OPUSCOLO: STRAPPI Riflessioni antipsichiatriche

Siamo dei collettivi antipsichiatrici e singole persone da anni impegnate sul territorio a contrastare le pratiche della psichiatria. Il nostro impegno consiste nell’osservazione, nell’analisi, nel monitoraggio attivo del ruolo sempre più ingombrante che la psichiatria si vede riconoscere all’interno della società, ponendo particolare attenzione alle modalità e ai meccanismi attraverso i quali essa si espande sempre più capillarmente e trasversalmente. Tale tendenza si è ingrandita e rafforzata durante la pandemia. Aver vissuto un periodo senza contatti sociali dovuto alla paura del contagio, lo stress da confinamento e la crisi economica, che sta colpendo ampi strati sociali, ha causato un incremento dei disagi psichici. L’ epidemia da Covid-19 e la sua gestione politico-mediatica ha messo in difficoltà la maggior parte della popolazione, generando disagi, patologie e fragilità e ha portato ad un rafforzamento dei dispositivi psichiatrici. Assistiamo infatti ad un frequente ricorso al TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio), ad un aumento del consumo di psicofarmaci e della contenzione fisica all’interno dei reparti psichiatrici di diagnosi e cura e non solo (RSA, ospedali, centri di detenzione per immigrati). In questo opuscolo collettivo troverete approfondimenti sul ruolo della psichiatria nell’adolescenza, nell’aumento delle diagnosi psichiatriche a scuola, nella digitalizzazione, nel carcere e nelle REMS (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza). L’idea nasce dalla volontà di voler contrastare il dilagare della psichiatria, con l’obiettivo di informare e sensibilizzare sugli effetti nefasti di una disciplina che opprime e riduce gli individui a mere categorie diagnostiche e nega loro la possibilità di autodeterminarsi. Ci sembra necessario mettere in discussione le pratiche di esclusione e segregazione indirizzate a coloro che non rientrano negli imposti parametri dei così detti “comportamenti normali”. Negli ultimi decenni la psichiatria ha radicato il suo pensiero e potenziato le sue tecniche nell’intero corpo sociale diventando un vero e proprio strumento di controllo sociale trasversale a varie Istituzioni e fasce d’età. Un concreto percorso di superamento delle pratiche psichiatriche passa necessariamente da uno sviluppo di una cultura non etichettante, senza pregiudizi e non segregazionista, largamente diffusa, capace di praticare principi di libertà, di solidarietà e di valorizzazione delle differenze umane.

PSICHIATRIA IN CARCERE

Il 31 marzo 2015 viene sancita la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG), che nel 1975 avevano sostituito i manicomi giudiziari, e l’apertura delle REMS (Residenze per l’Esecuzione della Misura di Sicurezza). Ciò ha prevalentemente significato il passaggio di gestione dal Ministero di Giustizia, prima responsabile degli OPG, alle ASL. Un passaggio che avrebbe potuto significare, quanto meno, una misura meno custodialistica e più volta ad una funzione terapeutico-riabilitativa. Le REMS, infatti, vedono al loro interno solo ed esclusivamente personale sanitario (psichiatri, psicologi, infermieri, OSS, etc.) mentre il controllo perimetrale esterno è affidato alle Regioni e alle Province autonome attraverso specifici accordi con le Prefetture che tengano conto dell’aspetto logistico delle strutture al fine di garantirne gli standard di sicurezza. Va da sé che, a colpo d’occhio, tra sbarre ai balconi e entrate sorvegliate da metal detector, queste strutture ricordano piccole galere. Un esempio, tra i tanti, Castiglione delle Stiviere prima OPG e, ad oggi, REMS. Nulla è cambiato dal punto di vista strutturale e, inoltre, nonostante il numero di posti disponibili per ciascuna struttura non debba essere superiore a 20 (per evitare di assomigliare troppo, nella gestione, a dei manicomi) a Castiglione delle Stiviere, a fine 2020, c’erano ben 158 persone!

Ma a chi sono destinate le REMS?

Sono destinate ai cosiddetti “folli rei” cioè a chi, pur avendo commesso un reato, è stato dichiarato parzialmente o totalmente incapace di intendere e di volere al momento dell’atto; la posizione giuridica della persona lì internata può essere o quella di aver ricevuto dal giudice una misura di sicurezza provvisoria, in attesa della fine del processo, oppure “definitiva” (cioè che abbia avuto una sentenza di condanna definitiva). Queste persone dovrebbero essere “accompagnate” nel loro percorso terapeutico individuale verso la presa in carico dei servizi territoriali, in una logica curativo-riabilitativa che li veda fuori da quei circuiti, entro un arco di tempo molto variabile e impreciso, pronti per il rientro in società… Molto ci sarebbe da dire ancora su come in realtà funzionino questi posti e i loro progetti riabilitativi, ma questo scritto vuole parlare, più in particolare, della psichiatrizzazione all’interno delle carceri. Cioè di tutte quelle persone che non hanno accesso alle REMS, per mancanza di posti o perché “rei folli”, cioè la loro “malattia mentale” si è manifestata nel corso della detenzione.
Pensiamo che il carcere sia una delle manifestazioni più palesi della infondatezza della definizione scientifica di “malattia mentale”. Immaginiamo per esempio, per chi non ne abbia esperienza diretta, il momento di un primo ingresso all’interno del sistema carcerario: la rottura dei rapporti con il mondo esterno, le fragilità e le problematiche individuali e relazionali, la precarietà dei rapporti affettivi, l’assimilazione coatta di quell’insieme di norme che governano ogni aspetto di vita quotidiana e che possono portare ad un annichilimento della personalità e dei valori che erano propri prima dell’ingresso in carcere. Gli addetti ai lavori denominano con “sindrome da prigionizzazione” le profonde difficoltà, l’alienazione, la sofferenza che tutto ciò può comportare. L’ambiente carcerario è terribilmente nocivo soprattutto per coloro che sono sforniti di strumenti adeguati a reagire al contesto di privazione della libertà personale.
Persino l’essere in prossimità alla scarcerazione può determinare una serie di preoccupazioni e ansie legate al reinserimento all’interno della società così detta “libera”. Ma se riconosciamo come vero quanto sopra descritto, ci chiediamo: come è giustificabile la visione organicista della psichiatria insita nella definizione di “malattia mentale”? Come è possibile non vedere quanto invece sia l’ambiente, le (squalificate) relazioni, l’assenza di affettività a determinare quelle reazioni (forse invece davvero sane) di “non adattamento”, di “rifiuto al conformarsi”, di chiusura in sé stessi o di fuga? Come “fughe”, in fondo, sono spesso i numerosi suicidi che all’interno delle patrie galere aumentano di anno in anno in modo esponenziale. Secondo uno studio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2016 i suicidi tra la popolazione “libera” erano pari allo 0,82 per 10.000 abitanti; nel 2019 in carcere 8,7 ogni 10.000. A dicembre 2020 in carcere si sono suicidate ben 55 persone, per non parlare dei tentati suicidi e degli atti di autolesionismo.
E partiamo proprio da questo dato per provare a guardare oltre le spesse mura perimetrali di un carcere oggi, a circa due anni dalla pandemia (che preferiremmo chiamare sindemia).
Conosciamo bene il devastante impatto che questo periodo ha portato alle nostre vite.
Ma sappiamo anche qualcosa di quanto accaduto all’interno delle carceri: la consapevolezza delle persone detenute del disinteresse delle istituzioni nei loro confronti e, già in tempi precedenti al manifestarsi del Covid-19, della sciatteria del servizio sanitario penitenziario hanno fatto sì che la rabbia esplodesse. E solo quella rabbia, punita con morti, mattanze e vendette anche a freddo, ha determinato che, obtorto collo, ci si è dovuti accorgere delle circa 61.000 persone che, dentro le galere, rischiavano la vita e la loro salute. La miccia, per l’esplosione di quella rabbia, è stata l’unica decisione di “prevenzione della salute” assunta dallo Stato: la chiusura dei colloqui con i loro familiari.

A questa ha fatto seguito la totale blindatura del carcere all’ingresso di tutte le persone che non fossero personale lavorativo. Niente più di quel già poco che c’era: nessun lavoro, nessun corso di formazione o scuola, nessuna attività. Le carceri sono diventate dei fortini, al cui interno tutto era possibile. Quel po’ di trasparenza che c’era prima dell’emergenza sanitaria ha ceduto il posto ad un’opacizzazione totale. Prova ne è il tempo che è passato prima che venisse alla luce quanto accaduto all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere.

Una delle seguenti misure preventive adottate (e ancora vigente) è stato l’isolamento sanitario sia per chi entra in carcere dall’esterno (ovviamente detenuto/a) sia per chi presenta sintomi da Covid-19.
L’isolamento è sempre stata una delle misure punitive più adottate in carcere e si realizza con la separazione dalle altre persone detenute. Le celle predisposte per questo regime detentivo mancano, a volte, persino dei materassi, coperte, lenzuola. Sono presenti solo un letto, un tavolo e uno sgabello fissati al pavimento, un mobiletto per i pochi effetti personali concessi. Assente, molto spesso, anche la televisione. In molti casi il bagno è visibile dallo spioncino o con telecamere a circuito chiuso. Capita che non ci siano vetri alle finestre né alcuna forma di riscaldamento. In genere anche le aree esterne, dove si passano le ore d’aria, sono le peggiori dell’istituto perché piccole e spesso coperte da reti.

Stare in quella condizione può essere causa di danni fisici e psichici enormi. Effetti ricorrenti sono la sociofobia, gli attacchi di panico, difficoltà nell’interagire, ansia, disturbi del sonno, disfunzioni cognitive, letargia, depressione, rabbia, allucinazione, automutilazione, comportamento suicida e molti altri effetti.

E molto spesso questi effetti proseguono anche una volta finito il periodo di isolamento.

Ora, l’isolamento previsto per la prevenzione della salute (di circa 14 giorni) non comporta limitazioni così vessatorie, ma comunque si è soli/e con se stessi/e, con la paura della malattia e delle sue conseguenze, senza uno scambio relazionale di fiducia, senza un affetto, all’interno di un posto che, per usare un eufemismo, è ostile.

Insomma questi ultimi 2 anni dentro le carceri (come, anche se in misura diversa, fuori le galere) hanno drasticamente peggiorato le condizioni di vita quotidiana, fisiche ed emotive.
La stampa, quella poca che si interessa all’argomento carcere, spesso riporta di situazioni allo stremo e della quantità, sempre più in aumento, di persone detenute che manifestano disagi “psichici e psichiatrici” in quasi tutte le galere d’Italia. Le testimonianze sono (a parte alcuni pochi casi che risaltano alla cronaca) portate dalle guardie penitenziarie che non perdono occasione per avanzare le loro rivendicazioni di categoria, denunciando aggressioni su aggressioni da parte delle persone detenute portatrici di “disagio psichico”.

La disponibilità di posti all’interno delle REMS è limitata per le ragioni sopra riportate e c’è una lunga lista di attesa. Al 30 novembre 2020 si segnalano 175 persone (di cui il 31% in attesa in un istituto penitenziario) che attendono di essere inserite all’interno di quelle strutture (nel 2019, alla stessa data, 92). Persone che nel frattempo restano in carcere nonostante, a seguito della sentenza 99/2019 della Consulta, sia prevista la possibilità che il giudice possa disporre che la persona, che durante la detenzione manifesti una “grave malattia di tipo psichico”, venga curata fuori dal carcere e quindi concederle (anche quando la pena residua sia superiore a 4 anni) la misura alternativa della detenzione “umanitaria” o in “deroga”, come già previsto per le persone detenute con gravi malattie fisiche.

E allora cosa sta accadendo all’interno dell’inferno degli istituti penitenziari?

Intanto dobbiamo sapere che i farmaci più profusi e, soprattutto, gli unici sempre disponibili sono gli psicofarmaci. Chiunque può avere la sua, anche abbondante, dose quanto meno serale di “terapia”. Avere persone docili e dormienti è utile ad una gestione che punta alla riduzione ai minimi termini del conflitto. Poco importa se chi uscirà un giorno da quelle mura sarà un farmaco-dipendente per il resto della sua vita.

Inoltre si stanno organizzando e implementando delle sezioni speciali dette “Articolazioni per la salute mentale”.
Di seguito alcuni stralci di quanto riportato nel XVII Rapporto dell’associazione Antigone a proposito di quei reparti ed, in particolare, all’interno della Casa Circondariale delle Vallette (TO).

“…Tali reparti sono destinati a condannati o internati che sviluppino una patologia psichiatrica durante la detenzione o a condannati affetti da vizio parziale di mente, e si prevede che la permanenza nelle suddette sezioni non debba essere superiore a trenta giorni. Lo scopo formale è quello di garantire a questi soggetti un’attività di tipo terapeutico e riabilitativo in maniera continuativa e individualizzata. Tuttavia, le criticità che si riscontrano all’interno di queste sezioni, in molti casi del tutto sprovviste di adeguati percorsi trattamentali e risocializzanti, finiscono per rendere nulle le intenzioni di cura che il legislatore si era posto come fine ultimo, diventando terreno fertile per il peggioramento delle patologie dei soggetti che ne vengono ristretti. Molto spesso infatti, l’approccio terapeutico nelle sezioni di osservazione si limita al contenimento del detenuto, spesso in acuzie, e alla somministrazione della terapia farmacologica, dando priorità alle ragioni di ordine e sicurezza, come dimostrato dalla presenza in alcuni di questi reparti delle cosiddette celle lisce.

Per comprendere più a fondo la questione relativa alle articolazioni per la salute mentale, prendiamo in esame proprio la Casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino, nello specifico il reparto “Sestante”. Lo stesso rappresenta il centro di riferimento regionale per la cura delle più gravi malattie mentali manifestate dai detenuti, ed è anche uno dei centri di riferimento dell’amministrazione penitenziaria a livello nazionale.

Il reparto è suddiviso a sua volta in due sezioni: la Sezione VII, reparto osservazione, in cui vengono ristretti i soggetti in acuzie, sottoposti a videosorveglianza in maniera continuativa, e la Sezione VIII, reparto trattamento, per soggetti che vengono valutati idonei a intraprendere un percorso terapeutico. Come riportato dal rapporto del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute e private della libertà personale, a seguito di una visita effettuata nel 2018, le criticità più evidenti vengono riscontrate soprattutto nella sezione VII: nonostante nasca come luogo in cui debbano essere ristretti soggetti nella fase più acuta dunque soggetti che avrebbero maggiore bisogno di cure, viene segnalata la totale mancanza di qualsiasi progetto terapeutico e l’esclusione di attività che consentano qualsiasi forma di socialità. I detenuti si trovano ristretti in celle singole per la quasi totalità della giornata. In questi casi, la tutela alle necessità specifiche di tali soggetti, sembra in continuo conflitto tra modalità di isolamento e un trattamento di cura delle problematiche di salute mentale. A riprova di ciò, l’elemento di maggiore criticità viene riscontrato è rappresentato dalla presenza di una cella liscia, la stanza 150, che manca di qualsiasi elemento di arredo, televisore compreso, con servizio igienico alla turca a vista e senza lavabo. Un altro dato allarmante che viene riportato dal Garante è rappresentato dal registro degli accessi in cella liscia: nonostante infatti formalmente venga dichiarato che la permanenza nella stessa dura generalmente qualche ora, in realtà vengono registrati in alcuni casi la permanenza di soggetti per periodi superiori a venti giorni.

Le condizioni strutturali generali del reparto, inoltre, risultano anch’esse particolarmente scadenti: tutte le camere presentato necessità di interventi di ristrutturazione; viene denunciata sporcizia diffusa, tracce di muffa, materassi scaduti e servizi igienici a vista in tutte le celle. L’unico elemento di positività è rappresentato dall’assistenza psicologica e psichiatrica che viene garantita quotidianamente dalle 8:00 alle 20:00. La sezione VIII, o reparto trattamento, presenta senza dubbio delle condizioni complessivamente migliori. Le camere sono in buone condizioni per quanto riguarda l’arredamento e la manutenzione e i bagni sono separati. Inoltre, all’interno della sezione vi è una sala biblioteca, una stanza per l’attività trattamentale e un ambulatorio per percorsi congiunti con psicologi, psichiatri ed educatori…”.

Insomma morto un OPG se ne fa un altro.
E il sistema manicomiale esce ed entra sempre da porte e finestre blindate.

Collettivo “SenzaNumero”
senzanumero@autistici.org
senzanumero.noblogs.org/

SCUOLA E PSICHIATRIA

Il campo nel quale, negli ultimi anni, si è registrato il maggiore aumento di diagnosi psichiatriche e prescrizioni di psicofarmaci è senz’altro quello dell’infanzia e dell’adolescenza. Oggi a scuola sono sempre di più i bambini che hanno diagnosi psichiatriche, in particolare disturbo dell’adattamento, dell’attenzione, iperattività, depressione, disturbo bipolare. Questa tendenza è aumentata e si è rafforzata durante la pandemia da Covid-19. Non è lecito trasformare quanto accaduto in seguito all’emergenza sanitaria in processi diagnostici, cercando disturbi in comportamenti che sono semplicemente la conseguenza di aver vissuto un periodo senza contatti sociali, con poca possibilità di fare sport e movimento, con la scuola a singhiozzo e senza relazioni amicali.

L’introduzione di nuove patologie specifiche per l’infanzia e l’aumento a dismisura dello spettro delle patologie psichiatriche nell’ultimo Manuale Diagnostico e Statistico (DSM) del 2013, ha allargato i confini diagnostici tra ciò che è normale e ciò che non lo è, favorendo l’entrata in psichiatria di un numero sempre più alto di bambini, a cui sono prescritti psicofarmaci per periodi più o meno lunghi della loro vita. Si tratta di un aumento percentuale, senza precedenti in Italia, e che pone più di un dubbio sull’attuale boom terapeutico a cui sono sottoposte le giovani generazioni nel nostro Paese. Tutti i dati statistici confermano una sensazione diffusa tra chi passa la propria vita, professionale e non, nelle aule della scuola italiana: siamo di fronte a un aumento esponenziale di diagnosi e certificazioni di disabilità, di patologie psichiatriche, disturbi e difficoltà.

Il fenomeno degli eccessi di neurodiagnosi e di certificazione scolastica di disabilità che, negli ultimi dieci anni, si è letteralmente abbattuto sui bambini, non lascia molti margini di interpretazione statistica. L’esplosione delle diagnosi (passate da 1,4% del 1997/98 a 3,1% del 2017/18), mostra come in venti anni esse siano più che raddoppiate: da 123.862 a 268.246. Salta agli occhi il fatto che attualmente la tipologia più diffusa è quella delle disabilità intellettive che da sole rappresentano il 68,4% del totale.

L’attuale tendenza dell’insegnamento e della pedagogia è quella di farsi coadiuvare dalla neuropsichiatria ogni qualvolta un bambino disturba o contrasta i programmi formativi. Il “disagio” comportamentale, invece di essere valutato come un campanello d’allarme nella relazione con l’adulto, viene incasellato come un problema mentale del bambino, dispensando così l’educatore o l’insegnante dal modificare l’approccio educativo e delegando il problema a un neuropsichiatra. “L’educatore così – deresponsabilizzato e dispensato dal dover modificare il proprio approccio educativo – delegherà a un esperto il problema (reale o apparente che sia), il quale lo affronterà dal punto di vista della salute mentale. La pedagogia di stampo più repressivo si rinnova nel tentativo di contenere chimicamente quelle condotte non riconducibili alla norma; così si elimina la soggettività, si disciplina quella potenziale libertà presente nell’infanzia che, attraverso desideri e aspirazioni, porterebbe a una personale interpretazione dell’esistenza”. Vince così il paradigma biologico secondo cui questi bambini hanno qualcosa che non va nel loro cervello e per questo dovranno assumere psicofarmaci. Molti psichiatri trovano più semplice dire ai genitori e agli insegnanti che il bambino ha un disturbo mentale anziché suggerire dei cambiamenti rispetto alla genitorialità o all’educazione. Il comportamento considerato deviante e non conforme ai canoni prestabiliti di normalità viene isolato, fotografato, trasformato in diagnosi, strappato al rapporto relazionale insegnante-alunno e, sempre più spesso, curato con i farmaci. La medicalizzazione della scuola è inquadrabile all’interno dell’esigenza di ridurre a una risposta semplice e immediata l’interazione complessa dei diversi fattori che determinano i comportamenti in età evolutiva.

Le scuole sono invase da screening neurodiagnostici, alla ricerca di presunti disturbi che altro non sono che la legittima risposta dei bambini e ragazzi alle difficoltà. Centri specializzati, senza alcuna cornice normativa, entrano nelle scuole, col consenso di dirigenti e di insegnanti mal consigliati, per cercare disturbi dell’apprendimento, dello spettro autistico e dell’iperattività. Si tratta di evitare che i più piccoli vengano raggiunti da questi tentativi, proposti nelle scuole senza alcun quadro normativo, di realizzare screening per andare alla ricerca di questi disturbi.

Sarebbero 80.000 gli studenti con ADHD (Disturbo da Deficit dell’Attenzione e Iperattività) e circa 400.000 quelli con funzionamento intellettivo ridotto, con un’incidenza pari al 5% sull’intera popolazione studentesca italiana. In mancanza di statistiche più attendibili, sembrerebbe che proprio le difficoltà momentanee, come la timidezza, l’ansia, i dissesti economici, il lutto, i problemi di lingua conseguenti alle migrazioni, e le circostanze avverse della vita siano i principali protagonisti dei pervasivi meccanismi medicalizzanti e psichiatrizzanti che stanno scuotendo dalle fondamenta della scuola italiana. Significativo è il fatto che in Italia gli alunni stranieri siano 815.000, il 9,2% dell’intera popolazione scolastica e di questi il 12% sia stato certificato.

Una delle diagnosi fra le più diffuse a scuola è quella di ADHD, che raggruppa un insieme di comportamenti considerati inadeguati e anormali dello scolaro, che possono essere causati da innumerevoli fattori, come l’ansia per la scuola o per le verifiche, l’impreparazione scolastica, una classe noiosa, un insegnamento inadeguato, problemi e conflitti a casa o a scuola, cattiva alimentazione e insonnia. La diagnosi di ADHD non mette in relazione lo stato mentale, l’umore e i sentimenti del bambino e non dà luogo a una valutazione completa dei suoi bisogni reali per migliorare l’educazione e la genitorialità. Tale diagnosi ha determinato il ricorso sempre più massiccio all’utilizzo di sostanze psicotrope come il Ritalin, uno stimolante a base di metilfenidato prodotto dalla Novartis Farma Spa, che ha effetti simili a quelli delle anfetamine. Il Ritalin agisce principalmente sulla ricaptazione della dopamina, ma non sono chiare né la gamma completa delle sue interazioni biochimiche, né la modalità d’azione.

Un altro farmaco utilizzato è lo Strattera (atomoxetina), un inibitore della ricaptazione della noradrenalina. La casa produttrice Ely Lilly non è riuscita a farlo approvare per la depressione, ma lo vende come trattamento “non stimolante” per l’ADHD. Molti bambini hanno sviluppato impulsi suicidi e omicidi sotto l’effetto dell’atomoxetina, che può inoltre provocare insufficienza epatica. Negli Stati Uniti, negli ultimi anni, ai bambini piccoli con diagnosi di ADHD viene somministrato l’Adderall, un composto di sali di anfetamina precedentemente utilizzato per la riduzione di peso con il nome di Obetrol, screditato e ritirato dal mercato poiché creava dipendenza. Questo farmaco è stato ritirato dal mercato canadese nel 2005 dopo che quattordici bambini sono morti improvvisamente e due hanno avuto un ictus.

Di certo gli stimolanti a qualcosa servono: aiutano il contenimento di comportamenti considerati anormali. I farmaci per l’ADHD sono popolari tra gli insegnanti perché rendono il loro lavoro più facile, ma è giusto dare farmaci ai bambini per renderli meno disturbanti? Gli stimolanti non producono miglioramenti duraturi rispetto all’aggressività, al disturbo della condotta, agli atteggiamenti violenti, all’efficacia negli apprendimenti, alle relazioni.

Ebbene, anche nel caso in cui gli psicofarmaci producessero risultati positivi dal punto di vista del comportamento a scuola, sarebbero d’aiuto per il bambino? Oltre ad agire solo sui sintomi e non sulle cause della sofferenza della persona, gli psicofarmaci alterano il metabolismo e le percezioni, rallentano i percorsi cognitivi e ideativi contrastando la possibilità di fare scelte autonome, generando fenomeni di dipendenza e assuefazione del tutto pari – se non superiori – a quelli delle sostanze illegali classificate come droghe pesanti. Presi per lungo tempo, possono portare a danni neurologici gravi che faranno del bambino un disabile. Oggi, a scuola, si mira sempre più a un addestramento alla produttività, all’efficienza e alla centralità del risultato. Molti insegnanti sono stati convinti dall’autorità dello psichiatra che i bambini che esprimono comportamenti sofferenti abbiano bisogno di farmaci stimolanti per cui i maestri e le maestre hanno rinunciato alla ricerca di soluzioni in classe per risolvere i problemi. In realtà questi docenti dovrebbero essere incoraggiati a cercare e trovare nuovi metodi nell’educazione. Insegnare dovrebbe dare priorità alla relazione, sapere e poter sperimentare approcci didattici e pedagogici a seconda della persona con la quale ci si rapporta. Esistono approcci didattici e pedagogici che, anziché sopprimere la spontaneità, aiutano gli studenti che manifestano “disagio” ed evitano di trattare il loro cervello in crescita con sostanze altamente tossiche come gli stimolanti. Insegnare è un’attività fluida, cangiante, sfumata, che cambia da persona a persona, da situazione a situazione, proprio perché basata sull’interazione e non sui dogmi. L’attività dell’insegnamento ha tante caratteristiche, ma non dovrebbe avere quella dell’assolutezza, dell’indiscutibilità, della categoricità. Non esistono metodi validi in assoluto: insegnare è un’attività che fa interagire soggettività, singole e di gruppo. Significa condividere pezzi di vita, conoscenze ed esperienze. Non indottrinare, ma interagire; non preparare al lavoro, ma preparare alla vita.

È compito degli adulti difendere le nuove generazioni tornando a riflettere sull’importanza dell’ambito sociale, comunitario e relazionale per la loro educazione. È necessario che genitori, insegnanti, educatori e tutti coloro che hanno a che fare con i bambini, non cedano al riduzionismo psichiatrico, non psichiatrizzino ogni comportamento disturbante e/o sofferente, affinché la fantasia, il senso critico e la libertà di scelta possono continuare a caratterizzare l’infanzia.

http://www.giornale.cobas-scuola.it/ossessione-diagnostica/
Gazzola C., Ortu S., Divieto d’infanzia, BFS Edizioni, Pisa, 2018, p. 113 http://www.giornale.cobas-scuola.it/ossessione-diagnostica/∑ Santerini M., “Diamo a ciascuno il tempo di cui ha bisogno”, in: Conflitti. Rivistaitaliana di ricerca e formazione psicopedagogica, n. 3, 2017, p. 32.
Esposito A., Le scarpe dei matti, Ad Est dell’Equatore Editore, Napoli, 2019.6 Whitely M., “Strattera a sad story (warning it may make you want to kill your- self)”, 2015, su http://www.speedupsitstill.com/strattera/7 Gotzsche P.C., Psichiatria letale e negazione organizzata, Fioriti Editore, Roma, 2017. 8 Whitaker R., Indagine su un’epidemia, Fioriti Editore, Roma, 2013.

Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud-Pisa

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RILFESSIONE SULLA SOFFOCANTE TUTELA PSICHIATRICA

Chi come chi scrive ha vissuto o vive una storia di psichiatrizzazione, su cui vorrei abbattere ogni stigma perché può capitare a chiunque in diverse età della vita per diversi motivi, può testimoniare facilmente la sensazione di sentirsi espropriat del proprio sentire e del proprio volere da parte di figure che pretendono di conoscere gli interessi di un individuo meglio dell’individuo stesso.

Riconosco che la mia esperienza personale non è per forza paradigmatica o generalizzabile e che esistono varie forme gravi di stigmatizzazione, fra cui la negazione del vissuto di chi prova esperienze di sofferenza non riconducibili e accertabili come ‘fisiche’ o visibili, tuttavia ho sentito l’urgenza di denunciare in particolare l’aspetto di sovradeterminazione del soggetto da parte della psichiatria, mascherato da ‘cura’ e ‘tutela’, ma di una cura e tutela istituzionalizzate.

Di questo vorrei che si parlasse e mi riferisco anche ai rari casi in cui formalmente il parere del/la pazient psichiatric viene per un attimo preso in considerazione, ma sempre in quanto parere ‘soggettivo’ e condizionato, e si arriva quindi in diversi modi alla prassi di costringere più o meno con le buone o con le cattive la persona a perseguire il proprio bene, intendendo per tale quello indicato dall psichiatra. Questo fenomeno si verifica in diversi gradi e in diverse modalità anche in molti altri ambiti e sembra diffondersi sempre più in maniera capillare nella società, in una logica che non dovrebbe farci abusare del termine TSO fuori dal suo contesto, ma che ha sicuramente qualcosa o molto a che fare con una società in cui il TSO è ammesso e viene praticato.

Esiste sicuramente un aspetto custodialistico anche nella scolarizzazione; il/la minorenne, in quanto infante o adolescente, ha bisogno di essere accompagnat nella sua crescita ma gli aspetti educativi e pedagogici cosiddetti ‘formativi’ molto spesso (o comunque più spesso di quanto siamo dispost ad ammettere) lasciano il posto a un mero esercizio di sorveglianza e controllo, e ogni bambin è continuamente sovradeterminat dall’adult, che a sua volta può arrivare a delegare la propria responsabilità a figure di specialist della psiche, come ben mostrato negli altri testi dedicati.

Analogamente il/la paziente psichiatric è continuamente infantilizzat e trattat con paternalismo, considerato incapace di autodeterminarsi e di coltivare reti sociali. Quest’ultimo aspetto in particolare, che può costituire un orizzonte di senso, di guarigione o di vera e propria salute, anche quando presente viene spesso ridimensionato o considerato insufficiente a fronte del pregiudizio psichiatrico della sacralità della diagnosi e di una sorta di profezia autoavverantesi di trovarsi di fronte nient’altro che un paziente, utente o potremmo dire ‘cliente’ della psichiatria.

Viceversa è proprio questa possibilità di intessere relazioni di prossimità e affinità, fra i mille ostacoli di una società anomica e spesso ostile, a costituire una vera e propria esperienza esistenziale lontana anni luce da questa soffocante tutela psichiatrica.

Per concludere, un approccio interdisciplinare ci fa vedere come non sia forzato intravedere in altre forme di gabbia elementi in comune con la psichiatria.
Proprio tale approccio intersezionale ha mostrato lampi di possibilità, seppur talvolta inespressa, di squarciare la cappa opprimente e prendersi qualche boccata d’aria pure nella nuova fase della pandemia, che sta accentuando e accelerando dinamiche già in corso di isolamento sociale e retoriche anche istituzionali sulla resilienza e l’adattamento passivo a cambiamenti forzati e turbolenti.

Così almeno è stata per chi scrive la lettura di un importante articolo decoloniale anticarcerario dell’estate calda statunitense del 2020 che metteva in rilievo come l’abolizione del carcere debba includere la psichiatria e merita di essere ripreso (tradotto in italiano con il titolo “l’abolizionismo deve includere la psichiatria”) di cui riporto due note importanti:

L’abolizione della psichiatria non significa che a nessunx sia permesso identificarsi con diagnosi psichiatriche che ritengono essere loro utili, o che nessunx possa continuare a prendere farmaci psichiatrici che ritengono efficaci. Significa, tuttavia, che la nozione di “malattia mentale” è stata inventata per patologizzare le risposte logiche allo stress e ai traumi che sono onnipresenti in un mondo brutalizzato dal colonialismo e dal capitalismo.

Vorremmo anche confermare che alcune persone hanno avuto buone esperienze in istituti psichiatrici. Da un’ottica abolizionista, crediamo che le parti buone di quelle esperienze potrebbero essere replicate e migliorate all’interno dei centri di riposo e altre innovazioni negli spazi di guarigione non carcerari. Inoltre, dire che hai avuto una buona esperienza in un reparto psichiatrico e quindi la psichiatria non dovrebbe essere abolita è come dire che la polizia ti ha aiutato e quindi non dovrebbe essere abolita.

Contributo antipsi resistente

PSICHIATRIA IN ADOLESCENZA, STATI INTEGRATI DA DISGREGARE

La storia della psicologia e (soprattutto) della psichiatria è segnata da diagnosi che, comparse velocemente e diventate tanto di moda quanto i jeans a zampa negli anni 70 o le spalline nel decennio seguente, sono poi state abbandonate per far posto ad altre “malattie”. Nelle stesse università, durante i corsi di storia della psicologia, prima o poi si affrontano alcune tematiche che hanno segnato indelebilmente la società. Ad esempio l’isteria connotava solo ed esclusivamente le donne e la radice del termine mette subito in chiaro perché (hysteron = utero): fino alla fine dell’ottocento praticamente tutte le donne della medio-alta borghesia ne erano affette. Lasciando perdere le interpretazioni più o meno plausibili sul motivo per cui proprio in quel momento storico sia comparsa questa diagnosi (anche perchè le interpretazioni sono state sviluppate solo ed esclusivamente da uomini, guarda caso), è un dato di fatto che con il veloce cambio del sistema sociale la cosiddetta isteria sia sparita nel nulla nel giro di un decennio. Altro esempio il disturbo dissociativo dell’identità, dove una persona sviluppa più identità che convivono più o meno amorevolmente dentro uno stesso corpo. Tanto in voga negli anni 70, negli 80 inizia a scemare per scomparire praticamente ovunque nel mondo. Alcuni manuali raccontano addirittura di persone che avrebbero sviluppato più di 20 personalità, quasi fosse una gara a chi era in grado di interpretare più ruoli.

Noi crediamo che le malattie, per essere tali, non possano essere legate al momento storico come nei casi descritti sopra. L’ipertensione o il diabete sono patologie che possono essere controllate con la dieta, ma esistono comunque e siamo certi non spariranno nel breve periodo. L’omosessualità, che qualcuno considera tutt’oggi una patologia, nella storia del DSM è passata dall’essere una malattia da curare a suon di elettroshock e docce gelate all’essere definita devianza, per speriamo sparire definitivamente da qualsiasi manuale in un prossimo futuro. Eppure ci sono condizioni esistenziali, anche di altro tipo, che per motivi tutt’altro che chiari e leciti diventano improvvisamente “malattie”. Nell’ultimo anno e mezzo la pandemia che ha volenti o nolenti sconvolto la vita dell’intero pianeta, in alcuni momenti in particolare ha segnato ancor maggiormente la nostra quotidianità. Soprattutto in alcune zone d’Italia, Brescia e Bergamo in primis, contagi e morti hanno sconvolto la nostra quotidianità. Senza scomodare il corteo delle bare trasportate dall’esercito, è innegabile che l’impatto della pandemia sia stato devastante. L’occhio della stampa si è posato a ripetizione un po’ su tutti, ma soprattutto su bambini e adolescenti, ovvero coloro che più hanno subito le conseguenze negative delle restrizioni non potendo più frequentare la scuola. Già questo è un aspetto che potremmo criticare: homeless, migranti e detenuti si giocano ampiamente il podio di chi ha visto la qualità della propria vita peggiorare drasticamente. Ma evitiamo inutili classifiche e andiamo avanti.

È innegabile che anche i più piccoli abbiano subito un disagio da questa situazione, ma ancora una volta si è corsi a patologizzare una condizione straordinaria che avrebbe comunque avuto una sua conclusione. Anche stavolta l’occhio della stampa e della società hanno esplorato solo un aspetto della situazione che si è venuta a creare, ovvero l’impossibilità di partecipare a quel momento sociale (fondamentale) che rappresenta la scuola. Scorrendo i titoli dei giornali poi si trovavano solo riferimenti catastrofici all’anno perso e alle capacità cognitive dei minori andate in fumo, ignorando le voci dissonanti che comunque si levavano per tranquillizzare le famiglie. Non servono infatti studi decennali in pedagogia o neurofisiologia per sapere che il cervello umano nei primi 20 anni di vita ha una formidabile capacità di adattamento e recupero cognitivo dopo situazioni di pesante e prolungato stress. Abbassare la tensione però non è mai un buon argomento con cui vendere copie dei quotidiani o essere seguiti in tv, perciò a certe voci non è stato dato lo spazio che meritavano.

Si insinua perciò il sospetto che, anche in questo ambito, pandemia e lockdown abbiano incrementato il mercato degli psicofarmaci in quel territorio che da vent’anni a questa parte è sinonimo di affari per le grandi case farmaceutiche. Dopo l’espandersi delle diagnosi di ADHD e disturbi dell’attenzione, secondo alcuni esperti dovuto alla maggior capacità di diagnosi, ma che in effetti ci lascia se non scettici almeno un po’ dubbiosi, l’occhio della psichiatria si è spostato verso il preadolescente e il suo desiderio di isolamento. Non essendo più possibile diagnosticare una dipendenza da videogiochi o telefonino come in un recente passato, sembra che la diagnosi psichiatrica debba comunque trovare qualcosa che non va, orientandosi in un verso o nell’altro a seconda di come la società cambia. Tornando agli esempi riportati, fino a vent’anni fa passare più di 4 ore al giorno giocando alla play o utilizzando il cellulare erano considerati condizione di dipendenza. Oggi è la normalità. Domani sarà (ipotizziamo) considerato patologico l’individuo che non si iscrive a nessun cosiddetto social e perciò degno di diagnosi.

Durante la pandemia la condizione di difficoltà dei più giovani (che non neghiamo) è diventata ben presto patologia, grazie anche all’attenzione posta dall’OMS all’incremento dei fondi da dedicare alla presunta salute mentale. Ancora una volta però siamo convinti che, come in passato, questa condizione dilagante di isolamento-depressione-apatia legata al covid sia figlia delle mode e venga cavalcata a beneficio dei soliti noti.

Sempre non volendo negare l’esistenza di un disagio o di condizioni di fragilità, non ci è capitato infatti di sentire gli “specialisti” consigliare il ritorno al contatto con l’altro, alla socialità, all’impegno per i più bisognosi, ma sempre più suggerire di rivolgersi ai servizi sanitari. Ancora

una volta la risposta è stata delegare e approdare al farmaco, quando invece l’isolamento e la chiusura in sé stessi si combatte solo con la socialità e il confronto. Pandemia o no, crediamo sia possibile trovare nuove forme di socialità o addirittura, atto ancor più rivoluzionario, ristabilire quelle forme di incontro che rischiano di sparire nel nulla.

Al netto di ciò che uno possa pensare su vaccini o green pass, la grande ribellione di cui abbiamo bisogno ora e di cui necessitano soprattutto i più giovani è il ritorno all’incontro, alla socialità e all’impegno politico e civile. Il centro sociale, la strada, l’incontro con l’altro sono la scuola di cui hanno bisogno ora i più giovani…e anche noi.

CAMAP – Collettivo Antipsichiatrico Camuno
http://collettivoantipsichiatricocamuno.blogspot.com/

SU MEDIA, ACCELERAZIONE DIGITALE E ALIENAZIONE AL TEMPO DEL COVID

L’isolamento imposto durante il lockdown si è insediato su una condizione di profonda miseria umana e materiale che ha indebolito rapporti e legami, esasperato paure e divisioni, e impedito nella maggior parte dei casi elaborazioni critiche della realtà, dei vissuti e delle esperienze.

La componente affettiva ed emotiva delle relazioni è stata trascurata generando conflitto e ulteriore angoscia, facendo sentire le persone ancora più isolate.

Frustrazioni e paure sono dilagate online, nei circuiti delle platee digitali: chat, social network, liste e siti di ogni genere e sorta hanno alimentato una macchina parossistica di testi, immagini, emozioni forzate, informazioni e disinformazioni che hanno spinto chiunque a prendere ‘partito’, tra applausi, dissensi ed indignazioni, in una realtà sempre più rarefatta, divenuta rappresentazione, sfondo, vetrina per l’ego atomizzato di ognunx.

Riversare la proprie frustrazioni e la propria solitudine online ha esposto a tutta una serie di insidie, incidenti e fraintendimenti le vulnerabilità di molte persone: ascolto, solidarietà e riflessione critica hanno ceduto il passo a semplificazioni eccessive e a comunicazioni ‘eclatanti’, la velocità con cui si è giocata l’informazione, la drastica riduzione delle complessità imposta dalle piattaforme (messaggi abbreviati, numero di caratteri limitato, video molto brevi, comunicazione prevalentemente visuale) unitamente alla distanza tra le parti coinvolte e spesso alla poca conoscenza reciproca, ha incoraggiato interazioni “di pancia” che non hanno richiesto né sforzo, né empatia con nessunx, esattamente alla maniera dei social network commerciali, dove emerge ed è premiato il contenuto che stupisce di più, la voce che urla più forte.

L’eco e la pressione della visibilità pubblica e della ‘reputazione’ hanno aumentato il senso di competizione/prestazione dei botta e risposta, commenti artefatti in cambio di qualche like e opinioni posticce sono diventati in molti casi vestitini per l’ego da indossare all’occorrenza sull’argomento ‘indignato’ del giorno in attesa di quello del giorno dopo in una memoria “scroll” che il più delle volte non ha depositato nulla, se non il vuoto di cui si è nutrita.

Algoritmi specifici hanno privilegiato notizie e informazioni in linea con le ricerche già effettuate ed esasperato ulteriormente le bolle informative già presenti, impegnando tantissimx a confermare soltanto se stessi.

Se da una parte l’affidamento acritico a social network e chat ha amplificato polarizzazioni, semplificazioni, dinamiche competitive e aggressività, a scapito della qualità e della profondità delle interazioni, dall’altra ha potenziato, in un momento di forte disorientamento collettivo, il conformismo di gruppo e l’accondiscendenza per senso di appartenenza, riducendo l’attitudine al ragionamento autonomo e al pensiero critico.

Il livello di fragilità in circolazione è aumentato: odio online e bisogno di visibilità si sono alternati in un debilitante gioco dove la tensione è stata il più delle volte scaricata tra oppressx.

Il tempo speso male all’interno di piattaforme digitali, l’esposizione acritica di relazioni, framework di vissuti e comunicazioni a platee pubbliche e a configurazioni commerciali, l’informazione abnorme ma parziale, la continua esposizione a condizionamenti e suggestioni, l’assedio di notifiche costanti, il condizionamento a controllare costantemente profili social e chat, insieme all’utilizzo di schermi anche alle sera e alla notte, ha indebolito la qualità del sonno e della veglia e le funzioni riflessive ed emotive e di moltx.

In generale l’affidamento all’informazione pervasiva, la convinzione che la risposta alla vita, all’universo e tutto quanto si trovi facilmente con un clic, ha fatto credere a moltx che la ‘conoscenza’ possa risiedere ‘fuori da sè’ ed essere tirata fuori all’occorrenza. Ma affidare senza discriminazione la propria conoscenza a dispositivi esterni e le proprie risposte ad un motore di ricerca non crea reale e autentica conoscenza, né originale elaborazione personale. Viviamo nell’illusione di poter accedere ad informazioni incredibili ma se non abbiamo il tempo e le capacità di elaborarle, approfondirle, discriminarle, discuterle, comprenderle, se non sappiamo considerarne i contesti, le premesse e l’affidabilità, se non sappiamo verificarne le fonti, l’attendibilità ecc., le subiamo e basta, non costruiamo conoscenza individuale, ne critica collettiva utile, non ce ne facciamo nulla. La conoscenza rischia di ridursi sempre più ad un puro esercizio di ripetizione di contenuti semplificati indisponibile ad incidere in modo significativo sulle esperienze e sul piano della realtà.

Tutto questo è sempre stato vero, il contesto pandemico lo ha esasperato: la pervasività dei media e l’accelerazione della digitalizzazione di ogni aspetto della vita sta coinvolgendo e stravolgendo ogni campo dell’esistente, per questo sentiamo urgente una riflessione critica antiautoritaria e antipsichiatrica alle tecnologie che sia in grado di non sedersi sul proprio privilegio e che sia attenta a non ridurre la realtà ad una semplificazione astratta e indeterminata: gli scenari dei diversi contesti di dominio, abuso e sfruttamento è composta da molteplici oppressioni che altrimenti rischierebbero di essere invisibilizzate.

Se è vero che la rete ha permesso il non completo isolamento di chi altrimenti non avrebbe avuto alcuna possibilità di relazione o qualsivoglia simulacro di compagnia e/ o calore, consentendo a moltx di rimanere in contatto con persone lontane e di mantenere interessi, legami e rapporti, è vero anche che ha lasciato fuori e sta lasciando fuori chi per scelta, divario digitale, assenza di competenze, tempo, connessione, rete o dispositivi, si trova esclusx.

La relazione col digitale e col virtuale non può essere data per scontata.

In una società lanciata in corsa verso un ‘progresso’ predatorio, dove l’atomizzazione sociale dilaga e le relazioni di prossimità e la solidarietà collassano, la mediazione tecnologica di ogni aspetto dell’esistente sta diventando in tutti i campi una scelta obbligata, con un impatto in termini di controllo e alienazione che non si sta considerando ancora abbastanza.

Internet diventa onnipresente ed essenziale per fare qualunque cosa ma la sua infrastruttura è controllata e monopolizzata dagli interessi politici, economici e ideologici di chi la possiede.
Mentre i corpi oppressi sono ridotti sempre più ad oggetti e funzioni in relazione a chi detiene i maggiori privilegi sociali ed economici e gli spazi di libertà si riducono la rete ci sottopone a nuove forme di dominio non solo inerenti al divario digitale e al capitalismo della sorveglianza ma anche e soprattutto relativamente a come subiamo i suoi dispositivi e li implementiamo nelle nostre vite: se ci esponiamo a influenze commerciali e condizionamenti sempre più capillari senza nessun tipo di autodifesa, preparazione, consapevolezza e consenso, la nostra relazione con noi stessx e col mondo rischia di esserne compromessa.

Si tratta di nuovi paradigmi che seguono la ristrutturazione del capitale, meno fondati sulla ‘fabbrica’ e più sui ‘servizi’: la merce siamo noi.

Nuovi rapporti di produzione e accumulazione, quindi nuovi rapporti di alienazione, mercificazione e riproduzione sociale: atomizzazione sociale, burocratizzazione automatizzata, ’smart city’ sorvegliate e normate, servizi sempre più digitalizzati e ‘personalizzati’ (l’illusione della ‘scelta libera’ definita da algoritmi e costantemente tracciata), relazioni sempre più virtualizzate, telemedicina, assistenti robotiche (declinate sempre al femminile, a ricordarci come l’asse dello sfruttamento predatorio si specializzi ma parli sempre la stessa lingua), commercio elettronico e sfruttamento, smart working, big data, intelligenza artificiale, internet of Things, industria 4.0… L’impatto in termini di salute, libertà, controllo, discriminazione ed esclusione, senso e alienazione, sono profonde e molteplici.

Si sta spingendo indiscriminatamente sul capitalismo dell’innovazione tecnologica e sulla produzione esasperata di dispositivi che mediano e medieranno sempre di più il nostro rapporto con la realtà, a ritmi esponenziali, umanamente insostenibili dal punto di vista delle materie prime, ma anche dal punto di vista umano e relazionale, con grandi profitti, ricatti e interessi in campo, e ripercussioni importanti sul tessuto sociale che ci attraversa.

Le città si stanno trasformando in industrie di sfruttamento mediate da aziende private, interconnesse e digitalmente sorvegliate, normate sempre più in senso autoritario e iperrazionale, nonluoghi ripuliti, inibiti al vagabondaggio, agli incontri estemporanei e generativi e al confronto con l’alterità.

L’organizzazione algoritmica dello sfruttamento, la mercificazione esasperata di ogni aspetto della vita, oltre che consolidando forme sempre più specializzate di potere e dominio, sta depoliticizzando l’incontro con noi stessx, con l’altrx e con l’ambiente, e incoraggiando una sempre più ampia disumanizzazione delle relazioni sociali.

La solitudine di fronte a quest’accelerazione ci lascia espostx all’abuso.

Tutto questo, come soggettività con un posizionamento antiautoritario e antipsichiatrico non solo ci riguarda, ma ci chiama in causa.

La necessità di autodifenderci si impone alla nostra riflessione e alla nostra pratica travolgendo quotidianità e prospettive di autogestione con l’urgenza di individuare spazi di riappropriazione, autodeterminazione ed emancipazione per rispondere a conseguenze, derive e abusi che senz’altro subiremo se non ci organizzeremo.

L’isolamento e il disciplinamento sempre più esasperato di ogni aspetto della vita, l’alterazione in molti casi del sonno e del riposo a causa della ‘connessione’ nostop e della reperibilità perenne, l’insicurezza legata al presente e al futuro, l’assedio costante di notizie a contenuto angosciante e contraddittorio, le notifiche continue e la sovraesposizione a schermi e dispositivi vede infatti anche la psichiatria sempre più impegnata nell’individuazione/specializzazione di nuovi ‘disturbi’ e nuove ‘terapie’ farmacologiche per ‘contenere’ con nuove diagnosi e nomenclature le ‘ansie’, legate a rabbia, paura, disagio e frustrazione in crescente aumento. (1)

Se nella storia il controllo e il monopolio della violenza e della costruzione della conoscenza è sempre stato monopolio dei corpi, dalle società religiose all’odierno neoliberismo, è necessario oggi più che mai sfidare relazioni omologanti e predatorie, per liberare conoscenze, saperi, legami e desideri in grado di spezzare gabbie, isolamento e alienazione.

Lungi dall’ammiccare a visioni della natura moralizzanti, sacralizzate, preordinate e preordinanti, che rimandano a concettualizzazioni universalistiche che rischiano di riportare l’autodeterminazione dei corpi, dei loro significati e desideri a presunti schemi ‘naturali’ astratti da rispettare, ‘buoni’ e ‘giusti’, crediamo che sia necessario contrastare la deriva autoritaria in corso conquistando spazi di libertà, riflessione e imprevisto.

Non ci collochiamo fuori dalle contraddizioni e da nulla, la nostra rivolta parte delle fratture che abitiamo, da lì ci muoviamo e rivoltiamo, crediamo infatti che solo partendo dalle crepe che solchiamo possiamo articolare discorsi sull’esistente che non siano prevaricanti e autoritari, capaci di liberare significati e possibilità, e non nuove forme di dominio.

Si tratta di sfidare prospettive di stampo perfezionista, morale e paternalista che ricalcano l’ideale esplicativo tecnico-razionale del patriarcato sull’esistente, di non calare sull’altrx dogmi, stigmi e religioni, né mortifere profezie della catastrofe e del suicidio: la catastrofe la occupiamo affermando la nostra esistenza e la nostra rabbia oltre qualsiasi gabbia, sfidando isolamento e oggettivazione, creando meticciamenti e nuovi e differenti ‘corridoi ecologici’ ibridi, nomadi, conviviali, imprevisti e rivoluzionari. Non si tratta di ‘resilienza’ o di ‘cogestire l’agonia’ e/o l’alienazione, si tratta di non subirla e ribaltarla contro chi sfrutta e opprime.

E’ per questa solitudine, per questo fuoco, per questa empatia nomade e senza briglie che ci anima e ci muove, che viene prima di qualsiasi ‘frontiera’ o ‘distanziamento’, e che nessuna virtualizzazione, razionalizzazione o soluzione tecnica può risolvere, domare o concludere, che è importante rimettere al centro del discorso politico la scoperta di sé e dell’altrx oltre i protocolli, le gabbie istituzionali, i circuiti obbligati e obbliganti, e i ruoli sociali imposti e previsti.

E’ necessario oggi più che mai riappropriarsi del tempo, di spazi e vissuti, per recuperare la possibilità di comprendere e comprendersi a partire da gruppi umani caldi, affettivi e interessati, capaci di liberare legami, solidarietà e reciproca soggettivazione, per amare, essere e desiderare, creare e sperimentare, muovendo dalle oppressioni che viviamo, partendo dalle fratture che riusciamo ad allargare, individuando complicità e intersezioni, alla conquista di liberazioni che siano anche pratiche, per rivoltare insieme al presente, anche l’orizzonte.

Brughiere
https://brughiere.noblogs.org/

(1) Chiara Gazzola STIGMI, CONTAGI E SINDEMIE (uscito sul numero di aprile 2021 di “Sicilia libertaria”) https://brughiere.noblogs.org/ post/2021/04/17/psichiatria-e-pandemia-stigmi-contagi-e-sindemie/