NÉ STATO NÉ DIO, SUL MIO CORPO DECIDO IO

Riceviamo e diffondiamo:

Siamo le gattare sfascia famiglie che abitano gli incubi dei Pro Life e dei cattofascisti della nazione.

Nel giorno del 44esimo anniversario dall’approvazione della Legge 194 ci riprendiamo lo spazio pubblico e decidiamo di decorare i luoghi in cui si riproduce la violenza antiabortista sui nostri corpi: una delle sedi del Movimento per la Vita, l’ospedale Maggiore e una farmacia notoriamente antiabortista, per ribadire che vogliamo #moltopiùdi194!

La legge 194 non garantisce sempre e per tutt* l’accesso all’aborto; è in sé problematica, ipocrita e contraddittoria, predisposta per sua natura ad attacchi e boicottaggi interni. Per la legge l’aborto è una concessione ammessa solo per motivi di salute, economico-sociali e per rischio vita (art. 4): in nessun caso è ammessa una motivazione come “non voglio diventare madre”. Noi ci opponiamo a ogni tentativo di subordinare le donne al ruolo di cura all’interno della famiglia tradizionale – bianca, eterosessuale, ri-produttiva e maschilista – e alla maternità come destino biologico. Dobbiamo rispondere a medici che vagliano la nostra condizione e le nostre capacità decisionali. L’art. 5, infatti, introduce un limite – che veste il camice del medico – alla nostra autodeterminazione: i sette giorni di riflessione. Non rimane che chiedersi: prima di quei sette giorni non eravamo capaci di prendere decisioni? È potere del medico illuminarci d’un tratto?

L’art. 9 sull’obiezione di coscienza, cosa fa se non consegnare al personale medico-sanitario il potere di decidere per noi? Non ci sono parametri o soglie d’allarme: il risultato è che potremmo ritrovarci senza più personale non obiettore, superando anche il 90% in alcune province. Il piano dei neofondamentalisti risulta chiaro: non chiedono l’abrogazione della legge, ma si alleano con medici e istituzioni, tutelati dalla legge stessa. È del resto la stessa 194 con l’art. 2 che dà il lasciapassare al Movimento per la Vita per strutture sanitarie pubbliche, permettendo loro di finanziare e aprire i loro CAV in consultori e ospedali pubblici.

Gli attacchi all’aborto portati avanti in un’ottica familista sono legati all’organizzazione complessiva della società fatta di violenza e oppressione. Dietro la rivendicazione ideologica della nazione bianca si nasconde razzismo istituzionale e odio nei confronti delle soggettività LGBT*QIA+ : mentre alle donne viene negato l’aborto per riprodurre lo stato nazione nella sua bianchezza, le persone migranti vengono respinte e le persone LGBT*QIA+ diventano il bersaglio del cattofascismo di chiesa e stato.

La legge 194 implode nelle mani di cattolici e obiettori e i diritti sessuali e riproduttivi delle persone LGBTQIA+ non versano in condizioni migliori. Noi rigettiamo l’idea della mera difesa di una legge costruita con un compromesso storico sui nostri corpi e desideri.

Non lo volevamo in passato e non lo vogliamo oggi! Ci alleiamo all* compagn* argentin*, irlandes*, polacch*, rumen*: non siamo incubatrici della nazione, non ci limitiamo a difendere le poche e cattive leggi esistenti, abbiamo bisogno di #moltopiùdi194!

NOI FACCIAMO PARENTELE NON POPOLAZIONE SIAMO GATTARE ABORTISTE, ANTIFASCISTE TRANSFEMMINISTE E PER NOI VALE UNA SOLA LEGGE: L’AUTODETERMINAZIONE!

Compagne transfemministe

ROMA: OPS! È successo: una nuova occupazione in città

Riceviamo e diffondiamo:

OPS! È successo: una nuova occupazione in città.

Però, OPS!, è proprio una di quelle Occupazioni Piantagrane Separatiste
Femministe che magari per qualcun sarà un po’ scomoda, forse sarà
troppo, forse sarà oltre.. Ma vabbè, pazienza. Quel che ci interessa è che questa sia un’Occupazione Per  Scappatedicasa*. Per lx Sottounponte, lx Senzatetto, lx Senzatitolo, lx Senzadocumenti, lx Senzasperanza, lx Senzanalira.. un’Occupazione

Per lx Sognatrici*, lx Streghe*, lx Strambe*, lx Solitarie*, lx Stralunate*, lx Sbagliatissime*, lx Spessone*, lx Spassose*… Per lx Sopravvissute*.  Per le Soggettività lesbiche trans e non binarie in lotta. Per chi si rende Solidale con le lotte di autodeterminazione. Per chi è Stufa* di questo mondo, per le Sorelle* di sangue e non…

Insomma, con un po’ di fortuna e tanta pazienza, vogliamo che questo spazio sia una fucina di pratiche e saperi femministi e transfemministi. Uno spazio in cui riconoscerci anche in base alle nostre cicatrici e ai nostri sogni, partendo dai quali costruire autodifesa, complicità e alleanze pericolose…
All’interno delle complesse geografie politico relazionali di questa città, e dentro un mondo in cui non era previsto che sopravvivessimo, da brave guastafeste continuiamo a lottare per la liberazione e l’autodeterminazione di corpi e desideri non conformi. Solo che, da
oggi, lo faremo anche da dentro questo spazio attraversato da donne, lesbiche persone trans e non binarie che vogliono organizzarsi insieme per lottare contro stato e patriarcato.

Tenetevi il mondo fatto a misura di uomo cis etero bianco, noi saremo le esplosioni rumorose e canaglie!

Lo spazio si trova in via Giannino Ancillotto a Roma!
https://opsfemminista.noblogs.org/

Niente da spartire

Di seguito diffondiamo un volantino distribuito ieri a Bologna:

NIENTE DA SPARTIRE

– Niente da spartire nè col machismo omofobo, transfobico, misogino e assassino di Putin, nè con la chiamata alle armi del buon padre di famiglia Draghi e dei suoi alleati Nato pronti a dividersi il mondo a costo di un bagno di sangue.

– Niente da spartire con le analisi geopolitiche, non è affar nostro scegliere sull’altare di quale stato e a quali interessi si può sacrificare la vita delle persone.

– Niente da spartire con i mercanti e produttori di armi, prestigioso comparto dell’export Made in Italy che fanno soldi a palate e non hanno cessato i loro sporchi traffici neanche un giorno in piena pandemia, attività essenziali, dicevano, mentre milioni di persone vivevano confinate nelle loro case senza deroghe a costo di sofferenze mentali e fisiche.

– Niente da spartire con l’economia della guerra su cui il capitalismo strutturalmente si regge.

– Niente da spartire con lo spettacolo della guerra. I media sciacalli vanno in cerca instancabilmente di immagini e storie tragiche da dare in pasto all’opinione pubblica al servizio della propaganda guerrafondaia dell’Occidente.

– Niente da spartire con il pietismo sulle badanti ucraine che fino a quando non sono diventate funzionali alla narrazione dei governati di casa nostra erano invisibili, democraticamente sfruttate e ricattatte col cappio al collo dei permessi di soggiorno.

– Niente da spartire con il razzismo dell’accoglienza per cui sulla linea del colore si decide chi far passare e chi far inseguire coi cani alle frontiere e far morire in mare.

– Niente da spartire con i signori del nucleare e della guerra (che sono gli stessi, fatalmente) quelli che di mestiere producono devastazione ambientale e morte.
Sono il problema e non la soluzione.

– Niente da spartire con chi ha fatto dei nostri territori una polveriera disseminando basi Nato massicciamente nel sud dell’italia e nelle isole,e reprimendo duramente chi vi si oppone. In queste periferie dell’impero, a Taranto, in Sardegna e in Sicilia le acciaierie e l’industria pesante avvelena e fa ammalare ad ogni respiro e uno dei motivi per cui non si può dismettere è la natura “strategica” della produzione per l’autarchia dell’industria bellica.

Sappiamo di vivere in un mondo che si regge sulle stragi in mare, al lavoro, nelle carceri, nelle case, nei campi di concentramento ai confini dell’Occidente in cui milioni di persone vengono usate come strumenti di pressione e merce di scambio, una guerra a bassa intensità in cui, come per la pandemia, il problema dei governanti è stabilire quante morti e quanta sofferenza è “tollerabile” dalla società civile come danno collaterale procurando di spostare il limite sempre un po’ più in là.
Sappiamo altresì che la rimozione collettiva di questa ferocia serve allo Stato per conservare saldamente il primato della violenza.

Guerra alla vostra guerra e Guerra alla vostra pace

Niente da spartire – pdf

PER UN MONDO SENZA PSICHIATRIA, SENZA CARCERE E SENZA FRONTIERE

A luglio del 2021 è stata aperta una sezione ‘nido’ al femminile della Dozza proprio accanto alla sezione psichiatrica – la cosi detta ‘sezione articolazione salute mentale’, l’unica femminile in Emilia Romagna.

Il carcere che annienta gli adulti si è organizzato per l’infanzia: un nido dietro le sbarre accanto al repartino psichiatrico, due dispositivi che insieme esprimono tutta la ferocia del sistema carcerario.

Sabato 22 gennaio dalle 18:00 alle 18:30 su Mezz’ora d’aria, trasmissione radio anticarceraria bolognese sulle frequenze di Radio Città Fujiko, una puntata per parlare di carcere femminile, infanzia reclusa e psichiatria.

PER UN MONDO SENZA PSICHIATRIA, SENZA CARCERE E SENZA FRONTIERE

Il podcast della puntata

La puntata si troverà anche sul sito della trasmissione
https://www.autistici.org/mezzoradaria/

Diffondi

Il 15 febbraio 2021 muore Isabella P., 37 anni,  ‘temporaneamente trasferita’ dall’articolazione femminile di Bologna in quella di Pozzuoli per il tempo dei lavori di ‘ristrutturazione’ nel repartino psichiatrico della Dozza.

Una crisi respiratoria.

Isabella è solo un nome in più nell’elenco dei tanti morti di carcere e di psichiatria.

Isabella non c’è più, l’articolazione ‘salute mentale’ c’è ancora, oggi con una sezione ‘nido’ accanto.

Legami con i prigionieri condannati per violenze sessiste: tracce di riflessione e azione

Legami con i prigionieri condannati per violenze sessiste: tracce di riflessione e azione

Pubblicato su hurriya
Traduzione da
: Paris Luttes

I membri della «Assemblée contre les Centres de Rétention Administrative (CRA) » (Assemblea contro i Centri di Detenzione Amministrativa (CRA)) a volte entrano in contatto con dei prigionieri accusati o condannati per violenze sessuali e sessiste. Se in genere partiamo piuttosto dal presupposto di interagire con le persone nel CRA in quanto persone che subiscono il razzismo di Stato e la reclusione, senza distinguere i loro percorsi di provenienza, che fare una volta che scopriamo che quella persona ha commesso uno stupro o menava la sua compagna? Proviamo qui a proporre qualche spunto.

L’assemblea dell’Île-de-France contro i centri di detenzione esiste da tre anni e può capitare che dobbiamo confrontarci con situazioni complicate nell’intessere legami con le persone detenute all’interno del CRA. Alcuni detenuti con cui eravamo in contatto erano stati condannati per violenze sessiste e sessuali (moleste, violenze coniugali, aggressioni sessuali, stupri). Nella maggior parte dei casi l’abbiamo scoperto perché è stata la persona stessa a dircelo (in generale in seguito al trasferimento al CRA dopo la fine della detenzione in carcere), o perché ce l’ha detto la sua compagna. Nel marzo 2021, a seguito dell’incendio al CRA di Mesnil-Amelot, 7 persone sono state portate di fronte al tribunale di Meaux: durante le campagne anti-repressione che abbiamo tentato di portare avanti, abbiamo messo mano sui loro faldoni giudiziari e abbiamo scoperto molti di loro erano stati condannati per violenze sessiste.
Abbiamo fatto quindi molte discussioni sul tipo di supporto che avevamo voglia di dare loro: anche se eravamo tutt* d’accordo a continuare l’attività minima contro la repressione per esprimere loro la nostra solidarietà dopo la rivolta avvenuta a gennaio, non c’era però consenso sul fatto di supportarli oltre questo (ovvero mantenendo con loro una corrispondenza, andandoci a parlare, mandando loro dei vaglia). Avevano davvero voglia di fare queste cose? Se in genere partiamo piuttosto dal presupposto di interagire con le persone nel CRA in quanto persone che subiscono il razzismo di Stato e la reclusione, senza distinguere i loro percorsi di provenienza, che fare una volta che scopriamo che quella persona ha commesso uno stupro o menava la sua compagna? Nel caso dei prigionieri dell’incendio, eravamo venut* a conoscenza di questi fatti tramite i faldoni giudiziari: volevamo davvero basarci sul casellario giudiziale delle persone, ovvero un prodotto della polizia e della giustizia che rifiutiamo, per costruire la nostra azione politica?

Varie riflessioni hanno attraversato l’assemblea e, alla fine, abbiamo deciso di organizzare una discussione specifica sull’argomento: l’idea era quella di fare un passo indietro, di andarci a cercare altre risorse, di vedere cosa avevano fatto prima di noi altre persone o collettivi. Nel preparare la discussione, non abbiamo trovato quasi nessuna risorsa pratica in francese. C’erano dei testi teorici sul femminismo anti-carcerario che potevano darci degli spunti: tra di noi eravamo in generale d’accordo sul fatto di essere contro il carcere, sul fatto che la prigione non è una risposta efficace o desiderabile contro le violenze sessiste, sul fatto che le persone razzizzate vengono sovra-rappresentate tra i prigionieri sessisti quando, allo stesso tempo, uno stupratore è diventato Ministro dell’Interno e alcuni discorsi femministi vengono strumentalizzati dallo Stato a fini razzisti e repressivi … Ma pur essendo d’accordo sulla teoria, non avevamo risposte per le situazioni concrete con cui dovevamo confrontarci. Abbiamo comunque letto varie cose e discusso a lungo, e anche se non abbiamo trovato la soluzione magica, ci siamo dett* che avevamo voglia di condividere le nostre riflessioni con questo testo.

Qualche riferimento teorico ma poche risorse pratiche

Innanzitutto, abbiamo discusso un po’ di femminismo anti-carcerario e di qualche elemento su cui eravamo d’accordo.

– Siamo contro tutte le forme di reclusione e siamo solidali con le persone prigioniere in cella e nel CRA: non chiediamo di sapere perché ci sono finite. Nel caso del CRA, è più facile perché le persone vengono rinchiuse letteralmente per il solo motivo di non possedere il giusto pezzo di carta; ma essere contro i CRA senza essere contro le prigioni implica un posizionamento moralista e umanitario (il buon prigioniero migrante che non ha fatto niente a differenza del prigionieri cattivo e colpevole) che non ci appartiene. Inoltre, il passaggio dalla prigione al CRA e viceversa è sempre più frequente: non ha alcun senso, quindi, limitare le nostre lotte ai centri di detenzione, perché i due luoghi costituiscono un continuum della stessa politica razzista e repressiva.

– Alcuni discorsi femministi vengono strumentalizzati dallo Stato per mettere in campo politiche razziste e carcerarie: le donne vengono rese soggetti deboli da difendere e i colpevoli sono sempre i poveri, le persone non bianche che rappresentano di fatto la maggioranza della popolazione detenuta. Siamo contro le politiche che affermano che aumentare il numero degli sbirri e dei posti in carcere possa essere d’aiuto nella “lotta contro il sessismo”. Sappiamo che queste politiche non prenderanno mai di mira gli uomini cisgenere bianchi ricchi, che però beneficiano anch’essi del patriarcato.

– La prigione non ci salverà dal patriarcato nel senso che denunciare/intraprendere un processo/mettere in carcere uno stupratore o un marito violento non costituisce in genere una risposta soddisfacente quando si è vittim* di stupro o violenze coniugali. Non si tratta di giustizia riparativa: la vittima viene in genere esposta a un processo penale che può amplificare il trauma e i suoi bisogni (psicologici, materiali, emotivi, ecc.) non sono mai al centro del procedimento. Non si tratta di giustizia trasformativa: i numeri mostrano che il tasso di recidiva dopo la pena in carcere è enorme e il fatto di individuare un colpevole individuale (“tu sei uno stupratore”) permette al resto della società di non affrontare mai le cause strutturali e sistemiche delle violenze sessuali. Infine, se la detenzione in carcere può consentire di allontanare temporaneamente un uomo violento da sua moglie e, quindi, di dare a lei una parvenza di sicurezza, nei fatti la situazione delle persone vittime di violenza coniugale è spesso più complessa (questo spiega anche perché molte donne non sporgono denuncia): la donna si ritrova spesso a doversi occupare della famiglia da sola, oltre a dover inviare denaro al marito in carcere, ecc. Abbiamo incontrato spesso delle donne che continuavano a svolgere una qualche forma di lavoro (quotidiano, invisibilizzato e non remunerato) per il proprio marito detenuto per violenza domestica (andare a colloquio, mandargli dei vaglia o procurargli dei vestiti, per esempio).

Un primo spunto di riflessione per uscire dall’impasse: creare più legami con le donne vicine ai prigionieri

Nella maggior parte dei casi, è il prigioniero a raccontarci che, prima di finire al CRA, aveva scontato un periodo in carcere per violenze sessiste o sessuali. Ci siamo dett* che uno spunto di riflessione potrebbe essere quello di andare a cercare il punto di vista delle donne e di partire da lì nella nostra azione. Dobbiamo sforzarci di più a creare un legame con le persone vicine ai prigionieri: visto che spesso queste continuano a sostenere il loro compagno detenuti, organizzarsi con loro significa fare un lavoro politico vero e proprio.
In effetti, ci rendiamo conto che nelle lotte anticarcerarie, si tiene poco conto del patriarcato. Le lotte delle donne vengono invisibilizzate: sia dentro quando sono prigioniere, sia fuori in quanto vicine ai prigionieri. Spesso le ascoltiamo in quanto testimoni della prigionia dei loro cari, o come messaggere, ma non come persone colpite in prima persona dal – o in lotta contro il – carcere. C’è la tendenza a occuparci più di quello che succede dentro la prigione che dei suoi effetti su chi sta fuori. Questo ha a che fare anche con delle forme di romanticizzazione della rivolta, sotto forma, per esempio, di rivolta dentro al carcere, incendio, prigionieri che salgono sul tetto o in sciopero della fame; e molto meno spesso intesa come una resistenza quotidiana, quella delle donne che vanno a colloquio, che si occupano dell’avvocato, che svolgono il lavoro di cura, che si battono contro l’amministrazione penitenziaria per ottenere i colloqui, ecc. Conoscere meglio queste pratiche di resistenza ci permetterebbe forse di escogitare nuove prospettive di lotta. Se cambiamo la prospettiva, se smettiamo di partire sistematicamente dagli uomini prigionieri per partire invece dalle loro persone care, questo non farà certo sparire il fatto che alcuni di loro hanno commesso delle violenze sessiste, ma può farci considerare le donne (che siano vittime di violenza o no) come attrici della lotta, in una posizione che ridà loro il potere, la capacità di agire e di decidere. Tentare di creare più legami con le donne fuori dal carcere significa anche costruire una solidarietà femminista anticarceraria che non dipende dagli uomini reclusi.

La necessità di rendere più visibili i percorsi e le lotte delle donne prigioniere

È chiaramente più facile a dirsi che a farsi: abbiamo già provato ad avvicinarci a chi è vicino alle persone detenute ed è sempre stato più o meno un fallimento. Tutto è reso ancora più difficile dal fatto che le persone restano recluse nel CRA “solo” 3 mesi: è spesso complesso creare un legame di lungo periodo, sia con loro che con l* loro car*, rispetto ai casi di pene lunghe. Ci siamo comunque dett* che poteva essere uno spunto di risposta interessante alle domande che ci facevamo rispetto ai prigionieri accusati di violenze sessiste e sessuali; e questo ha dato l’avvio a ulteriori discussioni e questionamenti sulle nostre pratiche di lotta.

Innanzitutto, ci siamo dett* che avevamo la tendenza a dare più attenzione ai prigionieri che alle prigioniere. Facendo questo, abbiamo spesso contribuito a riprodurre l’invisibilizzazione che colpisce le detenute e le loro lotte. Ovviamente ci sono più uomini che donne nei CRA, ma il CRA di Mesnil-Amelot è comunque la più grande sezione femminile di tutta la Francia. Uno dei motivi per cui abbiamo dato più spesso spazio ai prigionieri che alle prigioniere sta nel fatto che le rivolte degli uomini vengono più velocemente considerate come tali, perché utilizzano delle modalità d’azione considerate più radicali (come spiegato sopra).

Questa idea secondo la quale le donne sarebbero “naturalmente” meno radicali deve essere messa in discussione. In primo luogo, abbiamo visto varie volte le detenute organizzare delle rivolte in modo più o meno collettivo, per esempio contro le espulsioni o contro le condizioni di detenzione. In alcuni casi, le donne si sono organizzate insieme agli uomini contro le espulsioni, assicurando delle reti di solidarietà all’esterno e sostenendo all’interno un confronto serrato con gli sbirri. Inoltre, se le lotte e le forme di resistenza messe in campo dalle donne possono apparire a volte meno radicali o meno collettive rispetto a quelle degli uomini, è anche perché le condizioni di detenzione di donne e uomini non sono le stesse: di conseguenza, il contesto in cui si esprime la loro resistenza è diverso. Le persone recluse nelle sezioni femminili sono sempre meno numerose (raramente più di 20-30 persone), sono più isolate rispetto ai detenuti maschi, e hanno maggiori difficoltà a comunicare tra di loro a causa di origini nazionali molto diverse. È quindi molto più complicato per loro organizzarsi collettivamente. L’opposizione feroce al controllo che gli sbirri esercitano sull’accesso ai medicinali o ai beni di prima necessità (per esempio ai tamponi o agli assorbenti) costituisce un esempio potente di una resistenza a cui bisogna prestare maggiore attenzione, se vogliamo capire come si è espressa la lotta di alcune prigioniere con cui siamo stat* in contatto.
È necessario anche dire che abbiamo spesso avuto più difficoltà a creare dei legami di fiducia con le donne rispetto agli uomini: in molti casi, i contatti che avevamo tramite chiamate telefoniche non creavano delle condizioni adeguate perché le detenute si sentissero in confidenza di parlare della situazione all’interno. Per questo motivo, abbiamo semplicemente meno informazioni su quello che succede nella loro sezione, e quindi conosciamo meno le loro lotte e le loro resistenze che possono assumere delle forme diverse rispetto a quelle degli uomini. Su questo c’è ancora molto lavoro da fare …

Abbiamo notato anche che tendiamo spesso a considerare d’ufficio le donne come persone in condizioni di vulnerabilità, e quindi a percepirle come soggetti meno politici degli uomini: ci siamo ritrovat* più facilmente a fare lavoro di cura e umanitario con loro rispetto a quanto lo facevamo con gli uomini. Questa differenza rispecchia la divisione genderizzata del lavoro che riproduciamo spesso nell’assemblea: gli uomini dell’assemblea vengono generalmente considerati dai prigionieri come interlocutori legittimi per discutere di mobilitazioni e rivolte, mentre alle donne dell’assemblea vengono formulate delle richieste impegnative di cura. Ma non sono solo i prigionieri a creare questa situazione: gli uomini dell’assemblea (come avviene un po’ in tutti gli spazi militanti) hanno la tendenza ad accaparrarsi i compiti visti come più prestigiosi e a delegare alle donne quelli associati al lavoro di cura. Cambiare questo aspetto richiede una partecipazione attiva dei maschi cis dell’assemblea per rimettere in discussione queste abitudini. Questo cambiamento necessita di una riflessione sui nostri atteggiamenti al telefono o durante i colloqui, su come ci dividiamo i contatti con i prigionieri e più in generale sulla distribuzione dei compiti nell’assemblea.

In conclusione, alcuni spunti per l’azione:

Per concludere, alcuni spunti di riflessione ancora da sbrogliare:

– Riflettere sul ruolo dei maschi dell’assemblea rispetto alle detenute: i maschi devono essere più coinvolti nello stabilire un contatto con le donne prigioniere, e allo stesso tempo fare attenzione al fatto che le prigioniere potrebbero non avere voglia di parlare o incontrare dei maschi, soprattutto se hanno subito violenze sessiste e sessuali in precedenza, ecc. Fare dei gruppi di contatto misti potrebbe essere una prima soluzione.

– Che fare quando ci ritroviamo di fronte a dei detenuti che sappiamo essere stati condannati per violenze sessuali o sessiste o che sono violenti con l* loro car*? Abbiamo discusso molto di questo: alcun* pensano che il loro casellario non dovrebbe interessarci dal momento che subiscono comunque l’istituzione carceraria; altr* pensano che bisognerebbe interrompere i contatti e non perdere tempo con gli stupratori (privilegiando per esempio il contatto con le donne); altr* ancora che non hanno una posizione netta su questo tema. Uno spunto possibile per uscire da questa impasse potrebbe essere quello di non cercare una soluzione magica ma di riflettere su cosa fare caso per caso. Interrompere i contatti con un prigioniero stupratore o mantenerli dipende innanzitutto dalle energie che hanno le persone in assemblea che sono in contatto con lui: in ogni caso, la loro decisione deve essere rispettata. È importante comunque far circolare l’informazione affinché l* altr* compagn* siano al corrente e possano prendere liberamente una decisione. Soprattutto, è fondamentale creare degli spazi all’interno dell’assemblea dove collettivizzare la gestione dei contatti con l’interno e discutere di questo genere di problematiche. Non lasciare l* compagn* sol* a gestirle è forse la cosa più importante.

Questo testo non è che un primo tentativo di riflessione sul tema delle violenze sessiste e sessuali di cui purtroppo si parla troppo poco nei nostri ambienti militanti. Anche se questo testo si basa in alcuni punti su analisi teoriche, vuole essere innanzitutto un punto di partenza per rispondere a delle questioni che ci poniamo spesso nel quotidiano della lotta contro i CRA. Propone più domande che risposte, ma offre comunque, secondo noi, qualche spunto interessante che deve ancora essere testato. Questo testo è soprattutto un invito a continuare il dibattito e la riflessione. Quindi non esitate a farlo circolare e a interagire scrivendoci in privato (per esempio a: anticra at riseup.net) o tramite altri testi pubblici.

Abbasso i CRA !

BRUCIAMO LO STATO E L’ETEROPATRIARCATO!

DDL ZAN: Finale con applauso.


Di seguito una riflessione in direzione ostinata e contraria di alcunx lgbtqia+ che non si rassegnano all’assorbimento eteropatriarcale e capitalista.

Da Roundrobin, aprile 2021

NON VOGLIAMO ESSERE PANDA DA PROTEGGERE MA UNA MINACCIA A QUESTO MONDO

Su ddl ZAN, leggi protezioniste, prospettive di pratiche al di fuori dello stato e delle sue ridicole briciole.

Roma poche settimane fa : un’aggressione omofoba ai danni di una persona, presa a pugni mentre aspettava la metro, reo di aver baciato un suo compagno, accende di nuovo la polemica sul DDL ZAN.
Mentre sfilano personaggi e pantomime pubbliche su pro o contro una legge di protezione della comunità lgbtqia+, succede un altro fatto meno pubblicizzato.
Vicenza, 10 aprile 2021  Abderrahmane Ben Moussa, viene aggredito dal vicino al grido di ricchione di merda, ma lui cambia le carte in tavola e decide di difendersi tirando fuori un taglierino e rispondere alla violenza dell’aggressore. Il risultato è che viene denunciato l’aggredito per minaccia e gli viene sequestrato il taglierino.
I due pesi e le due misure dello stato. Se rimani zitto e buono, se accetti la retorica della vittima passiva e inerme, allora solidarietà pubblica persino da personaggi quali la Meloni e Mussolini. Ma se invece osi rompere questa retorica, vieni denunciato e perseguito, e non c’è nessuna campagna mediatica di difesa. Per di più se non appartieni a quell’immaginario di norma del gay maschio bianco, benestante e che come unico sentimento prova amore incondizionato (love is love come unica motivazione di accettazione dell’omosessualità), sei dalla parte sbagliata della storia, sei la causa dell’omotransfobia.
Adesso, davanti alle pantomime di politici e persino di fascisti dichiarati come la Mussolini, che gridano con ste manine alzate sui social all’approvazione della legge Zan, mi viene da dire un paio di cose, come persona Queer, sicuramente più in diritto di loro sull’esprimermi a riguardo.

LO STATO NON MI HA MAI PROTETTO E NON VOGLIO CHE LO FACCIA!

Come frocia, che tutti i giorni si scontra con l’omotransfobia, con le narrazioni e lo svilimento verso la violenza quotidiana (che ci colpisce a pugni in faccia, più o meno metaforici), che sia a casa, a lavoro, per strada o durante “i normali e casuali controlli di polizia”, sempre così casualmente contro persone non bianche, non cis e non visibilmente ricche. Ecco, come lgbtqia+ che forse riusciamo a delinearci le forme in cui questa violenza colpisce, e studiarci i modi di combatterla (e non rassegnarci ad essa come vorrebbe padre stato), crediamo fermamente che non sarà assolutamente una legge punitiva il mezzo con cui anche solo minimamente, arginare tale violenza.
Che chi ammazza una persona LGBTQIA+ si faccia due anni in più di carcere, (salvo la difesa da panico gay ancora beatamente legale praticamente ovunque, più o meno velatamente) a noi non me ne può fregare assolutamente nulla. Non ci rende più felici, non ci tranquillizza e non ci fa sentire di aver sconfitto l’omotransfobia.
Il carcere inoltre non è una soluzione, ma parte del problema.
Una legge punitiva serve al mantenimento dell’ordine, compreso quello stesso ordine che vuole noi froce sottomesse e in ginocchio.
Nel senso pratico, una legge non impedirà in alcun modo un’aggressione. Non ci immaginiamo che al prossimo attacco che subiremo in quanto lgbtqia+, un potere sovrannaturale sganciato da un pezzo di carta firmato dai padroni ci impedirà di prenderci un pugno in faccia.
Gli intenti di questa legge sono chiari.
Il mondo lgbtqia+ è insofferente, le aggressioni aumentano, la disparità pure. L’ omotransfobia è sempre più fieremente rivendicata, le continue aperture di sedi fasciste e partiti di destra pure non rendono il clima più abitabile.
In tutto il paese ultimamente si stanno creando gruppi e collettivi lgbtqia+ e queer, più o meno conflittuali, più o meno istituzionali. Ma il punto è che l’insofferenza della comunità lgbtqia+ verso la ribalta delle destre e dei valori familisti e omofobi è palese. E se l’insofferenza causa rabbia, per lo stato è un problema. Sopratutto se all’aumentare della violenza omofoba, a qualcunx venisse in mente di reagire e difendersi, e magari lasciare gli aggressori in un bagno di sangue senza correre a chiamare padron stato a difenderlo manco fosse un panda in via d’estinzione.
Ed è per questo che allora entra in gioco una legge protezionista. Quietare gli animi, prima che l’ordine ne risenta. La possibilità che le comunità lgbtqia+ inizino a incontrarsi, a parlarsi e magari a organizzarsi, è un rischio che non si può correre.
E allora giù di ddl, sensibilizzazione, LO STATO C’E’. Sindaci, vip, persino fascisti dichiarati a sostegno del ddl zan. Un modus operandi “non violento” della repressione che ovviamente ha funzionato, se guardiamo tutte le manine sui social con la scritta “ddl zan” e il grido diamoci il 5 contro l’omotransfobia.
Diamoci un 5? Diamoci invece appuntamento per pestare omotransfobici dentro e fuori i palazzi del potere invece.

UNA QUESTIONE DI GENERE, MA ANCHE DI CLASSE

Il ddl zan è una questione di civiltà dicono. Si, vero. Una questione di civiltà ma anche di classe. Chi favorirà davvero il ddl zan? Chi si sentirà davvero al sicuro con questa legge? Chi si sentirà benvoluto dalla società che fino a oggi non fa altro che invisibilizzarlo, stereotipizzarlo, renderlo un fenomeno da baraccone dal quale ruolo non uscire mai?  Non ovviamente la comunità lgbtqia+ in tutte le sue sfumature e sovversioni, ma un gruppo in particolare. Si, quei maschi gay bianchi e orgoglio della società eteropatriarcale, gli MXM, che ai pride non ci vanno perché bisogna essere benvestiti, che la colpa dell’omotransfobia è delle drag e delle persone T.  Loro che vogliono la famiglia, il matrimonio, sfornare figli a profusione come il modello etero vuole, dove c’è un attivo maschile e virile e un passivo effemminato e sottomesso. (Sia chiaro che non è una critica a prescindere verso chi prova il desiderio di matrimonio o di sfornare figli). Tutto questo è ciò che il canone eteronormato può digerire, tutto ciò che è al di fuori può continuare ad essere ostracizzato, represso, violentato e anche ucciso.
La legge Zan è una legge di classe precisa, che vuole proteggere degli individui a scapito di altri, ma che della comunità lgbtqia+ e della sua salvaguardia non gliene frega assolutamente niente. E lo si evidenzia nel fatto che è il ddl stesso a invisibilizzare tutto ciò di lgbtqia+ che non rientra nei canoni che l’eteronorma progressista possa tollerare.

L’ARTICOLO 4, UNA LEGGE CONTRO L’OMOTRANSFOBIA A TUTELA DELL’OMOTRANSFOBIA

Un altro particolare della legge zan, capolavoro del PD, che fingendo una lotta di sinistra e di “diritti civili”, ne fa contemporaneamente 10 di destra, è l’articolo 4 del ddl zan.
Poichè la destra si oppone al ddl zan per questioni come “la censura alla libertà di espressione (aka pestare i froci è un diritto costituzionale dalla nascita del patriarcato)”, ovviamente il nostro piddino Zan, gay da cortile per eccellenza, non poteva non strizzare un occhio ai suoi amici incravattati fascisti più o meno velati. Ed ecco il capolavoro dell’articolo 4, ovvero l’introduzione del concetto del “PLURALISMO DELLE IDEE”.
Facciamo una sintesi di cosa significa questo nel disegno di legge: Picchiare froci diventa aggravante di reato, ma solo se li picchi, potrai infatti continuare a fare tutto questo :
– comizi dove dilaghi stronzate come l’omotransessualità come malattia
– dichiarare persone lgbtqia+ come malati mentali in pubblica via
– affermare tutto l’odio (a parole eh) che vuoi verso la comunità lgbtqia+, basta che non li meni, se poi lo fa qualcun altro, non è un tuo problema, hai il diritto democratico di spargere odio fascista quanto ti pare e piace.
Ecco il capolavoro di questa legge, proteggere gli omofobi con una legge contro l’omotransfobia, e ammetto che riconosco al PD il ruolo di unici a poterne essere capaci a fare una cosa del genere.
Ma in soldoni questo significa anche che contestare “il pluralismo delle idee”, verrà represso con ancora più foga, e via alla repressione del tentativo di nascita di movimenti e collettivi queer in giro per i territori.

Una legge non ci protegge, non facciamo parte di una specie da proteggere. Dobbiamo organizzarci, come persone lgbtqia+, come comunità, come persone che subiscono l’oppressione eteropatriarcale e la violenza omotransfobica. Ma sopratutto come persone che sanno di poter reagire, concepire la nostra forza collettiva e metterla in essere nelle strade.
Difendiamoci da solx, parliamo tra di noi,  organizziamoci : ATTACCHIAMO GLI OMOTRANSFOBICI, e senza chiedere il permesso a nessunx!

Intasiamo di glitter gli ingranaggi del potere e del patriarcato eterocis, costruiamo pratiche di autodifesa con ogni mezzo. Solidarietà e complicità con tuttx coloro che si ribellano alla retorica della vittima e dell’amore e decidono di armarsi e difendersi a pugni e tacchi a spillo da aggressori e fascisti.

TORNIAMO AD ESSERE UNA MINACCIA PER QUESTO MONDO, LO STATO E’ NATO PER REPRIMERCI, NON COMINCERA’ ADESSO A PROTEGGERCI!

DIFENDIAMOCI DALLA VIOLENZA OMOTRANSFOBICA, DALLA POLIZIA, DALLA LEGGE E DALLA GIUSTIZIA CHE PROTEGGONO STUPRATORI, AGGRESSORI E FASCISTI CON E SENZA DIVISA!

BRUCIAMO LO STATO E L’ETEROPATRIARCATO!

Alcunx lgbtqia+ che non si rassegnano all’assorbimento eteropatriarcale e capitalista

Opuscolo: Non nasciamo maschi

Cinque saggi per ripensare l’essere uomo nel patriarcato

Per parafrasare Audre Lorde:

“Quando ci si aspetta che le persone di colore educhino i bianchi alla
loro umanità, quando ci si aspetta che le donne educhino gli uomini, le lesbiche e gli uomini gay educhino il mondo eterosessuale, gli oppressori mantengono la loro posizione ed eludono la responsabilità delle loro
azioni”.

PDF Non nasciamo maschi

Rastrellamenti a Catania, violenza poliziesca nel quartiere San Berillo

Rastrellamenti sulle marginalità oppresse,  guerra ai poveri sempre più violenta.

Fonte: lasiciliaweb.it

“Gravissima violenza a San Berillo: lavoratrici del sesso massacrate dalla polizia”

CATANIA: “Ieri nel quartiere abbiamo assistito a una dimostrazione di spropositata e gratuita violenza poliziesca” Racconta lo Sportello sociale San Berillo, associazione dello storico quartiere catanese.

“Alcune lavoratrici della zona sono state buttate a terra e percosse coi manganelli da numerosi poliziotti contemporaneamente. E’ solo un miracolo che nessuna sia rimasta gravemente ferita”

L’associazione spiega che “da mesi, oramai, il quartiere, colpevole di ospitare comunità di migranti e lavoratrici sessuali, è soggetto a quotidiane incursioni delle forze dell’ordine. Ma se di solito questo accanimento viene esercitato con l’intimidazione che chi veste una divisa può agevolmente esercitare nei confronti di individui che la nostra società spinge ai margini, stavolta le forze dell’ordine hanno voluto mostrare i muscoli. Sono stati violentemente picchiati gli abitanti del quartiere, colpevoli di avere osato riprendere col cellulare l’operato delle forze dell’ordine”.

In particolare, prosegue il racconto, “si è assistito a tre poliziotti che si accanivano sul corpo di una donna trans e la madre che disperata tentava di filmare quello che vedeva non potendo fare altro. Ma questo, evidentemente, non è bastato alle squadre di polizia che, per cancellare le prove di quanto appena fatto, hanno cominciato a fare irruzione e a perquisire, senza alcun mandato, la casa di una lavoratrice sessuale, all’interno della quale hanno continuato a picchiare chiudendo le imposte che davano sul balcone di fronte da cui si sarebbe potuto vedere”.

Inoltre, secondo l’associazione, “sono stati portati in questura anche i semplici passanti, ai quali sono stati sequestrati i cellulari. Abbiamo assistito a una sospensione dei diritti gravissima”.

Femminismo, transfemminismo e lotta anticarceraria

In una civiltà ultra-capitalista dove la giustizia è nelle mani di chi detiene i maggiori privilegi economici, la questione del carcere, ingranaggio centrale del modello eteropatriarcale societario imposto e mantenuto, non può che essere una questione che riguarda tutte e tutti noi.

Nelle carceri sono reclusi prevalentemente uomini ma questo dato non deve sorprendere, lo Stato patriarcale ha per le donne e le soggettività non cisgender tutta una specifica rete di oppressioni, gabbie e meccanismi di disciplinamento che permeano l’intero arco e contesti di vita dall’infanzia all’età adulta per reprimere lo scontro con l’autorità. Ci sono già il marito, la famiglia, il misconoscimento costante, le oppressioni, le violenze, la psichiatria…

La donna subisce spesso il carcere anche quando il carcere non lo vive direttamente sulla propria pelle. Donne, madri, mogli, sorelle, cui spesso è scaricato il lavoro di cura della famiglia, dei figli, oltre che il compito di sostenere fratelli, compagnx, mariti e padri detenuti, con lo sfinimento che implicano le visite, il pregiudizio della società, della famiglia, dei vicini, le lunghe attese, i controlli e le ispezioni corporali, gli interminabili viaggi di andata e ritorno, le spese sistematiche ed elevate, la perdita della propria vita privata,  le ripercussioni sul proprio lavoro, dei propri sogni e progetti.

E’ ormai evidente come il  carcere non  solo non protegga nessunx dalle oppressioni, ma  come sia in verità un ingranaggio centrale nel riprodurle sulle classi subalterne, non solo su uomini migranti e poveri, ma anche e soprattutto sulle donne (cisgender e trans), gli uomini trans, le persone di genere non binario e/o intersessuali.

Chi subisce una violenza e si rivolge al sistema legale non trova protezione alcuna. A volte la polizia allontana l’aggressore per alcuni giorni ma ciò non ferma la violenza. A volte i tribunali emettono un’ordinanza restrittiva, un pezzo di carta che l’aggressore palesemente  ignora.  A  volte  la  polizia  non fa nulla. A volte l’aggressore fa parte della polizia stessa.

Il carcere ha fallito nel proteggere dalla violenza poichè perpetua il ciclo della violenza piuttosto che interromperlo.

Rinchiudere un partner violento può fermare la violenza soltanto temporaneamente, ma non affronta il problema alla radice e crea altre forme di violenza e di abuso.

Lo stesso sistema legale che non è riuscito a proteggere le persone come ‘vittime’, le punisce quando sopravvivono alle aggressioni: numerose  vittime  di  violenza  domestica sono incarcerate  per  essersi  difese. Le  sopravvissute  alla violenza tra le mura domestiche piuttosto che sui luoghi di lavoro o per strada  sono spesso  ritraumatizzate  dalla  vita  in carcere,  in  modo particolare  quando  vengono sottoposte alle aggressioni, alle mancanza di cure mediche, all’isolamento o  alla separazione  dalle proprie  famiglie. La violenza subita all’interno delle mura domestiche si riproduce con la violenza dell’esperienza in prigione.

In carcere le donne (cisgender e trans), gli uomini trans, le persone di genere non binario e intersessuali reclusx soffrono continui abusi sessuali e maltrattamenti sia per mano di altri detenuti, che da parte delle forze dell’ordine o per colpa delle umilianti pratiche quotidiane come la perquisizione corporale, vissuta da molte come forma di stupro.

Le persone transessuali sono tra le comunità più criminalizzate e vulnerabili in carcere: «Le persone transgender non entrano nella classificazione binaria uomo/donna che il carcere stesso produce e consolida socialmente» sottolinea Angela Davis.

Persone queer, trans e gender-variant, proprio   perché   visibili   nella   loro  differenza   di   genere, hanno difficoltà nel trovare lavoro, subiscono allontanamenti da parte delle famiglie, persecuzioni, aggressioni, nelle scuole, per strada, che portano ad esclusione ed emarginazione, aumentando la loro vulnerabilità e il rischio di incriminazione, quindi la probabilità che una persona di genere non binario sia fermata dalla polizia, perquisita, arrestata, accusata, condannata, e che sconti un periodo di carcere.

La detenzione risulta inevitabilmente discriminatoria per queste soggettività.

Persone trans  e  queer oltre a vedersi negato un  adeguato  percorso  medico  sia  per quanto riguarda l’operazione chirurgica che per le cure ormonali, sono  ad  alto rischio  di  aggressioni  sessuali  e  abusi  in  carcere, in commissariato e nei centri di permanenza temporanea, non-luoghi dove spesso vengono richieste prestazioni sessuali in cambio di “protezione”.

In alcune carceri vi sono sezioni dedicate all’interno degli istituti maschili mentre in altre sono adiacenti alle sezioni femminili. In altre carceri invece le persone transessuali e transgender vengono inserite nei reparti precauzionali insieme ai sex offenders, ai collaboratori di giustizia e agli ex appartenenti alle Forze dell’ordine, con tutto quello che ne può comportare.

Anche le sex-worker subiscono la repressione del sistema giudiziario e sono soggette alle stesse vulnerabilità.

Con la ‘lotta al degrado’ e all’immigrazione irregolare le città hanno imparato subito ad applicare il Daspo urbano con l’obiettivo di riportare il ‘decoro’ nelle strade e allontanare persone sgradite alla collettività: diverse sex worker sarebbero state allontanate con questo sistema.

Le istituzioni hanno il potere di emanare facilmente il daspo urbano anche a chi viene sorpreso in strada con loro. La criminalizzazione dei clienti rientra appieno nel sistema di vittimizzazione e alienazione delle lavoratrici del sesso, considerate tutte persone da salvare, cui viene negata l’autodeterminazione della propria esistenza e che, oltre a subire lo stigma che colpisce chi lavora nel settore del sesso,  ora rischiano ulteriore  emarginazione a causa delle politiche securitarie sempre piu dure.

L’isolamento dei luoghi dove sono spinte le lavoratrici le rende inoltre più facilmente soggette a controllo e violenze da parte di polizia e clienti.

Il sistema penitenziario e il carcere sono l’asse portante del controllo patriarcale attraverso cui si perpetra la riduzione strumentale e svilente delle persone a oggetti. Una macchina repressiva sempre più specializzata in ogni luogo che zittisce e neutralizza le contraddizioni sociali prodotte dal capitalismo, rinchiudendo e castigando quelle soggettività che queste contraddizioni esprimono e subiscono sottoforma di molteplici oppressioni.

Pensare che il carcere sia necessario non è nient’altro che quel che ci hanno fatto credere.

Il giustizialismo prescinde dalle cause e considera i crimini esclusiva responsabilità delle persone che li commettono, per cui le uniche contromisure che si adottano in merito sono basate sul castigo.

Il punire individualmente e nella maniera più dura, si scontra frontalmente con l’obiettivo di lavorare a intersezioni che agiscano nei conflitti sociali in maniera proficua e vitale.

Se parliamo della violenza maschilista come una serie di problemi individuali scollegati fra loro otterremo soltanto l’invisibilizzazione della loro reale causa: la struttura eteropatriarcale.

Combattere  per  un  mondo oltre il carcere, dove  siamo  tutti  e  tutte  libere dalla violenza, dalla povertà, dal razzismo, dagli abusi e da ogni forma di oppressione, non può prescindere dalla riflessione transfemminista.

Per riprendere la Davis, fervente abolizionista del sistema carceraio, più che porre l’accento su chi perpetra la violenza, bisognerebbe interrogarsi sulla violenza come istituzione,  sull’istituzionalizzazione  dei  meccanismi  di violenza  e  sulle discriminazioni di genere che le istituzioni incarnano tramite l’intervento paternalista e patriarcale.

La violenza di genere non e’ un problema di ordine pubblico, è necessario stravolgere in modo radicale e nel profondo la cultura patriarcale e machista che ancora oggi tiene in piedi questo sistema basato sullo sfruttamento che si riproduce nelle relazioni individuali e collettive.

E’ necessaria una critica integrale e radicale alle fondamenta della violenza e dell’oppressione razziale, di classe e di genere su cui si appoggiano le nostre società, e con queste le carceri, ed è proprio il rifuto di ogni binarismo che oggi ci ispira alla ricerca di formule nuove per esprimere i rapporti di forza e oppressione: contro ogni autorità, contro ogni forma di sfruttamento,  contro le carceri e contro il dominio patriarcale, di qualsiasi genere.