in combutta) alle politiche di predazione economica e di controllo del territorio.

Dalla quarta di copertina:

Con l’indebolimento della militanza internazionalista, il grosso della solidarietà praticata in Occidente si è progressivamente piegato ai progetti di cooperazione allo sviluppo capitalista. Si sono affermate nuove figure ibride (operatori umanitari,cooperanti “dal basso”, ecc) per cui carriera professionale e bisogno di reddito si fondono spesso con l’attivismo politico e che accettano le condizioni dei finanziatori e degli Stati (occupanti o meno) in qualsiasi tipo di intervento. La lotta contro il nemico comune per una trasformazione collettiva è stata sostituita con progetti di cooperazione economica completamente compatibile (e talvolta in sinergia) con le politiche di colonizzazione e predazione economica di Stati e Capitale. Se in Palestina la rinuncia al diritto al ritorno è una condizione necessaria per accedere agli aiuti internazionali, in Italia chi lavora nel sistema di accoglienza è costretto a collaborare al disciplinamento degli immigrati, alla società dello sfruttamento e dell’alienazione. Avere ceduto tanto terreno comporta, per chi sceglie di agire al di fuori della logica dei diritti umani che relega gli oppressi al ruolo di vittime, l’essere criminalizzato come nemico della democrazia.

pagine 26
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MILANO: PRESIDIO E CORTEO CONTRO 41 BIS E REPRESSIONE

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Il 17 giugno ci sarà la sentenza del processo per il corteo dell’11 febbraio 2023, contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo, per cui sono state richieste condanne che vanno dai 6 mesi ai 6 anni per undici nostrx compagnx.

NON LASCEREMO NESSUNX DA SOLX

Per questa giornata chiamiamo due appuntamenti per esprimere la nostra solidarietà ai compagnx e ribadire che quel giorno c’eravamo tuttx e che continueremo a lottare contro questo mondo fatto di miseria, guerre e prigioni!

Ci vediamo MARTEDÌ 17 GIUGNO
🔺alle 9 IN PRESIDIO AL TRIBUNALE DI MILANO (ingresso corso di porta Vittoria)
🔺alle 19 ALLE COLONNE DI SAN LORENZO

AL FIANCO DI ALFREDO ANCORA IN 41 BIS
AL FIANCO DI CHI LOTTA DENTRO E FUORI LE PRIGIONI

FUOCO ALLE GALERE
FUOCO AI TRIBUNALI

DAL CPR DI GRADISCA: CRONACHE DI LOTTE E RESISTENZA ALL’INTERNO DEL LAGER

Diffondiamo

“Ho avuto un’impressione positiva di ente gestore e forze dell’ordine”, dichiarava qualche giorno fa una parlamentare – esponente di quel partito del cosiddetto centrosinistra, il PD, storicamente il principale responsabile politico dell’esistenza dei campi per le deportazioni – dopo una visita ispettiva fatta a quello di Gradisca.

L’ennesima farsa, l’ennesima narrazione ad uso e consumo dell’esistenza dei campi-lager, con qualche problema di troppo – tocca ammetterlo anche da parte agli strenui difensori della detenzione amministrativa – sulla “agibilità”. Nel rovesciamento più totale della realtà quotidiana di chi vive sulla propria pelle la detenzione a Gradisca e negli altri CPR e carceri della penisola, si mostrano le manovre più subdole per renderlo più operativo e efficace (nell’annichilimento, nel controllo dei corpi).

– “Sta nel distruggere la gabbia”

Rivolte e proteste smontano pezzo dopo pezzo l’infrastruttura della reclusione: sistemi di videosorveglianza, reti, suppellettili, lastre di plexiglass. Colpo su colpo, nei CPR, non è solo uno slogan, ma il ritmo della smontaggio delle sue gabbie. Le condizioni di reclusione e devastazione delle menti e dei corpi (“mi han portato qui per i documenti. Sono rotto giuro“, ci dice un recluso) si riflettono sull’infrastruttura (“non funziona nulla, veramente” gli faceva eco un altro): per ragioni stesse di sopravvivenza il centro deve essere smantellato.

E infatti vediamo confermata un’ipotesi che immaginavamo da tempo: l’area rossa, coinvolta nelle potenti rivolte di gennaio, è tutt’ora per la maggior parte inagibile, con due sole celle in funzione.

Il ministero dell’interno, probabilmente rincuorato dalle parole della parlamentare di opposizione – in fondo, se il servizio funziona, basta dare una spolverata agli ambienti – si affretta a dichiarare che sarebbero imminenti i lavori di ristrutturazione del centro: nuove telecamere di videosorveglianza, la creazione di varchi sicuri per l’accesso dei veicoli (in funzione deportativa?), la sostituzione delle attuali recinzioni di contenimento con barriere anti-scavalcamento (troppe evasioni?) e probabilmente la ristrutturazione dell’area rossa. In poche parole: aumentare l’efficienza del meccanismo di imprigionamento e deportazione.

In controluce, sostenute dalle vive parole di chi è recluso nell’inferno di Gradisca, si intuisce tutta la forza delle rivolte e delle evasioni.

Lo ripetiamo spesso, si tratta delle uniche forme di resistenza possibile dall’interno alla macchina della detenzione e della deportazione, dispositivi tuttavia contrastabili e infrangibili nonostante la loro apparenza di inattacabilità. Il 27 maggio dei grossi fuochi hanno investito l’area blu del CPR di Gradisca. In quei giorni erano in corso, come d’altronde avviene a ritmo settimanale dall’aeroporto di Trieste, le famigerate deportazioni per la Tunisia.

Succede lo stesso due giorni dopo. Sono gesti estremi, ma necessari, che spesso mettono a repentaglio anche chi li compie. È un tutto per tutto. In una cella si sentono male due ragazzi, sono a terra. Solo molto tempo dopo arrivano i sanitari, spaventati a morte – nonostante la scorta di celere eccitata alle loro spalle – come dovrebbe sentirsi chiunque collabori con il lager. I fuochi, per un secondo, forse accendono anche qualche briciolo di consapevolezza in chi si muove attorno e dentro queste strutture di morte, come gli operai-secondini salariati dalla cooperativa EKENE.

Ma la “buona impressione di ente gestore e forze di polizia” si rivela da moltissime altre cose. Dalle condizioni strutturali del centro (camerate scarne, tarate al minimo, senza alcun tipo di “servizio”, “sicuramente peggio di quanto questo centro era un CIE“, ci riferisce un recluso che si è fatto entrambe le versione della detenzione amministrativa) alla non-gestione sanitaria, nella totale assenza di interventi medici quando servono. “L’unica cosa che danno bene è la terapia, ci vogliono tutti drogati, rivotril, valium, gocce…“, ci dice un recluso. Pare che – per quanto riguarda la gestione psichiatrica – sia coinvolta direttamente anche ASUGI, l’azienda sanitaria locale, che svolge le visite psichiatriche e poi assegna le terapie. Ma il dosaggio della tortura è accuratamente somministrato: c’è chi viene riempito di terapia, c’è chi – pur avendo bisogno di uno specifico farmaco – viene imbottito di altre terapie che non regge, che gli fanno male. I CPR, come tutte le carceri, sono luoghi patogeni per natura.

Due persone, come già condiviso precedentemente, hanno finito per “fare la corda”. Non è bastato perché qualcuno rispondesse alle loro richieste. In un caso, dei compagni di cella hanno dovuto appiccare degli incendi, è l’unico modo perché qualcuno intervenga. E così, mentre un uomo giace a terra con la bava alla bocca, devastato per delle notizie personali, è arrivato un lavorante… per spegnere l’incendio.

L’impressione positiva avuta dalla parlamentare consiste, probabilmente, nello spegnimento di tutti i tentativi – individuali, collettivi – di ribellarsi contro la natura devastatrice e afflittiva di queste colonie dove la tortura è legalizzata.

– Ancora rivolta: fuochi, manganelli, sangue

La totale negligenza sanitaria, ed – oltre – la natura patogena stessa del CPR, è stata anche alla base dell’ultima rivolta nell’area blu. “Scusa il disturbo. Stanno massacrando delle persone qui. Perché stiamo chiedendo il nostro diritto per la sanità“, ci dicono.

E’ la sera del 5 giugno. Un recluso è a terra svenuto nella sua cella, in preda a dolori fortissimi. Nessuno gli presta aiuto, nonostante le ripetute richieste. Qualcuno sostiene che ha ingerito dello shampoo. Dopo una mezz’ora viene acceso un primo fuoco nella sua cella. A quel punto intervengono gli operatori e la polizia, spengono il fuoco e lo portano via in barella.

I fuochi si moltiplicano in tutta l’area blu, in solidarietà con quanto sta accadendo. Il corridoio delle celle è presidiato da guardia di finanza e polizia in antisommossa. Il recluso, dopo qualche schiaffo e una colluttazione avvenuta in infermeria, viene riportato in cella.

Si scaldano gli animi, i fuochi anche. Ci sono lanci verso la polizia, si verificano scontri. Gli idranti cercano di spegnere i fuochi, ma i getti sono anche destinati verso i reclusi e le stanze interne.

A quel punto inizia un intervento muscolare dell’antisommossa, che entra in alcune celle rincorrendo i detenuti e picchiandoli fortissimo, anche quando sono a terra. Dopo qualche minuto di scontri estremamente duri (“stiamo facendo la guerra contro loro“), l’insorgenza viene repressa. Bilancio: teste rotte e corpi ammaccati, senza però piegare l’insubordinazione e la voglia di lottare nei detenuti.

Due giorni dopo, infatti, erano ancora i fuochi da una cella dell’area blu a segnalare la condizione di reclusione del CPR: a due giorni dalla rivolta, dopo essere stato pesantemente malmenato – con ematomi e ferite dappertutto – un recluso non era ancora stato visitato in ospedale.

– Detenzione, repressione, deportazione (e solidarietà)

C’è una testimonianza che sentiamo spesso: quella di una cattività in gabbia – voluta da un ordine di trattenimento, convalidata da un giudice di pace distratto e dai burocrati dell’azienda sanitaria locale, resa possibile da Ekene e tutte le aziende complici della sua riproduzione – a cui corrisponde un totale abbandono. I cessi, il cibo, le cure, i letti: tutto è inservibile nel CPR di Gradisca. Chiuso in una cella, per lunghissime ore sei abbandonato in una situazione di totale subordinazione e al tempo stesso profonda indifferenza. Se stai male resti lì, fin quando qualcuno si degnerà – dopo qualche fuoco magari – a vedere cosa serve. Questa è la realtà della detenzione amministrativa.

Intervengono, invece, prontamente quando si tratta di reprimere o di deportare. Come accaduto di nuovo l’ultimo venerdì del mese, in direzione dell’Egitto; come accade settimanalmente per la Tunisia. Come si ripete – pescando nel mucchio, senza bisogno di charter, con voli commerciali – in chissà quanti altri casi di cui non veniamo a conoscenza.

In un caso, si è riusciti a ricostruire lo svolgimento di una deportazione anche grazie alla resistenza di chi si è fatto valere nell’ingranaggio della macchina delle espulsioni.

Un mercoledì, un recluso di Gradisca, con l’inganno, è stato avvertito di un imminente trasferimento verso Roma. Fatti i suoi bagagli, è salito tutto sommato tranquillo su una vettura di polizia. Dopo qualche ora si è però accorto che stavano andando in direzione di Bologna. In effetti, lo portano in un’area isolata dell’aeroporto, con il biglietto di rimpatrio già pronto. Quella in corso era una deportazione. “Mi volevano deportare con l’inganno“, ma “non vedevo il senso di condannarmi in quel modo per uno sbaglio” racconta. Lo fanno passare al controllo doganale e lo portano sulla pista, sotto l’aereo della compagnia Royal Air Maroc. Qui capisce di non avere nulla di perdere, dopo una vita passata in Italia con famiglia e una figlia piccola qui. Si rifiuta di salire, mentre attorno ignari passeggeri che si imbarcano iniziano a capire cosa sta accadendo. Anche a causa di questa attenzione, la polizia di scorta decide di non calcare la mano. Lo riportano in CPR, fa una nuova udienza in tribunale, un paio di giorni dopo questo tentativo di deportazione è libero. Un’altra storia di resistenza, in mezzo alle centinaia di altre storia anonime.

Il giorno successivo alla rivolta del 5 giugno, alcunx solidalx hanno portato un piccolo gesto solidarietà ai reclusi all’interno. Se spezzare i fili della solidarietà e della lotta è uno degli obiettivi della repressione, anche qualche fuoco pirotecnico nella notte può superare le mura (materiali e invisibili) della segregazione. I reclusi all’interno hanno risposto al grido di “libertà, libertà“.

La stessa libertà che per qualche minuto devono aver assaporato i 5 reclusi saliti sul tetto del centro nella serata di domenica 8 giugno. Immediatamente braccati dai carabinieri, hanno deciso di stare lassù per diverse ore. “Cosa vuol dire che siamo irregolari? Chi aveva il carcere ha fatto il carcere, ma ora perché siamo qui, in questo posto merda?” si chiedevano.

Che il grido di libertà possa un giorno alzarsi dalle macerie di tutti i CPR. La resistenza ai suoi sistemi di morte e deportazione, nel frattempo, continua: che si estenda a tutte le gabbie, le frontiere e i quartieri militarizzati che mantengono l’ordine coloniale della terra!

Al fianco di chi lotta ogni giorno: Libertà per tutti e tutte! Fuoco a CPR e frontiere!

https://nofrontierefvg.noblogs.org/post/2025/06/09/dal-cpr-di-gradisca-cronache-di-lotta-e-resistenza-dallinterno-del-lager/

NAPOLI: FACITEVE ‘E CAZZE VUOSTE!

Riceviamo e diffondiamo

Trovati a Napoli nelle macchine di due compagne dei dispositivi BO8CH composti da 2 microfoni + GPS collegati a scheda sim della Tim, ben infilati sotto la tappezzeria delle auto lato passeggero e alimentati tramite cavo alla batteria della macchina.

Alle orecchie impiccione che ci hanno ascoltato possiamo solo dire che ciò che più ci indispone è l’aver elargito le nostre spassosissime playlist musicali concedendo attimi di gioia alle vostre noiose vite infami.