PRESIDIO SOLIDALE AL CARCERE FEMMINILE DI PONTEDECIMO

Diffondiamo:

Dopo mesi di dure proteste in molte carceri in cui le persone recluse hanno denunciato il sovraffollamento, l’impossibilità di accedere a misure alternative, gli abusi delle guardie e altro ancora, il governo si appresta a votare il DDL 1660. Una legge da stato di guerra che colpisce ogni forma di conflitto sociale, fuori e dentro le galere.
Nuovi reati e aumento drastico delle pene per chi manifesta contro le guerre e il genocidio in Palestina, per chi lotta contro una grande opera, per chi occupa una casa sfitta, per chi sciopera e blocca una strada. Nuove norme durissime per chi nelle carceri o nei CPR protesta o anche solo disobbedisce all’ordine di un agente. E ancora più poteri e impunità per le forze di polizia.

FUORI E DENTRO LE GALERE
CONTRO IL DDL 1660 E LA SUA APPLICAZIONE

5 OTTOBRE ORE 10.30

IL SOLO PONTE È LA SOLIDARIETÀ TRA INSORT*

Diffondiamo da Stretto LibertAria

“A te, uccel di bosco,
bellissima natura in un mondo di calcoli e cemento.
È per te, per la tua umanità e per quelli come me, cuori ardenti.
Dovunque tu sia.
Libero.”

Per il secondo anno si è svolto il corteo contro il ponte sullo Stretto nel centro della città di Messina, in pieno agosto.

Le ultime novità riguardo il progetto del ponte sono la sua lottizzazione, per cui non è più necessario che esso sia definitivo per la messa in cantiere dell’opera; ed ancora, una serie di provvedimenti giuridici che comportano l‘aumento delle pene per chi protesta contro le grandi opere da un lato e la tutela delle forze dell’ordine dall’ altro, garantendo loro il pagamento statale delle spese processuali in caso venissero inquisiti per abusi.

Le liste degli espropri restano in aria, come un “cemento mori”; liste di proscrizione; chiamate al loro fronte del progresso già come vittime. Il ticchettio di un conto alla rovescia opprimente, il loro piano, quello dell’invasione della proprietà privata tende sempre più a stralciare il dissenso in mere gestioni economiche. Per loro, tutto si basa su un’analisi costi-benefici, tutto ha un prezzo, tutto é acquisibile con la giusta somma o pressione. Ci hanno collocati nel loro scenario come caduti e cadute della loro battaglia contro l’arretratezza e ci garrotano al collo un cartello con scritto “Vendesi”, sbarrato da una crudele barra rossa. La vigile attesa sul porticato del ‘pater familias’, che sia per firmare un contratto di (s)vendita o per opporre quella ‘resilienza’ permessa dalle norme, è tutta esaltata. Il tessuto sociale non conta, ad interlocuire è solo il privato con un altro privato. Un colosso (Webuild) contro tante piccole tribù. Il luogo sacro? Un cassetto digitale con un numero catastale; siete state selezionate? Bene, allora pronte al rendez-vous con il peggior offerente. La vita ha già un costo, non ci sono trattative e, tra le altre cose, sembrerebbe già essere acquistata.

L’UNICO PONTE È QUELLO TRA INSORT*
Una settimana precede il corteo, un caldo sempre più asfissiante, lo Scirocco ci graffia la pelle con il suo desertico contenuto. Il mondo procede a passi da maratoneta, ogni istante tutto sembra cambiare, di volta appesantendosi di volta nebulizzandosi nelle solite vecchie promesse. Quest’aria color ocra porta in se già un’elettricità. Lo Stretto, frontiera, panorama di mille speculazioni, diventa adesso un canale di incontro, un’infrastruttura di insubordinazione. Migliaia di persone, emigranti in ferie e vacanzieri in cerca d’ avventura, sfilano e condividono i propri umori, sudano insieme per le vie della città, che altrimenti sarebbe vuota. Gridano la contrarietà nei confronti di un’opera che in tutto il suo fantasmatico bagliore intende celebrare l‘utopia del capitale.

Ci si reincontra tra amici e conoscenti dopo un anno di lavoro, si ride, si chiacchiera e ogni tanto si grida qualche slogan. Mi ricorda la festa del santo del paese alla quale partecipavano ogni anno con la famiglia, mia madre che saluta tutti, un clima di festa e di comunità ritrovata..peccato durasse quella settimana all’anno e basta. Oggi dura un giorno, ma dura anche da tutto un anno fatto di incontri, scontri, complicità e complessità; anche noi vogliamo ritrovare la festa e chissà, forse farla a qualcuno.

Il gioco contro lo spettacolo delle opinioni che si fanno liturgia.
Alcune compagne, alcuni compagni cospirano insieme; certamente alcune vedute assumono tinte differenti, mischiate insieme si trasformano in un profondo nero, quello delle “notti belliss(im)e” che, con piccoli orrori ortografici, dimenticanze, diventa un grido su uno striscione nero pollock. Tenuto alto sui volti delle complici, sfilerà poi nelle strade di Messina. L’incontro di diversi respiri si trasforma presto in un urlo che giunge, sotto forma di richiamo, fiumi di parole, per chi da diverse latitudini sente un accorato disprezzo per l’opera usurpatrice, scure statale ed intrallazzo globale.  Lo sentiamo, ci serve spazio; la piazza, le spiagge, le tende, il focolare che ci ha riunite in cerchio di sonno/veglia in attesa del giorno seguente.

Sarà forse che gli sgherri hanno sempre le orecchie troppo lunghe, ma la piazza, il pomeriggio del 10 agosto, pullula di sbirri. Camionette ed impostori voyeuristi di Stato si aggirano con quel ghigno intorno al corteo, intorno a tutte noi.

In questo equilibrio tra gioia della condivisione e necessità di rendere un minimo pratica una critica che muore non appena si riduce a opinione, nell’intento di creare uno spazio di fuga dal grande occhio dello Stato che si manifesta in centinaia di telecamere, in una dinamica che non ha dimenticato di mettere al primo posto il gioco e la presa bene, ci siamo ritrovati dentro un quadrato di striscioni, dentro il quale c’erano le nostre risate, cori e parole che, nell’estate torrida delle rivolte nelle carceri e delle morti in mare, manifestavano vicinanza a chi lotta dentro ogni luogo di reclusione e qualche pistola ad acqua per allontanare gli sguardi indiscreti; il quadrato ha lasciato alcune scritte per le strade e sui muri della città, ne avremmo volute di più, ma i controllori dell’ordine si sono concentrati tutti su questa testuggine di striscioni che sfilava per le strade, sconcertati da qualcosa di mai visto da queste parti.

Il contenuto non è certo fatto da una muta ostilità, nè di certo ci imbrogliamo che qualche sputo e un pò d’acqua sia una bastevole misura contro questi imbufaliti esecutori della repressione statale, risultava però fondamentale in qualche modo rendere evidente,coi nostri corpi, la critica alle nuove norme in materia di repressione del dissenso. Quegli impiegati che stanno lì a rosicchiare straordinari non sono nostri amici, sono coloro che permettono che quei decreti liberticidi e criminalizzanti si concretizzino. Inoltre, in un momento in cui la presenza di cantieri e altri obiettivi materiali ancora non c’è, cominciare a esplicitare a noi stessi e al resto del corteo la necessità di un modo di stare in piazza che si farà sempre più necessario con la messa in opera del progetto ci è sembrato doveroso e abbiamo constatato con gioia che questo, nella maggior parte delle persone al corteo, non ha prodotto inimicizia o diffidenza ma curiosità e solidarietà. Seppure l’attenzione era comunemente indirizzata a quelle telecamerine degli inquisitori, sappiamo bene che sono solo l’ultimo anello di questa squallida catena, di questo tremendo giogo. Essere ed esserci ha portato con se una deflagrazione di gioia, forme di complicità erranti, erotiche ed eretiche nell’incontrarsi; ci difendevamo a vicenda, cacciando sbirri, facendo festa. La gioia feroce contro questo ennesimo monumento alla rapina di Stato ha lasciato segni al nostro passaggio e ha saputo ispirarci anche gioco, serenate rivolte a sodali al balcone; corse collettive, fuorvianti per chi credeva di starci addosso e divertenti per noi.

La noia, infatti, ora strumento di potere si è insinuata sotto forma di riformisti mai disposti alla messa in discussione radicale delle logiche dominanti. Ad essere in gioco è l’avvento di nuove forme di produzione, ‘sostenibili’ per spalle resilienti, promuovono solo nuove forme di oppressione, di interdizione del sentire. Nuove le forme di produzione, sempre uguali restano le sacchette che si ingrossano; sempre gli stessi i corpi espropiati. Se il loro è il regno della tristezza, del funebre, allora non c’è da fidarsi di nessuna innovazione proposta da questi succhia sangue. Non sono altro che rinnovati sistemi di afflizione affilati su corpi sempre meno corpi e sempre più ombre. Non si tratta più di poter prendere un qualunque tipo di ruolo attivo nelle scelte del “proprio territorio”, se mai fosse stata questa la questione. Distruggere questo ‘processo decisionale’, incepparlo, non prendervi parte con una qualche vana speranza che possederlo significhi veramente inibire tutto il suo potenziale fagocitante. Disertare e sabotare ogni tentativo di appropriazione delle nostre vite tutte, in un mondo dove cemento e repressione avanzano a spron battuto, diventa così l’unico vero sorridere all’esistenza.

“La gioia è mortale all’interno dello spettacolo del capitale. Tutto, qui, è tetro e funebre, tutto è serio e composto, tutto è razionale e programmato, proprio perché tutto è falso e illusorio.”

Il corteo é passato, i giorni si scandiscono tra albeggiare e tramonti. I rubinetti si sono trasformati in contagoccie da ste parti, il vaso è traboccato e l’ultima goccia è già scesa parecchi giorni fa. Le strade sono deserte, desertificate; occupate solo da mezzi di emergenza. Ora auto-botti, ora pompieri, ora esercito, ora protezione civile etc. etc. etc.. Le abitazioni sono coltivazioni di bidoni per stoccare acqua, anche i c.d. “giorni di erogazione” non garantiscono affatto il flusso da tutte noi tanto anelato. La vita é qui scandita dall’emergenza, un perenne stato d’emergenza, continua gestione tecnica ed amministrativa delle esistenze. L’estate é ancora molto calda e si prevedono ondate di calore consistenti e poco timide nello spingersi in quei mesi di solito avversi alle alte temperature. Un’estate ancora ricca di appuntamenti e momenti di condivisione; altri, chissà, ancora da sognare insieme. L’aria asfissiante non fermarà questo co-respiro. Come gatte, “insuscettibili di ravvedimento”, torneremo a mordere la mano di tutti questi ladroni e lacchè dal facile giudizio.

Ascoltiamoci, esploriamoci, organizziamoci.

“Le Bastiglie le abbattono i popoli: i governi le costruiscono e le conservano.”

IL VOSTRO PROGRESSO, LA NOSTRA COLONIZZAZIONE. NOTE DA SUD, TRA SCILLA E CARIDDI

Da Stretto LibertariA, diffondiamo questo testo in vista del corteo No Ponte del 10 agosto a Messina.

Il mese scorso, le commissioni Giustizia e Affari costituzionali della Camera hanno approvato un emendamento al pacchetto sicurezza che intende inasprire le pene per chi protesta contro le grandi opere infrastrutturali, come il ponte sullo Stretto o la TAV (tra le tante in corso di realizzazione o di progettazione).

L’emendamento, proposto da un deputato leghista e sottoscritto anche dagli altri partiti di maggioranza, intende colpire chi protesta in modo “minaccioso o violento” contro la costruzione di una grande opera pubblica o di un’infrastruttura strategica, rischiando oltre 25 anni di carcere. Si introduce poi una nuova aggravante del reato di resistenza a pubblico ufficiale: le pene aumentano “se la violenza o la minaccia è commessa nel corso di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero con armi; o da persona travisata; o da più persone riunite; o con scritto anonimo o in modo simbolico”.

Come se non bastasse, lo Stato potrà anticipare le spese legali agli “ufficiali o agenti di pubblica sicurezza indagati o imputati per fatti inerenti al servizio”, dunque accusati di violenza nei confronti dei manifestanti; addirittura raddoppiano il budget che passa da 5000 a 10000 euro per ciascuna fase del procedimento processuale. In totale, per la difesa degli sbirri violenti vengono stanziati 860mila euro l’anno, a partire dal 2024.

In una spirale di forsennato giustizialismo e legalismo nel nome del “progresso”, la scure della repressione si abbatte sulle individualità in lotta per sottrarre alle sporche mani di Stato e capitale tutti quei territori, come anche quello ‘libidico’, presi costantemente di mira da interessi di speculazione e mero guadagno economico.

Mentre la Sicilia è in piena emergenza idrica e interi quartieri della città di Messina si ritrovano senza più acqua nelle case – è notizia recente che in questo contesto, come sempre avviene nei momenti emergenziali, la rete idrica di Messina e provincia è stata privatizzata – continuano spietati i piani di dominio e distruzione del vivente, che intendono sacrificare corpi, comunità e territori sull’altare del progresso. Così in nome di questo presunto sviluppo si giustificano enormi appropriazioni indebite delle nostre esistenze tutte: il loro progresso è solo un ricatto, la loro visione di “migliore”, intrisa di un ‘do ut des’ spietato ed unicamente a nostre spese, non propina mai sviluppo se non in cambio del nostro esistere, dell’essere al mondo. Così che il fetido avanzare delle frontiere del capitale necessita dell’innervatura linfatica affinché questo corpo, formato da diversi organi, possa crescere e crescere, senza mai badare alla distruzione del suo passare.

Di certo non si considera la costruzione delle infrastrutture del capitale mai priva di compromessi e devastazione, ma i contorni si fanno ancora più cupi quando un mega progetto infrastrutturale, come quello del ponte sullo Stretto, finisce con il diventare il ‘pivot’ di ogni altro progetto, assorbendo in sé ogni piano pregresso e futuro circa quel determinato territorio. In poche parole, un ricatto bello e buono. Così che mentre si aspetta l’ufficiale iniziare di trivellazioni, espropri e furti vari, insomma della cantierizzazione totale, i detrattori del nostro presente e futuro hanno gia portato qui tutte le loro macchine di morte, che si infiltrano nel nostro humus vitale come talpe.

Ci chiediamo allora quale progresso possa essere quello che ha trasformato la Sicilia in una terra di petrolichimici, basi e poligoni militari, raffinerie, galere ed emigrazione forzata. Un “progresso” che vende posti di lavoro in cambio di veleni e malattie, radiazioni elettromagnetiche e militari per le strade. Supposti sviluppi arrivati in Sicilia promettendo futuri radianti e dignità a colpi di lavoro: lo abbiamo già visto, ad esempio, con il polo petrolchimico nel siracusano, una zona ormai compromessa da esalazioni e corrosione degli spazi. Case vennero abattute per fare largo a questi mostri, lavoro venne promesso; ed infine, crescita economica a dismisura per tutti e tutte. Quello che si è ottenuto è povertà, monopolio dell’indotto lavorativo della zona, malattia ed aria cancerogena. Dov’è finito il futuro radioso? Quale riscontro con la realtà avevano le promesse vuote di signori della politica e del business? Quelle torri che esalano fumo nero simboleggiano, tronfie e prepotenti, l’inganno del progresso e della delega che ha trasformato in mera gestione amministrativa lo stesso processo vitale. Rappresentano le grinfie del luminoso oblio entro la quale ci vorrebbero costringere. Rappresentano anche quello stesso inganno che si sta profilando per le persone dello Stretto.

Il progetto del ponte sullo Stretto, nella retorica dei detrattori della vita, sarebbe funzionale ad accelerare i processi di turistificazione, fonte a loro volta di lavoro precario e sottopagato per chi in questi territori ci vive e non viene in vacanza. La solita storiella che eguaglia turismo e ricchezza diffusa per gli abitanti di un luogo non è altro che l’ennesima menzogna malcelante un futuro (immediato) di estrazione forzata e devastazione diffusa, in cambio di sole briciole (come se poi un qualunque supposto guadagno potesse essere bastevole per la posta in gioco).
Se dunque da una parte la Sicilia viene venduta come una vetrina per turisti, una sorta di paradiso terrestre dove trascorrere le ferie, andare al mare e degustare il buon cibo locale; dall’altra parte si concretizza come una tra le frontiere che continua a uccidere quotidianamente, trasformando il Mediterraneo in un cimitero per chi non ha avuto il privilegio dei “requisiti” giusti per attraversarlo. Ricco, bianco e occidentale?! Allora benvenuto; se sei povero, migrante e non bianco, invece, la deportazione verso il CPR o carcere più vicino diventa come un percorso naturale, una sorte quasi scontata.

Strumenti, quelli detentivi, di messa a profitto di quei corpi “altri” da cui immunizzarsi! Solo su quest’isola ci sono ventitre istituiti detentivicinque hotspotsdue CPR (più il CPRI di Pozzallo), che rendono la Sicilia una vera e propria colonia penale. Quindici tra basi e installazioni militari USA, due (quelle ufficiali) basi NATO, tre raffinerie.
Uno scenario devastante, un territorio violato e violentato nel nome del profitto e dell’estrazione di risorse. Terre evidentemente da rendere inabitabili, da spopolare e mettere a servizio di loschi affari; come la costituzione di poligoni di tiro, dove fare il “giochetto” della guerra, stesso giochetto che garantisce morte e conquista altrove (e neanche troppo altrove); estrazione di energia rinnovabile, nuove strutture del capitale, al servizio sempre della sola produzione e, dunque, della schiavitù umana; costituzione di hub logistici, stesso piano entro cui si inscrive la costruzione del ponte sullo Stretto; e a rischio di ripetizione, il proliferare dei luoghi di detenzione, della localizzazione forzata delle persone, muri che sono argini per la gioia umana.

Ed arriviamo alla Calabria, costellata di cattedrali nel deserto e opere incompiute.

Mentre la nostra sfera del desiderio, ricca dello Stretto indispensabile, va letteralmente in fumo insieme ai nostri boschi secolari, le nostre sorgenti sono secche e le falde ormai prosciugate, le cattedrali nel deserto continuano a configurarsi come l’unica possibilità per i nostri territori, monumenti a scempio delle nostre vite sacrificate sull’altare di un presunto sviluppo di cui non sentiamo alcun bisogno, approccio coloniale dello stato italiano garantito dall’avallo colluso della classe politica regionale e locale e dal malaffare ‘ndranghetista. Opere pubbliche se completate lasciate marcire nel degrado, oppure a malapena cominciate e poi abortite, benché finanziate con grande sperpero di pubblico denaro. Uno sfacciato spreco di risorse economiche che avrebbero dovuto essere impiegate altrove. E così non smettiamo di essere terra di incessante emigrazione e di mancata accoglienza, di servizi e trasporti pubblici assenti.

Ma non siamo più negli anni in cui, in nome del progresso e dello sviluppo di questo stato nazione, che continua a trattarci come colonia da sfruttare e da cui estrarre valore fino alla nuda vita, dobbiamo continuare a barattare il pane con la morte, una Calabria terra di lavoro avvelenato come nell’ex polo chimico Montedison della Pertusola a Crotone, città edificata con i rifiuti tossici e i veleni industriali impastati nei materiali di costruzione di case e strade. Terra di promesse e pacchetti fantasma: il V Centro Siderurgico nella Piana di Gioia Tauro, la Liquichimica di Saline Jonica, impianti morti prima di essere nati, terra di espropri e scempi ambientali, di bonifiche mai effettuate, di discariche private più o meno autorizzate ma sempre supertossiche, di torrenti che straripano e interi territori che franano, di utilizzo delle ‘ndrine per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi, interrati in grotte e fiumi o nelle “navi dei veleni”, carrette del mare stipate di fusti di scorie nucleari, affondate a decine lungo le nostre coste, di dighe costate centinaia di miliardi, come la diga sul Metramo mai collegata alla rete di distribuzione né per uso potabile né per uso irriguo a servizio della Piana di Gioia Tauro,  mentre città e campagne bruciano di sete o bruciano letteralmente negli incendi annualmente programmati all’arrivo del solleone e il deserto continua ad avanzare.

Si esortano le famiglie all’uso consapevole dell’acqua per evitare gli sprechi, ma non si mette in atto alcun intervento per evitare le enormi perdite di acquedotti vecchi ridotti a colabrodo. Così si invoca a gran voce l’arrivo di piogge in piena estate, le uniche che possono salvarci dal morire disidratati. Anzi Sorical ci consiglia di utilizzare per tanti usi l’acqua già usata. Si grida alla siccità ed al pericolo della desertificazione, ma si continuano a tagliare boschi per piantare pale eoliche e costruire le strade solo per il transito dei megatir necessari ai cantieri. Sull’altare della transizione verde lo stato italiano e le grandi multinazionali dell’energia stanno facendo grossi affari e chiunque proverà ad opporsi verrà duramente perseguitato grazie all’ultimo decreto sicurezza. E così su montagne e colline ancora incontaminate e al largo delle nostre coste ioniche svetteranno gigantesche pale eoliche e  i campi agricoli si stanno riempendo di pannelli fotovoltaici. Il Marchesato crotonese, le Preserre catanzaresi e vibonesi, la Locride sono i territori in cui avanza l’aggressione incontrollata dei nuovi megaimpianti eolici: 440 impianti attivi e 157 progetti in corso.

Ma la stessa nuova sfrenata corsa alla produzione di energia green non riesce a staccarsi dalla modalità di lasciarsi dietro delle cattedrali nel deserto. Gli impianti green divorano il nostro territorio, ma troppo spesso sono impianti fantasma: pale eoliche pronte all’uso mai messe in funzione, come le mostruose torri eoliche del crotonese, a centinaia sparpagliate per chilometri ma ne girano pochissime; o interi tetti di scuole ricoperti di pannelli fotovoltaici mai collegati alla rete di distribuzione. Ad Antonimina alle porte dell’Aspromonte, la torre eolica di 150 metri nella magnifica località del monte Trepizzi non ha mai preso a funzionare. In questo assalto ammantato di green si inserisce anche il progetto del rigassificatore alle spalle del porto di Gioia Tauro e proliferano impianti proposti come assolutamente innovativi, come la criminale idea di una centrale idroelettrica di pompaggio dell’acqua del mare che la multinazionale Edison chiede di piazzare poco distante da Scilla in piena zona di protezione speciale della Costa Viola. Appalti milionari per progetti ambiziosi e di interesse nazionale, grazie alle facilitazioni procedurali garantite dal pacchetto energia del Governo Meloni, che pensa alla nostra regione come un hub energetico tutto proiettato all’esportazione dell’energia elettrica prodotta (ne esportiamo già i 2 terzi di quella che produciamo grazie anche alle 4 centrali a turbogas già in funzione). Si continuano a progettare opere prima di aver fatto gli studi adeguati; così poi si trova cobalto radioattivo scavando gallerie, come è stato per l’arteria stradale Sibari- Sila o per l’aviosuperficie di Scalea, costruita sul letto di un fiume ad elevata pericolosità e limitrofa ad una zona di protezione speciale, per di più interessata a fenomeni di erosione.

Come puoi tu, calabrese o siciliano, credere che il Ponte sullo Stretto non rientri in questa logica illogica di (non)costruzione e pura devastazione? Come puoi tu credere più alle parole di un nessuno proveniente da altrove, che ai tuoi occhi e ai disagi che vive la tua gente? E non è lampante dunque che quest’ultima trovata dello spacchettamento del progetto definitivo in fasi costruttive non produrrebbe altro che una nuova annunciata devastante incompiuta di uno sviluppo di cui non abbiamo alcun bisogno?

Sappiamo bene verso dove volgere questi sguardi, sappiamo bene chi e quali strutture ci costringono in queste catene. Sappiamo bene che firma porta la militarizzazione sfrenata ed il profitto sul sangue, sappiamo bene anche chi sono i complici, colpevoli tanto quanto gli ideatori di questi foschi intenti. Leonardo S.p.a. capolista delle fabbriche di morte, paziente zero dell’economia targata bombe e bombardamenti, droni e software di spionaggio utili alla repressione di popolazioni in rivolta. RFI, complice del monopolio armato di capitalisti e statisti firma accordi di precedenza a tutto campo della mobilità militare, immaginando sempre di più la propria infrastruttura a misura bellica. WeBuild, incaricata del riadattamento del manto autostradale per renderlo idoneo al passaggio di mezzi, anche pesanti, militari. Stretto S.p.a., della serie “duri a morire”, ripresenta il tombale volto di Ciucci a rassicurare tutte e tutti circa la cura del territorio di cui è capace una società che, sotto il nome Salini-Impregilio, si è macchiata di crimini orribili durante la realizzazione di mega infrastrutture idro-elettriche in paesi dell’Africa e del Sud-America. Medihospes, società gestrice del hotspot di Messina, vince gli appalti per la gestione dei futuri CPR italiani nei confini albanesi, a braccia aperte brama e produce profitto sull’accoglienza e la CARCERAZIONE dei migranti.

Tutti tentacoli del capitalismo che dirigono ogni loro sforzo e azione verso l’aridificazione della Terra e degli spiriti di chi la abita con la sfacciata connivenza di Stati e governi, con la spietata tutela di sbirri, eserciti e procure che sempre meno lesinano nel premere grilletti, far scoccare manganellate, saturare l’aria di gas lacrimogeni ed infliggere condanne liberticide che si configurano come vere e proprie torture.

Lo Stato italiano tortura, lo fa attraverso il braccio armato dei suoi sgherri; lo fa finanziando lager in LibiaCPR in Albania, con ogni esternalizzazione delle frontiere e la complicità di Frontex o altre cooperative intrallazzate nella c.d. “accoglienza”. La morsa repressiva non smette di stringersi, si adopera con nuovi strumenti legislativi ed esecutivi, innervando le città di occhi elettronici e dotando di sempre più strumenti offensivi gli operatori di polizia. Quanto più aumenta il potenziale di conflitto determinato dalla pressione oppresoria dello Stato, tanto più aumenta il pericolo per il loro monopolio della violenza, tanto più per noi è un segno che le gambe del Leviatano adesso tremano. Più la bestia affila gli artigli più significa che si sente sotto attacco; tanto più si avvicinano le ‘notti bellissime’ tanto più si inasprirà il conflitto interno ad opera delle istituzioni contro i vagabondi di pensieri erranti, di logiche e pensieri ‘altri’, completamente stranieri, completamente indefinibili e, dunque, liberi.

Un pensiero non può che essere allora rivolto a chiunque lotta contro le galere; a chiunque continui a bruciare quei centri di detenzione e rimpatrio; a tutte quelle persone che quotidianamente sfidano la fissità dei confini; a chiunque resista e combatta questa macchina fagocitante e distruttiva. Ad ogni compagna e compagno con lo sguardo incendiario che non permetterà mai a nessuno di occultarlo ne tantomeno di spegnerlo. Ad ogni insurrezione, personale o collettiva che sia; ad ogni diserzione, e che queste si moltiplichino infrangendosi contro il loro regno del cieco asservimento.

Col cuore in gola diciamo che a questa menzogna del progresso e dello sviluppo non ci crediamo; e che, all’ennesimo progetto coloniale, continueremo ad opporci con ogni mezzo necessario.

SABATO 10 AGOSTO CORTEO NO PONTE, MESSINA, ORE 18:30 P.ZZA CAIROLI.

TORINO: COLPITA LA NEW COOP SRL IN SOLIDARIETÀ ALLE LOTTE CONTRO E DENTRO I CPR

Riceviamo e diffondiamo:

La New coop srl di Torino [via Asiago 67/8] partecipa alla ristrutturazione del CPR di Torino.

Qualche notte fa e’ stata colpita in solidarieta’ alle lotte contro e dentro i CPR, alle recluse e ai reclusi.

Colpire chi collabora alla costruzione dei CPR e’ necessario e possibile.

NO CPR. FUOCO ALLE GALERE.⁩


ENG

To Share:

New coop srl of Turin [via Asiago 67/8] participates in renovating the CPR (detention centre) of Turin.

A few nights ago the company was struck in solidarity with the struggles against and within the CPR and in solidarity with the inmates.

Hitting those who collaborate in the construction of the CPR is necessary and possible.

NO CPR. FIRE TO THE PRISONS.


FR

à partager:

New coop srl de Turin [via Asiago 67/8] participe à la restructuration du CPR/CRA [centre de detention administrative] de Turin.

Il y a quelques nuits la societé a été frappé en solidarité avec les luttes contre et à l’interieur des CPR et en solidarité avec les détenus.

Frapper ceux qui collaborent à la construction des CPR est nécessaire et possible.

PAS DE CPR/CRA. FEU AUX PRISONS.


ARAB

تعاونية جديدة من تورينو [عبر Asiago 67/8] تشارك في إعادة هيكلة CPR في تورينو. قبل بضع ليال تم ضربها تضامنا مع النضالات ضد وداخل CPR ، مع السجناء. إن ضرب أولئك الذين يتعاونون في بناء CPR أمر ضروري وممكن. لا CPR. النار على القوادس.

SUI MOTI IN KENIA E SULLA RIAPERTURA DEL CPR DI CORSO BRUNELLESCHI A TORINO

Condividiamo due approfondimenti andati in onda su Harraga, trasmissione su Radio Blackout. Il primo riguarda i moti in Kenya, il secondo  si concentra sulla riapertura del CPR di Corso Brunelleschi a Torino.

Un racconto sui moti di piazza in atto in Kenya

Se il video delle fiamme che avvolgono la sede del Parlamento del Kenya a Nairobi è – di per certo – stato visto da moltx; meno sono stati i momenti in cui si è riusciti a contestualizzare quell’attacco al cuore del potere dentro una cornice di senso che racconti come ha potuto crescere una consapevolezza talmente chiara, in una larga fetta della popolazione kenyana, tale da non avere dubbi sui propri passi e sui termini delle priorità di lotta.

E’ difficile, a queste latitudini, comprendere i moti di piazza e i gesti materiali di chi, all’altezza dell’equatore attacchi il potere con letture dell’esistente alquanto differenti dalle categorie a cui siamo abituati a riferirci.

Nel tentativo di cogliere la potenza di questo momento abbiamo chiesto, a chi vive le piazze del Kenya, di raccontare ai microfoni di Harraga – trasmissione contro frontiere e CPR in onda su Radio Blackout – cosa sta succedendo.

Le fiamme che si alzano da quegli edifici e il coraggio di chi sfida i proiettili della polizia in Kenya parlano di un bisogno di distruggere sia i resti violenti della Colonia che fu, sia i presenti immanenti della neo-colonia di oggi. Non si possono leggere quei gesti e quella capacità di restare in strada dinanzi alla violenza spietata della controparte, senza parlare del lascito brutale, inoculato e lacerante del passato coloniale e – men che meno – della spietata predazione avida delle potenze neo-coloniali occidentali oggi.

Ancora una volta con le orecchie tese ad ascoltare le parole di chi – oppresso lungo la linea del colore e della classe – in un mondo asfissiante, attacca responsabili, simboli ed esecutori materiali della miseria che viene imposta a larga parte della popolazione mondiale – ai microfoni di Harraga tre vocali direttamente dal Kenya ci raccontano cosa sta succedendo.

Ascolta il podcast qui:

https://nocprtorino.noblogs.org/post/2024/07/23/podcast-di-harraga-un-racconto-sui-moti-di-piazza-in-atto-in-kenya/


Sulla riapertura del CPR di corso Brunelleschi

È passato poco più di un anno da quando l’inverno torinese fu scaldato dal fuoco che portò alla chiusura del CPR di Corso Brunelleschi e ad oggi la riapertura di quel luogo di vessazioni e tortura è imminente.

Dal bando di gara relativo alla gestione e al funzionamento del centro di permanenza e rimpatrio di Torino, consultabile alla sezione amministrazione trasparente del sito della Prefettura sabauda, l’apertura sembra essere prevista per il 1° di Novembre 2024. L’importo stimato dell’appalto è di € 8.517.432,00 relativi a 24 +12 mesi, aggiudicabile, come sempre al ribasso, da quelle aziende che proporranno l’offerta tecnica più vantaggiosa. I lavori di ristrutturazione sono iniziati il 5 Febbraio 2024 e ad ora le aree ultimate o in fase di ultimazione sono 2, l’area rossa e l’area blu, per una capienza di 70 posti. Il bando prevede la possibilità di un ampliamento della capacità detentiva da 70 a 150 posti ossia per una totalità di 4 aree.

In questa puntata di Harraga, in onda su Radio Blackout, abbiamo provato a ripercorrere alcuni passaggi di quelle giornate di lotta del Febbraio 2023 che hanno scosso il capoluogo piemontese, dimezzando la capacità detentiva dei CPR del nord Italia.

Ascolta il podcast qui:

https://nocprtorino.noblogs.org/post/2024/07/23/podcast-di-harraga-sulla-riapertura-del-cpr-di-corso-brunelleschi/

ACCANIMENTO SU UN DETENUTO NEL CENTRO CLINICO DI MILANO OPERA

Riceviamo e diffondiamo la testimonianza di una persona familiare di un detenuto, Gerardo Schettino, tra il 2018 e il 2023 in regime di 41 bis nella galera dell’Aquila, rimasto PARALIZZATO nel 2021 dopo la somministrazione del vaccino Astrazeneca, da dicembre 2023 declassificato ma tuttora rinchiuso e sottoposto ad accanimento nel famigerato “centro clinico” del carcere di Milano opera.

DIAMOCI DA FARE PER DARE VISIBILITÀ A QUESTA SITUAZIONE! LA MALASANITÀ IN CARCERE È TORTURA!

Assemblea permanente
contro il carcere e la repressione
del Friuli e di Trieste
liberetutti@autistiche.org

Associazione “Senza sbarre”
c.p.129, 34121 Trieste

SOLIDARIETÀ DI FRONTE ALLA REPRESSIONE DELLE LOTTE CONTRO I CRA E SOSTEGNO A TUTTE LE PERSONE IMPRIGIONATE

Nell’ambito di un’inchiesta sulle lotte contro la costruzione di centri di detenzione amministrativa (CRA), mercoledì 29 maggio una compagna italiana è stata perquisita e messa sotto custodia dalla polizia. All’uscita dal tribunale, è stata informata che era soggetta a un ordine di rimpatrio (OQTF) per “minaccia all’ordine pubblico” e a un divieto di viaggiare sul territorio francese per 2 anni (ICTF), e che la prefettura chiedeva il suo immediato collocamento in detenzione amministrativa. È stata portata direttamente al centro di detenzione di Mesnil-Amelot, nonostante il giudice istruttore avesse escluso la custodia cautelare.

Durante la detenzione, è stata prima condotta davanti al giudice di pace (JLD), che ha convalidato il suo collocamento nel CRA. L’appello, che ha avuto luogo pochi giorni dopo, ha confermato questa decisione. Infine, è stata rilasciata dal tribunale amministrativo, che ha annullato il suo foglio di via dopo dieci giorni di permanenza nel CRA.

Queste misure sono la continuazione della repressione politica delle lotte contro i CRA, una repressione che è diventata sempre più dura negli ultimi mesi: controlli di identità, arresti durante i presidi di solidarietà, processi, divieti di visita ai CRA. A questo si aggiunge una copertura mediatica montata da giornalisti di estrema destra, e ora assistiamo all’apertura di un’inchiesta, a pratiche di sorveglianza e alla detenzione amministrativa. La prefettura e il Ministero degli Interni non si fermano davanti a nulla, arrivando persino a scavalcare l’indagine giudiziaria in corso per rinchiudere la nostra compagna, nonostante fosse stata rilasciata dopo il fermo di polizia.

Questa pratica di “doppia pena” (giustizia penale + amministrativa) da parte della prefettura è ben nota e riflette le testimonianze delle persone del CRA. Non appena vengono rilasciate dal carcere o anche dalla custodia della polizia, e senza essere prevenute, vengono direttamente rinchiuse nel CRA per ordine della prefettura e, se la procedura va a buon fine, espulse. Questa è l’ossessione di Darmanin, il ministro degli interni francese, e della sua ultima legge, che conferma il naufragio securitario e razzista in corso costruendo la figura dello “straniero delinquente”. Rinchiudere della nostra compagna nel CRA è un buon esempio di una delle principali linee guida della legge di Darmanin: rendere più facile la revoca del permesso di soggiorno, l’emissione di OQTF, la detenzione e l’espulsione di persone con la motivazione vaga, completamente arbitraria e altamente politica della “minaccia all’ordine pubblico”.

Ma non si tratta di una tendenza completamente nuova. Questa motivazione viene usata sistematicamente contro alcuni gruppi di persone europee o con documenti europei. Il semplice fermo di polizia per motivi banali come oltraggio e resistenza può rientrare in questi quadri giuridici vaghi, anche senza che si arrivi a una condanna. I centri di detenzione sono pieni di cittadinx rumenx e bulgarx che ogni settimana vengono deportati nei loro paesi d’origine. La cosiddetta libertà di circolazione nell’area Schengen esiste solo se hai i soldi, se sei abbastanza biancx e se non dai fastidio agli sbirri e a quelli che vengono protetti dagli sbirri.

Negli ultimi anni, la detenzione amministrativa è diventata anche uno strumento di repressione contro gli e le militanti stranierx, europex e non. Ecco alcuni esempi: nel 2016, tre compagne italiane sono state arrestate durante una manifestazione a Calais e messi nel CRA; stessa storia nel 2019, per due compagni italiani arrestati durante presidio fuori dal CRA di Vincennes, ai quali sarà vietato l’ingresso in Francia per 2 anni; qualche mese dopo, un altro compagno italiano è stato rinchiuso nel centro di detenzione di Vincennes per un mese, nell’ambito del movimento dei Gilets Jaunes; più recentemente, nel maggio 2023, una compagna tedesca è stato rinchiusa nel centro di detenzione di Mesnil-Amelot dopo essere stata arrestata durante la manifestazione del Primo Maggio; nel giugno 2023, cinque compagnx antifascistx sono statx anch’essx rinchiusx nel centro di detenzione di Mesnil-Amelot e di Vincennes, usciranno anche loro con dei divieti di accesso al territorio francese (qui un approfondimento).

Dall’inizio delle mobilitazioni per la Palestina e contro il genocidio sionista, questa pratica sembra essere diventata ancora più comune. Nell’ottobre 2023, l’attivista palestinese Mariam Abu Daqqa è stata arrestata a Marsiglia, rinchiusa nel CRA ed espulsa con divieto di ingresso, sempre per “disturbo dell’ordine pubblico”. Molte altre persone sono state arrestate durante le prime settimane del movimento e rinchiuse nel CRA (qui un comunicato al riguardo).

Se lo Stato francese, e in particolare il governo Macron, si è distinto per questo tipo di misure repressive, non è certo il solo in Europa. Per fare un esempio recente: nel maggio di quest’anno, dei e delle compagnx hanno tentato di occupare l’università di Atene, in Grecia, in solidarietà con la resistenza dei palestinesi e contro lo sterminio della popolazione di Gaza. Delle 26 persone arrestate, le 9 che non avevano documenti greci sono state messe nel centro di detenzione di Amygdaleza, dove sono rimaste per una decina di giorni prima di uscire con un foglio di via. Una dinamica simile è in atto in Italia, dove oltre ai centri di detenzione, lo Stato sta ricorrendo anche alle prigioni : da diversi mesi sono detenuti con l’accusa di terrorismo 3 palestinesi per il loro sostegno alla resistenza, uno dei quali è stato inizialmente minacciato di estradizione verso le prigioni israeliane.

Questo elenco è tutt’altro che esaustivo: possiamo solo immaginare quantx militanti stranierx, con o senza documenti, con ile quali non avevamo alcun legame, sono statx repressx ed espulsx dalla Francia (e dagli altri paesi europei) a causa delle lotte che conducevano…

In questo contesto repressivo, c’è una specificità nel caso della compagna italiana arrestata a Parigi : la detenzione amministrativa accompagna un’indagine, ancora in corso, che vuole colpire la lotta contro i CRA e chi collabora alla macchina della detenzione e dell’espulsione. Non possiamo che essere solidali con lei e con tutte le persone rinchiuse nei centri di detenzione, con tutte le persone colpite dal razzismo di Stato e con tutte e tutti coloro che, in vari modi, lottano e attaccano il funzionamento di una vera e propria industria dell’ingabbiamento e dell’espulsione.

Che brucino i centri di detenzione e le prigioni !

(qui la versione originale del testo )

BOLOGNA: LA SOLIDARIETÀ È LA NOSTRA ARMA

Riceviamo e diffondiamo:

A seguito delle misure cautelari per 3 compagne/i, indagate/i per i fatti verificatisi a Bologna lo scorso inverno all’interno della campagna in solidarietà ad Alfredo contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo, il 26 maggio abbiamo chiamato un momento di confronto.
A partire dalla presentazione della rivista Lahar, abbiamo cercato di coinvolgere quanti, negli ultimi tempi in questa città, si sono spesi in percorsi di lotta e resistenza, convinte/i che la repressione che colpisce le/gli anarchiche/i debba essere letta, ora più che mai, nel contesto di guerra e ristrutturazione generale che caratterizza il nostro presente.
Quello che segue è il contributo al dibattito di una nostra compagna che abbiamo voluto condividere perchè nella sua semplicità ci è sembrato puntuale e prezioso.

Ciao a tutte e tutti,
colgo l’occasione di questa interessante e spero partecipata iniziativa per portare due riflessioni. Ve le faccio arrivare in forma scritta non potendo esserci fisicamente.
Credo che momenti di discussione e confronto come questi siano preziosi: nella società del tutto-subito, tutto-virtuale le occasioni di dibattito faccia a faccia sono importanti baluardi da preservare e curare. Nessuna prospettiva di lotta e resistenza può prescindere dal ragionamento, dal confronto. Probabilmente le persone che oggi si trovano a discutere sono molto diverse tra loro e hanno percorso strade di lotta differenti nei metodi e nei contenuti. Ci sarà chi l’anno scorso ha partecipato attivamente alla mobilitazione a fianco di Alfredo contro 41 bis ed ergastolo ostativo, ci saranno le vecchie cariatidi anarchiche del Tribolo, le compagne di Napoli, chi porta avanti la lotta in difesa del Parco Don Bosco, i giovani palestinesi e chissà chi altro. E in effetti l’interrogativo puntuale racchiuso nella chiamata di questa iniziativa è: cosa c’entrano l’una con l’altra tutte queste esperienze? Questi vissuti di lotta anche distanti tra loro per certi aspetti spazio-temporali?
Io vedo due risposte a questa domanda, come due facce della stessa medaglia. La repressione, da un lato; la solidarietà dall’altro. A furia di usarli i termini perdono il loro significato, proviamo a ridarglielo. Repressione non è un sinonimo di depressione, non vuol dire che unx compagnx ha perso la motivazione nella lotta che portava avanti e ha mollato il colpo: è tanto la violenza concreta di chi porta una divisa (botte, taser e cariche) quanto il frutto di un’accurata scelta da parte di organi di polizia e magistratura di mettere fuorigioco –spesso preventivamente- individui o gruppi che portano avanti delle lotte; l’aspetto preventivo è assolutamente centrale, soprattutto quando a livello sociale ribollono malcontento e consapevolezza in mezzo a fiumi di indifferenza ed egoismo. È lì che lo Stato ha paura e interviene per confinare la libertà di coloro che potrebbero creare dei collanti sociali tra frustrazione-indignazione-lotta, mettere in evidenza con la teoria e la pratica dei nessi causali e la potenza dell’azione dal basso collettiva o individuale come strategia di resistenza e attacco. E lo fa quando si verificano delle condizioni sociali che potrebbero risvegliare le coscienze delle masse dal loro torpore (epidemie, guerre, gisto per citare due esempi). Non a caso è ciò che in questi mesi sta avvenendo in modo subdolo ma lampante, ora che gli stati occidentali si stanno adoperando nel genocidio del popolo palestinese: consentire che a Gaza avvenga lo sterminio di una popolazione passa anche attraverso la messa a tacere delle voci dissenzienti e delle azioni di lotta a fianco della resistenza palestinese nei paesi occidentali, dalle strade, ai porti alle università. Passa tanto dalle collaborazioni di aziende e università occidentali con lo stato sionista, tanto quanto dalla messa fuorigioco delle componenti sociali non irrigimentabili, chi per coscienza politica, chi per condizioni socio-economiche, chi per per provenienza (come è stato per Ali, Anan e Mansour). La guerra non è un episodio, ma una fase storica e in questa fase ci siamo immersi fino alla gola, anche se gli spari e le bombe non cadono sulle nostre teste. L’anno scorso in tanti e tante abbiamo portato avanti una lunga e determinata mobilitazione a fianco del compagno anarchico Alfredo Cospito, detenuto in regime di 41bis. Alfredo e il regime in cui l’hanno voluto seppellire sono l’esempio lampante della volontà e della possibilità dello Stato di usare la repressione come bavaglio. Ciò che ha sempre spaventato sbirri, magistrati e giudici di Alfredo è la forza delle sue idee. Meglio tombarlo vivo affinché esse restino tra quattro spesse mura, soprattutto ora che potrebbero trovare tante orecchie in ascolto e tanti cuori capaci di comprenderne la forza rivoluzionaria, a fronte del massacro di migliaia di civili per mano degli stati in guerra.
Ecco cosa c’entrano le nostre esperienze.
Ed ecco perché la solidarietà è l’altra faccia della medaglia, l’altro aspetto che ci unisce, anche se non ci conosciamo o frequentiamo strade di lotta apparentemente distanti. Lottare è avere una nobilissima ragione di vita. È rifiutare la rassegnazione di una vita che ci vorrebbe grigi dentro e fuori, frustrati e stanchi, arrabbiati e incapaci di amare profondamente la vita. Invece lottare per una ragione, per un’idea pur utopica che sia, è qualcosa di impagabile. E non essendo la lotta un’opinione, ma un fatto, spesso molto concreto, porta con sé delle conseguenze che talvolta ci allontanano dai nostri affetti, dai nostri compagni e compagne. Se è vero che la lotta paga, è anche vero che ogni tanto te la fanno pagare! E la solidarietà è quel motore che ci tiene insieme. E che fa sì che anche se non conosciamo Alì, Mansour e Anan, possiamo sentirne il cuore battere, così come quello di Alfredo, Anna, Juan, Stecco, Nasci e di tutte le nostre compagne e compagni privati della libertà.
Chiudo riprendendo una frase lapidaria con cui Luigi, un ragazzo di Palermo in carcere con l’accusa di aver lanciato una molotov contro la sede di Leonardo (fabbrica di morte), ha chiuso una sua lettera: non facciamoci distrarre dalla repressione. E aggiungo: se ora non lottiamo contro questo sistema mondiale di guerra ne andrà della libertà di tutti e tutte.
La solidarietà è la nostra arma, suonerà un po’ retrò, ma d’altronde faccio parte delle vecchie cariatidi anarchiche bolognesi!
Un abbraccio e buona discussione. Elena

“CHI SPUTA SULLA CAUSA”? – SULLA VIOLENZA MASCHILE NEI MOVIMENTI… DI NUOVO

Riceviamo e diffondiamo:

“CHI SPUTA SULLA CAUSA”? – SULLA VIOLENZA MASCHILE NEI MOVIMENTI…DI NUOVO

Prendiamo parola per denunciare gli ennesimi episodi di violenza agiti all’interno di spazi di movimento.

Mentre la zona universitaria e le piazze di Bologna vengono invase da una forte ondata di lotte di solidarietà, succede – ed è successo di nuovo – che negli ambienti che attraversiamo vengano agite e poi coperte le violenze subite da compagne, che rimangono inascoltate e per di più emarginate.

Nei cosiddetti spazi di intersezionalità politica che in questi mesi ci hanno unite nella lotta della diaspora palestinese, alcuni dei gruppi della nostra città che partecipano alla mobilitazione riproducono, nascondono e normalizzano violenza maschile e molestie nei loro spazi e nelle loro assemblee, mettendo a tacere e allontanando le compagne che hanno provato a denunciare questi fatti.

Siamo furios3 e stuf3 di sentir parlare degli ennesimi maschi violenti che si decostruiscono in poco tempo e che continuano ad attraversare i nostri spazi nella più totale sicurezza, forti del proprio potere patriarcale.

Siamo furios3 e stuf3 di sentirci dire che I PANNI SPORCHI SI LAVANO IN FAMIGLIA.

Siamo furios3 e stuf3 di essere private di spazi che dovrebbero essere di liberazione e che invece diventano luoghi di oppressione.

Sappiamo bene che chi parla di giustizia trasformativa usando in maniera impropria e superficiale gli strumenti che ci siamo date per difenderci e contrattaccare la violenza maschile, li priva del loro portato politico e del fine per cui sono stati pensati.

La giustizia trasformativa, se non vuole essere una retorica vuota e strumentale, va agita fuori dagli spazi dove si sono perpetrate le violenze, spazi che vengono condivisi e attraversati da chi quelle violenze le ha subite e le subisce.

“Ascoltare tutte le voci” e “ascoltare entrambe le versioni” sono due mantra che ci vengono costantemente ripetuti, dando per scontato che sia la compagna che denuncia la violenza a mentire. Le fanno credere che in fondo è esagerata, che in fondo è colpa sua, perché ha avuto comportamenti promiscui, che in fondo “se l’è cercata”.

Non siamo più disposte a  tollerare violenza psicologica e manipolazione emotiva delegittimante!
Lo diciamo senza se e senza ma: SORELLE, NOI VI CREDIAMO!

Le collettività miste che si nascondono dietro al linguaggio dell’intersezionalità delle lotte, svuotandolo del loro significato rivoluzionario, sono le prime a riprodurre la cultura dello stupro. La violenza di genere non è mai una priorità nei movimenti, vige sempre una gerarchia di lotte: con questa scusa la violenza maschile viene invisibilizzata e le compagne che ne parlano isolate. Ci si preoccupa della reputazione sociale dell’uomo violento, della sua fragilità che ogni tanto lo fa “cadere in errore”, del suo benessere psichico, facendo ricadere sulla compagna che denuncia non solo la violenza subita e le sue conseguenze psicologiche ma anche il peso del doversi preoccupare per l’incolumità e la serenità dell’uomo violento. Dopo aver subito, ci ritroviamo anche a doverci fare carico della cura del violento e del suo fantomatico “percorso”.

Chi dice che dobbiamo reprimere i nostri desideri e piaceri perché “pericolosi”, che siamo noi a dover stare attente e non “provocare”, riproduce la morale sociale che vede i nostri corpi inseriti nella dicotomia violenta di puttana/buona vittima (o buona militante!).

La buona vittima, come la buona militante, deve essere moralmente ineccepibile. È colei che non mette al centro il suo corpo femminilizzato “provocatore”, che potrebbe distrarre i bravi compagni, non espone il movimento al rischio della sua frammentazione e non chiede con troppa insistenza di attuare pratiche transfemministe.

E se la nostra sessualità e ogni nostro singolo gesto vengono usati per gettare addosso a noi un’ulteriore violenza e vittimizzazione secondaria, condita di slutshaming e victimblaiming, lo urliamo con forza: Siamo tutte puttane.

Puttane, esagerate, deviate, pazze e guastafeste: siamo pronte a essere l’imprevisto che non avevate considerato, mentre reggiamo, troppo silentemente, il peso di fare politica in queste comunità terribili che la cultura degli uomini si ostina a costruire.

Se di fatto DIVENTIAMO MERITEVOLI DI SOLIDARIETÀ SOLO DA MORTE AMMAZZATE – quando possiamo rappresentare le martiri dell’ennesimo uomo di merda – noi gridiamo che della vostra solidarietà non ce ne facciamo niente.

Ed è vizioso chi suggerisce che denunciare pubblicamente dei fatti gravi di violenza reiterata, individuali e collettivi, significhi tradire la causa.

Noi stiamo incondizionatamente dalla parte della Palestina e della sua resistenza. Non accettiamo che si infici la potenza delle piazze decoloniali per comportamenti omertosi riguardo ad abuser.

Il ricatto dello “sputare sulla causa” ogni qual volta si faccia emergere una violenza nel movimento è soltanto una scusa per ripulire la facciata politica di quest’ultimo. Non accettiamo che per proteggere uomini violenti si strumentalizzino le lotte in cui investiamo anima e corpo. Chi indebolisce le lotte sono proprio coloro che insabbiano la violenza dei maschi, riaccogliendoli a braccia aperte poco tempo dopo l’ultimo abuso. Quando rivediamo i violentatori alla testa del corteo, forti di una larga agibilità politica, risulta palese quanto siano fragili e superficiali i percorsi politici transfemministi di cui tante realtà si fanno forza.

Condanniamo con decisione questo modo di costruire la comunità politica come “famiglia”, riproponendo in svariate dinamiche il nucleo eteropatriarcale e le sue ideologie repressive. Prima fra tutte è l’omertà: ogni qual volta emerga una violenza di genere, si chiede di tenerla esclusivamente all’interno del proprio gruppo politico. A violenza si aggiunge violenza: non solo subiamo, ma dovremmo anche stare zitte, rimanere sole, senza la possibilità di creare reti di sorellanza femminista.

Lo diciamo chiaro e tondo: a sputare sulla causa non sono le persone che subiscono violenza o prendono parola per questo, ma i maschi violenti che la agiscono, insieme alla collettività che li protegge. Se per la comunità diventa più importante proteggere il proprio sedicente compagno nel suo agire violenza, allora stiamo reiterando gli stessi meccanismi patriarcali che diciamo di voler abbattere.

Sappiamo che questi uomini hanno agito violenze più volte e su più persone. Sappiamo che la comunità politica afferente ne era largamente informata. Sappiamo che la decisione di insabbiare queste violenze e allontanare invece chi le ha subite è stata totalmente deliberata.

Dove non c’è responsabilità collettiva c’è violenza di gruppo. 
Una violenza di gruppo che riproduce perfettamente le dinamiche di potere e le gerarchie sociali che diciamo di combattere e da cui ci sentiamo esenti, una violenza di gruppo di cui non ci libereremo mai se si continuano a nascondere le cose sotto al tappeto pur di non mettere in discussione noi stess3 e la nostra collettività e di mantenere limpida e immacolata la sua “reputazione”.

Le compagne sanno e dopo queste ennesime violenze non lasceremo gli spazi politici a stupratori e picchiatori: vogliamo tutto un altro genere di comunità politiche, tutto un altro genere di lotte.

Non staremo zitte e non ci faremo da parte.
Per la Palestina libera, per le lotte decoloniali, per donne, froc3 e trans liber3.

CONTRO LA VIOLENZA MASCHILE
LA MIGLIOR DIFESA E’ L’ATTACCO!

Gatte randagie complici e solidali