DAI MURI DELL’OCCUPAZIONE DI VIA STALINGRADO 31 A BOLOGNA: È UN PRIVILEGIO MORIR D’AMOR

E’ un privilegio morir d’Amor.
Ericailcane + Infinite sui muri dell’occupazione di via Stalingrado 31 a Bologna

“non esiste vera gioia se non sperimentando
mettendo al bando ogni velleità di comandare
sperimentare libertà per liberarsi
perché siamo fatti per marciare sulle teste dei potenti
non per marcire di miseria
per soffiare sulle braci dei tizzoni ardenti
per illuminare col fuoco questi tempi spenti”


Foto da: https://infestazioni.noblogs.org/le-idee-non-si-sgomberano-foto/

BOLOGNA: NUOVA OCCUPAZIONE IN VIA STALINGRADO 31

Da: Infestazioni

Ad ogni sgombero nuove infestazioni

Questa mattina abbiamo riaperto la palazzina di via Stalingrado 31. Abbiamo scelto di farlo in aperta sfida al clima di forte repressione del dissenso, di palese criminalizzazione di ogni forma di conflitto e di auto-organizzazione: dalla pesantissima sentenza del processo ai 9 occupanti del Giambellino a quelle con cui lo Stato mira a seppellire in carcere anarchicə come Alfredo e Juan (attualmente in sciopero della fame assieme ad Anna e Ivan), dallo sgombero dell’Edera Squat e del Brancaleone al processo alle e ai militanti di Askatasuna, fino ai continui attacchi agli esponenti piacentini del SiCobas. In questo contesto ci ritroviamo ad affrontare un ennesimo tentativo di addomesticamento e repressione che segue e peggiora la linea inaugurata dai precedenti governi: il cosiddetto “decreto anti-rave”, che mira a ridurre il campo di immaginazione e di possibilità, attaccando ogni minima forma di aggregazione, socialità e auto-determinazione. 

Attraverso la paternalistica narrazione del ripristino della legalità, il provvedimento ha già finito per criminalizzare situazioni come il concerto metal al Boccaccio della scorsa domenica e per colpire persino situazioni perfettamente legali, come le serate tekno di sabato scorso a Bari e Sassuolo. Risulta così palese il suo vero obiettivo: attaccare chi cerca di costruire modi alternativi di vivere e di essere.

Per noi l’occupazione è un mezzo e non il fine. Scegliamo di occupare per far cadere il velo di ipocrisia dell’amministrazione bolognese a trazione PD, l’ipocrisia di una giunta che si narra ecologista ma che promuove il passante, l’ipocrisia di un partito responsabile dell’interventismo bellico e degli accordi assassini col governo libico, ma che al contempo si indigna per la “violenza” puramente simbolica di un manichino. Quella giunta che, dopo gli sgomberi degli ultimi mesi, fingeva di aprirsi alle necessità della lotta per la casa, ma che pochi giorni fa ha ordinato lo sgombero di via Oberdan 16.

Occupiamo oggi per concretizzare l’esigenza di resistere a tutto questo, per praticare e diffondere autogestione, per realizzare altro rispetto a quello che viene imposto dal mercato e da chi vuole che ogni spazio di incontro venga recintato e mercificato.

La scelta di questo luogo non è casuale: su questo spazio, abbandonato da più di 10 anni, esiste dal 2015 un progetto di “riqualificazione” che prevede la destinazione del 69% dell’area ad affittacamere e Bnb. Se queste sono le opzioni (sovrapprezzate e inaccessibili) offerte a Bologna in piena emergenza abitativa, decidiamo di destinare parte dello stabile al bisogno di un gruppo di compagnə che si stanno trovando senza una casa.
Anche e non solo a partire dalla suddetta emergenza, abbiamo recentemente visto il diffondersi di nuove esperienze di occupazione e di rilancio delle lotte in città, come l’occupazione appena nata in zona universitaria. 

Con questa occupazione siamo felici di prendervi parte: vogliamo che questa possa essere una base per chiunque voglia portare avanti le necessarie forme di resistenza, di contrattacco a ciò che ci opprime e che mina la soddisfazione dei nostri bisogni e desideri. Vogliamo che sia un luogo per portare colore nel grigiore della quotidianità che ci impongono, per creare insieme qualcosa che valga la pena d’esser vissuto, qualcosa di nostro.

Vi aspettiamo tutte e tutti nel nuovo spazio in via Stalingrado 31, per costruire insieme nuovi modi di vivere questa città, per auto-determinarci, per una vita radicalmente diversa.

SOVVERTENDO L’ORDINE PATRIARCALE. Storie di donne armate e rivoluzioni

Diffondiamo questa nuova autoproduzione editoriale femminista.

Queste pagine raccolgono testimonianze di donne da diverse parti del mondo che hanno partecipato a movimenti di guerriglia o organizzazioni di lotta armata. Una testimonianza diretta come stimolo per continuare a lavorare sul recupero della nostra memoria femminista rivoluzionaria. Con la proposta di aprire spazi di riflessione e confronto non misti fra compagne/x per incontrarsi, creare e rafforzare legami.

Traduzione dal castigliano del primo numero della rivista “Mujeres mas alla des las armas” (2020) che raccoglie gli atti degli omonimi convegni organizzati annualmente a Barcellona dal collettivo Azadi Jin. Si tratta di incontri separati (non aperti a uomini cis) dove le compagne catalane invitano le donne e le dissidenze sessuali e di genere a raccontare le loro esperienze rivoluzionarie.

Dall’introduzione all’edizione italiana:

“Quando si legge di rivoluzioni, guerriglia e lotta armata, i protagonisti sono sempre uomini, unici soggetti all’altezza di compiere tali gesti. Alle donne, così come alle dissidenze di genere, sembra essere preclusa la possibilità di rivendicare per sé la violenza come strumento di lotta e di liberazione contro un sistema in cui il paradigma del legale istituzionalizza genocidi, sancendo quali sono i corpi da sacrificare in nome della sicurezza e quali quelli da difendere. L’unica violenza legittima sembra allora essere quella di chi opprime e distrugge. Per noi queste pagine sono uno slancio per rompere la logica della narrazione unica. Siamo consapevoli del fatto che il meccanismo che ci spinge a non considerare altre forme di lotta come possibili è lo stesso che ci impone di normalizzare la brutalità degli stati come legittima e normale. Lo stato e il patriarcato si autolegittimano attraverso le stesse logiche, e sono l’uno lo strumento necessario all’altro per perpetrarsi. Questi racconti rendono evidente la fallacia della logica patriarcale, che vuole l’oppressore come legittimo detentore della forza e l’oppressa\x come soggetto inferiore, la cui forza è repressa e ostracizzata. Sulla base di questa doppia morale, le donne che hanno preso le armi per la rivoluzione sono state condannate e perseguitate, stigmatizzate perché non hanno voluto sottostare alla posizione in cui il patriarcato voleva relegarle.”

Distribuzioni e presentazioni

100 pag. Il prezzo è 5 euri, per le distribuzioni 4. Il ricavato dalla vendità sarà utilizzato per finanziare progetti simili. Il libro è disponibile per essere distribuito unicamente in distro femministe e transfemministe.

Le presentazioni del libro sono pensate per essere fatte in contesti separati (senza uomini cis). La logica dietro a queste decisioni è di rimanere coerenti alla scelta delle donne – le cui voci sono raccolte nel libro – di condividere le loro storie in un contesto separato. Ciò ci permette di fare di questa pubblicazione uno strumento di rafforzamento della rete femminista e transfemminista.

Per ricevere copie del libro e/o organizzare insieme delle presentazioni (a partire da gennaio 2023), potete scriverci a: memoriacomeresistenza@riseup.net

Link alla distribuzione dell’edizione catalana: <https://latiendacomprometida.com/feminismo/2257-mujeres-mas-alla-de-las-armas-vol1.html>

 

ANTIMAFIA E REPRESSIONE POLITICA – LOTTA PRIGIONIERE/I DHKP-C IN GRECIA

 

Estratti dalla puntata di Lunedì 7 novembre 2022 di Bello Come Una Prigione Che Brucia su Radio Blackout

Link: https://radioblackout.org/podcast/antimafia-e-repressione-politica-lotta-prigioniere-i-dhkp-c-in-grecia/


Due compagni siciliani, Claudio e Dario, sono stati “candidati” alla sorveglianza speciale per la loro partecipazione alle lotte sul territorio contro carcere, grandi opere e varie nocività sociali. In questa diretta, grazie al contributo di Claudio, più che soffermarci sul dispositivo della sorveglianza speciale, tenteremo soprattutto di osservare il ruolo della Procura Antimafia-Antiterrorismo e del Ros dei Carabinieri nella repressione della conflittualità politica, con un’evidente dimensione di sperimentazione sul territorio siciliano.

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Cerchiamo di dare notizia di un altro sciopero della fame di cui si parla pochissimo e che riguarda prigioniere e prigionieri turchi nelle carceri greche. Arresti scaturiti dall’operazione antiterrorismo contro l’organizzazione DHKP-C e l’attacco al sito di controinformazione anti-imperialistfront.org; una storia attraversata dagli scambi istituzionali tra due stati reciprocamente ostili, come Grecia e Turchia, che trovano un piano di cooperazione sul versante repressivo. Ne parliamo in compagnia di Gabrio.

ROMA: OCCUPATA LA SEDE ITALIANA DI AMNESTY INTERNATIONAL IN SOLIDARIETÀ CON ALFREDO

Roma: occupata sede italiana di Amnesty International in solidarietà con Alfredo Cospito in sciopero della fame contro il 41 bis.

Oggi 25/10/2022 abbiamo occupato la sede italiana di Amnesty International a Roma, in solidarietà con il prigioniero anarchico Alfredo Cospito da sei giorni in sciopero della fame nel carcere di Sassari contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo. Il 41 bis è una forma di annientamento del prigioniero, per la prima volta utilizzato contro il movimento anarchico. Alfredo viene trasferito in 41 bis, dopo oltre dieci anni di prigionia in Alta Sicurezza, con l’obbiettivo dichiarato di tappargli la bocca, di silenziare il suo contributo al dibattito rivoluzionario.
Denunciamo quanto accaduto durante l’udienza del 20 ottobre presso il tribunale di sorveglianza di Sassari, come esemplificazione della brutalità della Caienna del 41 bis: durante l’udienza, che il giudice ha imposto a porte chiuse e con il compagno collegato in videoconferenza, Alfredo ha tentato di leggere una articolata memoria difensiva attraverso la quale esporre le ragioni dell’inizio della sua lotta. Il giudice ha interrotto il compagno, impedendogli di concludere il suo intervento nell’unica – e forse ultima – occasione di comunicare col resto del mondo da quanto è stato trasferito in 41 bis, semplicemente togliendo l’audio. Il suo contributo è stato secretato come tutto ciò che proviene dal buco nero del 41 bis. Se gli avvocati decidessero di divulgarlo, potrebbero andare incontro a conseguenze penali.
Una decisione senza precedenti che indica chiaramente come lo Stato abbia paura delle idee anarchiche e delle pratiche che queste idee ispirano. Tutto questo è inaccettabile. Vogliamo leggere immediatamente le parole del nostro compagno!
Alle associazioni umanitarie come quella contro la quale si rivolge l’iniziativa di questa mattina non abbiamo niente da chiedere: sappiamo che le loro doglianze a corrente alternata vanno a denunciare solo le malefatte di qualche regime esotico, preferibilmente avversario dell’imperialismo occidentale. Non vi stiamo chiedendo di dire qualcosa in proposito… volevamo solo sputarvi in faccia la vostra falsa coscienza!

Chiudere il 41 bis! Rompere il silenzio!
Solidali con Alfredo in sciopero della fame!


ALFREDO COSPITO: ANARCHICHE E ANARCHICI OCCUPANO LA SEDE ROMANA DI AMNESTY INTERNATIONAL

41BIS: ALFREDO COSPITO IN SCIOPERO DELLA FAME

Oggi, 20 ottobre 2022, presso il tribunale di sorveglianza di Sassari, nel corso di una udienza riguardante il sequestro della corrispondenza, il compagno anarchico Alfredo Cospito ha dichiarato l’inizio di uno sciopero della fame contro il regime detentivo di 41 bis in cui è stato trasferito il 5 maggio. Il compagno, che ha fatto una dichiarazione, non era presente in aula ma collegato in videoconferenza dal carcere di Bancali. Seguiranno aggiornamenti. Morte allo Stato, viva l’anarchia.

RIFLESSIONI IN VISTA DELLA MANIFESTAZIONE DEL 29 OTTOBRE A SASSARI

Diffondiamo:

Contro il carcere e la società che lo rende necessario.

Il 5 maggio 2022 il compagno anarchico Alfredo Cospito è stato trasferito nel carcere di Bancali in Sardegna e rinchiuso nel regime di 41 bis. Il 6 luglio la Cassazione ha condannato nel processo “Scripta manent” Anna, Alfredo e Nicola per il reato di associazione sovversiva con finalità di terrorismo (articolo 270-bis c.p.). Inoltre, la Corte ha accolto la richiesta di riqualificare l’accusa verso Alfredo e Anna, dal reato di strage semplice al reato di strage politica (articolo 285 c.p.) – che prevede come pena l’ergastolo – in relazione ad un attentato esplosivo alla scuola allievi carabinieri di Fossano che ha provocato danni materiali alla struttura, senza conseguenze lesive.

Sempre a luglio Juan Sorroche, un altro compagno anarchico, è stato condannato in primo grado a 28 anni di reclusione per il reato di attentato con finalità di terrorismo (articolo 280 c.p.) per due ordigni, di cui uno inesploso, che danneggiarono il portone della sede della Lega Nord di Villorba (TV) nell’estate 2018.

Queste sentenze segnano un punto di svolta importante nella repressione da parte dello Stato italiano, non solo nei confronti del movimento anarchico, ma più in generale verso chiunque provi a lottare e a ribellarsi. Non è un caso che questo inasprirsi delle condanne e delle condizioni detentive per i prigionieri anarchici e le prigioniere anarchiche arrivi in un periodo di forte repressione che colpisce tutte le soggettività e gruppi che incrinano la pacificazione sociale perseguita dallo Stato.

Nello stato di emergenza perenne che ormai è diventato normalità, qualsiasi protesta verso le imposizioni dello Stato è marchiata come minaccia verso la società intera; se poi dalla protesta si passa all’azione concreta, l’accusa verso chi agisce deve essere esemplare. Ne sono un esempio i diversi tentativi di contestazione di reati associativi susseguitisi negli ultimi anni, ad esempio contro la lotta NO TAV, contro la presenza militare in Sardegna e più di recente contro i sindacati di base impegnati nella lotta dei lavoratori nel settore della logistica.

L’inasprirsi delle pene è rivolto verso tutte quelle azioni che mettono in crisi la pacificazione funzionale a Stato e capitale. Basti pensare alla riesumazione del reato di devastazione e saccheggio (che prevede fino a 15 anni di reclusione) nell’ambito di cortei, a carico degli ultras e dei reclusi/e in carceri o CPR. Oppure pensiamo all’aggravamento della pena prevista per il reato di “blocco stradale” (pratica da sempre appartenente ai più svariati ambiti di lotta) che oggi prevede sino a 12 anni di reclusione.

Sotto attacco non ci sono solo le azioni, ma anche le idee. Diversi, ad esempio, sono i musicisti che di recente si sono trovati accusati di istigazione a delinquere e vilipendio, semplicemente per il contenuto dei loro testi inneggianti all’ostilità contro le forze dell’ordine, i militari o le autorità più in generale. In ambito anarchico invece, sempre più spesso, il reato di istigazione a delinquere viene affiancato dall’aggravante di terrorismo ed utilizzato per costruire ipotesi associative. Si pensi alle pubblicazioni messe sotto accusa per aver sostenuto la necessità della violenza rivoluzionaria e per aver dato voce al contributo alla lotta che Alfredo non ha mai smesso di portare, anche da dietro le sbarre delle sezioni di alta sicurezza. Proprio per questo motivo si è visto trasferire a maggio 2022 in 41-bis a Bancali, regime che prevede il blocco pressoché totale della corrispondenza.

Evidentemente le idee di Alfredo sono scomode perché, coerentemente all’azione che nel 2012 lo ha portato in carcere – la gambizzazione dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare – spiegano con semplicità lo slancio etico che sta dietro all’agire. Questa azione riconosce chiaramente come dietro allo sfruttamento della terra e dei popoli, non ci sono solo dei nomi di multinazionali o di società per azioni ma uomini e donne che ogni giorno prendono decisioni che rendono l’esistenza sempre più invivibile alla maggior parte della popolazione mondiale.

In una società neoliberale come quella in cui viviamo è sempre più evidente che le condizioni di salute e benessere sono garantite a una ristretta fascia di popolazione, mentre per la restante parte lo sfruttamento lavorativo, l’insicurezza abitativa e relazionale, il malessere fisico e psicologico sono la quotidianità. In questo contesto il carcere si configura come un “ghetto sociale” in cui vengono rinchiuse le persone che per scelta, o semplicemente per necessità, si trovano a non rispettare le leggi dello Stato e che non posseggono le risorse economiche per pagarsi una difesa né tanto meno la copertura delle istituzioni concessa a chi ricopre posizioni di potere.

É interessante notare come più della metà delle persone recluse abbia una condanna per reati legati alla legge sugli stupefacenti o contro la proprietà (furto, rapina), che il 15% dei carcerati sia classificato come tossicodipendente e che oltre il 30% non abbia la cittadinanza italiana. La funzione riabilitativa del carcere rimane una dichiarazione della propaganda di Stato per rendere più accettabile una situazione che di riabilitativo non ha nulla. Come può essere riabilitativo un luogo dove si vive in 3 metri quadrati di cella, dove l’assistenza medica è garantita solo quando si tratta di psicofarmaci, dove si muore per mancanza di cure adeguate e per suicidio (67 i suicidi da inizio 2022)?

Se dentro come fuori dalle carceri le condizioni degli oppressi e delle oppresse sono sempre peggiori, è chiaro come per lo Stato diventi fondamentale recidere ogni potenziale legame di solidarietà. Lo vediamo nel nostro quotidiano dove, da anni, qualsiasi dimensione collettiva o comunitaria viene continuamente posta sotto attacco. Dalla precarietà e dal ricatto che caratterizzano ogni condizione lavorativa, passando al massivo ricorso della tecnologia per mediare ogni forma di comunicazione e scambio, alla soppressione pressoché totale di spazi fisici di aggregazione che non rispondono alla logica del profitto, sino alla puntuale costruzione di “nemici pubblici” contro cui, ci vien detto, ogni strumento repressivo è lecito.

L’emarginazione dell’individuo passa dunque anche dal carcere, strumento per eccellenza finalizzato ad annichilire l’individuo attraverso l’isolamento dalla sua comunità di riferimento (che sia quella affettiva, politica o altra). Al suo interno, nel corso degli anni, sono nati circuiti pensati per determinati reati, come quelli di Alta Sicurezza (AS), e il regime di carcere duro del 41bis. Quest’ultimo è stato istituito sulla scia della cosiddetta lotta alla mafia e sull’onda emotiva della strage di Capaci. Il clima di paura e il mostro da annientare sono stati la cornice che ha reso questo strumento socialmente accettabile. Isolamento totale per anni, discrezionalità totale e possibilità di rinnovare continuamente questo stato detentivo, limitazione nel tenere beni personali (come la foto di un proprio caro) in cella, divieto di
ricevere libri dall’esterno, censura della posta e così via. Queste sono solo alcune delle condizioni imposte per legge ai prigionieri e alle prigioniere in 41 bis, ma ad esse si aggiungono quelle “discrezionali”: schermatura delle finestre con pannelli di plexiglas, sezioni poste sotto terra come quella del carcere di Bancali, primi due anni in totale isolamento. L’obiettivo del regime è duplice: da un lato indurre il prigioniero a denunciare altre persone, a “collaborare” per riguadagnare un po’ di vivibilità purché si getti nelle segrete medievali qualcun altro. Dall’altro, isolare in modo totale l’individuo, spezzare ogni legame sociale sia dentro che fuori le mura, renderlo disumano e annientarlo.

Come sempre, l’applicazione di nuovi e più gravosi strumenti repressivi riguarda inizialmente chi già rientra nella classificazione di “nemico pubblico” e poi, una volta passati nell’assetto legislativo e nell’immaginario sociale, viene estesa anche ad altri. E così il 41 bis è stato esteso nel 2005 ai prigionieri/e politici delle BR-PCC Morandi, Mezzasalma, Lioce e Blefari, quest’ultima uccisa proprio dalle pesanti condizioni di questo regime. Ora, come dimostra il caso di Alfredo, tocca agli anarchici. E domani chissà.

Un altro tassello dell’annientamento del singolo e della sua possibilità di essere parte di una comunità umana è l’ergastolo ostativo, strumento con cui lo Stato condanna l’individuo a un fine pena mai, senza se e senza ma. Tra i tanti ergastolani, ricordiamo Mario Trudu, morto di carcere in Sardegna dopo una vita rinchiusa tra le sbarre. A chi è sottoposto all’ergastolo ostativo sono negati tutti i benefici, in nome di una valutazione sulla “pericolosità” del soggetto basata sul rifiuto di collaborare con lo Stato, su legami veri o presunti con la criminalità organizzata o con la lotta politica, o sulla mancata partecipazione all’opera “rieducativa”. L’isolamento, tuttavia, si configura anche quando non vengono applicati strumenti particolarmente afflittivi di cui abbiamo parlato; ci riferiamo ad esempio all’utilizzo di strumenti punitivi interni al carcere, quali l’applicazione del regime 14 bis, o le svariate condizioni di isolamento de facto.

L’ultimo tassello che vogliamo aggiungere è quello della distanza fisica. La scelta attuata con il piano carceri del 2009 di costruire le 4 nuove strutture detentive in Sardegna (Bancali, Uta, Massama, Nuchis), così come di trasferirvi numerosi prigionieri nelle sezioni speciali provenienti prevalentemente dal Sud Italia e infine il trasferimento di Alfredo, si inscrivono nel processo di atomizzazione di cui stiamo parlando. L’isolamento dei detenuti diventa ancora più ampio perché di mezzo c’è il mare che allunga le distanze con la propria comunità.

La storia della Sardegna, oltre a essere storia di conquista e colonizzazione, è anche storia di carcerazione. L’introduzione del carcere avviene nel XVIII secolo con l’avvio della cosiddetta modernità, la sua affermazione passa attraverso la definizione del banditismo come piaga sociale ed endemica della Sardegna.
Con il Regno d’Italia la Sardegna diviene il luogo in cui chiudere “gli irregolari”, cioè tutti coloro che non accettano le leggi del nuovo Stato o che, ridotti in miseria, cercano fuori dalla legge spazi di sopravvivenza.
Ancora, con la ristrutturazione del sistema penitenziario degli anni ‘70 del Novecento, essa diventa il luogo di detenzione e tortura prima per i detenuti accusati di reati di mafia poi per i prigionieri politici e ribelli. Con l’istituzione delle “carceri speciali”, ben due delle prime cinque strutture individuate a tal fine si trovano sull’isola.

D’altronde l’espandersi e l’evolversi del sistema carcerario sardo è da sempre legato a doppio filo con i momenti chiave della sua colonizzazione da parte dello Stato.
Si pensi alla strenua opposizione contro l’esportazione della proprietà privata da parte dei sabaudi nei primi dell’800, al susseguirsi degli scioperi dei minatori nei primi del Novecento, passando alle lotte contro l’imposizione delle industrie petrolchimiche nel secolo scorso, oppure contro le servitù militari.

L’ultima pagina di questa politica è stata, come già accennato, il Piano Carceri del 2009 che oltre ad aumentare notevolmente la capacità detentiva dell’isola, per la prima volta ha predisposto la costruzione di un carcere appositamente progettato per l’applicazione del 41 bis: Bancali.
In totale ad oggi ci sono 10 strutture detentive di cui 5 carceri speciali; 3 differenti 41 bis sparsi nel territorio e un quarto in costruzione.

Perché abbiamo sentito la necessità di scrivere tutto questo in vista della manifestazione di fine ottobre in solidarietà ad Alfredo e tutti i prigionieri e le prigioniere? Perché pensiamo che oggi più che mai sia necessario inserire la lotta contro il carcere all’interno della nuova cornice politica e sociale nella quale stiamo vivendo. Un mondo dove il controllo è sempre più pervasivo e dove l’isolamento del prigioniero è speculare all’isolamento di ogni individuo. Gli strumenti messi in campo sono molteplici, ma l’obiettivo sembra comune: distruggere la dimensione comunitaria dell’individuo, annichilire ogni possibilità di deviazione rispetto
all’ordine costituito.

A chi quell’ordine costituito ha messo in discussione nelle parole e nei fatti va tutta la nostra solidarietà. Con chi lotta con ogni mezzo necessario contro la disumanizzazione dell’individuo saremo al fianco.

Per Anna, Alfredo, Juan e tutte le prigioniere e i prigionieri che lottano saremo in strada il 29 Ottobre e oltre.

Fuori Alfredo dal 41 bis! Chiudere il 41 bis! Liberi tutti, libere tutte!

VINCENZO LIBERO

Da fb: Galipettes Occupato

Sabato 8 ottobre un corteo di circa trecento persone ha percorso le strade fra Porta Genova e il carcere di San Vittore a Milano in solidarietà a Vincenzo, compagno condannato per devastazione e saccheggio per le giornate di protesta e scontri contro il G8 di Genova 2001 e che ora rischia di venire estradato in Italia dalla Francia per scontare una pena di oltre dieci anni di carcere.

Durante il percorso gli interventi hanno ricordato quelle giornate di ventun’anni fa e le ragioni che spinsero in piazza centinaia di migliaia di persone, ragioni che oggi rimangono purtroppo valide in questo presente fatto di guerre, disastri ambientali, emergenze e crisi.
E’ stata inoltre urlata forte la solidarietà a Dayvid, Anna, Alfredo, Juan e a tutti i compagni e le compagne che lo Stato vuole seppellire con anni di galera per aver lottato, aver partecipato alle rivolte di piazza e aver attaccato i responsabili della miseria quotidiana in cui viviamo, compagni e compagne che oggi si trovano in galera, spesso nei circuiti differenziali di AS2 o in 41bis, regime di tortura e annichilimento dell’individuo.
Sono apparse numerose scritte in città: dai muri dei locali della movida milanese fino a quelli di San Vittore dove il corteo si è concluso fra fuochi d’artificio e saluti ai prigionieri che hanno risposto con cori e agitando braccia e bandiere improvvisate.

Da segnalare il dispiegamento di reparti della celere e Digos che hanno accompagnato tutto il corteo, posizionandosi anche sui lati per difendere le sacre vetrine di banche e negozi, e che hanno creato alcuni momenti di tensione tentando di tirar giù cappucci o proteggendo qualche bottegaio amante del decoro.
Forse le forze dell’ordine ricordavano ancora l’ultimo corteo in solidarietà a Vincenzo (nel settembre 2019, poco dopo il suo arresto in Francia) durante il quale centinaia di persone erano scese per le strade di Milano e alcune vetrine avevano deciso di ricordare la rabbia di Genova frantumandosi, oppure la solidarietà verso i prigionieri e le prigioniere e il fatto che si scriva e si parli del 41bis -regime in cui è detenuto anche Alfredo, condannato per la gambizzazione di Adinolfi nel 2012 e per l’op. Scripta Manent- danno fastidio. Appare comunque chiaro che non è tollerato nessun corteo che non sia una passeggiata.

Tornare nelle strade non deve essere solo uno slogan, ma un impegno.
Consapevoli delle difficoltà, sappiamo anche che tutto lo spazio che non ci prendiamo è spazio che lo Stato ci toglierà.
La vicenda di Vincenzo non è ancora finita: ieri la Corte di Cassazione francese ha rimandato la decisione sulla sua estradizione al 29 novembre prossimo.
Non è finita neppure la nostra rabbia e non si è spento il desiderio di portare solidarietà a lui e a tutti i compagni e le compagne che lo Stato ci vuole strappare.

Facciamo in modo che questo fuoco non si spenga.
Libertà per tutti e tutte!