CATANIA: VOLI LA CIVETTA

Alfredo M. Bonanno.
Discussione e testimonianze sul movimento anarchico degli anni ’60, ’70, ’80

Palestra LuPo (Piazza Pietro Lupo 25)
4 marzo
ore 17.30

Se la lotta non è una meta, ma un modello interpretativo della realtà, per riappacificarci con il nostro intelletto abbiamo la necessità di conoscere la storia delle lotte nel nostro territorio. La nostra isola trattata alla stregua di una colonia; dove riversare nocività industriali, basi, armi e soldati oltre a ogni tipo di prigione, ha ormai una salda ed univoca narrazione.

La sottomissione, il disinteresse e l’indifferenza, queste le caratteristiche che regnano sovrani nella Trinacria, non sono solo un atteggiamento temporaneo legato ad uno specifico contesto, ma sono una categoria dell’anima, un tratto comune della popolazione, una tara di lombrosiana memoria. Questa tossica vulgata è strumentale, palesemente per proteggere lo Status Quo ed è fondamentale per isolare tra rabbia e impotenza qualsiasi pensiero sovversivo individuale.

Riappropriarsi della conoscenza di una Sicilia ribelle e indomabile non è assolutamente da ritenere come risolutivo, ma è senza ombra di dubbio concime per le teste che nascondono un seme di ribellione, che altrimenti potrebbe non germogliare mai.

Nel giorno in cui Alfredo Maria Bonanno avrebbe compiuto 88 anni ci sembra doveroso cogliere l’occasione per parlare di un eccezionale figura anarchica e del suo contesto.

Prolifico autore che ha scritto più di 150 opere tradotte in decine di lingue, non ha mai smesso di mettere il suo pensiero e il suo corpo al servizio della libertà, senza aver avuto mai paura di perderla. I suoi continui studi ed interventi sui metodi e le strutture organizzative anarchiche, in un modo o in un altro, hanno influenzato nella sua interezza l’odierno pensiero anarchico; rimanendo per lo più sconosciuto nel territorio dove è nato, ha passato la sua giovinezza e soprattutto, ha dato luogo alle sue prime battaglie. Nostra intenzione è recuperare questo passato attraverso le testimonianze di chi, quelle battaglie, le ha vissute in prima persona prima che cadano nell’oblio, rafforzando il mito della Sicilia impassibile e inerte a qualsiasi moto di rivolta.

DUE NOTE SULL’ISOLAMENTO DEL CPR DI BARI-PALESE E DEI SUOI DETENUTI. VERSO IL PRESIDIO DEL 22 FEBBRAIO

Riceviamo e diffondiamo

Il CPR di Bari Palese (come il CARA) si trova nei pressi dell’aeroporto internazionale di Bari – Karol Wojtyla, vicino al quartiere San Paolo. In un’area oltre che periferica, completamente militarizzata, dallo stesso aeroporto ma soprattutto dalla Guardia di Finanza con gli edifici, le mura e il filo spinato del gruppo operativo Bari 1 e della Legione Allievi Finanzieri. A primo impatto sembra un grande residence di lusso perché spiccano i palazzi alti, in mezzo al nulla, con i loro balconi e finestre, poi quando ti avvicini e vedi le mura, le targhe, qualcosa inizia a puzzare… Quelle mura nella parte a nord del lato est combaciano con quelle di un’altra struttura, molto più piccola, che di alto non ha nessun palazzo e non ha nessun balcone: è il centro di tortura di stato chiamato “ufficialmente” Centro di Permanenza per i Rimpatri, dove vengono detenute le persone in movimento sprovviste dei documenti richiesti dall’Unione Razzista Europea.

L’ingresso del CPR non è sulla strada principale, la stessa strada della GdF, ma infondo ad un viale alberato che costeggia le mura della GdF.

Il CPR di Bari Palese dunque ha un perimetro rettangolare. Vicino all’angolo sud ovest, sul lato sud c’è il cancello in direzione del viale alberato, poi si sviluppa verso est con una decina di moduli: un paio per gli uffici, uno per l’infermeria e gli altri sono celle. Oltre le celle e i moduli, a contenere i prigionieri c’è una prima cinta di mura, poi una seconda in cemento, alta 6 metri.

Negli ultimi anni ci sono state importanti rivolte dentro al CPR di Bari Palese, una in particolare che causò l’inagibilità di una parte, riducendo la capienza del lager di stato. Ma sappiamo che quello non fu un caso isolato, chi è rinchiusx dentro il CPR lotta ogni giorno. Grazie alle testimonianze dei reclusi o di chi lo è stato, possiamo farci un’idea della violenza che viene usata per sedare le proteste, da quella più diretta della celere al momento della rivolta, a quella indiretta degli psicofarmaci, dell’assenza dei servizi sanitari, dell’isolamento.

Sempre negli ultimi anni la repressione dentro e fuori il centro di tortura di Bari Palese è cresciuta: per aumentare l’isolamento e vanificare i presidi a sostegno di chi è colpito dal razzismo di stato dentro i CPR, la questura di Bari tramite prescrizioni o tramite il dispiegamento dei powerrangers con casco e manganello, ha allontanato il presidio dalla strada adiacente al CPR, obbligando le persone a stare lontane, annullando le possibilità di interazione con chi è imprigionato, ostacolando il più possibile anche solo la vista del CPR.

Noi questo CPR -come gli altri- lo immaginiamo preso dalle fiamme della rabbia di chi è rinchiuso e vogliamo dare loro tutta la solidarietà e il coraggio possibile per la lotta verso la libertà. Sabato 22 febbraio alle 14 rompiamo l’isolamento al centro di tortura di stato CPR di Bari Palese.

IL SOLO PONTE È LA SOLIDARIETÀ TRA INSORT*

Diffondiamo da Stretto LibertAria

“A te, uccel di bosco,
bellissima natura in un mondo di calcoli e cemento.
È per te, per la tua umanità e per quelli come me, cuori ardenti.
Dovunque tu sia.
Libero.”

Per il secondo anno si è svolto il corteo contro il ponte sullo Stretto nel centro della città di Messina, in pieno agosto.

Le ultime novità riguardo il progetto del ponte sono la sua lottizzazione, per cui non è più necessario che esso sia definitivo per la messa in cantiere dell’opera; ed ancora, una serie di provvedimenti giuridici che comportano l‘aumento delle pene per chi protesta contro le grandi opere da un lato e la tutela delle forze dell’ordine dall’ altro, garantendo loro il pagamento statale delle spese processuali in caso venissero inquisiti per abusi.

Le liste degli espropri restano in aria, come un “cemento mori”; liste di proscrizione; chiamate al loro fronte del progresso già come vittime. Il ticchettio di un conto alla rovescia opprimente, il loro piano, quello dell’invasione della proprietà privata tende sempre più a stralciare il dissenso in mere gestioni economiche. Per loro, tutto si basa su un’analisi costi-benefici, tutto ha un prezzo, tutto é acquisibile con la giusta somma o pressione. Ci hanno collocati nel loro scenario come caduti e cadute della loro battaglia contro l’arretratezza e ci garrotano al collo un cartello con scritto “Vendesi”, sbarrato da una crudele barra rossa. La vigile attesa sul porticato del ‘pater familias’, che sia per firmare un contratto di (s)vendita o per opporre quella ‘resilienza’ permessa dalle norme, è tutta esaltata. Il tessuto sociale non conta, ad interlocuire è solo il privato con un altro privato. Un colosso (Webuild) contro tante piccole tribù. Il luogo sacro? Un cassetto digitale con un numero catastale; siete state selezionate? Bene, allora pronte al rendez-vous con il peggior offerente. La vita ha già un costo, non ci sono trattative e, tra le altre cose, sembrerebbe già essere acquistata.

L’UNICO PONTE È QUELLO TRA INSORT*
Una settimana precede il corteo, un caldo sempre più asfissiante, lo Scirocco ci graffia la pelle con il suo desertico contenuto. Il mondo procede a passi da maratoneta, ogni istante tutto sembra cambiare, di volta appesantendosi di volta nebulizzandosi nelle solite vecchie promesse. Quest’aria color ocra porta in se già un’elettricità. Lo Stretto, frontiera, panorama di mille speculazioni, diventa adesso un canale di incontro, un’infrastruttura di insubordinazione. Migliaia di persone, emigranti in ferie e vacanzieri in cerca d’ avventura, sfilano e condividono i propri umori, sudano insieme per le vie della città, che altrimenti sarebbe vuota. Gridano la contrarietà nei confronti di un’opera che in tutto il suo fantasmatico bagliore intende celebrare l‘utopia del capitale.

Ci si reincontra tra amici e conoscenti dopo un anno di lavoro, si ride, si chiacchiera e ogni tanto si grida qualche slogan. Mi ricorda la festa del santo del paese alla quale partecipavano ogni anno con la famiglia, mia madre che saluta tutti, un clima di festa e di comunità ritrovata..peccato durasse quella settimana all’anno e basta. Oggi dura un giorno, ma dura anche da tutto un anno fatto di incontri, scontri, complicità e complessità; anche noi vogliamo ritrovare la festa e chissà, forse farla a qualcuno.

Il gioco contro lo spettacolo delle opinioni che si fanno liturgia.
Alcune compagne, alcuni compagni cospirano insieme; certamente alcune vedute assumono tinte differenti, mischiate insieme si trasformano in un profondo nero, quello delle “notti belliss(im)e” che, con piccoli orrori ortografici, dimenticanze, diventa un grido su uno striscione nero pollock. Tenuto alto sui volti delle complici, sfilerà poi nelle strade di Messina. L’incontro di diversi respiri si trasforma presto in un urlo che giunge, sotto forma di richiamo, fiumi di parole, per chi da diverse latitudini sente un accorato disprezzo per l’opera usurpatrice, scure statale ed intrallazzo globale.  Lo sentiamo, ci serve spazio; la piazza, le spiagge, le tende, il focolare che ci ha riunite in cerchio di sonno/veglia in attesa del giorno seguente.

Sarà forse che gli sgherri hanno sempre le orecchie troppo lunghe, ma la piazza, il pomeriggio del 10 agosto, pullula di sbirri. Camionette ed impostori voyeuristi di Stato si aggirano con quel ghigno intorno al corteo, intorno a tutte noi.

In questo equilibrio tra gioia della condivisione e necessità di rendere un minimo pratica una critica che muore non appena si riduce a opinione, nell’intento di creare uno spazio di fuga dal grande occhio dello Stato che si manifesta in centinaia di telecamere, in una dinamica che non ha dimenticato di mettere al primo posto il gioco e la presa bene, ci siamo ritrovati dentro un quadrato di striscioni, dentro il quale c’erano le nostre risate, cori e parole che, nell’estate torrida delle rivolte nelle carceri e delle morti in mare, manifestavano vicinanza a chi lotta dentro ogni luogo di reclusione e qualche pistola ad acqua per allontanare gli sguardi indiscreti; il quadrato ha lasciato alcune scritte per le strade e sui muri della città, ne avremmo volute di più, ma i controllori dell’ordine si sono concentrati tutti su questa testuggine di striscioni che sfilava per le strade, sconcertati da qualcosa di mai visto da queste parti.

Il contenuto non è certo fatto da una muta ostilità, nè di certo ci imbrogliamo che qualche sputo e un pò d’acqua sia una bastevole misura contro questi imbufaliti esecutori della repressione statale, risultava però fondamentale in qualche modo rendere evidente,coi nostri corpi, la critica alle nuove norme in materia di repressione del dissenso. Quegli impiegati che stanno lì a rosicchiare straordinari non sono nostri amici, sono coloro che permettono che quei decreti liberticidi e criminalizzanti si concretizzino. Inoltre, in un momento in cui la presenza di cantieri e altri obiettivi materiali ancora non c’è, cominciare a esplicitare a noi stessi e al resto del corteo la necessità di un modo di stare in piazza che si farà sempre più necessario con la messa in opera del progetto ci è sembrato doveroso e abbiamo constatato con gioia che questo, nella maggior parte delle persone al corteo, non ha prodotto inimicizia o diffidenza ma curiosità e solidarietà. Seppure l’attenzione era comunemente indirizzata a quelle telecamerine degli inquisitori, sappiamo bene che sono solo l’ultimo anello di questa squallida catena, di questo tremendo giogo. Essere ed esserci ha portato con se una deflagrazione di gioia, forme di complicità erranti, erotiche ed eretiche nell’incontrarsi; ci difendevamo a vicenda, cacciando sbirri, facendo festa. La gioia feroce contro questo ennesimo monumento alla rapina di Stato ha lasciato segni al nostro passaggio e ha saputo ispirarci anche gioco, serenate rivolte a sodali al balcone; corse collettive, fuorvianti per chi credeva di starci addosso e divertenti per noi.

La noia, infatti, ora strumento di potere si è insinuata sotto forma di riformisti mai disposti alla messa in discussione radicale delle logiche dominanti. Ad essere in gioco è l’avvento di nuove forme di produzione, ‘sostenibili’ per spalle resilienti, promuovono solo nuove forme di oppressione, di interdizione del sentire. Nuove le forme di produzione, sempre uguali restano le sacchette che si ingrossano; sempre gli stessi i corpi espropiati. Se il loro è il regno della tristezza, del funebre, allora non c’è da fidarsi di nessuna innovazione proposta da questi succhia sangue. Non sono altro che rinnovati sistemi di afflizione affilati su corpi sempre meno corpi e sempre più ombre. Non si tratta più di poter prendere un qualunque tipo di ruolo attivo nelle scelte del “proprio territorio”, se mai fosse stata questa la questione. Distruggere questo ‘processo decisionale’, incepparlo, non prendervi parte con una qualche vana speranza che possederlo significhi veramente inibire tutto il suo potenziale fagocitante. Disertare e sabotare ogni tentativo di appropriazione delle nostre vite tutte, in un mondo dove cemento e repressione avanzano a spron battuto, diventa così l’unico vero sorridere all’esistenza.

“La gioia è mortale all’interno dello spettacolo del capitale. Tutto, qui, è tetro e funebre, tutto è serio e composto, tutto è razionale e programmato, proprio perché tutto è falso e illusorio.”

Il corteo é passato, i giorni si scandiscono tra albeggiare e tramonti. I rubinetti si sono trasformati in contagoccie da ste parti, il vaso è traboccato e l’ultima goccia è già scesa parecchi giorni fa. Le strade sono deserte, desertificate; occupate solo da mezzi di emergenza. Ora auto-botti, ora pompieri, ora esercito, ora protezione civile etc. etc. etc.. Le abitazioni sono coltivazioni di bidoni per stoccare acqua, anche i c.d. “giorni di erogazione” non garantiscono affatto il flusso da tutte noi tanto anelato. La vita é qui scandita dall’emergenza, un perenne stato d’emergenza, continua gestione tecnica ed amministrativa delle esistenze. L’estate é ancora molto calda e si prevedono ondate di calore consistenti e poco timide nello spingersi in quei mesi di solito avversi alle alte temperature. Un’estate ancora ricca di appuntamenti e momenti di condivisione; altri, chissà, ancora da sognare insieme. L’aria asfissiante non fermarà questo co-respiro. Come gatte, “insuscettibili di ravvedimento”, torneremo a mordere la mano di tutti questi ladroni e lacchè dal facile giudizio.

Ascoltiamoci, esploriamoci, organizziamoci.

“Le Bastiglie le abbattono i popoli: i governi le costruiscono e le conservano.”

CPR DI BARI – AGGIORNAMENTO DEL 7 AGOSTO 2024

Diffondiamo

A due giorni dalla notizia della morte – nel CPR di Palazzo San Gervasio (Potenza) –di Oussama Belmaan, appena 19enne, casualmente un piccolo varco comunicativo squarcia il silenzio che pervade uno dei CPR più punitivi d’Italia – quello di Bari.

Così sprazzi di orrore, tortura ma anche tenacia, coraggio, resistenza e forza arrivano alle nostre orecchie. Chi ci parla ci chiede di raccontare, di aprire il coperchio del non detto, che avvolge la detenzione amministrativa, e narrare fuori cosa sta succedendo tra le mura di una delle due galere per persone senza documenti europei della Puglia. Una parte della struttura è inagibile, ancora – e per fortuna – chiusa dopo che il fuoco, qualche mese fa, l’ha distrutta.

Il resto della galera è gestito con le solite vecchie abitudini dei lager di Stato: il cibo fa schifo, la struttura è sporca, nessuno è tenuto a conoscenza delle proprie sorti detentive o espulsive, le comunicazioni con il fuori sono ridotte all’osso e la sanità viene usata come grimaldello della paura nonché della tortura.

Un ragazzo detenuto da quattro mesi ogni giorno lamenta dolore al braccio – probabilmente rotto – mai portato in ospedale, quotidianamente deriso dal medico che gli somministra del solo ibruprofone, lasciando cadere nell’eco del nulla le sue richieste di prestazioni sanitarie. Il medico veste il camice del torturatore e usa il potere di elargire sofferenza o palliativi per tenere nello scacco di derisione e timore tutti i reclusi che lamentano sofferenze fisiche. Non sempre, o per forza, inflitte, ma di sicuro non curate.

E’ poco importante stabilire se è stato il crescere di questo brutale stillicidio, o la notizia della recente ennesima morte di Stato in un altro CPR, a motivare tre reclusi ieri a salire sul tetto in protesta. Ciò che ora sappiamo è che forse uno di loro sta resistendo ancora lì sopra, ma che sicuramente due sono caduti rovinosamente al suolo. Nello schianto, uno dei due ha riportato varie fratture alle gambe, e forse alla schiena e di lui ora si sa solo che è ricoverato in condizioni critiche, in un qualche ospedale della zona. L’altro – anche lui caduto – è stato messo in isolamento dentro il CPR stesso subito dopo lo schianto, motivando la decisione dalla supposta positività al COVID. I reclusi con cui abbiamo potuto comunicare, piuttosto convinti che non vi sia in corso una epidemia di COVID (tanto che nessun lavorante indossa mascherine), temono che l’isolamento sanitario copra quello punitivo e che le conseguenze di una tale restrizione su una persona, caduta dopo un volo di almeno tre metri, possano essere particolarmente gravi.

Riteniamo fondamentale diffondere la voce, così come ci è stato chiesto, di chi sta vivendo queste ore di tortura, ribellione e resistenza dentro il CPR di Bari, affinché una breccia di parola stravolga la coltre di silenzio che legittima, invisibilizza e rende ancora più efficace la tortura di Stato contro le persone in viaggio senza documenti europei.

CHE DEI CPR NON RIMANGANO CHE MACERIE.

CON IL CUORE CON CHI RESISTE E LOTTA DENTRO LE GALERE AMMINISTRATIVE

FREEDOM

HURRIYA

LIBERTA’

QUALCHE NOTIZIA SULLA FORESTA DI HAMBACH

Riceviamo e diffondiamo questa preziosa chiacchiera con due compagnx che da molti anni vivono nella foresta di Hambach.

La miniera di Hambach è una voragine profonda fino a 500 metri, la maggiore depressione d’europa, che raggiunge i 300 metri sotto il livello del mare e che si estende per 85 km2 (il doppio del centro storico di Bologna, la metà dell’intera città di Milano, 30 km2 in meno di Napoli). Una parte della terra scavata dalla miniera è stata usata per erigere la più alta collina artificiale del mondo, alta 300 metri. Vi si estrae lignite, un combustibile fossile di bassa qualità con un contenuto di carbone attorno al 30%. Dal 1978, anno di apertura della miniera, le comunità locali si battono contro la privatizzazione e la devastazione del territorio. Dal 2012, con l’occupazione della foresta, è stata creata una zona autonoma in cui si sperimentano forme di vita basate sull’autogestione, l’antispecismo, il superamento del binarismo di genere e la liberazione dal patriarcato, dove si lotta contro il capitalismo e ogni forma di dominio dell’essere umano, sui viventi e sul pianeta. Da allora vari sgomberi della foresta sono stati eseguiti in modo violento dalla polizia tedesca. A questi è sempre seguita la rioccupazione della foresta, con la costruzione di strutture e case sugli alberi. Gli sgomberi spesso avvengono in concomitanza con la “stagione di taglio”, alcune settimane durante l’autunno, in cui è legale in Germania procedere con gli abbattimenti di foreste. La RWE, compagnia tedesca che gestisce la miniera, negli ultimi anni ha cambiato strategia, interrompendo il taglio della foresta, ma continuando comunque ad espandersi intorno ad essa. Inoltre per evitare che la miniera si inondi, viene costantemente pompata via l’acqua del sottosuolo, cosa che rende il terreno sempre più secco, portando verso la morte quel che rimane della foresta. Sotto l’illusione della svolta “verde”, la compagnia porta avanti un nuovo progetto che riguarda la trasformazione di una parte della miniera in un lago con parchi solari ed eolici, nuove aree protette, creando nuovi posti di lavoro nel capitalismo green. Con estrema arroganza, chi si è arricchito devastando quest’area, ora si vanta di voler dare nuova vita alla distruzione causata da loro stessi senza alcun riguardo per le vite che vi si svolgevano. Una lotta, quindi, che non è vinta, né conclusa. E che porta con sé una memoria densa e ricca. All’interno della foresta si trova il memoriale, un luogo in cui vengono ricordate le persone che hanno partecipato alla lotta nella foresta e che ora non ci sono più. Nel 2018, durante uno dei tanti violenti sgomberi, viene ucciso il compagno Stephen per mano della repressione da parte dello stato e dei suoi alleati, così come Lobo e Shain compagnx internazionalistx che tanto della loro passione e rabbia avevano dedicato alla foresta per poi scegliere di continuare la lotta a fianco del popolo kurdo, cadendo martirx in Kurdistan. Oltre all’occupazione della foresta, nella zona ci sono vari spazi occupati, in cui le diverse anime di un movimento vario e multiforme trovano espressione con spirito di mutuo aiuto e solidarietà, contro il mondo capitalista. Queste zone autonome vanno difese e vissute, perché è qui che si sperimenta l’utopia di libertà che è slancio e destinazione del nostro agire politico.

Nella carta: in blu ciò che resta della foresta di hambach, in rosso il progetto di espansione della miniera (che è in grigio), in arancione la collina artificiale.

1° gennaio 2024, campo di Hambi.

La prima domanda che vorremmo farvi è: quando è iniziata la lotta di Hambach e perché. Potete raccontarci quale è il ruolo della compagnia mineraria nella regione e quali sono i suoi obiettivi?

In questa zona c’è la compagnia RWE, che è una compagnia di estrazione del carbone, costruisce miniere a cielo aperto per estrarre la lignite dal terreno e portarla alle fabbriche o alle centrali elettriche per produrre elettricità. Qui, hanno iniziato ad estrarre lignite nel ’78. Stanno costruendo una miniera a cielo aperto, quindi non scavano nel sottosuolo ma il terreno viene aperto dalla superficie per estrarre il carbone; la miniera deve essere molto grande e profonda perché il carbone si trova in profondità. Un sacco di terra viene distrutta. La miniera è stata aperta nel ’78 e anche qui la resistenza è iniziata presto, perché le persone si sono viste togliere la terra e anche dove c’erano i villaggi la compagnia ha iniziato a scavare. Così la gente è stata, ed è tuttora, costretta a spostarsi, ad andarsene, in modo che la compagnia possa ottenere terra per distruggerla e continuare ad allargare questa enorme miniera. C’è stata una forte resistenza locale e la gente ha cercato di protestare contro la compagnia, poi nel 2012 è iniziata la prima occupazione della foresta. Ci sono diverse miniere in quest’area, ma questa, la miniera di Hambach, è la più grande, prima quasi tutto il terreno era foresta, e c’erano anche alcuni villaggi. L’occupazione della foresta rappresenta solo un decimo della foresta originale, quindi è davvero molto piccola. Dal 2012 nonostante i continui sgomberi e le conseguenti nuove occupazioni, le persone continuano ad esserci.

Cosa ci dite invece del fatto che la compagnia vuole trasformare la miniera in un lago mentre quel che rimane della foresta sta morendo?

Ora abbiamo una situazione dove la miniera si sta estendendo da un lato, quindi la miniera è ancora in funzione e le scavatrici ancora funzionano, ma il piano della compagnia sta cambiando. In base a questo cambiamento forse la miniera potrebbe fermarsi. In Germania il governo dice che nel 2030 usciranno dal carbone fossile, quindi lo sfruttamento di quest’area dovrà cambiare. I vecchi progetti della miniera risalgono agli anni ’80, quindi devono escogitare un altro fine per quando la miniera non sarà più utilizzata. Vogliono fare un grande lago: immaginate un buco enorme che sarà riempito d’acqua prendendola dai fiumi che già, dopo tutti questi anni di siccità, di acqua non ne hanno abbastanza. Il progetto è enorme, vogliono costruire grandi tubi per portare l’acqua e anche in questo caso la conca non sarebbe piena, ma l’acqua sarebbe qualche decina di metri più bassa del margine, quindi non sarebbe proprio come un lago, anche se accadesse. Con l’uscita dal carbone, non verrà più prodotta energia carbonfossile, quindi la miniera non sarà più utilizzata e a questo punto vorranno sviluppare la regione incrementando posti di lavoro per la gente in altro modo. Inoltre, se prima dicevano che il villaggio dove ci troviamo ora doveva essere distrutto, ora hanno cambiato idea e il villaggio può rimanere, e questo è parte dei nuovi piani che hanno deciso, cioè investimenti per nuovi progetti di capitalismo green. La miniera si sta ancora espandendo da un lato, anche se non sul lato dove c’è la foresta. Però quando la foresta finisce inizia la miniera, e pompano via le acque sotterranee dalla miniera perché devono scavare molto in profondità per il carbone. Quindi abbiamo un problema enorme con l’acqua nella foresta e anche il microclima sta cambiando, ci sono molte tempeste, fa molto caldo in estate, e la foresta è una piccola isola non collegata a nessun’altra foresta; da un lato c’è questo buco molto grande e dall’altro c’è un villaggio e alcuni campi dove vogliono ancora scavare: la foresta è ancora in pericolo.

Vogliono tagliare anche una nuova parte della foresta di Hambach, vicino al villaggio di Manheim. Questa, supponiamo, verrà tagliata la prossima stagione perché si trova vicina al punto dove ora si sta scavando. In quel punto c’è un’altra parte della foresta che ora non è collegata al resto e sarebbe importante collegarle di nuovo un giorno, ma la compagnia vuole continuare a scavare.

Quanti anni ha la foresta?

Dodicimila anni. Parte di questa foresta non è mai stata utilizzata dall’uomo, quindi è un ecosistema super antico e prezioso.

Come è cambiata la lotta nel tempo? Quali sono stati i momenti più significativi chiave della lotta?

Sicuramente quando è iniziata l’occupazione della foresta, quello è stato un momento chiave, credo.

L’occupazione della foresta è stata un momento di incontro fra tutte le forme di resistenza che c’erano nella zona, perché tutte le altre forme di protesta avevano fallito, e non erano riuscite a bloccare il progetto. C’erano stati tentativi tramite cause in tribunale contro la miniera. Era una novità che la gente andasse nella foresta e la occupasse, così tutti coloro che erano contrari alla miniera parteciparono a questa occupazione. Questo è stato uno dei momenti chiave. Un altro momento è stato nel 2014/15 quando ci sono state azioni violente contro l’azienda, contro le pompe ecc. e il personale dell’azienda non voleva più entrare nella foresta. È stato un momento importante perché c’è stato il tempo per creare uno spazio sicuro nella foresta, quella che è diventata poi una zona autonoma. Prima, la sicurezza della compagnia e i poliziotti entravano nella foresta e la gente non riusciva a proteggerla. Poi in questo periodo ci sono stati più sabotaggi e attacchi violenti, quindi le guardie della compagnia non volevano più ad entrare nella foresta. Questo ha significato anche una maggiore costruzione di strutture sugli alberi e una maggiore organizzazione, le persone si sentivano un po’ più sicure e meno minacciate dall’esterno. Poi, nel 2017 c’è stato uno stop alla stagione dei tagli. Ogni anno, per un paio di mesi in autunno-inverno, c’è la “stagione di taglio” dove è permesso tagliare gli alberi, anche grosse superfici di foresta. Nel 2017, un tribunale ha fermato la stagione dei tagli e questo ha permesso alle persone di costruire più strutture sugli alberi e di essere più rilassate, in quanto gli alberi non venivano tagliati e le persone hanno avuto tempo per organizzarsi. In questo modo le persone potevano prepararsi per gli anni successivi e questo era davvero importante per avanzare nella lotta e costruire più strutture. Ovviamente nel 2018, un anno dopo, c’è stato il più grande sgombero e la più grande operazione di polizia che è avvenuta nell’area, portando alla distruzione di tutto ciò che era stato costruito nella foresta, come reazione c’è stata anche una grande mobilitazione di persone e i media hanno iniziato a parlarne portando molte persone a unirsi alla lotta. Questo grazie al periodo precedente in cui le persone hanno potuto prepararsi. Durante lo sgombero di Hambach del 2018 moltissime persone sono arrivate in supporto e c’è stato un corteo di 500mila persone. È stato un momento in cui tante persone sono state coinvolte, c’è stato tanto sostegno dall’esterno e molte persone sono venute nella foresta. E hanno aiutato a rioccupare la foresta!

Quanto era grande, prima dello sgombero, l’area occupata?

C’erano quasi 90 alberi con case e strutture nella foresta, e hanno distrutto tutto. Lo sgombero è durato poco più di tre settimane, in totale. In un barrio1 addirittura ci vivevano diverse centinaia di persone, era davvero grande. Così, mentre loro continuavano a sgomberare e a distruggere una parte della foresta, in un’altra parte la gente rioccupava e ricominciava a costruire.

Come ha funzionato la repressione in questa lotta? Quali sono stati e quali sono gli effetti della repressione prima e ora?

Penso che la repressione sia aumentata. Le persone sono state criminalizzate molto e sono state mandate in prigione con pene sempre più dure. Nel 2017 e nel 2018 c’è stata molta repressione e questo ha portato le persone a stare più attente e a non fare più molte cose. Nel 2015-16 ci sono state diverse persone finite in carcere o in custodia cautelare per mesi, senza che ci fosse una accusa concreta. In molti casi ciò che le persone facevano era rifiutarsi di fornire la propria identità. In molti casi questo funzionava abbastanza bene, e anche se talvolta ciò significava che le persone dovevano rimanere più a lungo in prigione o in custodia mentre cercavano di scoprire l’identità della persona, alla fine si riusciva ad evitare le condanne.

Qual è l’accusa che hanno usato maggiormente? C’è stata qualche costruzione mediatica sulle persone che vivono qui e sull’occupazione della foresta nella propaganda dei media mainstream?

All’inizio, durante il primo sgombero degli alberi, hanno cambiato la strategia mediatica. C’è stato un programma, sul canale ufficiale, che in Germania è governativo, in cui i giornalisti in tv erano vicini agli alberi e non parlavano di uno sgombero ma di un’operazione di salvataggio. È stato molto interessante perché il reporter era ripreso davanti ad un’ambulanza, con le luci blu nell’immagine, come a dire: “Dobbiamo salvare questa persona che si trova nel tunnel sotto terra e la polizia sta facendo di tutto per lui”. Prima eravamo i terroristi, le scimmie e tutto il resto. Hanno sempre cercato di criminalizzarci. C’erano incursioni della polizia nell’accampamento che sta ai margini della foresta per cercare armi, spezzare la solidarietà, sequestravano materiale con cui si immaginavano che le persone costruissero molotov e portavano via carta igienica, plastica e quant’altro. Un posto a Durrin (villaggio nelle vicinanze), una struttura di supporto, è stato oggetto di diverse perquisizioni. L’accusa che addossavano era soprattutto di resistenza contro i poliziotti, resistenza aggravata, invasione.

In questo periodo Negli ultimi tempi ci sono stati diversi attacchi alla foresta, come sono collegati alla repressione?

Ci sono sempre stati attacchi di questo tipo, cioè persone che non ci amano, a volte non sappiamo chi siano, spesso supponiamo siano persone che sostengono RWE, lavoratori della miniera, quindi non vogliono persone contrarie a questa attività mineraria. Vengono di giorno per insultaci, e a volte anche di notte. Ci sono attacchi notturni, probabilmente sono anche nazisti, abbiamo avuto auto bruciate nel villaggio. Un piccolo campo vicino alla foresta è stato attaccato con molotov e bruciato, l’anno scorso abbiamo avuto molti incendi di strutture vuote, sei più o meno. Ci sono sempre stati attacchi da parte dei nazi, solo la prima occupazione della foresta non è stata attaccata.

Riguardo alla solidarietà che avete ricevuto: che reazioni e quali azioni ci sono state da parte delle persone del territorio? In che modo le persone vi hanno dato solidarietà e in che modo continuano a darla?

La solidarietà è stata dimostrata in molti modi diversi, c’è stato e c’è un grande sostegno da parte delle persone, alcune persone son venute per vedere la foresta, altre sono semplicemente interessate a venire, conoscere e parlare con chi vive qui. Alcunx vengono una prima volta e poi continuano a tornare. Alcun magari non ci sono mai stati prima e poi tornano a visitarla. Le persone ci aiutano con i materiali, portando molte cose, chiedendo cosa ci serve, offrendo posti per dormire o per riposare, donazioni di ogni tipo, cibo. Le persone ci supportano anche organizzando cose al di fuori della foresta, tramite manifestazioni, facendo controinformazione, raccontando alla gente quello che succede qui, facendo azioni da qualche parte, non solo nella zona, ma anche in altre città. C’è un’enorme rete di supporto, anche in altre città. La gente fa un sacco di cose diverse!

Per quanto riguarda il luogo in cui ci troviamo, l’accampamento di Hambi, anche questo è stato un segno di sostegno da parte di una persona del villaggio, vuoi dirci qualcosa di più a riguardo?

Innanzitutto, questo è collegato, c’era e c’è ancora il campo di Mado. C è una persona solidale della zona che possiede questo campo, una persona che sin dall’inizio, da quando è iniziata l’occupazione della foresta ci ha dato il suo campo da usare, e nel mentre aveva anche delle cause giudiziarie, per cercare di mantenere la sua terra e non doverla vendere a RWE. Era davvero molto coinvolta, e poi anche più tardi ha continuato a provare ad aprire molte cause legali contro la miniera.

Poi, quando nel 2018 c’è stato lo sgombero nella foresta, è iniziato il primo campo di hamby nell’altro villaggio per sostenere lo sgombero e la rioccupazione, per avere un luogo sicuro da dove le persone potessero entrare ed uscire dalla foresta. Quando non è stato più possibile rimanere lì, la gente ha iniziato a chiedere in giro per il villaggio e abbiamo trovato una donna molto gentile che ha dato il suo giardino per l’accampamento di hamby, quello dove siamo ora, dove abbiamo acqua ed elettricità e un sacco di strutture che possono stare indisturbate in questo giardino per sostenere l’occupazione della foresta.

In questi anni, ad Hambach, è stata costruita un’enorme zona autonoma. Cosa significa per voi? Come funziona? Quali sono gli aspetti positivi? Perché è ancora importante mantenere questa zona autonoma?

Perché, come hai detto tu, è una zona autonoma molto grande e penso che sia stata e sia tuttora importante perché c’è molto scambio tra persone provenienti da diverse aree e paesi e da diverse lotte che possono trovarsi qui per imparare a vicenda, per aiutarsi e sostenersi. Inoltre, poiché questo luogo è al di fuori della civiltà, si può imparare molto dalla vita nella foresta, che è davvero molto diversa dalla vita della maggior parte delle persone. Unirsi e imparare l’uno dall’altro e fare rete è importantissimo. Dopo 10 anni di lotta per mantenere questo luogo, penso che valga la pena lottare per mantenerlo. È uno spazio aperto, il che è davvero significativo? perché le persone possono venire liberamente senza annunciarsi, si può semplicemente venire e trovare il proprio posto, ma d’altra parte il fatto che sia così aperto crea anche molti problemi e molto lavoro. Tutto questo funziona grazie a chi contribuisce al progetto, attraverso le persone che vengono. E’ davvero importante che le persone vivano in questa zona autonoma per qualche tempo e la rendano vivibile.

Hambach è stata la prima foresta occupata, dopo però sono state occupate altre foreste, come ad esempio Tumbletown. Cosa pensi della diffusione di questa pratica?

È davvero bello vedere che queste tattiche funzionano, le occupazioni sugli alberi, non solo come forma di azione diretta, le persone cercano di creare più zone autonome, anche temporanee in altre foreste e cercano di vivere l’anarchismo insieme, lottando contro ciò che succede e proteggendo la foresta. C’erano e ci sono ancora connessioni tra le occupazioni delle foreste, le persone si visitano e si sostengono a vicenda. Durante questo periodo ci sono state molte occupazioni di foreste ma non tutte hanno avuto successo. Le persone però hanno imparato molte cose, sono cresciute e si sono spostate in altre occupazioni. A volte questa occupazione diventa un punto di ritrovo, abbiamo cercato di condividere conoscenze sull’ arrampicata, abbiamo organizzato eventi in modo che le persone potessero andare via da qui e ricreare questo tipo di lotta anche in altri luoghi, in modo che ci siano diversi scambi di conoscenze e per accrescere le strategie e le conoscenze pratiche.

Che tipo di solidarietà possono portare le persone a questa lotta, e cosa possono fare qui e da altre parti da cui provengono?

Penso che la cosa migliore sia lo scambio di conoscenze ed esperienze o la condivisione di come funzionano altri luoghi, cosa è andato bene e cosa no, come fare le cose, che tipo di problemi ci sono. In questo modo possiamo scoprire e conoscere altri modi diversi di fare le cose. Questo credo sia davvero importante! Anche conoscere altri progetti in altri Paesi, quali sono quelli simili, come sono collegati tra loro e come renderli pubblici. Tutti possono aiutare se c’è più rete.

Ultima domanda… cosa pensi in generale delle lotte ambientali? Che percezioni hai riguardo a queste? Come è cambiata in questi anni, sia dal punto di vista interno sia dal punto di vista del nemico?

Non sono molto positivx riguardo gli ultimi sviluppi che stanno avvenendo perché non vedo grandi cambiamenti in nulla e penso che il governo e le aziende stiano cercando di dipingere il tutto di verde ma continuando con il capitalismo, quindi non vedo grandi cambiamenti in atto.

1 Le diverse strutture costruite nella foresta sono suddivise in diverse zone, chiamate “Barrio”, ovvero quartiere.

 

VOCI DALLA VORAGINE DEL 41BIS

Senza nessuna fiducia nello Stato, nella legalità e nella democrazia, men che meno in un qualunque Dio, riceviamo e pubblichiamo questa dolorosa testimonianza dalla voragine del 41bis.

Sappiamo che le donne subiscono spesso il carcere anche quando il carcere non lo vivono direttamente sulla propria pelle. Donne, madri, mogli, sorelle, cui spesso è scaricato il lavoro di cura della famiglia, dei figli, oltre che il compito di sostenere fratelli, compagnx, mariti e padri detenuti, con lo sfinimento che implicano le visite, il pregiudizio della società, della famiglia, dei vicini, le lunghe attese, i controlli e le ispezioni corporali, gli interminabili viaggi di andata e ritorno, le spese sistematiche ed elevate, la perdita della propria vita privata, le ripercussioni sul proprio lavoro, dei propri sogni e progetti.

I pronunciamenti marziali dei tanti politici e campioni della legalità che esortano una guerra santa alla mafia, difendono proprio la stessa democratica barbarie che la necessita e produce.

IL 41BIS È TORTURA!

Di seguito il testo:

“Sono la moglie di un detenuto ristretto dal 2008. Quando mio marito è stato arrestato, non immaginavo l’abisso che si celava dietro le mura del 41 bis, un universo di isolamento estremo e sofferenza umana. La mia fiducia nella giustizia è stata scossa quando ho visto mio marito tornare dalla detenzione con ematomi alla testa e lividi in faccia. Nel 41 bis, il peso della punizione sembra superare ogni limite umano.[…]”

“Sono la moglie di Pasquale Condello, un uomo detenuto dal 2008 nel regime del 41 bis. La mia storia inizia quando ero una giovane appena diplomata e incontrai per la prima volta Pasquale, nel 1982. All’epoca, lui aveva trent’anni, leggermente più grande di me. Nonostante provenissi da una famiglia tranquilla con genitori commercianti, la mia vita prese una svolta quando decisi di fidanzarmi con lui. Pasquale aveva solo due anni di pena definitivi da scontare, e speravamo che potesse mettere da parte il suo passato e lavorare con suo fratello nel settore dei sanitari e delle ceramiche. Purtroppo, le brutte sorprese non tardarono ad arrivare. Appena sposati, mentre aspettavo la nostra prima figlia, Pasquale venne arrestato per scontare gli anni di pena rimasti. Ma la tragedia colpì ancora più duramente quando scoppiò la guerra di mafia a Reggio Calabria, da quel momento, la mia vita è stata segnata dalla sofferenza”. (Nell’ottobre del 1985, scoppia un’autobomba a Villa S. Giovanni nei riguardi di Antonino Imerti; qualche giorno dopo venne ucciso Paolo De Stefano e il 13 gennaio 1986 uccisero il fratello di Pasquale, anche se lui era estraneo agli eventi). “La guerra portò solo morte e distruzione, e Pasquale era in carcere, lontano dagli eventi ma comunque coinvolto indirettamente. Nel 1991, finalmente, la guerra ebbe fine, ma i segni indelebili rimasero nella nostra città. Molte madri, mogli e fratelli erano stati uccisi, e nessuno potrà più riabbracciare i propri cari. Le guerre portano solo distruzione e morte, e non vi sono motivazioni valide per scatenarle, specialmente per interessi economici. Spesso piangevo al pensiero che mio figlio maschio potesse un giorno essere ucciso o finire coinvolto in organizzazioni criminali. Ho cresciuto i miei tre figli da sola, con l’aiuto della mia famiglia, ringraziando Dio per il loro sostegno. Oggi, dopo tanti anni, la situazione non è migliorata. Pasquale è ancora in isolamento in regime di 41 bis, mentre io e i nostri figli viviamo nell’incertezza e nella paura per il suo futuro. La speranza è che possa ricevere le cure di cui ha bisogno e che possiamo riunirci come famiglia, nonostante le avversità che ci separano. Nel 2008, dopo una lunga latitanza, mio marito è stato arrestato e portato nel carcere di Parma dove, ci raccontò, di aver subito torture. Nonostante la sofferenza di non poterlo abbracciare, riuscivamo a vederlo dietro un vetro una volta al mese.

Anche i nostri nipotini erano felici di vederlo, ma quando Pasquale iniziò ad avere problemi psichiatrici, decidemmo di non portarli più in visita, per rispetto nei suoi confronti. Nel 2012, Pasquale fu ricoverato per ematomi alla testa, e noi venimmo a saperlo casualmente, poiché non fummo informati dalla direzione del carcere”. ( Inizialmente detenuto nel carcere di Parma, precisamente nell’area riservata nota come “super 41 bis”, Pasquale manifestò allucinazioni e lamentò di ricevere scosse elettromagnetiche. In seguito una testimonianza ci svelò dettagli sulla sua cella, descritta come notevolmente diversa, con un aspetto più simile alla “cella liscia/nuda). “La sua salute mentale peggiorava, e ciò ci riempiva di preoccupazione. La situazione era diventata insostenibile, ma non potevamo abbandonarlo. La nostra famiglia continuava a sperare in un cambiamento, nella possibilità di riunirci e di vederlo guarire. Non abbiamo potuto vederlo, non ci è stato permesso, solo l’avvocato è potuto andare quando era ricoverato in ospedale. Dopo 9 anni di detenzione a Parma, è stato trasferito nel carcere di Novara. Eravamo speranzosi che fosse meglio per lui, che ci fossero meno torture, ma il primo colloquio è stato devastante. Abbiamo visto che delirava, diceva cose senza senso, vedeva e sentiva persone estranee alla sua situazione carceraria. Abbiamo capito che stava male, i test hanno confermato che era affetto da disturbi psichiatrici. La situazione è peggiorata durante il lockdown: non siamo potuti andare in visita, abbiamo potuto solo telefonare al carcere qui a Reggio Calabria”. (Durante la pandemia, i familiari si dirigevano al carcere di Reggio Calabria e dovevano presentare la documentazione necessaria, poiché non era possibile ricevere telefonate normali a causa del regime 41 bis). “Ad un certo punto, ha smesso di voler parlare, ha rifiutato colloqui con noi, con l’avvocato, persino con i medici che volevamo mandare per visite”. ( Da febbraio 2021 Condello, che si trova nel carcere di Novara, rifiuta ogni incontro con i figli, la moglie, i legali ed i medici ). “Non sappiamo nulla di lui, non lo vediamo, non riceviamo notizie. Immagino come possa essere in questo periodo, ma la sua condizione mi tormenta. Non so se si cura, se si fa la barba, se ha i capelli lunghi o come si veste. Non mi manda più indumenti da anni, non so in che condizioni possa essere, e questo è un grande dolore per me. Quando andavamo a vederlo in carcere e facevamo i colloqui con i miei figli, eravamo contenti perché almeno lo vedevamo e, quando stava bene, anche colloquiava con loro, dando consigli e parole che ci facevano stare bene. Ora non lo vediamo più, non abbiamo più notizie. Non riesco a descrivere questo dolore che mi pesa nel cuore. Cerco di vivere la mia vita normalmente, lavoro come insegnante e cerco di mettere da parte questo dolore, ma nel mio cuore c’è sempre questo chiodo che mi fa male, soprattutto pensando ai miei figli che soffrono tanto. La nostra speranza è di vederlo agli arresti domiciliari, anche se sappiamo che è difficile per il suo nome pesante. Vogliamo che venga curato, che sia messo in una struttura dove possa ricevere le cure di cui ha bisogno, perché vogliamo tornare a vivere come una famiglia normale, a poter fare colloqui e parlare con lui tranquillamente. Non possiamo abbandonare un malato nelle carceri, non è giusto, non è corretto in uno Stato democratico. Viviamo nell’angoscia di ricevere una brutta notizia da un momento all’altro e non possiamo permetterci di aspettare ancora tanto senza notizie. Vivere con questa incertezza è un incubo per me e per i miei figli. Cerco di mettere da parte questi pensieri durante la giornata, ma la sera, quando vado a letto, mi sembra di impazzire. Mio marito rifiuta tutto, non sappiamo come aiutarlo, ci sentiamo impotenti. Cerchiamo di prenderlo, ma sembra sfuggirci da tutte le parti. La sua vita è chiusa dentro quella cella, e non sappiamo più cosa fare. Anche se non sappiamo come, mio marito rifiuta completamente il mondo fuori e non legge neanche la corrispondenza che riceve. I miei nipotini, specialmente i gemellini, mi chiedono spesso del nonno Pasquale, chiedendo perché non lo vedono mai. Vorrebbero tanto conoscerlo e gli prometto che prima o poi lo vedranno, ma la situazione è difficile da spiegare ai bambini. Queste sofferenze si aggiungono a tutte le altre che già viviamo. Ultimamente, una delle mie figlie si è sposata e ha avuto un’altra nipotina. Mio marito non lo sa, e non abbiamo idea se abbia ricevuto le lettere che gli abbiamo mandato per informarlo.

Anche mio figlio si è sposato quest’anno, ma non sappiamo se abbia avuto modo di ricevere la notizia. Nonostante tutto, la vita deve andare avanti, e cerchiamo di trovare conforto nelle piccole cose. La mia fede in Dio è ciò che mi dà la forza di andare avanti, insieme al sostegno della mia famiglia e al lavoro. Non riesco a immaginare quanto mio marito stia soffrendo, e vorrei tanto poterlo sentire e vedere che sta bene. La sua salute e il suo benessere sono sempre nelle nostre menti, e non vediamo l’ora di poterlo riabbracciare. Per ora, ci aggrappiamo alla speranza di vederlo trasferito in una struttura adeguata, dove possa ricevere le cure di cui ha bisogno. Questo è il nostro desiderio più grande, anche se sappiamo che il percorso sarà lungo e difficile. Ma continueremo a lottare per lui e a sperare che un giorno possa tornare a casa, dove merita di essere. Il mio grande dilemma è che mio marito, pur avendo subito torture in passato, rifiuta assolutamente qualsiasi cura in carcere. Non ha fiducia nei medici, né nelle carceri, né nelle medicine che gli vengono somministrate. La nostra speranza come famiglia è che possa essere trasferito in una struttura adeguata, mantenendo eventualmente il regime 41 bis. Attualmente, il carcere non è un ambiente adatto per la sua malattia e ci aggrappiamo alla speranza che possa ricevere le cure di cui ha bisogno. Sono orgogliosa di come ho cresciuto i miei figli. Nonostante le difficoltà e il coinvolgimento passato del padre in situazioni criminali, sono tutti impegnati nel loro lavoro e hanno costruito una vita onesta. Anche se uno dei miei figli è stato arrestato in passato, ritengo che non abbia meritato quelle accuse. La legalità è un valore fondamentale per me, insegnare ai miei alunni il significato di questo concetto è parte integrante del mio lavoro. Quando vedo ragazzi disinteressati allo studio, cerco sempre di far loro capire l’importanza dell’istruzione. Lo studio non solo apre la mente e le opportunità di lavoro, ma può anche proteggerli da scelte sbagliate che potrebbero compromettere il loro futuro. Ho reso la promozione della legalità e dell’istruzione un impegno costante nella mia vita e nel mio lavoro di educatrice. Spero che chiunque abbia il potere di fare qualcosa per aiutare i malati nelle carceri rifletta sulla gravità della situazione e si adoperi per fare la propria parte nell’assistenza a coloro che ne hanno bisogno”.

(Nel 2022, l’associazione Yairaiha, impegnata nella difesa dei diritti dei detenuti, aveva evidenziato la grave condizione psichiatrica trascurata di Condello. L’appello rappresentava un vigoroso richiamo alla giustizia, non solo per la trasparenza, ma anche per assicurare il diritto alla salute, persino nel contesto del regime 41 bis. L’ex boss dell’ndrangheta Pasquale Condello, noto come ‘U Supremu, ha ricevuto una dura condanna di 4 ergastoli e 22 anni di reclusione. La sua discesa negli abissi inizia a Parma, tra allucinazioni e lamentele di scosse elettromagnetiche. Una spirale di malattie mentali lo avvolge, trasportandolo in un regno di sofferenza inimmaginabile. La sua famiglia è intrappolata in un limbo di angoscia per il suo destino, senza notizie da oltre tre anni. A causa delle sue patologie, Condello rifiuta le cure indispensabili, creando un’ombra sulla sua già difficile strada. La data del fine pena, è previsto il 31/12/9999 distante 7975 anni, 797 secoli da oggi, si presenta come una condanna senza prospettive, una pena di morte mascherata dallo Stato. Un verdetto privo di futuro diventa una forma di tortura, creando una trama di sofferenza che abbraccia non solo lui ma anche coloro che gli sono vicini ).

Luna Casarotti, Associazione Yairaiha ETS


Lo sportello di supporto psicologico per i familiari dei detenuti, da cui prende le mosse anche questa rubrica, va allargandosi progressivamente. Non solo vi partecipano i familiari delle persone uccise dal carcere, ma anche i familiari dei detenuti che vivono un calvario all’interno del sistema penitenziario a causa di patologie non conciliabili con la detenzione, mancanza di cure fisiche e psicologiche. Vi sono inoltre ex detenuti che hanno vissuto l’oscurità delle celle e che condividono la propria storia. Tutti sono benvenuti a partecipare, ogni contributo è importante. Le riunioni si svolgono ogni venerdì dalle 17:45 alle 20:00. Il link per accedere alla riunione settimanale viene pubblicato qualche giorno prima dell’incontro sul gruppo Telegram “Morire di carcere” e su quello Whatsapp “Sportello di supporto psicologico per i familiari dei detenuti” . Adesioni e lettere possono essere inviati all’indirizzo e-mail dell’associazione Yairahia Ets (yairaiha@gmail.com).

TESTO PDF – Condello Pasquale

UNA GRAVE STORIA DI VIOLENZA MEDICA AL CARCERE DI PARMA

Riceviamo e diffondiamo la storia di Sereno Quirino, detenuto da sedici anni nella casa circondariale di Parma.

Mi chiamo Luca Sereno e scrivo per denunciare il trattamento a cui è sottoposto mio padre, Sereno Quirino, detenuto da 16 anni nella casa circondariale di Parma. Negli ultimi anni, ha affrontato gravi problemi di salute, tra cui dischi intervertebrali schiacciati lungo la spina dorsale, calcificazione delle rotule della gamba destra e sinistra, 6 tumori benigni rimossi tra intestino e colon, macchie nere nei polmoni e varie altre patologie.

All’arresto, 16 anni fa, mio padre non presentava alcuno di questi problemi, ma ora è costretto a utilizzare stampelle e, in alcuni giorni, una sedia a rotelle. Durante i processi, viene trasportato in ambulanza e giunge in tribunale sdraiato su un lettino a causa dei suoi gravi problemi di salute.

Dopo molte lotte e richieste con il mio avvocato, siamo riusciti a ottenere visite più complete e specializzate per le sue patologie presso il Centro dei Dolori. Prima di queste visite, a mio padre venivano somministrati diversi medicinali, tra cui Seroquel da 200 mg (tre pastiglie al giorno, quindi 600 mg), Irika, Stinox, Contromal e molti altri. La sua cartella clinica è estremamente complessa, e anche ricordare tutti i farmaci a memoria risulta impossibile.

Questo per evidenziare la difficile situazione di salute di mio padre, che necessita di cure adeguate e di un’attenzione particolare da parte delle autorità penitenziarie. Riusciamo a farlo visitare al Centro dei Dolori, dove dopo esami specializzati per i suoi dolori, gli viene prescritto il cerotto di Fentanil. Questo cerotto rilascia il principio attivo nel corpo per tre giorni, successivamente viene cambiato. Inizia con il dosaggio da 25, poi passa a quello da 50 e infine a quello da 100. A ciò si aggiungono i suoi medicinali “di sempre”, con l’eccezione del Contromal, che viene sostituito dal Fentanil in cerotto.

Circa 3-4 mesi fa, mio padre viene sottoposto a un controllo al Centro dei Dolori. Durante questo controllo, la dottoressa, senza spiegazioni, decide di interrompere tutti i medicinali, compreso il cerotto di Fentanil, in un periodo di soli 9 giorni. Questo avviene dopo anni di assunzione regolare, e la rapida diminuzione delle dosi, senza alcun adeguato scalaggio, solleva interrogativi sulla motivazione di una scelta così drastica. È evidente che una persona che ha assunto dosi così elevate di medicinali derivati dalla morfina e oppiacei per molti anni potrebbe reagire in modo significativo a una interruzione così improvvisa e completa del trattamento. Restiamo perplessi e ci chiediamo quale possa essere il motivo dietro una decisione così radicale, specialmente considerando gli anni di somministrazione di questi farmaci. Mio padre non ha certo guarito miracolosamente da un giorno all’altro; al contrario, la sua situazione è peggiorata. È come se andaste dal medico con la febbre e, anziché prescrivervi una normale tachipirina o effettuare esami specialistici, vi privasse improvvisamente del trattamento. Questo esempio, seppur semplice, mira a illustrare la gravità della situazione. Una dottoressa ha compiuto un gesto simile, togliendo tutto senza apparente motivo. Benché conoscessimo il motivo, senza prove non possiamo dichiararlo apertamente. È evidente che si tratti di qualcosa di più, poiché anche un bambino comprenderebbe che un’azione del genere equivale a tortura.

Dopo quel giorno, mio padre ha subito un intervento per rimuovere polipi e tumori (sei in totale, tra colon e stomaco). Sorprendentemente, dopo l’operazione, non gli è stato somministrato alcun antidolorifico o sollievo. Abbiamo presentato denunce, ma le risposte sono state deludenti, come il commento della dottoressa che ha dichiarato di pensare di aver aumentato il cerotto. Questo è solo un esempio delle risposte ricevute.

Ho deciso di condividere questa storia su una pagina Facebook dedicata ai diritti dei detenuti, accompagnata da foto che documentano quanto accaduto. La trasformazione di mio padre da prima di quel tragico giorno a ora è evidente durante le videochiamate, quando lo vedo in una sedia a rotelle, senza parlare e soffrendo visibilmente. La sensazione di impotenza di fronte a questa situazione mi distrugge, e il dolore che sto vivendo è straziante. Mio padre sta morendo lentamente davanti ai miei occhi, e mi sento totalmente impotente. Dopo questo articolo pubblicato su Facebook, una ragazza dell’Associazione Yairaiha ETS, contatta la garante dei detenuti di Parma, che visita immediatamente il carcere per comprendere la situazione. Nonostante le rassicurazioni iniziali, viene promesso a mio padre un sostituto del cerotto con lo stesso principio attivo come antidolorifico. Tuttavia, questa promessa si rivela una presa in giro, poiché dopo diverse settimane, mio padre è ancora nella stessa situazione.

La garante, chiedendo aggiornamenti, riceve risposte ingannevoli, affermando che tutto è a posto. In realtà, a mio padre è stato somministrato solo uno psicofarmaco che, anziché alleviare il dolore, lo ha reso quasi catatonico. È vergognoso vedere come invece di fornire un antidolorifico di cui mio padre ha estremo bisogno, venga somministrato un farmaco che lo sta trasformando in uno stato quasi vegetativo. Fortunatamente, mio padre ha rifiutato questo psicofarmaco, dimostrando una lucidità che sembra mancare nelle decisioni della struttura penitenziaria. La situazione che mio padre sta vivendo è un chiaro caso di tortura, una pratica inaccettabile. Nonostante gli sforzi della garante dei detenuti, la presa in giro continua, e nemmeno le informazioni sui medicinali somministrati vengono fornite chiaramente.

Chiedo a chiunque legga questo testo di aiutarmi. Non sto cercando la liberazione di mio padre né sconti di pena; è responsabile delle sue azioni e deve affrontare le conseguenze. Tuttavia, non merita di essere sottoposto ad una simile tortura. Non sto chiedendo l’impossibile, solo giustizia e un trattamento umano. La sua salute è in serio pericolo, e non posso rimanere inerte, aspettando che la situazione peggiori.

Vi prego, chiunque possa aiutare, chiunque possa fare qualcosa, vi chiedo aiuto. Non so più a chi rivolgermi, mi sento impotente. Questa non è solo una questione di diritti umani, ma di umanità. Spero che la vostra solidarietà possa portare a un cambiamento positivo per mio padre.

Di Luca Sereno, ( figlio di Quirino Sereno)

IL CAPITALISMO NUOCE GRAVEMENTE ALLA SALUTE: VOCI DAL PRESIDIO DEL 13 OTTOBRE A ROMA

Di seguito la puntata di Mezz’ora d’aria, trasmissione anticarceraria sulle frequenze di Radio Città Fujiko, andata in onda sabato 22 ottobre.

Voci dal presidio del 13 ottobre chiamato dall’Assemblea Antipsichiatrica a Roma per contestare il convegno dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sulla salute mentale.