BOLOGNA: SUL PARCO DON BOSCO SPLENDE ANCORA IL SOLE, MA LA REPRESSIONE PIOVE SU CHI LO HA DIFESO [23 SETTEMBRE PRESIDIO AL TRIBUNALE]

Riceviamo e diffondiamo:

Bologna, Parco Don Bosco, 4 Aprile, Ore 02:21.
10 agenti dell’Arma dei carabinieri sono in agguato attorno al presidio. si preparano a tentare l’arresto di 4 soggettività del Parco, ancora al lavoro per fortificare le barricate difensive, quelle stesse barricate sulle quali neanche 24 ore prima si è combattuto il primo tentativo di sgombero della straordinaria esperienza di autogestione collettiva al Don Bosco. Sono tutti e 10 armati, tra taser e manganelli, guanti e spray urticanti. sono acquattati lungo il lato del cantiere di via Fani, come per un assalto a sorpresa, nascosti e probabilmente in cerca di una forma di vendetta. Quello che succede dopo lo sappiamo già.
Avevano un feroce bisogno di attaccare e criminalizzare quello che stava succedendo a Bologna dopo i fatti del giorno prima, della mattina del 3. In quell’occasione la forza dei comitati cittadini, dei collettivi e delle singole anime che insieme avevano portato avanti la lotta per il Don Bosco, dove avevano imparato a conoscersi e a potenziarsi l’un l’altra, aveva umiliato le armate poliziesche: resistendo a ore di cariche, arrivando a scacciare la celere con corpi e desideri, a furor di popolo.  Si era finalmente risposto alla violenza delle istituzioni.
E così, quando il movimento vince, quando dal basso ci si inizia a imporre con decisione sui  territori, sugli spazi in cui viviamo, sulla ricchezza che ci dovrebbe appartenere, la controparte e il suo braccio armato aumentano il livello della repressione.
Come possiamo continuare a manifestare al giorno d’oggi se ogni corteo studentesco, picchetto antisfratto o occupazione viene represso nella violenza dei manganelli prima, e  in quella della famigerata legge italiana dopo?

Proprio in questi giorni (inizio Settembre) vediamo svolgersi la seconda parte delle violenze di cui abbiamo parlato. Vengono aperti una dozzina di procedimenti contro altrettante soggettività, definendo “condotta violenta” l’azione di resistenza. Qual è realmente la condotta violenta?
Difendere un parco con i propri corpi, o invaderlo picchiando alla cieca con l’antisommossa?
Recuperare pezzi di legno per strada, o pestare unx singolx con taser e spray?
Per non parlare di tutte quelle occupazioni abitative con famiglie sgomberate, delle botte ai picchetti dei lavoratori in sciopero (ultimo esempio ne è Mondoconvenienza), di tutti quei cortei studenteschi caricati, da Pisa a Torino a Roma e in tantissime altre città. Neanche un mese dopo gli eventi di aprile, il 3 maggio a Genova alcunx compagnx vengono circondati durante una serata benefit e attaccati brutalmente da decine e decine di sbirri, accompagnati anche da alcuni militari, con l’uso massiccio di taser.
Dove sta il torto?Basta avere una divisa addosso, e tutto diventa legittimo?

Il 3 aprile c’eravamo tuttx a riempire quei cordoni. Ed è stato proprio il fatto che volevamo difendere a tutti i costi il parco ed il presidio, il fatto che i nostri corpi si sono opposti all’unisono, che ci ha permesso di avere quella vittoria. Soprattutto, ci ha permesso di dimostrare che saremmo stati disposti a proseguire ad oltranza nei mesi successivi. Determinazione che ha agito da deterrenza per la controparte fino alla capitolazione definitiva del progetto.

Ci saremo tuttx, per i nostri territori, con i nostri corpi, contro la loro brutale repressione, anche il 23 settembre, alle 14, davanti al Tribunale in via d’Azeglio 56, in occasione del processo in direttissima a una soggettività del parco per i fatti della notte tra il 3 e il 4 aprile, per una giornata di solidarietà che finirà attraversando le strade della città e ribadendo ciò che ci ha portato fin qui.

Tuttə liberə, liberə subito!⁩

BOLOGNA: REVOCATE MISURE CAUTELARI A DUE COMPAGNX

Diffondiamo

Il 6 agosto sono state revocate le misure cautelari (obbligo di firma) disposte a inizio maggio nei confronti di 2 compagnx anarchicx di Bologna per l’occupazione di una gru in centro città nel dicembre 2022 in solidarietà con Alfredo e contro il 41 bis. Restano invece invariate le misure nei confronti di un’altra compagna (obbligo di dimora nel comune di residenza, rientro notturno e obbligo di firma) indagata per l’incendio di alcuni ripetitori nel maggio 2022 a Monte Capra (Bologna), a seguito del trasferimento di Alfredo in regime di 41 bis e pochi mesi dopo l’inizio del conflitto russo-ucraino, azione rivendicata a suo tempo con questo comunicato

Sasso Marconi (Bo): incendiati due ripetitori

Ricordiamo che l’inchiesta che coinvolge questi 3 compagnx riguarda una più ampia serie di azioni avvenute in territorio bolognese nel corso della campagna di solidarietà con Alfredo Cospito e contro il 41bis. Occasione questa, per la magistratura felisinea, per fare una schedatura ad ampio raggio di profili di DNA, come ricordato in questi contributi

AGGIORNAMENTI SULLE INDAGINI IN CORSO A BOLOGNA A SEGUITO DELLA MOBILITAZIONE IN SOLIDARIETA’ AD ALFREDO COSPITO, CONTRO IL 41BIS E L’ERGASTOLO OSTATIVO

AGGIORNAMENTI SULL’INCHIESTA PER 270BIS IN CORSO TRA BOLOGNA E IL TRENTINO

MA QUALE RIVOLTA? (OVVERO VIETATO CALPESTARE L’AIUOLA)

Riceviamo da Bologna e diffondiamo:

Premesse

Vorremmo indirizzare queste parole non solo alla rete di Rivolta Pride, con cui già ci siamo confrontat3 in diverse occasioni sia interne al percorso di costruzione del Pride sia esterne (come l’assemblea chiamata dalla CAT), ma anche a tutte le altre realtà e soggettività queer che sono parte del movimento ma fuori da questo specifico contesto o che ancora non hanno cercato e/o trovato un posto al suo interno. Vorremo quindi provare a spostare il piano della discussione al di fuori del semplice noi-contro-loro, cercando di avviare una riflessione più ampia e di coinvolgere tutte quelle persone che non si sentono rappresentate da questa “rivolta”, o che attivamente cercano di navigare e comprendere un movimento che forzatamente vuole riconoscersi in quei moti rivoltosi, invece di ammettere di essere stanco, stagnante, autoreferenziale e inadeguato rispetto ai bisogni di molt3.

La critiche che muoviamo oggi non sono rivolte a specifiche realtà e/o persone: nomi e cognomi sono stati già trattati in altre sedi e non ci teniamo a dare nuovamente la possibilità di sviare la discussione su ciò. Ribadiamo infatti che la responsabilità ricade su tutte le associazioni, collettivi e singol3 che di quella rete fanno parte, che, conniventi, non sono stat3 in grado di allontanare e/o difendersi da concezioni e comportamenti che in quel luogo non dovrebbero trovare il minimo spazio. Parliamo di connivenza perché, come abbiamo già detto altrove, i fatti sono stati denunciati in presenza di quella stessa rete; e se ci si vuol attribuire il reato di non aver partecipato interamente al percorso politico (l’obbligo di firma non ci era stato comunicato), rispondiamo che lo abbiamo fatto perché, alla luce di frizioni su tematiche politiche per noi dirimenti e immobilità organizzativa, non ritenevamo possibile un cambiamento sostanziale che partisse dall’interno di quella stessa assemblea. Al contrario, come in tant3 in questi anni abbiamo visto e vissuto sulla nostra pelle, c’è una sistematica invisibilizzazione di istanze e pratiche alternative a quelle egemoniche. Abbiamo quindi deciso di sottrarci a quel gioco politico imbrigliante e di decidere noi e per noi, dove possiamo avere davvero spazio decisionale.

La lentezza e inadeguatezza nel rispondere a quella che è la situazione materiale attuale degli spazi che attraversiamo ha nuovamente visto, come conclusione, il manifestarsi di un’ondata di violenze che hanno attraversato il corteo dal pomeriggio fino ad arrivare ai party sponsorizzati della sera. Ci interroghiamo quindi nuovamente su quel tentativo di responsabilizzarci, mentre siamo di fronte a un’assemblea che non solo rallenta i tentativi di attivazione reale di pratiche di gestione delle molestie e presa in carico collettiva di cura e autodifesa, ma tace sulle suddette violenze. Riteniamo anche che i discorsi sulla “politica dal basso” e sull’autogestione delle persone all’interno del corteo siano in questo caso vuoti e nocivi; delegare l’autodifesa, di qualsiasi tipo, senza convididere collettivamente prima degli strumenti è sintomo di una visione che non riesce ad andare oltre al proprio privilegio.

Chi siamo

La nostra rete – la Crisalide – è nata spontaneamente in seguito all’assemblea pubblica chiamata dalla CAT per il 24 giugno (“QUESTA NON E’ RIVOLTA”). Quella data ha fatto sì che un gruppo sciolto e sparso di compagn3 TFQ si mettesse in contatto, cospirasse insieme e agisse direttamente.

Siamo crisalidi perché aspiriamo e tendiamo a sfarfallare in un mondo libero da Stato, capitalismo e patriarcato.

Siamo crisalidi perché autodifes3 da strati autoprodotti e resistenti; perché autogestit3.

Siamo crisalidi perché mimetich3; la nostra sopravvivenza è garantita dall’informalità in cui operiamo e dalla multiformità dei nostri involucri, che si adattano in base al contesto.

Sui fatti del 6 luglio 2024 e la nostra incompatibilità

Come Crisalide, abbiamo cercato di trovare uno spazio per le nostre voci, all’interno della dimensione del Pride, con modalità antagoniste, conflittuali e di critica aperta, ma che non mettessero in pericolo né noi né le persone che nel corteo si muovevano. Abbiamo deciso quindi di aprire uno striscione per ogni porta attraversata, con messaggi diretti alle politiche di gentrificazione e cementificazione della città, alla speculazione sui corpi trans*, alle violenze insabbiate e allo sgombero di spazi queer autogestiti. Per ogni striscione aperto qualcunx volantinava e poco prima dell’arrivo del corteo ai Giardini Margherita abbiamo piazzato un gazebo al piazzale Jacchia, con altri volantini e un banchetto di Riduzione dei Rischi in compagnia del Lab57. Eravamo tutt3 consc3 della portata dei messaggi e di quella che sarebbe stata la loro posizione, a livello logistico. Eravamo anche preparat3 a eventuali contestazioni, ma non ci saremmo mai aspettat3 un attacco violento partito dalla testa del corteo, e di questo ci sentiamo in dovere di parlare.

All’apertura dell’ultimo striscione, che recitava “Ma quale rivolta…con chi sgombera spazi queer autogestiti”, posizionato davanti alla storica sede di Atlantide, un gruppo di persone si stacca dalla testa del corteo per raggiungere l3 due compagn3, sol3, che reggevano lo striscione. La discussione è stata inizialmente intrisa di paternalismo e nonnismo, con domande quali “Voi c’eravate quando noi eravamo dentro/quando è stata sgomberata?”. Alla fermezza dell3 compagn3, che hanno cercato di portare la discussione sul piano politico, sono seguiti, con modalità molto più aggressive, insulti personali, strattoni (volti anche a togliere lo striscione dalla presa dell3 compagn3) e riprese col cellulare ai volti. Tutto questo ha anche attirato l’attenzione di una manciata di sbirri; francamente fatichiamo a non pensare che, in seguito a un’ipotetica escalation, avrebbero fermato l3 due compagn3 dal momento che in quell’istante erano loro “l3 intrus3” e ci stupiamo, ma neanche troppo, che nessunx tra l3 aggressor3 si sia preoccupatx di ciò.

Ci domandiamo come uno striscione che denuncia la legittimazione di sindaco e sbirri all’interno del Pride possa causare un’aggressione simile verso due compagn3. Se è vero che lo striscione è stato aperto in Porta Santo Stefano anche, come detto prima, per un fattore simbolico, è altrettanto vero che Atlantide è solo uno dei tanti spazi che negli ultimi anni hanno vissuto sgomberi per mano di giunte sempre più repressive.

Rigettiamo le logiche proprietarie e autoreferenziali rispetto alle pratiche di autogestione. Le occupazioni sociali sono spazi in cui creare campi di possibilità nuovi e di rottura con l’esistente, non luoghi atti a riprodurre sbilanciamenti di potere tra chi ha avuto la possibilità di vivere determinate stagioni politiche e chi no. Negli anni, il progressivo assorbimento dell’autogestione nei perimetri legislativi ha determinato l’impoverimento generale delle esperienze politiche in città. Noi tante esperienze non abbiamo avuto la possibilità di viverle proprio per le scelte che altr3 prima di noi hanno fatto, determinando la desolazione dai tratti “partecipativi” a cui assistiamo oggi.

Ci piacerebbe anche riflettere su una domanda che ci è stata posta durante l’aggressione: “Sapete cosa vuol dire trigger?”. Sappiamo bene cosa significa. Lo sapevamo, e lo sapevate, quando abbiamo raccontato le nostre esperienze in privato all3 compagn3 e alle assemblee. Lo abbiamo vissuto durante il corteo, vedendo sfilare allegramente quelle stesse realtà e persone di cui vi avevamo parlato. Lo abbiamo vissuto quando ci avete ignorat3, quando avete auspicato un confronto ma poi avete accettato a braccia aperte la loro presenza appena la nostra è svanita. Lo abbiamo vissuto quando le compagne transfem hanno subito attacchi transmisogini e nessunx ha detto niente. Lo abbiamo vissuto quando abbiamo visto sfilare molesti e violenti nonostante li avessimo segnalati più volte, difesi strenuamente perché “fatti così” o perché (fintamente) “decostruiti”. Lo abbiamo vissuto quando abbiamo assistito all’ennesima passerella di un sindaco legittimato a partecipare dopo aver sguinzagliato sbirri contro ogni tipo di dissenso. È sempre comodo nascondersi dietro allo slogan “cura transfemminista” quando riguarda solo voi, no?

Se già prima criticavamo il Rivolta Pride a causa delle dinamiche e degli elementi interni, oggi non possiamo che notare e sottolineare l’incompatibilità dei nostri percorsi. L’aggressione e la posizione di difesa che l’assemblea ha assunto verso la stessa sono solo l’ennesimo anello nella catena delle pratiche prevaricanti ed escludenti che fermentano indiscusse al suo interno. E dato che, per quanto i fiori e l’erba siano cambiati, è ancora vietato calpestare quell’aiuola, allora ne andremo a costruire una nuova, un po’ più in là.



Di seguito il testo di un volantino diffuso durante il Rivolta Pride:

Forse sono passati troppi anni dai Moti di Stonewall.

Forse è passato troppo tempo da quando la polizia picchiava e arrestava trans* e frocie, lesbiche e drag queen, perché ritenute dalle istituzioni pericolose e offensive. C’è stato un momento in cui la nostra comunità è insorta e con rabbia ha rivendicato il suo diritto ad esistere, in maniera strana e non conforme, in maniera caotica e spaventosa.

Oggi questa storia sembra essere stata dimenticata.

Certo, la prima volta fu rivolta, ma questo capitalismo estrattivista e patriarcale ci ha messo poco a capire la pericolosità sovversiva dei nostri corpi non normati e si è mosso velocemente per blandirli e spegnerli, per raggiungere un compromesso che garantisse la sopravvivenza di entrambi.

Oggi anche i corpi diversi diventano normali.

Puoi essere gay, lesbica, trans* o quello che vuoi, il potere patriarcale ti ha concesso degli spazi in cui poter esistere senza nasconderti: in quasi ogni città italiana sorgono locali, vie e a volte perfino quartieri dedicati alle persone queer, in cui la stranezza che ci portiamo addosso può essere tranquillamente ingaggiata in un lavoro o può essere spesa per aiutare a far girare l’economia. Finalmente essere frocie è normale e in ogni dove il Pride che fu rivolta si trasforma in una grande festa. Rigorosamente a giugno (o al massimo una settimana prima/dopo) carri su carri sfilano nelle grandi città esibendo al mondo tutti i modi per essere diverse… o forse tutti i modi normali per essere diverse.

In Italia il Pride è diventato un’istituzione sponsorizzata dalle grandi multinazionali e dai palazzi del potere: a Milano vedi cantare Elodie con Elly Schlein sul carro, a Roma incontri perfino Giuseppe Conte, al Toscana Pride la polizia manganella gruppi di persone queer radicali su richiesta degli organizzatori e a Bologna… a Bologna va in scena la più ipocrita delle carnevalate.

Il Rivolta Pride si presenta come auto-organizzato dal basso, come portatore di istanze radicali e come rappresentante dell’intera comunità queer, ma chiunque abbia provato a partecipare al suo pecorso di costruzione sa che queste sono solo belle parole. Nelle assemblee sono evidenti delle gerarchie precise che decidono cosa si può dire e cosa si può fare, sono presenti associazioni che spesso usano una pretesa apoliticità per nascondere posizioni liberali e apertamente a sostegno delle forze dell’ordine, sono presenti locali che non hanno nessun interesse al di fuori della spendibilità dei nostri corpi, sono presenti persone notoriamente violente e moleste protette dai loro collettivi. Manca l’autogestione, manca l’orizzontalità, mancano l’inclusività e la trasparenza delle scelte che si prendono. Manca lo spazio per un qualsiasi confronto che metta in discussione lo status quo che si è formato in città.

Dopotutto all’interno della bolla di questa comunità sembra che a Bologna essere queer sia facile, che il sindaco sia amico, che la polizia ci protegga, che le associazioni facciano tutto il necessario e che dopotutto abbiamo guadagnato abbastanza privilegi da poterci accontentare.

Al di fuori di questa bolla però i nostri corpi continuano ad essere abusati, a non trovare casa, a perdere il lavoro. Continuano a doversi nascondere per paura, rinunciano ai momenti di socialità perchè gli unici posti in cui è okay essere/essere vestite in un certo modo ti chiedono 20/30 euro per entrare. C’è chi interrompe il percorso di affermazione di genere perchè gli ormoni costano troppo, perché sono troppo difficili da trovare o perchè la patologizzazione che i centri di transizione – chiamati anche non a caso “transifici” – portano sistematicamente avanti è umiliante e a tratti direttamente transicida.

Fuori dalla bolla di questa comunità restano abbandonate a loro stesse le persone povere, le persone arrabbiate, le persone abusate e quelle politicamente schierate contro il sistema capitalistico. Restano fuori da questa comunità perchè chi ha potere al suo interno non le vuole. Restano abbandonate a loro stesse perchè sembra che mettano in pericolo i privilegi guadagnati con anni e anni di compromessi al ribasso.

Noi non ci stiamo.

Condanniamo i compromessi accettati da altri che ci vengono imposti come inevitabili.

Sputiamo su chi, protetto da accordi istituzionali, continua a prendere parola e spazio nelle piazze marginalizzando per l’ennesima volta i corpi non conformi che già vivono il disagio della povertà e della discriminazione.

Ci dissociamo dalle retoriche svilenti di chi godendo del suo privilegio bianco e borghese rifiuta di supportare chi ha bisogno di spazio e visibilità.

Sappiamo che non c’è orgoglio in un Pride e in una bolla che protegge stupratori e molesti senza alcun tipo di autocritica, responsabilizzazione o giustizia trasformativa.

Oggi ci prendiamo il nostro spazio all’interno di un corteo che troviamo misero in quanto a contenuti e coerenza e pericoloso nel modo in cui continua a depotenziare pratiche che nascono e si sviluppano nella sovversione dello status quo.

Faremo sentire le nostri voci furiose e coltiveremo le nostre relazioni avendo cura di rispettare i nostri tempi e i nostri bisogni.

Non abbiamo fretta perchè sappiamo di star combattendo contro dinamiche secolari e ben radicate.

La comunità gay che si fonda su pratiche predatorie, le varie associazioni mitemente liberali disposte a svendere qualsiasi coerenza in cambio di uno spazio, i vari locali che lucrano sui nostri momenti di socialità privatizzandoli e rinchiudendoli in 4 mura sorvegliate da qualche guardia, tutto questo è nel nostro mirino. Si godano quest’ultima festa perchè non tollereremo ancora per molto la strumentalizzazione svilente e violenta che agiscono su di noi.

Oggi ripartiamo dal nostro territorio, il nostro corpo, per risanarlo e dargli la forza e la possibilità di essere coltivato nei prossimi giorni e nei prossimi mesi. All’inizio dell’autunno raccoglieremo i frutti del nostro lavoro e ci riprenderemo le strade e le piazze di Bologna per essere apertamente orgogliose in tutti i modi che il Rivolta Pride ha cercato di boicottare.

Guardiamoci in faccia, parliamo tra di noi e continuiamo a cospirare.

Non c’è lotta senza lotta di classe, non c’è speranza senza un’ecologia pratica dei territori e delle relazioni, non c’è movimento senza gli strumenti di cura transfemminista. Non c’è liberazione sessuale se non si contrasta la normalizzazione/assimilazione avanzante.
Contro ogni norma e ogni stereotipo rivendichiamo il nostro essere mostruos3 e ci poniamo nella tradizione di Pandora: tremate perchè siamo pront3 a scoperchiare ogni vostro vaso.

Link canale Telegram: https://t.me/Crisalidetfq 

BOLOGNA: MEZZ’ORA D’ARIA [RADIO]

Diffondiamo:

Domani sabato 20 luglio alle 17:30 su Mezz’ora d’aria, sulle frequenze di Radio Citta Fujiko (FM 103.1), una nuova puntata per rompere l’isolamento del carcere, raccontare e ascoltare le lotte dei e delle prigioniere, e cercare di sostenerle da fuori.

Uno spazio a disposizione delle persone private della libertà, e di chi gli è accanto : potere scrivere per fare dediche, proporre canzoni, comunicare quello che succede dentro.

Per scrivere a Mezz’ora d’aria: Mezz’ora d’aria, presso radio città Fujiko,
Via Zanardi 369, 40131, Bologna
E-mail: mezzoradiliberta@autistici.org
https://www.autistici.org/mezzoradaria/

Dopo questa puntata, si riprenderà a fine settembre/inizio ottobre.

BOLOGNA: SUGLI STUPRI IN VIA CARRACCI 63

Riceviamo e diffondiamo:

Qualche settimana fa ci siamo svegliatx con l’ennesima notizia terrificante: una donna ha subito degli stupri all’interno di un’occupazione abitativa a Bologna. Immediatamente è stata tolta centralità al vissuto della donna ed è iniziato un susseguirsi di ulteriori violenze: strumentalizzazioni, narrazioni stigmatizzanti, invisibilizzazione, negazione dello stupro, colpevolizzazione della vittima.

Contro la retorica giornalistica, non temiamo di dire che ci posizioniamo nettamente al fianco di chi sceglie di occupare sottraendo stabili abbandonati dallo stato o dai privati a un inevitabile decadimento e ci opponiamo all’inasprimento delle pene (come il decreto sicurezza approvato nel novembre 2023 che impone fino a 7 anni di carcere per le occupazioni abitative). Per questo lo vogliamo gridare chiaramente: RIFIUTIAMO L’USO STRUMENTALE DELLA VIOLENZA DI GENERE PER ATTACCARE LE PERSONE CHE VIVONO IN CONDIZIONI DI POVERTÀ E CHE SCELGONO DI AUTODETERMINARSI ATTRAVERSO LA PRATICA DELL’OCCUPAZIONE.

Lo scenario che si è aperto è il seguente.

Da una parte i giornali hanno riportato il fatto con toni razzisti e stigmatizzanti sia rispetto alle pratiche dell’occupazione sia rispetto alla precarietà che gli occupanti vivono a causa di un sistema capitalistico e classista. Hanno negato l’autodeterminazione delle persone razzializzate non servili che esprimono la propria rabbia in modalità che sfuggono al controllo e per questo ritenute pericolose.

Dall’altra parte, la Destra non ha esitato a manipolare ancora una volta la violenza di genere: lo stupro diventa un cavallo di troia perfetto per la politica razzista e classista che non ci pensa due volte a rendere mostro chi non ha una casa e, davanti alla negazione del diritto all’abitare che il progressismo finge di concedere, decide di prendersi ciò che gli spetta.

In una logica perversa, se la donna che subisce violenza è anche una donna che subisce razzializzazione, ciò che avviene è un attacco diretto alla comunità di riferimento. Una narrazione che ben conosciamo, profondamente coloniale e fascista, in cui la donna risulta essere nulla più che uno strumento utile alla riproduzione dello stato nazione. Il nemico è sempre fuori di noi, che sia una persona povera, nera, che viva in occupazione.

La nostra lotta solidale per il diritto all’abitare – anche e soprattutto quando questa decide di oltrepassare le forme legaliste – non può però farci tacere di fronte all’ennesimo caso in cui , ancora una volta, chi costruisce politica basandola sempre sulla cultura degli uomini non è solidale con noi, donne, trans e froc3 che subiscono quotidianamente sulla loro pelle una rete complessa di violenze. Perché se si parla di diritto all’abitare, vogliamo che venga presa in considerazione la complessità che viviamo nelle nostre vite e le violenze che possiamo subire all’interno delle nostre case perché, come ben sappiamo, spesso lo stupratore ha le chiavi di casa.

Quanto successo ci pone di fronte alla contraddittorietà dei tempi in cui viviamo – anche se non vogliamo –  e a come le riproduciamo profondamente, a quanto siano vive in noi.

Ciò che risulta più sconcertante e non può in alcun modo essere taciuto è che la dichiarazione che i giornali rilasciano da parte dell’avvocata di riferimento di PLAT – mai smentite – è che le violenze sono false, una vendetta per l’allontanamento della donna da parte dellx compagnx dall’occupazione per il suo uso di sostanze. Una donna di cui si ricorda solo la dipendenza da sostanze e la maternità, fattori che, se congiunti, immediatamente diventano deterrenti per creare l’immagine di una donna inattendibile e con lei le sue parole.

Allora ci chiediamo: com’è possibile che l’assunzione di sostanze basti per non credere alla donna che ha subito violenza e anzi, al posto di darle sostegno, viene colpevolizzata, ulteriormente stigmatizzata e lasciata sola? Com’è possibile che se è l’uomo violento ad averle assunte, le sostanze diventano la perfetta giustificazione?  Non ci siamo ripetutx per anni nelle piazze che l’uomo violento non è malato ma è il figlio sano del patriarcato? E invece, in questa interrelazione tra violenza di genere e proibizionismo, la colpa è ancora una volta della donna.

Com’è possibile che dopo anni di lotta transfemminista venga ancora portata avanti la retorica che una donna è valida solo se è una brava madre, mentre se fa uso di sostanze viene improvvisamente meno la sua credibilità?

Per questo riteniamo l’atteggiamento del movimento coinvolto proibizionista, sessista ed estramamente violento. Ancora una volta, non solo dalla Stato e dai Giornali, ma anche dai “compagni”, vediamo agire vittimizzazione secondaria contro le nostre sorelle solo perché non sono le vittime perfette, perché rompono i piani, reagiscono a ciò che subiscono, perché non si arrendono al potere maschile e alla normalizzazione della società.

Abbiamo atteso per settimane una smentita di tali orrende dichiarazioni, un passo indietro su ogni singola parola pronunciata, ma al suo posto c’è stato solo un sordido silenzio. Al contrario, siamo state costrette a leggere un testo di lancio all’iniziativa di oggi, 18 luglio, di PLAT, un comunicato strabordante di paroloni e vuota retorica in cui, ancora una volta, non si prende parola sullo stupro e sulle dichiarazioni che negano e sminuiscono la voce della donna che ha subito gli stupri, agendo ulteriore violenza, questa volta da parte della comunità.

Quel testo è per noi solo una vetrina in cui si è voluto mostrare la propria bravura e dedizione alla causa e che, in barba a ogni analisi e pratica transfemminsita, osa appropriarsi dello slogan “Sorella io ti credo”. Ma settimane fa non ci era stato invece detto che non solo non le si credeva, ma che il suo era un tentativo di ritorsione?

Si crede alle sorelle solo quando queste risultano utili per proteggere interessi altri – che non contemplano la cura delle soggettività femminilizzate – ma che vogliono solo tutelare i “compagni” e le loro lotte.

Per questo siamo chiamat3 a dirlo di nuovo, forte e chiaro: LA RESPONSABILITÀ POLITICA DI QUESTA DINAMICA È ANCORA UNA VOLTA COLLETTIVA. Uno stupro che avviene all’interno di una comunità è qualcosa di profondamente drammatico e doloroso, non solo per la donna che ha subito le violenze, ma anche per il suo contesto di prossimità. Non banalizziamo il dolore e la fatica: anche noi abbiamo avuto vicino persone violente e sappiamo quanto sia straziante stare a contatto con ciò che lo stupro porta con sé. Ma il punto è la presa in carico collettiva che si fa davanti alle violenze.

In un gruppo politico che dovrebbe rappresentare un luogo trasformativo rispetto a certi processi si fischietta l’antico motivetto che fa da colonna sonora allo Stato: bisogna difendere la società.

Davanti a un trauma enorme che ha prodotto una frattura così significativa, con buona pace del nostro sentire rivoluzionario, si riproduce in una perenne continuità quotidiana la brutalità patriarcale.

Le narrazioni portate avanti e le azioni agite mettono in evidenza la problematicità delle strutture organizzative chiuse che millantano l’intersezionalità delle lotte, ma che in realtà settorializzano la collettività nelle loro pratiche e quando serve a salvarsi la faccia la strumentalizzano, stigmatizzando in maniera proibizionista le individualità che attraversano i loro spazi…null’altro di diverso dai metodi narrativi di Stato e media.

Salvarsi la faccia e negare le proprie responsabilità vuol dire anche considerarsi esenti dalle dinamiche del sistema patriarcale, negarne la pervasività, negare la possibilità di poterle facilmente riprodurre.

Risulta chiaro ad oggi che la violenza di genere è qualcosa di profondamente divisivo, anche all’interno dei contesti che dichiarano di contrastarla quotidianamente.

Intenti e politiche si mostrano anche nel riconoscere la possibilità che avvenga una violenza, prenderne atto e non invisibilizzarla. Dichiararsi transfemministi e rivendicarne i principi non basta! Cavalcare slogan e date non ci rende impermeabili al patriarcato. Portare avanti due campagne di mobilitazione all’anno non rimedia alle violenze agite ogni giorno. Non basta supportare alcune soggettività o vissuti, solo quando sono vicini a noi o ci sono utili, mentre in questo caso la tutela e il sostegno della persona sopravvissuta passa in secondo piano rispetto alla causa dei “compagni”.

Si sovrappongono dunque più piani di stigma che si incarnano nel genere, nel razzismo, nel classismo e nel proibizionismo.

Se da una parte sono i giornali a mettere tra parentesi l’esistenza di una donna facendo della violenza avvenuta uno strumento per colpire l’occupazione abitativa; dall’altra parte,  i compagni, preoccupati nel salvarsi la faccia, negano e invisibilizzano la violenza cercando di colpire direttamente la donna, colpevolizzandola e screditandola. Si alimenta così una visione distorta della donna, la cui identità e storia vengono sballottate tra giudizi screditanti e poi buttate in strada come strumento per il comodo di tutti fuorché per sostenerla. Di nuovo, una donna che ha subito violenza e il fatto che si sappia, diventano un ostacolo per chi la vuole sotto controllo. Di nuovo, denunciare la violenza rivela la possibilità quasi certa di subirne altre.

Lo diciamo a gran voce: sorella, che tu venga definita drogata, madre snaturata, ragazza difficile o ingrata, noi ti crediamo.

Alla donna che ha subito tutto questo va la nostra più sincera vicinanza.

Cagnacce rabbiose complici e solidali

BOLOGNA: SU RESISTENZA E REPRESSIONE AL PARCO DON BOSCO

Con un po’ di ritardo ma ancora attuali, riceviamo e diffondiamo queste riflessioni su resistenza e repressione al Parco Don Bosco.

Commento acido al video https://kolektiva.media/w/wYBrSUUKwcG7Fiod7rc5xa

La messa in sicurezza dei cantieri secondo le giunte di sinistra attraverso l’intervento di squadroni di speciali “sostituti tecnici” i quali strizzando le palle e tirando per le tette lavorano strenuamente quali difensori dell’ordine pubblico nonostante le fastidiose interruzioni del servizio da parte dell’inaudita violenza di pericolose frange antagoniste, la stessa “melassa” (o come viene identificata la galassia anarcoide) che pur girando disarmata ancora osa abitare / vivere / ripensare i quartieri dal basso, intromettendosi così in questioni lobbistiche, e ciò addirittura spaziando, come si faceva per le grandi opere, dalla stesura minuziosa di controperizie fino a ingiuriose minacce vandaliche. Per ovviare a questo senso di solidarietà tra generazioni non arrese ed al travalicare della precarietà dell’autogestione tanto da minare la tranquilla mafia degli appalti “metropolitanizzati”, va da sé che a chi protesta contro l’estensione di simili cantieri inutili e non voluti si dovranno accollare esarcerbanti minchiate penali che fungano da deterrente, non tanto delle sollevazioni ecologiste e lotte affini e storicamente intrecciate, ma, in primis, per continuare a disinnescare la coscienza critica dei lettori/elettori, o di quel che resterebbe della cosiddetta “massa popolare” secondo spazi e tempi di pianificazione economica che la vorrebbe silente, passiva, ..conforme. Invece, la comunità di quartiere – e non solo – che si è spontaneamente ritrovata a presidiare il Parco Don Bosco da gennaio, giorno e notte, lasciando qualche traccia più definita dei propri intenti come Comitato Besta, ha da offrire molto di più degli investitori stessi:

e proprio perché va dritta ai nostri cuori – oltre che abbracciando gli ultimi polmoni verdi rimasti – diviene l’ennesima esperienza non vendibile da abbattere senza badare a spese, onde evitare che riesca ad espandere la propria radicalità.

Non cambierà forse la percezione ormai normativizzata dunque, quella alla quale pur quando si riesca ad informarsi sul proprio contesto di vita e sulle prospettive rimaste, non rimangono appigli interpretativi ..se non il finire a recepire le vicende soltanto per il capovolgimento infame che ne fanno le pagine di giornale. Tuttavia, qualche ripresa degli accadimenti in certe situazioni di “scontro” secondo una prospettiva non mediata dagli interessi locali, la si ha da diffondere pure noi..! In questo caso, dall’estrapolato non retribuito si può osservare lo strattonamento di compagnx per tirarlx giù dagli alberi senza mezzi termini, appena arrivati gli esperti del manganello con gli operai, nonché lo sfilamento in altezza delle loro corde tramite motoseghe, il resto del tempo azionate tutti’intorno e nondimeno sotto i punti di imbragatura e appoggio dex compagnx…

[warning, disclaimer, wtf : la professionalità delle truppe da cantiere è tutta merito dell’attenta supervisione nei pestaggi di Marotta e delle promesse di un sindaco che quando ancora fingeva di volere essere conciliante con gli ultimi scorci di lotte ancora aperte già lavorava per conservare la linea del superamento a destra, la decennale politica delle ruspe in salsa bolognese. Ecco perché ci scappa della triste ironia: solo una supercazzola su simili muffe amministrative potrebbe rendere retta(l)mente la descrizione storica di cotanto impegno consiliare]. Ci si augura che certe scene possano smuovere qualcosa dentro.. eppure non dovrebbe essere così necessario documentare, tantomeno dover comprovare le distorsioni operate delle autorità nei confronti della nostra realtà quotidiana, per capire come si svolgono determinati processi urbanistici.

Ma per quanto servi e mandanti cerchino di trasformare molteplici approcci alla resistenza in “tentati delitti” pur di togliere presa all’autodeterminazione collettiva.. si può ancora scegliere da che parte stare.

#lovepeacefuckpolice (cit)

BOLOGNA: VOI DECORO, NOI DE CORE

Aggiornamenti sul processo per alcune scritte comparse sui muri della città durante il corteo dello sgombero dell’occupazione di Via Zago 1, nel maggio 2022. Tre compagnx assolti dall’accusa di minacce.

Giorno 5 luglio si è tenuta l’udienza del processo di primo grado che vede coinvolti 3 compagnx accusati di imbrattamento e minacce private nei confronti del sindaco Matteo Lepore. Quest’ultimo si era costituito parte civile nel processo, chiedendo un risarcimento di 25.000 euro per il danno morale, 10.000 euro di provvisionale nonché di subordinare la sospensione condizionale al pagamento.

Il giudice ha invece assolto lx tre compagnx dall’accusa di minacce “perché il fatto non costituisce reato”, ma li ha condannati al pagamento di una multa di 600 euro a testa per imbrattamento, con la concessione della sospensione condizionale della pena subordinata al ripristino e alla ripulitura dei luoghi o al pagamento delle spese per la stessa ripulitura.

Lepore nel cofano… A quanto vogliamo!

Più forte dell’amore della libertà
C’è solo l’odio per chi ce la toglie

BOLOGNA: LA SOLIDARIETÀ È LA NOSTRA ARMA

Riceviamo e diffondiamo:

A seguito delle misure cautelari per 3 compagne/i, indagate/i per i fatti verificatisi a Bologna lo scorso inverno all’interno della campagna in solidarietà ad Alfredo contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo, il 26 maggio abbiamo chiamato un momento di confronto.
A partire dalla presentazione della rivista Lahar, abbiamo cercato di coinvolgere quanti, negli ultimi tempi in questa città, si sono spesi in percorsi di lotta e resistenza, convinte/i che la repressione che colpisce le/gli anarchiche/i debba essere letta, ora più che mai, nel contesto di guerra e ristrutturazione generale che caratterizza il nostro presente.
Quello che segue è il contributo al dibattito di una nostra compagna che abbiamo voluto condividere perchè nella sua semplicità ci è sembrato puntuale e prezioso.

Ciao a tutte e tutti,
colgo l’occasione di questa interessante e spero partecipata iniziativa per portare due riflessioni. Ve le faccio arrivare in forma scritta non potendo esserci fisicamente.
Credo che momenti di discussione e confronto come questi siano preziosi: nella società del tutto-subito, tutto-virtuale le occasioni di dibattito faccia a faccia sono importanti baluardi da preservare e curare. Nessuna prospettiva di lotta e resistenza può prescindere dal ragionamento, dal confronto. Probabilmente le persone che oggi si trovano a discutere sono molto diverse tra loro e hanno percorso strade di lotta differenti nei metodi e nei contenuti. Ci sarà chi l’anno scorso ha partecipato attivamente alla mobilitazione a fianco di Alfredo contro 41 bis ed ergastolo ostativo, ci saranno le vecchie cariatidi anarchiche del Tribolo, le compagne di Napoli, chi porta avanti la lotta in difesa del Parco Don Bosco, i giovani palestinesi e chissà chi altro. E in effetti l’interrogativo puntuale racchiuso nella chiamata di questa iniziativa è: cosa c’entrano l’una con l’altra tutte queste esperienze? Questi vissuti di lotta anche distanti tra loro per certi aspetti spazio-temporali?
Io vedo due risposte a questa domanda, come due facce della stessa medaglia. La repressione, da un lato; la solidarietà dall’altro. A furia di usarli i termini perdono il loro significato, proviamo a ridarglielo. Repressione non è un sinonimo di depressione, non vuol dire che unx compagnx ha perso la motivazione nella lotta che portava avanti e ha mollato il colpo: è tanto la violenza concreta di chi porta una divisa (botte, taser e cariche) quanto il frutto di un’accurata scelta da parte di organi di polizia e magistratura di mettere fuorigioco –spesso preventivamente- individui o gruppi che portano avanti delle lotte; l’aspetto preventivo è assolutamente centrale, soprattutto quando a livello sociale ribollono malcontento e consapevolezza in mezzo a fiumi di indifferenza ed egoismo. È lì che lo Stato ha paura e interviene per confinare la libertà di coloro che potrebbero creare dei collanti sociali tra frustrazione-indignazione-lotta, mettere in evidenza con la teoria e la pratica dei nessi causali e la potenza dell’azione dal basso collettiva o individuale come strategia di resistenza e attacco. E lo fa quando si verificano delle condizioni sociali che potrebbero risvegliare le coscienze delle masse dal loro torpore (epidemie, guerre, gisto per citare due esempi). Non a caso è ciò che in questi mesi sta avvenendo in modo subdolo ma lampante, ora che gli stati occidentali si stanno adoperando nel genocidio del popolo palestinese: consentire che a Gaza avvenga lo sterminio di una popolazione passa anche attraverso la messa a tacere delle voci dissenzienti e delle azioni di lotta a fianco della resistenza palestinese nei paesi occidentali, dalle strade, ai porti alle università. Passa tanto dalle collaborazioni di aziende e università occidentali con lo stato sionista, tanto quanto dalla messa fuorigioco delle componenti sociali non irrigimentabili, chi per coscienza politica, chi per condizioni socio-economiche, chi per per provenienza (come è stato per Ali, Anan e Mansour). La guerra non è un episodio, ma una fase storica e in questa fase ci siamo immersi fino alla gola, anche se gli spari e le bombe non cadono sulle nostre teste. L’anno scorso in tanti e tante abbiamo portato avanti una lunga e determinata mobilitazione a fianco del compagno anarchico Alfredo Cospito, detenuto in regime di 41bis. Alfredo e il regime in cui l’hanno voluto seppellire sono l’esempio lampante della volontà e della possibilità dello Stato di usare la repressione come bavaglio. Ciò che ha sempre spaventato sbirri, magistrati e giudici di Alfredo è la forza delle sue idee. Meglio tombarlo vivo affinché esse restino tra quattro spesse mura, soprattutto ora che potrebbero trovare tante orecchie in ascolto e tanti cuori capaci di comprenderne la forza rivoluzionaria, a fronte del massacro di migliaia di civili per mano degli stati in guerra.
Ecco cosa c’entrano le nostre esperienze.
Ed ecco perché la solidarietà è l’altra faccia della medaglia, l’altro aspetto che ci unisce, anche se non ci conosciamo o frequentiamo strade di lotta apparentemente distanti. Lottare è avere una nobilissima ragione di vita. È rifiutare la rassegnazione di una vita che ci vorrebbe grigi dentro e fuori, frustrati e stanchi, arrabbiati e incapaci di amare profondamente la vita. Invece lottare per una ragione, per un’idea pur utopica che sia, è qualcosa di impagabile. E non essendo la lotta un’opinione, ma un fatto, spesso molto concreto, porta con sé delle conseguenze che talvolta ci allontanano dai nostri affetti, dai nostri compagni e compagne. Se è vero che la lotta paga, è anche vero che ogni tanto te la fanno pagare! E la solidarietà è quel motore che ci tiene insieme. E che fa sì che anche se non conosciamo Alì, Mansour e Anan, possiamo sentirne il cuore battere, così come quello di Alfredo, Anna, Juan, Stecco, Nasci e di tutte le nostre compagne e compagni privati della libertà.
Chiudo riprendendo una frase lapidaria con cui Luigi, un ragazzo di Palermo in carcere con l’accusa di aver lanciato una molotov contro la sede di Leonardo (fabbrica di morte), ha chiuso una sua lettera: non facciamoci distrarre dalla repressione. E aggiungo: se ora non lottiamo contro questo sistema mondiale di guerra ne andrà della libertà di tutti e tutte.
La solidarietà è la nostra arma, suonerà un po’ retrò, ma d’altronde faccio parte delle vecchie cariatidi anarchiche bolognesi!
Un abbraccio e buona discussione. Elena

“CHI SPUTA SULLA CAUSA”? – SULLA VIOLENZA MASCHILE NEI MOVIMENTI… DI NUOVO

Riceviamo e diffondiamo:

“CHI SPUTA SULLA CAUSA”? – SULLA VIOLENZA MASCHILE NEI MOVIMENTI…DI NUOVO

Prendiamo parola per denunciare gli ennesimi episodi di violenza agiti all’interno di spazi di movimento.

Mentre la zona universitaria e le piazze di Bologna vengono invase da una forte ondata di lotte di solidarietà, succede – ed è successo di nuovo – che negli ambienti che attraversiamo vengano agite e poi coperte le violenze subite da compagne, che rimangono inascoltate e per di più emarginate.

Nei cosiddetti spazi di intersezionalità politica che in questi mesi ci hanno unite nella lotta della diaspora palestinese, alcuni dei gruppi della nostra città che partecipano alla mobilitazione riproducono, nascondono e normalizzano violenza maschile e molestie nei loro spazi e nelle loro assemblee, mettendo a tacere e allontanando le compagne che hanno provato a denunciare questi fatti.

Siamo furios3 e stuf3 di sentir parlare degli ennesimi maschi violenti che si decostruiscono in poco tempo e che continuano ad attraversare i nostri spazi nella più totale sicurezza, forti del proprio potere patriarcale.

Siamo furios3 e stuf3 di sentirci dire che I PANNI SPORCHI SI LAVANO IN FAMIGLIA.

Siamo furios3 e stuf3 di essere private di spazi che dovrebbero essere di liberazione e che invece diventano luoghi di oppressione.

Sappiamo bene che chi parla di giustizia trasformativa usando in maniera impropria e superficiale gli strumenti che ci siamo date per difenderci e contrattaccare la violenza maschile, li priva del loro portato politico e del fine per cui sono stati pensati.

La giustizia trasformativa, se non vuole essere una retorica vuota e strumentale, va agita fuori dagli spazi dove si sono perpetrate le violenze, spazi che vengono condivisi e attraversati da chi quelle violenze le ha subite e le subisce.

“Ascoltare tutte le voci” e “ascoltare entrambe le versioni” sono due mantra che ci vengono costantemente ripetuti, dando per scontato che sia la compagna che denuncia la violenza a mentire. Le fanno credere che in fondo è esagerata, che in fondo è colpa sua, perché ha avuto comportamenti promiscui, che in fondo “se l’è cercata”.

Non siamo più disposte a  tollerare violenza psicologica e manipolazione emotiva delegittimante!
Lo diciamo senza se e senza ma: SORELLE, NOI VI CREDIAMO!

Le collettività miste che si nascondono dietro al linguaggio dell’intersezionalità delle lotte, svuotandolo del loro significato rivoluzionario, sono le prime a riprodurre la cultura dello stupro. La violenza di genere non è mai una priorità nei movimenti, vige sempre una gerarchia di lotte: con questa scusa la violenza maschile viene invisibilizzata e le compagne che ne parlano isolate. Ci si preoccupa della reputazione sociale dell’uomo violento, della sua fragilità che ogni tanto lo fa “cadere in errore”, del suo benessere psichico, facendo ricadere sulla compagna che denuncia non solo la violenza subita e le sue conseguenze psicologiche ma anche il peso del doversi preoccupare per l’incolumità e la serenità dell’uomo violento. Dopo aver subito, ci ritroviamo anche a doverci fare carico della cura del violento e del suo fantomatico “percorso”.

Chi dice che dobbiamo reprimere i nostri desideri e piaceri perché “pericolosi”, che siamo noi a dover stare attente e non “provocare”, riproduce la morale sociale che vede i nostri corpi inseriti nella dicotomia violenta di puttana/buona vittima (o buona militante!).

La buona vittima, come la buona militante, deve essere moralmente ineccepibile. È colei che non mette al centro il suo corpo femminilizzato “provocatore”, che potrebbe distrarre i bravi compagni, non espone il movimento al rischio della sua frammentazione e non chiede con troppa insistenza di attuare pratiche transfemministe.

E se la nostra sessualità e ogni nostro singolo gesto vengono usati per gettare addosso a noi un’ulteriore violenza e vittimizzazione secondaria, condita di slutshaming e victimblaiming, lo urliamo con forza: Siamo tutte puttane.

Puttane, esagerate, deviate, pazze e guastafeste: siamo pronte a essere l’imprevisto che non avevate considerato, mentre reggiamo, troppo silentemente, il peso di fare politica in queste comunità terribili che la cultura degli uomini si ostina a costruire.

Se di fatto DIVENTIAMO MERITEVOLI DI SOLIDARIETÀ SOLO DA MORTE AMMAZZATE – quando possiamo rappresentare le martiri dell’ennesimo uomo di merda – noi gridiamo che della vostra solidarietà non ce ne facciamo niente.

Ed è vizioso chi suggerisce che denunciare pubblicamente dei fatti gravi di violenza reiterata, individuali e collettivi, significhi tradire la causa.

Noi stiamo incondizionatamente dalla parte della Palestina e della sua resistenza. Non accettiamo che si infici la potenza delle piazze decoloniali per comportamenti omertosi riguardo ad abuser.

Il ricatto dello “sputare sulla causa” ogni qual volta si faccia emergere una violenza nel movimento è soltanto una scusa per ripulire la facciata politica di quest’ultimo. Non accettiamo che per proteggere uomini violenti si strumentalizzino le lotte in cui investiamo anima e corpo. Chi indebolisce le lotte sono proprio coloro che insabbiano la violenza dei maschi, riaccogliendoli a braccia aperte poco tempo dopo l’ultimo abuso. Quando rivediamo i violentatori alla testa del corteo, forti di una larga agibilità politica, risulta palese quanto siano fragili e superficiali i percorsi politici transfemministi di cui tante realtà si fanno forza.

Condanniamo con decisione questo modo di costruire la comunità politica come “famiglia”, riproponendo in svariate dinamiche il nucleo eteropatriarcale e le sue ideologie repressive. Prima fra tutte è l’omertà: ogni qual volta emerga una violenza di genere, si chiede di tenerla esclusivamente all’interno del proprio gruppo politico. A violenza si aggiunge violenza: non solo subiamo, ma dovremmo anche stare zitte, rimanere sole, senza la possibilità di creare reti di sorellanza femminista.

Lo diciamo chiaro e tondo: a sputare sulla causa non sono le persone che subiscono violenza o prendono parola per questo, ma i maschi violenti che la agiscono, insieme alla collettività che li protegge. Se per la comunità diventa più importante proteggere il proprio sedicente compagno nel suo agire violenza, allora stiamo reiterando gli stessi meccanismi patriarcali che diciamo di voler abbattere.

Sappiamo che questi uomini hanno agito violenze più volte e su più persone. Sappiamo che la comunità politica afferente ne era largamente informata. Sappiamo che la decisione di insabbiare queste violenze e allontanare invece chi le ha subite è stata totalmente deliberata.

Dove non c’è responsabilità collettiva c’è violenza di gruppo. 
Una violenza di gruppo che riproduce perfettamente le dinamiche di potere e le gerarchie sociali che diciamo di combattere e da cui ci sentiamo esenti, una violenza di gruppo di cui non ci libereremo mai se si continuano a nascondere le cose sotto al tappeto pur di non mettere in discussione noi stess3 e la nostra collettività e di mantenere limpida e immacolata la sua “reputazione”.

Le compagne sanno e dopo queste ennesime violenze non lasceremo gli spazi politici a stupratori e picchiatori: vogliamo tutto un altro genere di comunità politiche, tutto un altro genere di lotte.

Non staremo zitte e non ci faremo da parte.
Per la Palestina libera, per le lotte decoloniali, per donne, froc3 e trans liber3.

CONTRO LA VIOLENZA MASCHILE
LA MIGLIOR DIFESA E’ L’ATTACCO!

Gatte randagie complici e solidali

BOLOGNA: CHI SI ARMA POI FA LA GUERRA

Diffondiamo:

Le guerre partono anche da qua, ragioniamo assieme su come contrastarle!
Esistono aziende e complicità sul territorio con chi finanzia stermini e genocidi, confrontiamoci per organizzare assieme una biciclettata contro chi arma la guerra, martedì 4 giugno alle 20 al Tribolo, in via Donato Creti 69/2 a Bologna.

“L’unica catena giusta è quella della bici”