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Cresciamo nei terreni incolti, nelle zone asciutte e sassose, ai bordi dei viottoli
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A proposito di emergenza
Con ‘effetto spettatore’ o anche ‘apatia degli astanti’ si intende quel fenomeno balordo in cui in una situazione d’emergenza gli individui non offrono alcun aiuto a una persona in difficoltà quando sono presenti anche altre persone.
Sembra che la probabilità d’intervento sia inversamente correlata al numero degli astanti. In altre parole minore è il numero delle persone presenti, maggiore è la probabilità che qualcuno di loro presterà aiuto.
Alcuni simpatici esperimenti sociali condotti negli anni Sessanta mettono in luce come la maggior parte delle persone tenda a rispondere più lentamente alle situazioni di emergenza in presenza di altri soggetti passivi, evidenziando una forte dipendenza dalle risposte degli altri.
Uno di questi coinvolse alcuni studentx a cui fu chiesto di compilare dei questionari. Ad alcuni di loro fu chiesto di farlo mentre si trovavano in una stanza da soli, ad altrx invece fu chiesto di farlo in una stanza con altre persone, complici dell’esperimento. In entrambe le situazioni a un certo punto fu fatto entrare nella stanza del fumo. Nella stanza con più persone fu chiesto ai complici di fare finta di nulla e di non preoccuparsene.
Gli studenti da soli nella stanza diedero l’allarme per il fumo quasi immediatamente, quelli in compagnia invece fecero finta di nulla e continuarono con le loro faccende, spostando il fumo dal loro volto. Anche se il fumo era diventato così denso da oscurare loro la loro visione, irritando loro gli occhi o facendoli tossire, comunque non era sufficiente perchè lo segnalassero.
Se gli altri non regiscono alla situazione, gli spettatori interpretano la situazione non come un’emergenza e non intervengono.
Diffondiamo:
Testa bassa. Paura. Non gridare e non parlare. Chiusi in casa. Chiusi in stanza. Davanti uno schermo che distolga dalla realtà circostante. Trovare oggetti, passatempi sempre nuovi, che distraggano dal vuoto di un’esistenza di plastica. Guardare un video buffo di noi mentre guardiamo un video. Dilursi in un caleidoscopio che non è più un viaggio di colori e scoperte, ma una gabbia in cui passare ore che ti lasciano più spento di prima. Ti risucchiano nella banalità di tutti i giorni. Ti offrono materiale di cui parlare da un palcoscenico in cui ci sono solo interessi da difendere e ruoli fissi da interpretare. Una rotella che salta, niente di nuovo. Una pratica antica. Un luogo vuoto da tempo. Un luogo come ce ne sono tanti in una città sempre più simile a tutte le altre nel mondo. Città governate sulla base del profitto. Città amministrate creando paure, divisioni e isolamento. Luoghi abbandonati e persone fantasma, nello sbrilluccichio delle luci di natale, che si ammassano nel centro città commerciale. I lustrini di un’opulenza arrogante. Accettare, obbedire, svendersi, svendere gli altri. Voltare lo sguardo da ciò che siamo e da ciò che contribuiamo a creare. Chiudere gli occhi per sempre anche se siamo ancora vivi. Aprire un luogo abbandonato senza concessioni o permessi. Un gesto semplice quasi come mangiare, dormire o respirare. Un gesto che solo una società in cancrena, produttrice e consumatrice di torrenti di disperazione e pillole per la felicità istantanea, può riuscire a far apparire senza senso, inopportuno e sconsigliabile. Per i consigli, grazie, sceglieremo comunque con il nostro cuore e la nostra testa. Per le opportunità ci pensiamo, ma stiamo male in questa civiltà proprio perchè non è il motivo del nostro agire né il metro del nostro giudizio. Per il senso, beh, crediamo sia nascosto e custodito nell’atto stesso, nel desiderio di libertà ed eversione. Anche fosse solo per poche ore, pochi giorni o qualche settimana. Anche se l’interesse di qualche fazione, il prurito di qualche funzionario o lo stato di emergenza di questo periodo vorranno chiudere di nuovo questa porta.Pazienza, ne apriremo un’altra.
porta ciò che vorresti trovare, attrezzi e materiali! porta piatto e gavetta! fai girare la voce!
Avevamo provato a dirlo che il green pass non era una misura sanitaria e che il criterio del doppio binario tra “vaccinati” e “non vaccinati” si sarebbe rivelato non solo eticamente inaccettabile, ma assolutamente inefficace e controproducente in termini epidemiologici, di profilassi, prevenzione e salute pubblica.
Con l’approssimarsi dell’inverno il riacutizzarsi della situazione e la possibilità di nuova pressione sul sistema sanitario era assolutamente prevedibile dal momento che la protezione relativa legata alla vaccinazione si sapeva coprire un raggio di tempo molto breve e richiedere oltretutto pluri-richiami molto ravvicinati (Israele è già alla quarta dose in un anno).
Ma nonostante il fallimento della campagna vaccinale presentata come unica soluzione sia sotto agli occhi di tuttx, si inaugura il nuovo anno con ulteriori provvedimenti e restrizioni che insisitono sulla linea della premialità e del ricatto, creando un solco nella società ancora maggiore utile soltanto a scaricare in basso costi e responsabilità, per tornare il più in fretta possibile allo sfruttamento di una normalità feroce.
L’istituzionalizzazione di un nuovo principio di discriminazione e la normalizzazione dell’estorsione del consenso informato stanno passando come prassi legittima e consolidando un modello di sanità sempre piu discrezionale che non ha niente a che vedere con quei principi di prossimità, gratuità e universalità, che, quanto meno sulla carta, muovevano l’assistenza sanitaria in Italia.
Non si tratta di negare il vantaggio che possono comportare le vaccinazioni per qualcunx, si tratta di non considerarle per forza l’unica possibilità per tuttx e l’unica risposta necessaria: se per molti i benefici superano i rischi, per altri i benefici sono discutibili e i rischi rimangono indefiniti: è importante non banalizzare scelte terapeutiche che dovrebbero essere valutate caso per caso e rimanere personali.
Se da una parte mascherine, tamponi e test diagnostici restano a carico delle persone (che non trovando accessibilità nel pubblico stanno ingrassando il privato) e gli individui possono essere sottoposti a ricatto vaccinale per il ‘bene comune’ vedendo scaricati su di sè spese e rischi, dall’altra le aziende farmaceutiche produttrici di vaccini che hanno beneficiato di ingenti finanziamenti pubblici, non solo per la ricerca ma anche per la copertura del rischio, possono continuare a negare la sospensione della proprietà intelettuale e a macinare profitti da capogiro.
Due pesi e due misure che parlano dello stesso ricatto.
Una ‘guerra al virus’, che, come ogni guerra, si sta rivelando un’occasione epocale per nuove speculazioni e ristrutturazioni del capitale sulla pelle degli ultimi.
Mentre aumenta il potere delle industrie farmaceutiche la maggior parte dell’insieme di attenzioni e cure necessarie per il sostentamento della vita rimane lavoro sfruttato, invisibilizzato, salariato al ribasso, ultra-proletarizzato e fortemente connotato in termini di genere e razza.
Quanto non è compreso dallo sfruttmento, dalla fabbrica della ‘cura’ e dai ‘servizi’, rimane tombato nelle case, schiacciato in quel privato alienato che esprime gli stessi meccanismi patriarcali di Stato.
L’istituzionalizzazione e la medicalizzazione dell’anzianità ad esempio è un fenomeno relativamente recente legato all’organizzazione capitalista della società e all’espropriazione dello spazio e del tempo ‘non produttivo’ che la sostiene.
Il buon vecchio, produci, consuma, crepa.
Un modello di accentramento corporativo, di espropriazione e profitto che in tempi di pandemia ha evidenziato in ogni campo l’ipocrisia che lo muove e la sua potenziale e sempre maggiore spregiudicatezza e pericolosità.
Le assunzioni senza precedenti di sanitari interinali a tempo determinato e spesso alle prime esperienze che avevano ‘emozionato’ durante gli scorsi lockdown migliaia di cittadinx terrorizzati dalla narrazione strumentale e guerranfondaia dell’emergenza, poco hanno inciso a livello strutturale se non come forza lavoro sacrificabile usa e getta.
Gli ospedali già provati dal processo di aziendalizzazione, tra burnout, sospensioni e abbandoni spontanei, sono tornati a patire, mentre sanità, trasporti, scuola e lavoro hanno visto soltanto l’applicazione di misure volte unicamente a contenere la massa degli sfruttatx tra capitalismo predatorio, sfruttamento indiscriminato e negligenza verso le generazioni future.
Tantissime persone in questi giorni si sono trovate costrette da lunghe attese perchè il tracciamento pubblico è completamente saltato, mentre altre, spaventate dalla narrazione mediatica e disorientate dalle informazioni contrastanti, hanno assediato gli ospedali affaticandoli ulteriormente nella completa assenza di una medicina territoriale e di prossimità.
Diventa sempre più chiaro a moltx il carattere avventato e sconsiderato di scelte e provvedimenti arbitrari e a breve termine volti soltanto a tutelare gli interessi dei padroni nella totale assenza di cautela in termini di impatto sociale e salute pubblica.
Mentre si ignorano i guariti e i benefici che la loro situazione porta alla collettività, si glissa su una sorveglianza superficiale e opaca rispetto gli eventi avversi e su una sanità dove ad essere abbandonati sono, oggi come ieri, anche e sorpattutto tutti i malati cronici e chi soffre di altre patologie.
Ci troviamo oggi di fronte a quella che è divenuta una sindemia, una condizione in cui l’interazione tra diverse vulnerabilità/criticità rafforza e aggrava ciascuna di esse.
Emerge sempre più urgente la necessità di sviluppare un’epidemiologia dal basso che accanto a riflessioni etiche e filosofiche affianchi una scienza critica militante che sappia rielaborare i fatti alla luce delle tante connessioni possibili, facendo emergere abusi e omertà, poichè non si può considerare il covid senza considerare i differenti contesti in cui si diffonde e l’autodeterminazione di chi li attraversa.
Il rischio è quello di alimentare una guerra tra poverx e di trascurare gli effetti iatrogeni di provvedimenti presi unicamente dalla necessità di tutelare gli interessi dei padroni.
Mentre la deforestazione indiscriminata, l’annientamento della biodiversità e la dipendenza mondiale dai sistemi di sfruttamento/allevamento intensivo continuano a rappresentare un rischio non solo per lo sviluppo di ulteriori pandemie, ma per i già compromessi equilibri ecologici del pianeta, la ‘salute’ diventa sempre più una questione di ordine pubblico da gestire, normare e disciplinare con interventi di tipo securitario che non hanno nulla di ‘sanitario’, volti per lo più a disciplinare una ristrutturazione del capitale sempre più violenta e a contenere una crisi destinata a peggiorare, che non solo non riducono il danno ma non toccano assolutamente le determinanti strutturali che lo riproducono e alimentano.
Oggi piu che mai dobbiamo lavorare a comunità critiche che siano in grado di considerare i diversi rapporti di potere e oppressione in campo, che coinvolgono aspetti politici, economici, ambientali, sociali, culturali, quindi modelli di vita, di relazione, di produzione e riproduzione sociale e di fruizione della cultura.
Per questo è prioritario ritornare a fare attivamente inchiesta, confrontarsi, organizzarsi all’interno delle fratture che abitiamo, per le strade, dentro e fuori ai luoghi di lavoro, nelle scuole, negli ospedali, nelle fabbriche, per rimettere al centro le vulnerabilità che solchiamo, così che l’intersezione delle oppressioni che ci attraversano diventi una forza in grado di esprimere e liberare una più lungimirante urgenza, contro ciò che lo Stato si ostina a chiamare ancora ‘emergenza’.
Bologna, gennaio 2022
A 7 mesi dallo sgombero del Molino e’stato riOccupato nella giornata di ieri da compa che si sono barricati all’interno mentre all’esterno alcune centinaia di solidali sosteneva l’occupazione.
In serata polizia in antisommossa ha attaccato il presidio esterno arrestando due compa che al momento sono stat* trasferit* nel carcere di Lugano.
In serata ci sono stati scontri con gli sbirri che hanno sparato lacrimogeni, spray al peperoncino, manganellate e proiettili di gomma. Alcune persone ferite. Il presidio si e’ protratto nella notte.
Alle 4.50 di mattina squadre speciali, polizia cantonale e comunale, pompieri insieme ai servizi di sicurezza privata hanno circondato e fatto irruzione nello stabile. Portando in centrale le persone che erano dentro. Due compa sono riusciti a raggiungere il tetto.
Al momento una compagna resiste ancora sul tetto e rimmarra’finche tutt vengano rilasciat.
Un presidio solidale rimane in sostegno di fronte al Molino e alla centrale di polizia dove si stanno svolgendo interrogatori e perquisizioni alle persone fermate.
Per ulteriori informazioni
Canale telegram @Controinforma-ti
La solidarieta’e’la nostra arma. Usiamola!!!
https://www.inventati.org/molino/aggiornamenti-giovedi-mattina/
Invito a donare un contributo per sostenere le spese sanitarie che deve affrontare Giovanna, colpita in pieno volto da uno dei lacrimogeni sparati dalla polizia ad altezza uomo contro gli attivisti No Tav in Val Susa.
https://brughiere.noblogs.org/post/2021/04/19/lacrimogeni-ad-altezza-uomo-ferita-in-modo-grave-unattivista-no-tav/
Antonio Raddi, 28 anni, morto il 30 dicembre 2019 alle Vallette di Torino per un’infezione polmonare dopo aver perso 25 chili nell’indifferenza dei suoi aguzzini.
Cominciò ad affermare di avere problemi ad alimentarsi ad agosto ma “credevano simulasse”. Il suo compagno di cella racconta che non era più in grado di mangiare e bere quando il 13 dicembre iniziò a “vomitare sangue e defecare, e svenire”. Era entrato in carcere il 28 aprile 2019 con il peso di circa 80 chili: a novembre erano diventati 50. Chi ne certificò l’estremo stato di denutrizione sottolineò di non avere “mai visto niente del genere in 40 anni”.
Nonostante le diverse segnalazioni la direzione del carcere riferiva di non individuare particolari criticità rispetto allo stato di salute del detenuto.
Il 20 novembre, il medico del carcere rispondeva all’ennesima lettera indicando che la perdita di peso fosse voluta: “Una modalità strumentale per ottenere benefici secondari”.
Il 4 dicembre Antonio si presenta al Garante sulla sedia a rotelle. “Implora di intervenire, ha le stesse sembianze di Stefano Cucchi”, verrà scritto, con la richiesta di “una opportuna e urgente rivalutazione clinica con conseguenti provvedimenti del caso”.
Il 10 dicembre il direttore ancora rassicurava sulle sue condizioni: “Il soggetto è ampiamente monitorato”.
Solo tre giorni dopo il ricovero, il coma e la morte.
Tra qualche giorno verrà discussa la richiesta dei familiari del giovane di non archiviare l’inchiesta. Il pm che ha chiesto l’archiviazione arriva ad indicare il detenuto come “non collaborativo” per giustificare e sollevare da qualsiasi responsabilità lo staff medico e le guardie.
Sanitari complici delle torture in carcere!
Finchè esisteranno quelle mura non ci sarà mai giustizia
Antonio Raddi morto per incuria nel carcere Vallette di Torino. La Procura vuole archiviare
https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2021/12/27/carceri-muore-dopo-aver-perso-25-kg-inchiesta-a-torino_c9fd38b9-33ba-4dd9-bb69-cccc3b5c0c42.html
http://www.ristretti.org/index.php?option=com_content&view=article&id=92345:torino-deperito-in-carcere-e-morto-unaltra-inchiesta-sulle-vallette&catid=220:le-notizie-di-ristretti&Itemid=1
Questa mattina sono stati sgomberati gli appartamenti occupati in via Zampieri.
Solidarietà alle persone colpite!
ACER E PD: MERDE SIETE E MERDE RIMARRETE
Volantino distribuito davanti all’ospedale San Camillo di Roma, a seguito dell’ennesima morte di TSO.
BASTA MORTE NEI REPARTI PSICHIATRICI!!
ABOLIAMO LA CONTENZIONE!!
Abdel Latif, ragazzo tunisino di 26 anni. Era arrivato in Italia tramite una delle tante navi che cercano di approdare, fortunate per non essere state respinte. L’ “accoglienza” che gli è stata riservata, a lui come a tanti/e altre, è stata quella di essere rinchiuso in un CPR, un centro di detenzione per migranti nel quale vieni portato per un reato terribile: non avere il documento “giusto”.
Abdel rimane nel CPR svariati giorni; a un certo punto, da quanto appreso dai giornali, gli viene diagnosticato un disturbo psichiatrico (di cui non aveva mai avuto segni in Tunisia) e gli vengono dati dei farmaci. Dopo pochi giorni la “cura” pare vada rafforzata e Abdel viene trasferito al reparto di psichiatria prima del Grassi di Ostia, poi al San Camillo.
Qui viene tenuto legato al letto per 3 giorni, dal 26 al 28 novembre giorno in cui muore.
Le autorità mediche parlano di arresto cardiaco, non facendo alcun riferimento né ai farmaci somministrati né al fatto che fosse stato contenuto per almeno 72 ore.
Questa storia ci riporta a due verità purtroppo già note: nei reparti psichiatrici italiani si continua a morire di contenzione meccanica, sia in regime di degenza che durante le procedure di TSO. IL CPR è un luogo di detenzione e come tale si fonda sulla violenza e sulla sopraffazione.
La morte di Abdel non è una storia isolata, molti/e hanno subito la sua stessa sorte. Citiamo solo gli ultimi di cui siamo a conoscenza: Guglielmo Antonio Grassi morto nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Livorno; Elena Casetto, arsa viva perché legata… sempre in un reparto psichiatrico.
Ma la l’elenco sarebbe lungo nonostante di molte persone non si conoscano neanche i nomi.
Contenzione meccanica e farmacologica sono pratiche diffuse anche nei CPR, nelle carcere, nelle strutture che ospitano persone anziane e/o non autosufficienti, negli ospedali. In nessun caso la carenza di personale può giustificare il ricorso a pratiche coercitive. La logica dei “motivi di sicurezza”, dello “stato di necessità” o delle “persone aggressive”, a cui sovente si fa appello nei reparti, deve essere respinta poiché fondata sul pregiudizio ancora diffuso della potenziale pericolosità della “pazzia”. Molti ritengono, per atteggiamento culturale o per formazione, che sia giustificabile sottoporre persone diagnosticate come “malate mentali” a mezzi coercitivi, che sia nell’ordine delle cose e corrisponda al loro stesso interesse (!), rimuovendo dal loro orizzonte il valore imprescindibile della libertà della persona. Tanto più rilevante quanto più attinente alle libertà minime, elementari e naturali, come quella di movimento.
Oltre al ricorso alla contenzione meccanica e farmacologica, continua ancora oggi a prevalere nei servizi psichiatrici un atteggiamento custodialistico e l’impiego sistematico di pratiche e dispositivi manicomiali: obbligo di cura, porte chiuse, grate alle finestre, sequestro dei beni personali, limitazione e controllo delle telefonate e di altre relazioni e abitudini. Lo stato di pandemia ha inoltre rafforzato l’isolamento e la distanza tra chi è tenuto rinchiuso/a e chi non lo è, accrescendo le violenze perpetrate all’interno di quelle mura (siano esse del carcere, del CPR, dei reparti di psichiatria).
Ribadiamo la necessità di eliminare, senza alcuna eccezione, la contenzione meccanica nelle istituzioni sanitarie, assistenziali e penitenziarie italiane.
Continueremo a lottare con forza contro ogni dispositivo manicomiale e coercitivo (obbligo di cura, trattamento sanitario obbligatorio, uso dell’elettroshock, contenzione meccanica, farmacologica e ambientale, ecc.) e per il superamento e l’abolizione di ogni pratica lesiva della libertà personale.
Continueremo a lottare contro i respingimenti, i rimpatri, le espulsioni, le frontiere, per la libera circolazione di tutte le persone.
PER UN MONDO SENZA FRONTIERE, SENZA PSICHIATRIA, SENZA COERCIZIONI
senzanumero.noblogs.org/
hurriya.noblogs.org/
Link al testo completo qui
di Susanna Marietti, Coordinatrice associazione Antigone
[..]
Al Sestante si trovano circa venti celle, dieci su ogni lato del corridoio. In ciascuna è reclusa una singola persona detenuta. La cella è piccola, sporca, quasi completamente vuota. Al centro vi è un letto in metallo scrostato e attaccato al pavimento con i chiodi. Sopra è buttato un materasso fetido, a volte con qualche coperta e a volte no. Qualcuno, ma non tutti, ha un piccolo cuscino di gommapiuma. Non vi è una sedia né un tavolino. Solo un piccolo cilindro che sembra di pietra dove ci si può sedere in posizione scomodissima. L’intera giornata viene trascorsa chiusi là dentro, senza nulla da fare e nessuno con cui parlare. Unico altro arredo, un orrendo bagno alla turca posizionato vicino alle sbarre, di fronte agli occhi di chiunque passi per il corridoio.
Noi ci siamo passati. Abbiamo dovuto insistere un po’ affinché ci aprissero il cancello della sezione. Ci siamo passati, per quel corridoio, e abbiamo guardato dentro ciascuna di quelle stanze detentive. Ognuna teneva dentro un essere umano. Ma certamente trattato in maniera contraria a quel senso di umanità che la nostra Costituzione chiede alle pene legittime. Alcuni erano solo dei mucchietti di stracci buttati immobili sulla branda. In una cella vi era un uomo sdraiato al buio sul pavimento. Nessuno lo tirava su di là. In un’altra vi era un ragazzo che stava in piedi con la faccia a pochi centimetri dal muro. Non si è girato al nostro passaggio. Teneva i palmi delle mani rivolti verso l’altro, all’altezza delle spalle. Parlava verso quella parete, ogni tanto si girava verso il letto, poi tornava a rivolgere la faccia al muro e parole a chissà che cosa. Barcollava e aveva gli occhi a mezz’asta. Nessuno ci faceva caso.
Qualcuno si è avvicinato alle sbarre al nostro passaggio. Un uomo mi ha chiesto se potevo fare in modo che la turca della sua cella venisse aggiustata. Erano quattro giorni che non scaricava le sue feci, mi ha spiegato. L’ho detto al poliziotto del reparto.
Un altro uomo era al buio. Si è sporto dalle sbarre e mi ha detto che avrebbe voluto un po’ di luce. Il poliziotto che era con me, un po’ imbarazzato, gli ha detto di accenderla con l’interruttore interno, che sicuramente avrebbe funzionato. Ma lui ha detto di no, mancava proprio la lampadina. Mi sono fermata per capire chi avesse ragione. Effettivamente la luce non si accendeva. Non so da quanti giorni quel signore fosse al buio dalle quattro e mezza di pomeriggio fino all’alba del giorno dopo.
Un giovane uomo si teneva a stento in piedi sulle gambe. Aveva un filo di bava che gli colava sulla blusa. Gli occhi semichiusi, come se stesse per addormentarsi in piedi da un momento all’altro. Ha tentato di pronunciare qualche parola rivolto a me che mi ero fermata lì davanti. Faceva fatica ad articolare i suoni. Ha balbettato la parola ‘avvocato’. Gli ho chiesto se avesse avuto modo di parlare con il suo legale. Si è chinato e da un mucchietto di carte per terra ha preso un foglietto con un numero di telefono. L’ho copiato sul mio quaderno e gli ho detto che l’avrei avvisato che si trovava lì. Mi è stato spiegato che l’uomo era a Torino per un periodo di 30 giorni di osservazione psichiatrica, mandato lì da un altro istituto. Non so cosa si possa osservare e diagnosticare in un uomo imbottito di farmaci fino al punto da non riuscire a parlare e a reggersi in piedi.
Nell’ultima cella prima dell’uscita c’era un ragazzino. Avrà avuto 25 anni. Gli ho chiesto come andasse. Le lacrime hanno cominciato a scendergli dagli occhi. Mi ha detto che non capiva perché fosse lì, che gli mancava sua madre e che aveva tanta paura tutte le notti. Mi ha pregato di farlo trasferire. Gli ho spiegato che non avevo alcun potere in questo senso, ma mi sono fatta dare il numero di telefono della mamma, che lui sapeva a memoria.
Gli operatori mi hanno spiegato che erano in attesa che si liberasse un posto in una Rems, le residenze a vocazione sanitaria per l’esecuzione delle misure di sicurezza psichiatriche. Il ragazzo non avrebbe dovuto trovarsi lì, non c’era titolo per la sua detenzione. Sono uscita e ho chiamato la madre. Era contenta che almeno qualcuno avesse visto suo figlio. Lei non ci era riuscita, nessuno le aveva detto dove lo avessero portato. Adesso si apprestava a recarsi a Torino.
[…]