Modena: fuoco alle galere

Lo Stato ha archiviato il procedimento sulle strage dell’8 marzo 2020 al Sant’Anna, carcere di Modena.
Otto persone uccise due volte da un silenzio assordante, casualmente tutte di origine straniera, e di cui tutto sommato non importerà nulla a nessuno.
Il fatto che quattro decessi siano avvenuti durante e dopo i trasferimenti punitivi in altre carceri non conta nulla.
Nessuna responsabilità di Stato, nessuna omertà da parte di medici e infermieri. Soccorsi ed assistenza sanitaria garantita.  Nessuna omissione. Nessun pestaggio da parte di guardie e secondini. Le testimonianze di altri detenuti non valgono niente, il racconto degli spari ad altezza uomo, delle botte, degli abusi, delle omissioni di soccorso, nemmeno.
Sono morti per overdose, è stato detto dal primo minuto
, quando ancora la conta dei morti era incerta.
Le istituzioni come sempre agiscono tutelando se stesse e il lustro delle proprie strutture di dominio, non bisogna dare segni di cedimento su Modena, la ferocia del sistema carcerario e quella dello Stato sono due facce della stessa medaglia.
Ad oggi relativamente alla strage di Modena resta aperta soltanto l’indagine per la morte di Sasà Piscitelli.

Ciò che è chiaro è che soltanto lottando possiamo rompere il filo spinato dell’omertà che avvolge quelle maledette mura affinché le rivolte, e il sacrificio di chi non c’è più non siano stati inutili.


Link:

https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/06/17/sui-morti-in-carcere-a-modena-non-bisognava-chiudere-cosi-presto/6232916/

https://www.carmillaonline.com/2021/06/01/strage-di-modena-il-rischio-di-un-colpo-di-spugna/

https://www.osservatoriodiritti.it/2021/06/17/carcere-modena-rivolta-8-marzo-indagini-decessi-detenuti-santanna/

Assassinato il coordinatore Si Cobas di Novara Adil Belakdim durante lo sciopero alla Lildl di Biandrate

Deliberatamente ucciso per la produzione e i profitti del padrone, travolto senza pietà ed esitazione da un camion che ha forzato un picchetto: Adil Belakdim, coordinatore dei SiCobas di Novara è morto ammazzato trascinato per una decina di metri davanti ai cancelli della Lidl di Biandrate (Novara) durante un picchetto di lavoratori della logistica nella giornata di sciopero nazionale dell’intero comparto promosso dallo stesso sindacato di base con Adl Cobas, Usb, Cub Trasporti e Slai Cobas.


Info: “Tutti coloro che intendono dare un contributo per sostenere i familiari e le spese legali del nostro compagno Adil Belakhdim, possono inviarli a mezzo bonifico al seguente IBAN
IT23O3608105138254343954358
oppure a mezzo ricarica Postepay a:
5333171076048723
Intestato in entrambi i casi a Raffaella Crippa.
Codice fiscale: CRPRFL76T43C523I
BIC/SWIFT (per i versamenti da altri paesi): BPPIITRRXXX
Causale: “per Adil Belakhdim, assassinato durante uno sciopero”

Sulle richieste di sorveglianza speciale a Bologna

AGGIORNAMENTO AL TESTO “CHI NON MUORE SI RITROVA”

Considerazioni in merito all’Operazione “Ritrovo” sulle richieste di sorveglianza speciale

A un anno di distanza dall’Operazione Ritrovo è arrivata la richiesta di 5 anni di sorveglianza speciale con obbligo di dimora per 7 compagni e compagne indagati in quell’inchiesta. L’ udienza è stata fissata per il 12 luglio.

La mossa ci sembra del tutto in linea con quanto avvenuto tanto nel passato recente (vedi Cagliari e Genova) che in quello più remoto. A fronte del fallimento o del drastico ridimensionamento della portata di un’inchiesta, si tenta di colpire le stesse persone con altri mezzi. L’intento è chiaramente quello di non mollare la presa, indebolire quei contesti in cui pensare e organizzare la critica e l’opposizione a questo stato di cose è una prassi che rimane costante, anche col solo far sentire compagni e compagne costantemente sorvegliati, col fiato sul collo, cercando di metterli sotto pressione.

La sorveglianza speciale e, in modo differente, le misure cautelari “minori” come gli obblighi e i divieti di dimora sono misure tanto subdole quanto infami. Chi ne è colpito è isolato in modo apparentemente molto meno impattante rispetto a provvedimenti più pesanti, come gli arresti. Tuttavia, seppur con mezzi diversi, l’obiettivo dello Stato rimane lo stesso: restringere il campo di chi si muove, togliere di mezzo chi si espone e fungere da monito per chiunque avesse intenzione di farlo. E ci può riuscire tanto con il carcere che con altre, seppur più lievi misure. Quando compagni e compagne spariscono dai contesti in cui lottavano fino al giorno prima, proprio a causa di queste misure, ce ne accorgiamo. E se non ci sorprende che di fronte a esse la risposta solidale non si esprima con lo stesso impeto che di fronte a un arresto, ci preme comunque sottolineare che l’obiettivo a cui mirano è spesso il medesimo: arrestare dei percorsi di lotta. E questo non possiamo permetterglielo.

Ci sembra quindi essenziale innanzitutto collettivizzare il contenuto di tali richieste e auspicare che il dibattito e la resistenza a queste misure si allarghino, data anche la mole di sorveglianze richieste sul territorio nazionale negli ultimi mesi: 4 a Cagliari, 2 a Genova (di cui una attualmente attiva), 1 a Torino, 7 a Bologna (precedute da altre 2 nella provincia, di cui una rigettata e una data).

Per quanto riguarda la struttura di queste richieste ci sembra di poter dire che, in linea con l’inchiesta da cui prendono le mosse, sono decisamente raffazzonate.

Innanzitutto sono misure di sorveglianza richieste non per una pericolosità “generica”, ma per una cosiddetta “qualificata”, ossia destinata a persone indiziate di particolari tipi di reati; nello specifico reati di terrorismo (capo “d” del paragrafo del codice penale sui soggetti destinatari). Ciononostante, il solo reato di terrorismo che emerge dalle carte è quello legato all’Operazione Ritrovo – per cui compagne e compagni sono tutt’ora indagati – che un anno fa ha portato a sette carcerazioni e cinque obblighi di dimora. Quindi, tautologia già vista: il PM prima lancia l’accusa di terrorismo – respinta sia dal Tribunale del riesame che dalla Cassazione seguita all’appello fatto dal PM – e poi usa l’accusa stessa per dimostrare una pericolosità fondata proprio sul terrorismo.

Entrando nel merito del contenuto, le 7 richieste sono piuttosto individualizzate. Tutte quante condividono però un’introduzione comune, che richiama l’ottica preventiva decantata dal PM Dambruoso all’alba dell’Operazione Ritrovo e la concezione repressivo-pandemica secondo cui nel corso dell’ultimo anno si sarebbe verificata un’ «infiltrazione delle anime anarchiche locali all’interno del tessuto sociale al fine di “cavalcare la rabbia”, derivante dalle stringenti limitazioni imposte dal Governo italiano per il contenimento della pandemia Covid-19, ed incanalarla contro le libere istituzioni democratiche»*.

Per qualcuno si cita precipuamente l’essere intestatario dello spazio di documentazione “Il Tribolo” (al cui interno sono stati sequestrati addirittura striscioni e bandiere, da ritenersi dunque a sua personale disposizione), o la partecipazione attiva alla redazione del bollettino anticarcerario OLGa. Per altri l’aver partecipato a livello nazionale o internazionale a cortei e presidi, in particolare nella lotta contro la repressione e in solidarietà a compagni e compagne in carcere.

Non mancano ovviamente passaggi contraddittori. Per qualcuno la pericolosità personale si evincerebbe dal possesso di strumenti informatici di tutela della privacy. Per qualcun’altra dai contenuti (trascrizione di lettere, volantini, resoconti di assemblee) estrapolati da comunicazioni trasparenti, rinvenute su supporti informatici non criptati.

In alcune richieste ci si sofferma più sul “curriculum” militante, a partire dalle prime denunce (superficialmente riportate con inesattezze e refusi); in altre su fatti accaduti nell’ultimo anno, tra cui le manifestazioni di solidarietà ai detenuti in seguito alle rivolte di marzo 2020 e la partecipazione attiva all’Assemblea in solidarietà ai/alle prigionieri/e, oltre che ai contatti epistolari tenuti con questi ultimi, da cui viene tratteggiato per qualcuno un ruolo di “raccordo” a livello nazionale con compagni/e dentro e fuori le galere.

E poi, questo passaggio: «La condivisione delle dinamiche di lotta rivoluzionaria nel campo dell’anti-carcerario e in solidarietà ai detenuti anarchici insurrezionalisti appartenenti alla FAI/FRI» si sposa ideologicamente con «una progettualità eversiva volta a condurre una insurrezione violenta, anche sfruttando e fomentando le rivolte carcerarie»*. L’adesione ideologica sarebbe una condizione per procedere con richieste di misure preventive. Dambruoso lo dice apertamente dall’anno scorso e oggi continua a battere questa strada senza ripensamenti. Il PM, la cui esecrabile carriera nella procura milanese è stata costruita sulla repressione al cosiddetto terrorismo islamico, tenta di seguire oggi le stesse orme contro gli anarchici. E ciò farebbe ridere visti gli scarsi successi, se non fosse che proprio con simili inchieste per terrorismo, il cui fulcro è proprio l’adesione ideologica, lui come altri PM comminano anni di carcere o di misure preventive a destra e a manca.

La controparte attacca, e lo fa con costanza, mantenendo una sorta di “standard punitivo”, come a dire che sotto un certo livello di repressione lo Stato non scende, tanto in termini di anni comminati, che di tipologia di misure dispensate (preventive e non). Se il livello del conflitto si abbassa la repressione avanza o quantomeno non arretra. Proprio perché, lo dicono loro stessi, l’obiettivo è “prevenire”, evitare che tornino gli anni caldi.

E proprio da qui si è pensato di partire. A fronte della loro prevenzione, vogliamo opporre la nostra, organizzando e rilanciando, di fronte a questa ennesima mossa repressiva, lotte e discorsi che essa avrebbe la pretesa di spezzare.

*citazioni dalle richieste di sorveglianza speciale


link: Chi non muore si ritrova

Sulla situazione di Belmonte Cavazza, contro stato di tortura e misure di sicurezza

Liberiamo nelle brughiere un aggiornamento sulla situazione di Belmonte Cavazza.

CONTRO STATO DI TORTURA E MISURE DI SICUREZZA

Pochi giorni fa, Belmonte Cavazza aspettava di varcare la soglia del carcere di Piacenza, andando finalmente incontro alla libertà.

La sua condanna di 19 anni sarebbe dovuta terminare il 19 aprile. Veniva invece trasferito il 23 aprile presso la casa di lavoro di Castelfranco Emilia (MO).

La ragione? Una misura di sicurezza disposta nei suoi confronti nel 2003.

Le misure di sicurezza, introdotte da Mussolini nel ‘30 e ancora in vigore, si basano, analogamente alla sorveglianza speciale (misura di prevenzione), su un giudizio di pericolosità sociale: ciò che rileva è la personalità dell’individuo, le sue abitudini ed il suo profilo.

Queste misure vengono disposte sulla base di un “pregiudizio” giuridico di possibile reiterazione del reato; sulla condotta comportamentale durante la detenzione; sull’essere stato condannato o prosciolto per parziale o totale infermità di mente. Possono essere comminate dal giudice come misure accessorie, diventano cioè eseguibili una volta che la pena, alla quale si è stati condannati, è terminata.

Ergastolo bianco”, è così che sono state definite tali misure di sicurezza. “L’ergastolo bianco” è rinnovabile all’infinito, non essendo previsti per legge termini di durata massima. Di fatto un’altra pena di morte viva, forse la più dimenticata visto che è opinione diffusa che le case di lavoro non esistano più.

Deputati all’internamento di chi è in esecuzione di una misura di sicurezza, oltre alle case di lavoro, sono le colonie agricole e le REMS (che hanno sostituito i vecchi OPG) destinate a chi viene prosciolto da un reato per infermità mentale. Dentro questi luoghi si trovano rinchiusi gli ultimi degli ultimi dei circuiti detentivi. Persone che non possono contare sul sostegno di una famiglia o di una rete di relazioni.

Nonostante le informazioni su tali luoghi siano difficilmente reperibili, sembra che ad oggi – a seguito della chiusura di quella presente sull’isola di Favignana – in tutta Italia rimangano 3 case lavoro: a Vasto, a Castelfranco Emilia (in cui è presente anche una sezione a custodia attenuata) e ad Isili (Sardegna), dove c’è una sezione denominata “colonia agricola” .

Durante la seconda guerra mondiale il Forte urbano di Castelfranco Emilia fu un luogo di prigionia (casa lavoro) fascista, scenario nel ‘44 di esecuzioni nei confronti di partigiani, antifascisti, disertori alla leva.

La storia a venire non ha riservato a quel luogo un’infamia minore, considerati alcuni dei soggetti che ci hanno messo le mani in pasta.

Nel 2005, vi nasceva la colonia agricola penale per persone tossicodipendenti, la cui gestione veniva affidata, per volere del ministro Castelli, all’associazione di Andrea Muccioli, della Comunità di San Patrignano. Fu sponsorizzata da Carlo Giovanardi e inaugurata alla presenza di Gianfranco Fini, come un nuovo fiore all’occhiello. Il Forte urbano veniva quindi ad assumere due funzioni, quella di casa lavoro per l’esecuzione delle misure di sicurezza degli internati e quella di casa di reclusione a custodia attenuata per detenuti tossicodipendenti. Nel 2017, la gestione interna delle serre per il lavoro agricolo fu affidata a Caleidos, la cooperativa nota per la sua egemonia nel modenese in particolare nella gestione di canili, gattili e centri di accoglienza per richiedenti asilo, descritti dalle stesse persone che li hanno attraversati come luoghi di prigionia, controllo e sfruttamento. Nel 2020, a mettere le mani in pasta nel business legato alla casa lavoro è la cooperativa modenese L’Angolo, a cui è affidata la gestione della lavanderia industriale (così come al Sant’Anna). La cooperativa è nota alle cronache perché, anch’essa nel business dell’accoglienza, dava da mangiare ai migranti che vivevano nelle sue strutture cibo avariato e mordicchiato da ratti che, insieme alla muffa, invadevano letti e stanze.

Ma arriviamo al 2021. A ricoprire l’incarico di direttrice del Forte Urbano di Castelfranco Emilia è Maria Martone, la direttrice pro tempore ai tempi della rivolta nel marzo 2020 – e tutt’ora in forze – del carcere Sant’Anna di Modena. Recentemente è stata elogiata dal Sappe per gli sforzi da lei compiuti nel ripristino e ricostruzione del carcere cittadino dopo la rivolta.

Proprio a proposito di quest’ultimo punto, è bene fare un passo indietro, e ricordare quanto recentemente avvenuto. La risposta immediata dello Stato alle rivolte nelle carceri del marzo 2020 fu una strage di 14 morti tra le persone detenute.

Nel dicembre scorso, cinque tra i detenuti che erano stati trasferiti da Modena ad Ascoli Piceno dopo la rivolta al Sant’Anna, presentarono un esposto alla Procura di Ancona, in quanto testimoni della morte di Sasà Piscitelli nel carcere ascolano. Testimoniarono degli spari, dei pestaggi delle guardie e della mancata assistenza medica prima dei trasferimenti nel carcere Sant’Anna di Modena. Uno di loro è proprio Belmonte.

Pochi giorni dopo, con il pretesto ufficiale di dover essere sentiti dalla Procura di Modena, i cinque furono riportati in quel luogo di strage e tortura. Furono rinchiusi in una stanza liscia, al freddo, con le finestre rotte e privati della possibilità di mettersi in contatto con i propri cari: fu evidente a tutte/i il carattere intimidatorio e di ritorsione che ebbe quel gesto.

Si mobilitarono in molte/i e in breve tempo, la solidarietà fu ampia: dopo qualche giorno furono infine trasferiti altrove, ciascuno verso una diversa destinazione penitenziaria. Dopo diversi giorni, si venne a sapere che Belmonte era stato trasferito a Piacenza, dove a febbraio la magistrata di sorveglianza di Reggio Emilia, su richiesta del carcere di Piacenza, gli notificava il provvedimento di censura di tre mesi sulla corrispondenza.

Oggi a pena finita, si trova internato nella casa di lavoro di Castelfranco, la cui direzione è in mano alla stessa persona che dirigeva, all’epoca dei fatti raccontati dall’esposto, il carcere di Sant’Anna. Non dimentichiamo che nell’inchiesta della Procura modenese sulle morti al Sant’Anna, questa stessa direttrice ha affermato che tutti i detenuti, prima dei trasferimenti, avevano ricevuto assistenza medica presso il presidio sanitario allestito nel piazzale. Peccato che durante e dopo questi trasferimenti, altre 4 persone perderanno la vita. E altre 5 la perderanno proprio dentro il suo carcere.

Nonostante le minacce, le ritorsioni, i pestaggi, le violenze fisiche e psicologiche e i decenni passati dentro le galere il 27 aprile, Belmonte faceva sapere tramite lettera di averintrapreso uno sciopero della fame perché da diversi anni mi tengono sequestrato dallo Stato italiano e quindi non ho altre vie per protestare contro questo abuso di potere che ha il nostro ordinamento penitenziario in Italia, mi trattengono con delle normative di Benito Mussolini e poi festeggiano la liberazione dal fascismo…”.

Ad oggi non è stato ancora possibile ricevere notizie sulle sue condizioni di salute e se ha proseguito lo sciopero.

Qui l’indirizzo per scrivergli:

Belmonte Cavazza

via Forte Urbano, 1

41013 – Castelfranco Emilia (MO)

CONTRO LO STATO E I SUOI LUOGHI DI TORTURA,

AL FIANCO DI BELMONTE E DI CHI ALZA LA TESTA

Psichiatria: basta morti in contenzione

Il collettivo Artaud invita ad un volantinaggio antipsichiatrico
Sabato 29 maggio a LIVORNO in PIAZZA DAMIANO CHIESA
dalle ore 10:30 alle ore 12:30.

BASTA MORTI IN CONTENZIONE NEL REPARTO PSICHIATRIA!!
ABOLIAMO LA CONTENZIONE!!

Non si sa ancora niente del paziente originario della Val di Cornia ricoverato nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Livorno e morto a inizio aprile di questo anno dopo essere stato legato al letto per una settimana. Ciò che sappiamo è che nei reparti psichiatrici italiani si continua a morire di contenzione meccanica, sia in regime di degenza che durante le procedure di TSO.

Il 13 agosto del 2019, nel reparto psichiatrico dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo è  morta durante un incendio Elena Casetto, 19 anni, bruciata viva nel letto al quale era legata: la contenzione non le ha permesso di fuggire. A oggi per quel terribile evento sono indagati solo i due addetti della ditta che aveva in appalto il servizio antincendio dell’ospedale.
Un episodio simile era accaduto nel Manicomio Giudiziario di Pozzuoli nel 1974, quando Antonia Bernardini morì per le ustioni riportate dopo l’incendio che l’aveva avvolta nel letto di contenzione al quale era stata legata ininterrottamente per 43 giorni.
Il 4 agosto del 2009 Francesco Mastrogiovanni è morto per edema polmonare dopo 87 ore consecutive di contenzione nel reparto di psichiatria dell’Ospedale di Vallo della Lucania, provincia di Salerno. Era stato ricoverato in TSO, trattamento sanitario obbligatorio, senza rispettare le procedure previste dalla legge; sedato e legato con fascette ai polsi e alle caviglie, è rimasto senza mangiare, senza bere e senza nessuno che si preoccupasse di lui fino alla morte.

Nel caso Mastrogiovanni la Corte di Cassazione ha definito l’uso della contenzione meccanica un presidio restrittivo della libertà personale che non ha né una finalità curativa né produce l’effetto di migliorare le condizioni di salute del paziente. La contenzione non è un atto medico e non ha alcuna valenza terapeutica: è un evento violento e dannoso per la salute mentale e fisica di chi la subisce; offende la dignità delle persone e compromette gravemente la relazione terapeutica.

Purtroppo contenzione meccanica e farmacologica sono praticate diffusamente anche nelle strutture che ospitano persone anziane e/o non autosufficienti. In nessun caso la carenza di personale e di strutture può giustificare il ricorso a pratiche coercitive. Anche la logica dei “motivi di sicurezza”, dello “stato di necessità” o delle “persone aggressive” a cui sovente si fa appello nei reparti, deve essere respinta poiché fondata sul pregiudizio ancora diffuso della potenziale pericolosità della “pazzia”. Molti ritengono, per atteggiamento culturale o per formazione, che sia giustificabile sottoporre persone diagnosticate come “malate mentali” a mezzi coercitivi, che sia nell’ordine delle cose e corrisponda al loro stesso interesse. Chi condivide questa opinione non considera adeguatamente, sia in termini esistenziali che giuridici, il valore imprescindibile della libertà della persona, tanto più rilevante quanto più attinente a libertà minime, elementari e naturali, come la libertà di movimento.

Oltre al ricorso alla contenzione meccanica e farmacologica, continua ancora oggi a prevalere nei servizi psichiatrici un atteggiamento custodialistico e l’impiego sistematico di pratiche e dispositivi manicomiali: obbligo di cura, porte chiuse, grate alle finestre, sequestro dei beni personali, limitazione e controllo delle telefonate e di altre relazioni e abitudini.
Sappiamo inoltre, di numerose esperienze in Italia e all’estero dove viene evitata la contenzione. In solo 15 reparti italiani su 320 viene praticata la terapia no restraint, la contenzione è stata abolita e le porte sono aperte.

Ribadiamo la necessità di proibire, senza alcuna eccezione, la contenzione meccanica nelle istituzioni sanitarie, assistenziali e penitenziarie italiane.
Continueremo a lottare con forza contro ogni dispositivo manicomiale e coercitivo (obbligo di cura, trattamento sanitario obbligatorio, uso dell’elettroshock, contenzione meccanica, farmacologica e ambientale, ecc) e per il superamento e l’abolizione di ogni pratica lesiva della libertà personale.

Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud-Pisa
antipsichiatriapisa@inventati.orgartaudpisa.noblogs.org

Op. Prometeo: aggiornamenti su Natascia dal carcere di S. Maria Capua Vetere

Lo scorso 13 marzo Natascia è stata trasferita dalla sezione AS3 del carcere di Piacenza a quella del carcere di Santa Maria Capua Vetere.
L’avvocato è stato avvertito dal carcere di arrivo. Dopo una decina di giorni di isolamento per quarantena, è stata trasferita in sezione in una cella che le stesse guardie chiamano “cubicolo”: una cella singola dove invece sono rinchiuse due persone, che con l’arrivo di Natascia sono diventate tre.

A quanto pare, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il sovraffollamento è cronico.

Nonostante Natascia sia stata inserita in sezione, con lei non valgono le stesse regole che valgono con le altre detenute in AS3.
Non appena arrivata le hanno requisito i cd e il lettore e, nonostante le sue proteste, la situazione ad oggi è rimasta invariata.
La quantità di libri (una borsa) che Nat aveva con sé al suo arrivo nel carcere di S. Maria Capua Vetere pare che abbia messo in crisi le guardie al punto che si sono sentite in dovere di porre un tetto a quelli che può tenere in cella: all’inizio 2, quando Nat ha protestato che persino al 41 bis i libri concessi sono 4, l’hanno alzato, appunto, a 4.

Può chiamare i suoi genitori solo due volte al mese (da Piacenza poteva chiamarli due o tre volte alla settimana) e può fare alcune video chiamate, ma al momento anche in questo a quanto pare ha delle limitazioni. Ha fatto domanda anche per fare i video colloqui con la compagna con cui faceva regolarmente i colloqui e i video colloqui prima di essere trasferita a S. Maria Capua Vetere. Dopo un mese di istanze, invii di documenti, censimenti, rifiuti, garanti, nuove istanze e altri invii di documenti, il carcere si è degnato di concedere una sola ora di colloquio al mese con la compagna in questione: sebbene ci sia un permesso di colloquio permanente rilasciato dal giudice che la autorizza ai colloqui senza limitazioni (a Piacenza poteva fare con Natascia fino a tre colloqui al mese, e in seguito quattro video colloqui al mese di un’ora durante il lockdown), la direzione del carcere di S. Maria Capua Vetere è determinata a marciare sopra la decisione del tribunale affermando che “la discrezione del direttore del carcere è certa. Il giudice autorizza e il direttore stabilisce il numero consentito di colloqui”. A SUA DISCREZIONE. Attualmente l’avvocato ha fatto ricorso alla corte d’assise.
L’avvocato ha inoltre chiesto il trasferimento di Natascia per riavvicinamento territoriale. L’istanza è stata rigettata a causa di una fantasiosa formalità.

Per non farsi mancare nulla, forse a causa dello stesso principio di discrezionalità che regola in modo particolare questo carcere, i pacchi destinati a Natascia vengono aperti dalle guardie in sua assenza, trattenendo ciò che decidono di trattenere senza che né Natascia, né chi manda i pacchi possano essere in grado di sapere realmente che fine abbia fatto ciò che non è stato consegnato.

Sebbene appaia abbastanza chiaro il carattere punitivo di questo trasferimento, Natascia sta bene ed è combattiva come sempre: continuiamo a sostenerla!

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Lunedì 10 maggio, presso il tribunale di Genova, comincerà il dibattimento del processo Prometeo che vede imputati Natascia, Beppe e Robert. Le udienze avranno luogo nei giorni di lunedì e martedì di ogni settimana del mese di maggio (fino a martedì 1 giugno). L’1 e il 2 luglio avranno luogo la requisitoria del pm Manotti e le repliche degli avvocati e, fra luglio e settembre, è prevista la sentenza di primo grado.

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SOLIDALI E COMPLICI CON NATASCIA, BEPPE E ROBERT
SOLIDALI E COMPLICI CON CHI E’ PRIGIONIERO DI UN SOGNO

Per scrivere a Natascia:

NATASCIA SAVIO
c/o c.c. F. Uccella
s.s. 7 bis – via Appia Km 6,500
81055 S. Maria Capua Vetere (CE)

Per scrivere a Beppe:
Giuseppe Bruna
c/o C.C. di Bologna Dozza
via del Gomito 2
40127 Bologna

Per contributi e benefit in sostegno a Nat e Beppe e alle spese legali:

– Postepay evolution
intestata a Vanessa Ferrara
n° 5333 1710 9103 5440
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(BIC/SWIFT): PPAYITR1XXX

– Postepay evolution
intestata a Ilaria Benedetta Pasini
n° 5333 1710 8931 9699
IBAN: IT43K3608105138213368613377

Il collettivo Artaud sui recenti fatti del reparto di psichiatria di Livorno

Liberiamo nelle Brughiere un comunicato del collettivo Artaud di Pisa

Comunicato del Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud di Pisa sui recenti fatti del reparto di psichiatria a Livorno

” Le nostre strade sono sconnesse,
I nostri figli ridotti in schiavitù ,
i nostri cuori senza amore.
Ho paura di restare. ”

Terra de Bandidos  di Elena Casetto

Dopo aver appreso dalla stampa della morte di un paziente ricoverato nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Livorno, il collettivo Antonin Artaud di Pisa, attivo da quindici anni nell’ascolto e nella vicinanza nei confronti di chi ha subito e vissuto lo stigma della malattia mentale, che troppo spesso si traduce in abusi anche durante il proprio percorso terapeutico, esprime cordoglio e vicinanza alla famiglia e agli affetti più cari. Il nostro augurio è quello che su questa vicenda, di cui alcuni aspetti non sono affatto chiari, si possa fare luce quanto prima.

Abbiamo deciso di aprire questo nostro intervento partendo da un componimento poetico, già premiato, di Elena Casetto. Il 13 agosto 2019, nel reparto psichiatrico dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo è divampato un incendio di cui non si conoscono ancora le cause. Elena, che aveva 19 anni, è morta bruciata viva nel letto al quale era stata legata: la contenzione non le ha permesso di fuggire. Ad oggi per quel terribile evento sono indagati solo i due addetti della ditta che aveva in appalto il servizio antincendio dell’ospedale. Un identico episodio era già accaduto nel Manicomio Giudiziario di Pozzuoli, quando Antonia Bernardini morì per le ustioni riportate dopo l’incendio che l’aveva avvolta nel letto di contenzione al quale anche lei era stata legata ininterrottamente per 43 giorni. Il collettivo Antonin Artaud ha anche seguito la vicenda umana e giudiziaria del Maestro più alto del mondo: il 4 agosto del 2009 Francesco Mastrogiovanni è morto per edema polmonare dopo 4 giorni di contenzione, legato per più di 87 ore consecutive nel reparto di psichiatria dell’Ospedale di Vallo della Lucania in provincia di Salerno. Era ricoverato in TSO, trattamento sanitario obbligatorio che si è scoperto poi essere stato effettuato in maniera illegale e senza il rispetto delle procedure previste dalla legge 180. Mastrogiovanni, sedato e legato con delle fascette ai polsi e alle caviglie, è rimasto senza mangiare, senza bere e senza che nessuno gli parlasse o si preoccupasse delle sue condizioni di salute per tutto il tempo del ricovero. Il medico del reparto ha negato perfino alla nipote il diritto di fargli visita in ospedale. La Sentenza della Corte di Cassazione sul caso Mastrogiovanni ha definito l’uso della contenzione meccanica un presidio restrittivo della libertà personale che non ha né una finalità curativa né produce l’effetto di migliorare le condizioni di salute del paziente.

Possiamo testimoniare che nei reparti psichiatrici ospedalieri o SPDC (Servizi Psichiatrici Diagnosi e Cura) continua a prevalere un atteggiamento custodialistico e un impiego sistematico di pratiche e dispositivi manicomiali come l’obbligo di cura, le porte chiuse e le grate alle finestre, il sequestro dei beni personali, la limitazione e il controllo delle telefonate e di altre relazioni e abitudini, il ricorso alla contenzione meccanica e farmacologica.
Dunque, oggi nei reparti psichiatrici si continua a morire di contenzione meccanica, sia in regime di degenza che durante le procedure di TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio).
La contenzione non è un atto medico e non ha alcuna valenza terapeutica: è un evento violento e dannoso per la salute mentale e fisica di chi la subisce; offende la dignità delle persone e compromette gravemente la relazione terapeutica. Solo in 15 reparti viene praticata la terapia no restraint, la contenzione è stata abolita e le porte sono aperte.

Ricerche condotte in Europa hanno fatto emergere l’esistenza di un gran numero di reparti psichiatrici ospedalieri aperti, in contraddizione con quanto rilevato nel nostro Paese dove circa l’80% degli SPDC prevede porte d’ingresso chiuse a chiave e il ricorso quotidiano alla contenzione. Già nella metà dell’Ottocento lo psichiatra inglese Conolly sosteneva la necessità e la possibilità di una no restraint psychiatry, una psichiatria che non ricorre a mezzi di contenzione. Ancora oggi invece, contenzione meccanica e farmacologica sono praticate diffusamente nei reparti psichiatrici e nelle strutture che ospitano persone anziane e/o non autosufficienti. Denunciamo inoltre come l’impossibilità di fare visita alle persone ricoverate in ospedale a causa dell’emergenza sanitaria in corso abbia reso complicato poter verificare le condizioni di chi si trova in stato di degenza. Difficoltà che riguarda non solo i familiari e gli amici ma anche gli operatori e le strutture sanitarie stesse. Questo avviene quando proprio, anche a causa di tale situazione emergenziale, il ricorso al ricovero in reparto psichiatrico si è fatto più frequente. Ma in nessun caso la carenza di personale e di strutture può giustificare il ricorso a pratiche coercitive. Obbligare una persona al ricovero, limitarne la libertà personale per sottoporla a pratiche violente e dannose, costituisce, oltre che un intollerabile abuso, un’amara beffa: la logica dei “motivi di sicurezza”, dello “stato di necessità” o delle “persone aggressive” a cui sovente si fa appello nei reparti, deve essere respinta poiché fondata sul pregiudizio, purtroppo ancora assai diffuso e duro a morire, di una potenziale pericolosità della persona sofferente psicologicamente.
Nell’aprile del 2016 la Regione Toscana ha approvato una mozione in merito al divieto della pratica della contenzione negli SPDC regionali, che impegnava la Giunta Regionale “a provvedere a emanare disposizioni puntuali alle aziende sanitarie per il divieto di pratiche di contenzione meccanica” e “a promuovere buone pratiche attivando la commissione per il monitoraggio e l’eliminazione della contenzione meccanica, farmacologica, ambientale e delle cattive pratiche assistenziali”. Visto il protrarsi ancor oggi in Toscana delle pratiche di contenzione meccanica, non ci sembra che tale mozione sia stata applicata, e tuttavia ci si appella ai protocolli che ancora la prevedono ignorando quanto già conquistato in ambito di riconoscimento della dignità delle persone ricoverate.

Molti ritengono, per atteggiamento culturale o per formazione, che sia ovvio sottoporre le persone diagnosticate come malate mentali a mezzi coercitivi, che ciò sia nell’ordine delle cose, che corrisponda al loro stesso interesse. Forse chi condivide questa opinione non considera adeguatamente, sia in termini esistenziali che giuridici, il valore imprescindibile della libertà della persona. Valore tanto più rilevante quanto più attinente a libertà minime, elementari e naturali, come la libertà di movimento. Sappiamo, per le molte esperienze ormai fatte, che è possibile evitare la contenzione; occorre allora chiedersi perché la contenzione sia tuttora lecita, e soprattutto occorre superarla.

L’applicazione del TSO non autorizza in alcun modo il ricorso a pratiche di coercizione. C’è sempre un’alternativa, è possibile fare a meno della contenzione meccanica senza sostituirla con quella farmacologica o ambientale. Ribadiamo la necessità di proibire, senza alcuna eccezione, la contenzione meccanica nelle istituzioni sanitarie, assistenziali e penitenziarie italiane. Continueremo a lottare con forza contro ogni dispositivo manicomiale coercitivo: TSO, obbligo di cura, elettroshock, contenzione. Il superamento e l’abolizione della contenzione e delle pratiche lesive della libertà personale è possibile.

Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud-Pisa
antipsichiatriapisa@inventati.orgartaudpisa.noblogs.org/


Link:

**Psichiatria Livorno, la denuncia dell’ex direttore: “Pazienti legati ai letti, ormai è una procedura standard da quando c’è il Covid ” La lettera di Mario Serrano, ex responsabile dei servizi di Salute mentale di Livorno: “Malgrado la legge 180, sono tornate le contenzioni. E un paziente sarebbe addirittura morto dopo una settimana con le fascette”
https://www.livornotoday.it/attualita/morto-paziente-legato-psichiatria-livorno-denuncia.html

**Legati al letto in psichiatria, la replica di Asl: “Procedure corrette anche con il paziente deceduto. In un anno solo 14 contenzioni”
https://www.livornotoday.it/cronaca/morto-paziente-legato-ospedale-livorno-replica.html

**Livorno: “Paziente legato al letto muore dopo 7 giorni in psichiatria”. La denuncia di Mario Serrano, ex responsabile dei servizi di salute mentale, ora in pensione. La Asl: “La contenzione c’è stata, ma non continuativa”. Romano (Pd): “Il ministro ordini un’ispezione”
https://firenze.repubblica.it/cronaca/2021/04/16/news/livorno_psichiatria_paziente_legato_al_letto_muore_dopo_7_giorni_in_psichiatria_-296688342/

Bologna: 25 aprile con Sante

Domenica 25 aprile 2021, a partire dalle h. 15.00 ricorderemo Sante in P.zza San Rocco.

Sobillatore, sovversivo, nappista, brigatista, irrecuperabile, irriducibile: sono state tante le etichette attribuite dai giudici a Sante Notarnicola. Per Bologna e per il Pratello, invece, Sante è sempre stato il compagno, l’oste, il poeta e lo scrittore combattente, punto di riferimento per chiunque volesse conservare memoria del passato e ricevere sostegno alle lotte di oggi. Soprattutto al Pratello la sua presenza è viva nelle decine di progetti sociali, solidali, culturali che ha promosso e realizzato con il coinvolgimento delle nuove generazioni di compagni e compagne, senza mai smettere di occuparsi di carcere e di repressione dei movimenti di lotta.

La data del 25 aprile gli era particolarmente cara, come gli era cara
la memoria della Resistenza e di quei partigiani che avevano
contribuito in maniera fondamentale alla sua formazione politica.

Per questo il prossimo 25 aprile lo vogliamo ancora accanto a noi,
attraverso i ricordi e i racconti di chi lo ha conosciuto, nel luogo
di Bologna che più lo ha visto presente.

Le compagne e i compagni di Bologna


Torino: sulla richiesta di sorveglianza speciale a Boba

AMORE E RABBIA SENZA RIMPIANTI

Da: https://roundrobin.info/2021/04/sulla-richiesta-di-sorveglianza-speciale-a-boba/

Giovedì 1° aprile  è stata notificata da parte della questura e della procura di Torino una nuova richiesta di sorveglianza speciale.

Negli ultimi anni questa misura preventiva di fascista memoria è stata applicata più volte a chi per anni si è speso nelle lotte. A tutte queste persone con l’applicazione della misura è stato o è tutt’ora impedito di condurre liberamente la loro esistenza, in una cornice di divieti che impongono la cancellazione delle proprie relazioni, amicizie, e affetti, ma anche l’autorinchiudersi in un limbo in cui la propria vita viene snaturata, privata della possibilità di confronto con altre individualità e di instaurazione di nuove relazioni, il tutto motivato dalla cosiddetta “pericolosità sociale”.

E si, perché in questo caso specifico, il fulcro della richiesta di sorveglianza è l’essere un militante di lunga durata, un noto esponente del movimento anarchico torinese, che sotto le molteplici spoglie ora di occupante di El Paso, ora di redattore di radio blackout (“voce ufficiale degli ambienti anarchici cittadini”) o di antagonista non ha mai smesso di contribuire alle lotte, nonostante i diversi periodi di di detenzione.
La refrattarietà a piegare la testa, è prova di pericolosità sociale.
Non è sufficiente scontare le proprie condanne, ma è anche necessario abiurare la propria identità, la propria appartenenza, e dimostrare di avere assorbito un’altra ideologia, che ci vuole silenti, laboriosi, onesti e rassegnati.

E se poi hai pure scritto un romanzo in cui il protagonista è “riconosciuto” come tuo alter ego, ecco che i pensieri del personaggio ti vengono in qualche modo ascritti, limitandosi a riportare nelle carte quanto scelto dall’editore per la quarta di copertina, per dimostrare il pensiero nichilista , violento ed irriducibile dell’autore del romanzo stesso, e la sua conseguente pericolosità oggettiva.
Il libro in questione è Io non sono come voi, di Marco Boba, Eris edizioni, e quanto segue è quanto riportato  nelle carte:

“Io odio. Dentro di me c’è solo voglia di distruggere, le mia sono pulsioni nichiliste. Per la società, per il sistema, sono un violento, ma ti assicuro che per indole sono una persona tranquilla, la mia violenza è un centesimo rispetto alla violenza quotidiana che subisco, che subisci tu o gli altri miliardi di persone su questo pianeta”

La gravità nel considerare l’essere stato per anni un redattore di una radio libera e l’avere scritto un romanzo come  prova dello status di “deviante” socialmente pericoloso è la dimostrazione mai celata che in questo paese esiste il reato d’opinione. La libertà è concessa solo se si resta obbedienti e proni, chiunque sviluppi un pensiero critico viene sanzionato, secondo gli inquirenti l’appartenenza all’ideologia anarchica è motivo per essere messi al bando, malgrado la “loro” Costituzione affermi esattamente il contrario.

La futura libertà di Marco verrà discussa alle 9,30 del 21 aprile in aula 7 del tribunale di Torino. Sarà un’occasione per stargli a fianco con amore e rabbia
Solidali con chi lotta e resiste

Libertà per tutti e tutte