PENISOLA IBERICA: SETTIMANA DI AGITAZIONE E PROPAGANDA CONTRO LE FRONTIERE E LE GUERRE DEL CAPITALE [23-31 DICEMBRE]

Traduciamo e diffondiamo

Negli ultimi anni, il capitalismo e gli Stati di tutto il mondo hanno intensificato il massacro dellx sfruttatx nelle loro guerre e, a loro volta, hanno assistito a vasti movimenti di popolazioni costrette a emigrare come conseguenza di questa escalation bellica, sommata ad altri fattori dell’ordine mondiale internazionale. Il nazionalismo è riemerso con prepotenza, diventando uno strumento efficace per i potenti tramite il quale unire oppressx e oppressori sotto le stesse bandiere nazionali, distogliendo l’attenzione dal nemico comune, il nemico di classe.

L’industria militare ha raggiunto livelli di sviluppo senza precedenti, creando nuove tecnologie di morte, mentre la militarizzazione della nostra vita quotidiana avanza rapidamente. Le società democratiche contemporanee sono sempre più governate da criteri in cui qualsiasi pretesto (crisi sanitarie, crisi climatiche, la “minaccia del terrorismo”…) viene utilizzato per giustificare la presenza militare nelle strade, normalizzando la sorveglianza e il controllo dello Stato attraverso le forze armate.

Le recenti tensioni geopolitiche sono solo un capitolo di un conflitto più ampio tra blocchi di Paesi capitalisti in lotta per il controllo del mondo. La guerra è stata storicamente uno strumento di ristrutturazione economica per il capitalismo in crisi. Oggi, anche se offuscata dall’edulcorazione del capitalismo sotto una facciata democratica, con la sinistra del capitale che comanda quella fazione ideologica del sistema, la guerra è all’ordine del giorno, e rimane la forma più estrema di oppressione che gli Stati e i capitalisti esercitano sullx sfruttatx. Per questo consideriamo l’attuale conflitto un attacco a tutti lx proletarix, in Palestina, Ucraina, Nagorno-Karabakh, Siria, Libano… o in qualsiasi altro angolo del pianeta.

Da parte loro poverx e oppressx, nei paesi occidentali, si trovano di fronte a un ulteriore peggioramento delle condizioni di vita, giustificato dalla guerra e dallo “sforzo” che ricadrà sempre su chi sta in basso. Lo sfruttamento si intensifica, mentre i politici hanno già una nuova storiella da aggiungere ai soliti messaggi che ci dicono “fottiti e accetta la tua vita di merda”, ora chiamata sforzo bellico di fronte al panorama di tensioni belliche internazionali. Chissà che i nostri politici e capi non si stiano preparando a un nuovo massacro internazionale, e che le scene delle forze di polizia che trascinano la gente al fronte viste in Ucraina non diventino parte della nostra realtà del qui e ora. I palloni sonda sul servizio militare obbligatorio e una serie di altri indizi ci fanno capire dove questi bastardi vogliono andare a parare, di nuovo.

La gente fugge dalla guerra, e ciò si aggiunge a una nuova causa delle emigrazioni forzate provocate dal capitalismo a livello globale, che hanno spinto centinaia di milioni di persone ad attraversare mari, deserti, muri e fili spinati, affrontando persecuzioni e razzismo. I centri di internamento per stranieri (CIES), le frontiere militarizzate, i muri, i controlli e la violenza della polizia fanno parte della vasta industria del controllo e della militarizzazione che gli Stati hanno sviluppato e implementato.

Per tutte queste ragioni, chiamiamo una settimana di agitazione e di lotta contro le guerre del capitale e le frontiere. Vogliamo fare un passo in avanti in questa lotta costante, quotidiana e internazionalista. La guerra inizia qui e le imprese che vi collaborano, così come la produzione di armi, fanno parte della nostra realtà quotidiana. Un piccolo contributo alla guerra in corso.

Invitiamo tuttx a partecipare e a organizzare incontri, dibattiti, azioni… e a riprendersi le strade. Questo appello è aperto a qualsiasi gruppo, collettivo o individuo che desideri unirsi e contribuire in qualsiasi modo gli venga in mente.

CONTRO LE FRONTIERE, CONTRO LA GUERRA
PER LA RIVOLUZIONE SOCIALE

CATANIA: CORTEO CONTRO GUERRE E DDL SICUREZZA

Diffondiamo

Corteo 21 dicembre ore 17.00
Piazza Iolanda (CT)

Per la cancellazione dell’intero disegno di legge sicurezza. Il ddl 1236 (ex 1660) criminalizza le lotte sociali, trasformando in reati comportamenti che hanno a che fare con la marginalità sociale e con le disuguaglianze economiche.
Contro le guerre e il genocidio. I nuovi tagli all’ istruzione, tagli alla sanità, all’ambiente e agli ammortizzatori sociali, corrispondono ad un aumento record delle spese militari. Il ddl sicurezza è diretta emanazione di questa economia proiettata verso la guerra e la repressione del dissenso interno. Con la resistenza curda nel rojava. Con la resistenza palestinese, consci che niente sarà più uguale se il genocidio palestinese avviene nel più  totale e sordo silenzio.
Contro lo sgombero degli spazi sociali. Sosteniamo i luoghi di socialità occupati e autogestiti contro le logiche del profitto. A sostegno delle ex occupanti del consultorio autogestito “Mi Cuerpo Es Mio” e contro lo sgombero della LUPO (laboratorio urbano popolare occupato)!

PALERMO/POLIZZI GENEROSA: DISERTARE! DUE GIORNI CONTRO L’IDEOLOGIA DEMOCRATICA E LA GUERRA DEGLI STATI

Diffondiamo

DISERTARE! DUE GIORNI CONTRO L’IDEOLOGIA DEMOCRATICA E LA GUERRA DEGLI STATI

Dalla guerra per procura fra Nato e Russia sul suolo ucraino al genocidio portato avanti da Israele a Gaza, uno scontro diretto per l’egemonia geopolitica gra le maggiori potenze si fa una possibilità sempre meno virtuale. In questo quadro, la mobilitazione ideologica alla guerra in difesa della democrazia e dell’occidente si è messa in moto, preparando il campo a quella “reale” che ci vorrebbe trasformare tutti/e in carne da cannone per gli interessi di Stati e padroni: come resistere alla prima per non farsi trovare impreparati dalla seconda?

23 NOVEMBRE
VIA CARRETTIERI 14 (PALERMO)
CONTRO LA DEMOCRAZIA. DISERTIAMO LA MOBILITAZIONE ALLA GUERRA! H 19:30
Da Israele come faro per le democrazie occidentali, al popolo palestinese come cavia su cui sperimentare i dispositivi repressivi dello stato da applicare anche in occidente. Ne parleremo con i redattori e le redattrici dell’opuscolo “Democrazie reali. Israele come modello della nuova modernità per un occidente sempre più in crisi”
H 19:30 CIBO BIRRETTE E DISTRO/ H 21:00 DISCUSSIONE

24 NOVEMBRE
ALAVO’, LABORATORIO PER L’AUTOGESTIONE, VIA DUCA LANCIA DI BROLO (POLIZZI)
CONTRO LA GUERRA DEGLI STATI CONTRO IL GENOCIDIO: NON SI PARTE!H 17:00
Dal movimento siciliano “Non si parte!” ad oggi, sui sentieri della diserzione: ne parliamo con Letizia Giarratana e Pippo Gurrieri delle edizioni “la Fiaccola – Sicilia punto L” (Ragusa). A seguire piccola mangiata popolare

FORLÌ: PRESENTAZIONE DELL’OPUSCOLO “DEMOCRAZIE REALI. ISRAELE COME LABORATORIO E MODELLO DELLA NUOVA MODERNITÀ PER UN OCCIDENTE SEMPRE PIÙ IN CRISI”

Diffondiamo

Giovedì 21 novembre, presso il circolo Asyoli (corso Garibaldi 280,
Forlì)

alle ore 18:30 incontro con alcunx autorx dell’opuscolo
“Democrazie Reali”, un dossier che parte dall’assunto che, no, non c’è nessuna incompatibilità con la democrazia tra Stato sionista d’Israele, la sua occupazione coloniale della palestina (e del Libano ora) e le pratiche genocidiarie che sta attuando, come non c’è incompatibilità con la sua struttura di società-carcere hi-tech. Anzi. Lx autorx dell’opuscolo mostrano come la maggioranza delle democrazie occidentali siano già ben avviate sulla strada di una “israelianizzazione” dei propri assetti.

Ne Parliamo con alcunx autorx.

A seguire buffet vegan!!

(come sempre ci sarà del materiale informativo di critica radicale
all’esistente)

– Collettivo Samara –

NISCEMI: NO AI FOGLI DI VIA, SI AL CAMPEGGIO INVERNALE!

Diffondiamo

Durante il 4 agosto di quest’anno, alla manifestazione contro il MUOS, la risposta delle forze dell’ordine presenti era stata la repressione, con lacrimogeni lanciati a mano sui corpi di chi manifestava e manganellate fino a tarda sera.

Eravamo consapevoli che non sarebbe finita così.

Segnaliamo l’arrivo di notifiche di apertura indagini e avvio procedure per l’emissione di alcuni fogli di via nei confronti di alcune compagne, accusate di “travisamento e danneggiamento, con l’aggravante di aver procurato nocumento per una struttura ad uso pubblico”.

Abbiamo dunque alcune domande da porre a chi ci accusa:

1. Smantellare una struttura pubblica significa danneggiarla? Se sì, come possibile che è stato, ed è tutt’oggi, consentito lo smantellamento dei sistemi di sanità pubblica, formazione e servizi sociali in tutta Italia?

2. In che modo sarebbe di pubblico utilizzo un luogo come una base militare, in cui è interdetto l’accesso, che consente di bombardare – uccidendo milioni di persone indifese – e che avvelena la popolazione locale – emettendo campi elettromagnetici che provocano tumori e altri gravi disturbi alla salute?

3. Quel giorno abbiamo fatto una scelta, ed è stata quella di tagliare quelle reti a volto scoperto, e questa scelta la rivendichiamo. Vogliamo però segnalare che quel giorno, mentre quelle reti cadevano giù con la forza di mani e cesoie, la polizia ci lanciava addosso dei lacrimogeni con gas CS, il cui utilizzo in guerra è vietato dal 1997 a seguito della convenzione di Parigi sulle armi chimiche perché considerata arma nociva.

Noi non volevamo nasconderci, bensì difendere e difenderci. Difendere la sugherata, la Sicilia e i nostri corpi.

Rivendichiamo a viso aperto che quella base non la vogliamo e continuerà ad essere prioritaria la prospettiva di smontarla, Pezzo per pezzo.

Ribadiamo la nostra determinazione a liberare dall’occupazione militare le terre a cui apparteniamo, sia che siano ad occupare gli eserciti dei governi USA o quelli della NATO.

Queste notifiche non ci scoraggiano. Confermiamo come prospettiva a breve termine, che quest’anno per la prima volta si svolgerà a Niscemi il campeggio invernale, dal 29 dicembre 2024 al 3 gennaio 2025. Nel fare questo, rispediamo al mittente le accuse: la guerra non è un servizio né tanto meno è un servizio pubblico. 

Nel dirlo esprimiamo vicinanza e sorellanza con la gente palestinese, curda, armena, yazida, africana, sud americana e di ogni provenienza, ghettizzata, discriminata, vessata e torturata.

In questo drammatico momento storico ancor più siamo complici con tutti i sud del mondo e con tutti i popoli che si ribellano alle oppressioni coloniali e imperialiste.

Ama la musica, odia le guerre!

Ci vediamo a Niscemi per festeggiare insieme un capodanno di lotta!

NO MUOS FINO ALLA VITTORIA!

I TENTACOLI DELLA DETENZIONE TRA GUERRE E COLONIALISMI. NOTE DA UN SUD, TRA SCILLA E CARIDDI

Diffondiamo da Sicilia Noborder:

“Il nemico è potenzialmente chiunque”

Sabato 18 maggio, in occasione del corteo a Villa San Giovanni contro il progetto di costruzione del ponte sullo Stretto, sono apparsi degli striscioni in sostegno alla resistenza del popolo palestinese; in solidarietà ad un gruppo di compagnx in detenzione amministrativa in Grecia, inflitta a seguito dell’occupazione dell’Università di Atene in sostegno alla lotta di liberazione palestinese; ed infine, uno che chiama in causa le responsabilità di ‘Medihospes’, gestrice dell’hotspot di Messina, nelle colonie penali che il governo italiano ha iniziato a costruire in Albania. È infatti impossibile scollegare tra loro detenzione, invasione militare e costruzione di infrastrutture e ‘grandi opere’. 

Come siano intrinsecamente collegati tali dispositivi e collaborino tra loro nell’espansione delle ‘frontiere del capitale’ risulta evidente dal manifestarsi dei più ovvi interessi economici che si malcelano dietro azioni repressive e d’invasione. Infatti, esternalizzazione delle frontiere, localizzazione forzata di persone e presenza di presidi militari a diverse latitudini non sono altro che la manifestazione più materiale dell’alito cancerogeno di sua maestà il capitalismo, cui metastasi sono anche lo Stato e il braccio armato da questo costituito al fine di mantenerne in forze il potere esecutivo. 

Le politiche di morte e colonialismo che il progetto ponte prospetta e rappresenta non riguardano soltanto i territori dello Stretto. Non ci si può, infatti, soffermare solo sulla realizzazione del manufatto, ma bisogna anche tenere bene a mente le prospettive di guerra attraverso le quali si giustifica la costruzione dello stesso (“interesse militare”). Risulta sempre più evidente che l’estrazione di valore ad ogni costo non desideri incontrare opposizioni; arrogandosi la detenzione del ‘vero’ e del ‘giusto’, la loro tecnica vuole imporre un nuovo modo di concepirsi, un nuovo modo di viversi e di pensarsi. Tutti volti alla totale sottomissione a quello che viene definito come ‘interesse pubblico’, che è in realtà la chiara visione di chi concepisce lo spazio come qualcosa da conquistare e le persone come macchine o scarti di cui disporre a propria volontà. Basti pensare a tutta la scia di sangue che le società che oggi costituiscono ‘WeBuild’, hanno sparso e continuano a spargere da decenni dall’Africa all’America Latina. Dove le mega-opere, di carattere prevalentemente idro-elettrico, delle quali la società vanta la costruzione nel suo curriculum, hanno dapprima  cacciato, volenti o nolenti, persone che da generazioni abitavano quei luoghi; e, immediatamente dalla messa in opera di queste infrastrutture, compromesso l’habitat rendendolo inabitabile ad ogni sorta di essere vivente. 

Cantierizzazioni, cemento a tutto spiano, contaminazione delle acque, deviazione dei flussi idrici e ogni altra sorta di devastazione sono stati tutti garantiti e protetti dal fucile di eserciti, polizie e contractors; e da emendamenti e leggi dei governi di quelle nazioni che svendevano terre e persone a questo mostro vorace. Allo stesso modo, manganellate, lacrimogeni e processi fanno da macete nei sentieri impervi della conquista targata TAV o TAC; come anche centri di detenzione, colonie penali e motovedette fungono da ripulisti e messa a guadagno di persone altrimenti nemiche del loro ‘status quo’, dei loro confini, delle loro barriere. A guardarci bene il modello che si replica è sempre lo stesso, un concatemento d’azioni sull’esistente e sulle esistenze tutto volto al guadagno, che nel suo porsi in atto produce e riproduce repressione, morte e devastazione apparentemente irreversibile. 

Non ci si poteva certo immaginare che esistesse legge prodotta da un qualunque Stato in difesa degli espropriati; ad essere tutelato, infatti, è sempre l’espropriante. Ma questo la gente lo sa, nonostante ancora la mano tremolante mendichi talvolta tutela da parte del proprio boia, molte esistenze si ribellano, si rivoltano. Lo dimostrano le strade delle città nel mondo, lo dimostrano le colonne di fumo nero che si ergono dai centri di permanenza per il rimpatrio, lo dimostrano le università occupate, le rivolte nelle galere, le frontiere violate, lo dimostra ogni sguardo incendiario, ogni nuova affinità insorgente.  

Vecchi e nuovi orizzonti detentivi #1 I Cpr e la Palestina

Colonialismo e guerre diffuse sono il trait d’union di un presente mortifero che ci vogliono imporre dalla Palestina allo Stretto, passando per la Grecia e l’Albania. E chiunque voglia opporsi o anche solo dissenta a queste guerre esterne, chiunque metta in discussione la stabilità degli Stati in guerra e delle loro frontiere, diventa immediatamente un nemico interno da reprimere e criminalizzare. Sempre più diffuse e comuni sono infatti misure cautelari e di incarcerazione che erogano a cuor leggero i PM della nostra ‘cara’ repubblica italiana. Ed è in questo scenario che la detenzione amministrativa sta diventando uno strumento man mano più centrale di repressione, flessibile, immediato, veloce. Rivelando così, anche nella “democratica” Europa, la funzione che ha sempre avuto, sin dalla sua comparsa come strumento del dominio coloniale oltre un secolo fa. Strumento repressivo e genocida infatti, la detenzione amministrativa lo è sempre stata, sin da quando a essere confinate erano le popolazioni ancestrali degli odierni Stati Uniti, i contadini insorti contro il dominio coloniale spagnolo a Cuba, il popolo Herero sterminato dai coloni tedeschi nell’odierna Namibia. Questo elenco insanguinato potrebbe continuare.

Riportando lo sguardo al nostro presente, alcuni episodi di questi ultimi mesi indicano la direzione, in Italia e in tutto l’Occidente, dentro e fuori l’Unione Europea. A ottobre, pochi giorni dopo il sette, Mariam Abu Daqqa, storica leader del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, è stata fermata dalle forze di polizia a Marsiglia dove si trovava per una conferenza. Le è stata notificato un decreto d’espulsione dal territorio francese, in quanto considerata soggetto pericoloso capace di causare “gravi problemi di ordine pubblico” ed è stata così rinchiusa in un CRA e poi deportata in Egitto. Sulla stessa linea, in Italia, a Febbraio, Seif Bensouibat è stato licenziato dal liceo di Roma dove insegnava. Dopo aver espresso in chat di colleghi il suo sostegno alla resistenza del popolo palestinese, la sua abitazione è stata perquisita dagli agenti della DIGOS, atto giustificato con il pretesto del sospetto di “terrorismo”. Qualche giorno fa, poi, dopo aver organizzato un presidio insieme ad altrx fuori dall’istituto superiore che lo aveva licenziato, Seif è stato raggiunto da un provvedimento di espulsione a seguito della revoca dello status di rifugiato ed è stato così tradotto nel CPR di Ponte Galeria a Roma (da cui per ora è stato rilasciato). Negli stessi giorni della detenzione di Seif, ad Atene l’Università di Economia, occupata in sostegno alla resistenza del popolo palestinese, è stata sgomberata e 28 persone sono state arrestate. Tra lx arrestatx nove, di cittadinanza europea, sono state recluse in regime di detenzione amministrativa nel centro di Amygdaleza, uno dei più letali della Grecia, con la minaccia di deportazione. Qualche mese fa, poi, la macchina della deportazione ha colpito Jamal, un compagno di Torino che da tempo si organizza contro frontiere e galere. 

Nonostante evidenti differenze sulla linea del colore, la detenzione sta però chiaramente espandendo la sua funzione di soffocamento del dissenso nell’attuale congiuntura di guerra, consolidandosi come uno strumento di repressione interna adattabile e pronto all’uso, mentre il dissenso viene sempre più connotato come terrorismo (come nel caso del sanzionamento della sede di Palermo della Leonardo spa qualificato come atto terroristico). 

D’altronde il dispositivo della detenzione amministrativa trova parte delle sue origini storiche nella catastrofe della costituzione dello stato d’Israele, dove viene sistematicamente usata per tentare di disinnescare la resistenza palestinese. 

In Italia, soprattutto al Sud, i CPR hanno sempre asservito il compito di reprimere chi, soprattutto nelle campagne, si organizza e si oppone allo sfruttamento dell’agro-industria; inoltre, da anni contribuiscono alla repressione di chi si mobilita nei diversi settori della logistica contro quelle forme di schiavitù salariata che, data per scontata dai datori di lavoro, varia di intensità in base al gradiente del colore della pelle della persona sfruttata. I Cpr facilitano anche la speculazione che divora i centri storici delle città siciliane, come a Catania e Palermo. Qui, la turistificazione che incontra la lotta al degrado usa le retate e la conseguente detenzione amministrativa per eliminare dallo spazio urbano chi, razzializzatx, si ostina ad esercitare attività di sussistenza informali, sempre più criminalizzate.

La colonia, terra di frontiera, di saccheggio e gerarchizzazione feroce delle vite, è interamente attraversata da caserme, presidi militari e luoghi di detenzione. La Sicilia, per esempio, svolge le funzioni di una vera e propria piattaforma penale, dove l’industria carceraria e più in generale di detenzione prolifera ininterrottamente; solo nell’isola, infatti, vi sono 23 istituti detentivi e 2 CPR (più il CPRI di Pozzallo), 5 hotspots. Crediamo che tanto nelle sue funzioni di “controllo sociale”, quanto in quelle più espressamente deportative, il CPR mira a punire chi con le proprie azioni e il proprio corpo “indesiderato” mette in crisi la sovranità dello Stato, delle sue leggi, delle sue frontiere e delle sue guerre. D’altronde in questi quasi trent’anni di detenzione in Italia, i CPR sono stati attraversati particolarmente da quelle soggettività che più di tutte rappresentano un’eccedenza rispetto all’ordine ed al decoro della società ‘civile’ (spacciatori, criminali, sex workers, senza tetto, rumorosi, clandestini, e via dicendo). Merce perfetta per il mercato punitivo. Un sistema, quello dei CPR, che funziona in perfetta sintonia con quello delle carceri. In particolare in questi giorni, un pensiero non può che andare a tutte le persone rinchiuse nelle patrie galere perché palestinesi (come Ali, Anan e Mansour, rinchiusi con l’accusa di associazione terroristica e deportabili in Israele) o perché accusate di scafismo, ed in particolare a Maysoon Majidi, una donna curdo-iraniana che ha preso parte alle rivolte delle donne in Iran e che ora si trova nel carcere di Castrovillari, dove ha iniziato uno sciopero della fame, ed a Marjan Jamali, donna iraniana rinchiusa nel carcere di Reggio Calabria con le stesse accuse.

Vecchi e nuovi orizzonti detentivi #2 Il Cpr in Albania

Da 25 anni, però, “criminali” ed “eccedenti” distruggono e devastano i centri di detenzione in tutta Europa, e il loro coraggio è la principale forza che ne mette in discussione l’esistenza. E così, in questi giorni, dal centro di Amygadelza 8 compagnx sono uscite, ma la nona è ancora rinchiusa lì dentro, in sciopero della fame assieme alle persone razzializzate che da giorni hanno dato vita ad una serie di proteste. Così è proprio da lì dentro che ci suggeriscono una modalità possibile di opposizione e rivolta a questo sistema detentivo così intrinsicamente coloniale. 

A gennaio la rivolta al Cpr di Trapani non solo ha distrutto il 90% della struttura, ma, a seguito dei trasferimenti negli altri Cpr d’Italia, ha innescato una nuova serie di rivolte a Caltanissetta, a Roma (dopo la morte di Ousmane Sylla) e a Gradisca. Incendi, rivolte, fughe. I centri di detenzione in Italia oggi operano a capienza drasticamente ridotta (si parla di 50% dei posti resi inagibili), oppure chiudono, come successo a Torino, grazie al coraggio di chi li dentro vi è stato recluso. 

Ed è in questo contesto, che si staglia all’orizzonte la costruzione di nuovi Cpr in Albania. Il piano prevede un hotspot al porto di Shengjin, piccola città in via di turistificazione sulla costa, cinto da mura di quattro metri “per non far vedere cosa succede all’interno” e con tanto di ufficio di Frontex annesso; un centro di prima accoglienza e un Cpr a Gjader, nell’entroterra del paese, nell’area di un ex base militare. Qui sarebbe anche previsto un carcere da 20 posti, per chi oserà ribellarsi. Il tutto sotto la giurisdizione italiana. Italiane sono anche le imprese che stanno guadagnando dalla costruzione di questi centri. I lavori per i prefabbricati di Gjader sono stati affidati alla Ri Group di Lecce, azienda edile che da decenni sparge in giro per il mondo compound e altre strutture per diversi eserciti europei.

Come sempre, lo Stato è protagonista di questa azione tentacolare, imponendo la propria sovranità su un territorio oltre confine; complice delle atrocità commesse da quei secondini, che sono gli enti gestori, aziende senza scrupolo dedite all’accumulo di denaro al costo della vita delle persone. Ad assisterli ci sarà personale di polizia e militare italiano, a differenza di altri lager, come quelli libici, in cui lo Stato italiano ha deciso di versare milioni di euro, in Albania anche i manganelli canteranno l’inno di Mameli. Medihospes, cooperativa di assistenza sociale e sanitaria con sede a Roma, che gestisce l’Hotspot di Messina (oltre a centri d’accoglienza, RSA e altri servizi dell’economia della cura), avrebbe vinto il bando per la gestione del CPR in Albania. Gli “”operatori” di Medihospes saranno inviati per imprigionare uomini e donne nelle moderne colonie penali d’Italia. Giurisdizione italiana, sbirri italiani. Ci finiranno le persone provenienti dai cosiddetti paesi sicuri, la cui lista è appena stata allargata: Albania, Algeria, Costa d’Avorio, Camerun, Egitto, Gambia, Ghana, Marocco, Nigeria, Senegal, Tunisia, Bangladesh e altri paesi dell’area balcanica. Più che paesi sicuri, ci sembrano i paesi di origine di nutrite comunità presenti sul suolo italiano, criminalizzate e spesso refrattarie a farsi assorbire in logiche integrazioniste. 

L’esternalizzazione della frontiera europea è in atto da decenni: i muri spinati attorno a Ceuta e Melilla, l’esportazione di biometria e tecnologie di sorveglianza, la cooperazione con le guardie costiere libiche e tunisine, i tentativi di installare avamposti stabili di Frontex nei paesi africani. Le ragioni dell’esternalizzazione sono sicuramente molteplici: tenere lontane le persone dalla ricca Europa, ridurre le loro “tutele legali”, ma allo stesso tempo disciplinare i cosiddetti “paesi terzi” sotto il giogo neocoloniale dei piani di sviluppo, o di un possibile ingresso nell’Unione Europea. Questo è il caso dell’Albania, ma anche quello della Tunisia e, più di recente, dell’Egitto, o quello che si sta cercando di imporre a diversi paesi africani con il nuovo Piano Mattei. Continuare a imporre i tentacoli coloniali della decadente europa, cercare di fermare, in una maniera che non potrà che essere fallimentare, la voglia delle persone di venire a riprendersi ricchezza in quel continente che da secoli impone sulle vite loro e delle loro genealogie sfruttamento, distruzione e asservimento. È questo l’infame ma disperato tentativo italiano e occidentale.

Crediamo, infatti, che alla base di questi più recenti sviluppi (dagli accordi tra Regno Unito e Rwanda fino a quello tra Italia e Albania) ci sia soprattutto la volontà da parte di chi governa di spezzare le catene della rivolta e della solidarietà che si sono date in questi venti e passa anni tra il dentro e il fuori, che rende sempre più difficile tenere aperti i Cpr sul suolo “sovrano”. A maggior ragione in un momento in cui le strade delle città si riempiono di cortei determinati a condannare l’invasione genocida condotta dallo Stato d’Israele ai danni del popolo palestinese. Cortei, ma anche altri momenti di aperta contestazione, che vedono una sempre più nutrita partecipazione di persone arabe, di seconda generazione, figlie di migranti e magari anche persone che hanno in prima persona conosciuto le barbarie della detenzione amministrativa. Nelle piazze, nelle occupazioni, finanche in semplici discussioni ci si rende sempre più conto del ruolo coloniale dello Stato, lo si fa sempre di più attraverso gli occhi, le parole e le azioni di chi quelle frontiere assassine le ha sfidate e continua a farlo ognigiorno.

Esternalizzare non solo l’apparato poliziesco militare che cerca di impedire il movimento, ma anche i centri di detenzione e deportazione per coloro che in qualche modo sono riuscitx a varcarle le frontiere dell’Europa, è dunque un ulteriore tentativo di indebolire la forza della solidarietà, un tentativo di isolare ancora di più le persone recluse, un tentativo la cui efficacia è ancora tutta da dimostrare. Come se le persone albanesi non esistano, non si opporranno a questa invasione militare pacificata sulla loro terra, non mostrano e non mostreranno solidarietà con le persone recluse (che potrebbero essere loro connazionali, tra l’altro) e contro l’Europa fortezza. Come se queste reti non siano già qua, tra Albania e Italia.

Credono di rompere un tessuto di rapporti tra persone che co-spirano, ossia respirano insieme immaginando mondi con una potenza di cui la realtà burocratica di Stati, nazioni, partiti ha paura. Vedranno rafforzarsi connessioni tra dentro e fuori, tra più sponde del Mediterraneo. 

Orizzonti di guerra

Il ponte sullo Stretto, come anche la costruzione del CPR in Albania, rappresentano la stessa logica d’invasione e repressione che caratterizza sin dagli albori della ‘modernità’ coloniale il pivot di ogni nazione. Conquista di corpi e territori ed estrazione di profitto: nelle galere e CPR, con l’industria detentiva; nei territori martoriati da trivelle e seppelliti dal cemento; nella terra devastata da pale eoliche e pannelli solari; nei non-luoghi della produzione; nelle città e nelle coste dove il turismo distrugge la biosfera ed espelle glx abitanti. La guerra totale che ci stanno imponendo si alimenta con quanto si lascia avvenire in questa nazione: le industrie belliche italiane fanno profitto sul genocidio in Palestina, sui massacri in Sud sudan e nelle altre guerre che i media nascondono; la marina militare italiana interviene in Yemen; il ponte sullo stretto viene salutato dalla Nato che potrebbe così meglio collegare le sue basi militari; la ricerca pubblica finanzia l’affinamento degli strumenti di morte di Frontex e Israele. 

Le ossessive attenzioni nel contrastare le voci di dissenso che si fanno sempre più presenti in giro per il suolo nazionale confermano che la repressione può colpire chiunque e che le distinzioni sono anche distraenti, dannose. Siamo tuttx chiamatx a difenderci dall’esistenza dei confini. Lx compagnx europee che sono state rinchiuse in un CPR greco sono ora marchiate come pericolose sul database SIS di schengen, proprio come avviene per le persone non europee che vengono trovate a varcare o rivarcare i confini esterni e interni dell’Europa. Chi esprime contrarietà alla guerra può ritrovarsi deportatx. Non possiamo dunque considerare l’esistenza di una linea di demarcazione chiara, una netta separazione tra ‘zone di guerra’ e ‘zone di pace’; non possiamo considerare che esistano luoghi veramente esenti dall’agire repressivo di Stato e capitale. Questo, se anche mai sia stato vero, oggi lo è meno che mai. Le formule della repressione vengono apprese da altri Stati ed a sua volta importati all’interno del confine giurisdizionale di altri Stati ancora, questo lo conferma l’apprendistato che il mondo Occidentale fa nell’osservare le formule detentive e coercitive messe in opera dallo Stato sionista, tra le altre cose. 

Imprigionare i e le palestinesi, chi si oppone al genocidio e supporta la resistenza è un tentativo di reprimere la forza della solidarietà tra gli oppressi. Esternalizzare, alla stessa maniera, è un tentativo di rompere le maglie della solidarietà tra gli oppressi. Ma come già abbiamo avuto modo di scrivere, questo tentativo di cristallizzare le resistenze, di frammentarle e disseminarle trova la conferma della sua tendenziale inefficenza nei continui momenti di vicinanza e solidarietà allx prigionierx in ogni luogo del mondo. Ogni incarcerazione accresce la determinazione nell’affrontare questa macchina repressiva, che deporta ed uccide. 

A questo scenario di guerra dobbiamo continuare ad opporci, a noi il compito di mobilitarci contro tutti i padroni nei nostri territori, a partire dai CPR e chi li gestisce, qui e altrove. Le nemiche di questo regno della definizione gerarchica sono ovunque, i nemici del loro pallido sopravvivere si annidano anch’essi ovunque. La ruggine si è già insinuata negli ingranaggi della loro macchina di tortura.

Lottare al fianco del popolo palestinese è lottare anche per la nostra stessa liberazione! 

“Coloro che, quand’anche la libertà fosse interamente persa e bandita da questo mondo, se la figurano e la sentono nel proprio spirito, e l’assaporano e che la servitù disgusta, per quanto bene la s’acconci”– E. La Boétie

Approfondimenti:

– Sul progetto del Ponte: https://nopassaran.noblogs.org/2024/05/cemento-mori/

– Sulle detenzioni in chiave anti-palestinese: https://radioblackout.org/2024/05/prigionieri-per-reati-dopinione/

– Su altri usi della detenzione amministrativa in UE: https://lavampa.noblogs.org/post/2024/05/25/breve-aggiornamento-dalla-grecia-e-riflessioni-a-margine/

– Su altri usi della detenzione amministrativa in Francia: https://www.monitor-italia.it/prevenire-e-punire-altri-usi-della-detenzione-amministrativa/

– Sui Cpr in Albania: https://radioblackout.org/2024/02/arriva-il-via-libera-per-i-cpr-italiani-in-albania/

https://nocprtorino.noblogs.org/post/2024/04/30/podcast-da-harraga-accordo-italia-albania-fra-stratificazione-coloniale-e-devozione/

–  Comunicato della compagna in sciopero della fame nel CPR in Grecia: https://www.rivoluzioneanarchica.it/grecia-sciopero-della-fame-per-la-palestina-nel-centro-di-detenzione-di-amygdaleza/

IMOLA/FAENZA: DUE GIORNI BENEFIT PER LA CASSA ANTIREPRESSIONE CAPITANO A.C.A.B. [24-25 MAGGIO]

Diffondiamo:

* 2 GIORNI BENEFIT PER LA CASSA ANTIREPRESSIONE CAPITANO A.C.A.B. *

24 MAGGIO AL BRIGATA PROCIONA v. Riccione 4 – Imola: SULL’ANTIMILITARISMO.

Ore 19:00
Presentazione della due giorni.
Ore 19:30
Cena con il Piatto Unico del Vascello Vegano
Ore 20:00
Presentazione dell’opuscolo “GUERRA IN UCRAINA. IL DIBATTITO IN CAMPO ANARCHICO”
di e con Piccoli Fuochi Vagabondi.
Ore 20:30
Proiezione della Video/intervista “VOCI ANARCHICHE DALLA RUSSIA”
Ore 22:00
Sul palco: Autotomia (Hc & smoken words remembering from le colline contese tra Emilia e Romagna)
M.A.I. (HC da nessun luogo)
KLAVA (Cavemen riffs da Bologna)

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25 MAGGIO AL C.S.A. CAPOLINEA v. Volta 9 – Faenza: SULL’ANTISPECISMO.

Ore 13:00
Strozzapreti del Vascello Vegano
Ore 15:30
Presentazione della due giorni
Ore 16:00
Proiezione del documentario “FOOD FOR PROFIT”.
A seguire riflessioni e confronto sulle vecchie campagne di liberazione animale.
Ore 19:30
Presentazione della MOSTRA FOTOGRAFICA “FISH – LA STRAGE INVISIBILE” di e con Stefano Belacchi.

…..a seguire SI BALLA!!!
Sul palco, i migliori DJ di DISCOSCARICA si alterneranno ai piatti:
Dj Teschio, Dj Niggy, Dj Rigoletto, Dj Scortese, ….

PER TUTTA LA GIORNATA:
– Pizza al forno a legna
– Banchetti informativi

Il Capolinea è abitato da gattx, se porti il cane stacci in occhio.

PALERMO: ASPETTIAMO INSIEME L’ESITO DELL’UDIENZA DI RIESAME DELLE MISURE CAUTELARI

Diffondiamo:

Dal 21 marzo scorso, nell’ambito delle indagini per un’atto di protesta alla sede della Leonardo di Palermo, azienda italiana leader mondiale di mezzi e tecnologie militari, tre compagnx si trovano raggiunti da misura cautelare (uno in carcere, due con obbligo di firma). Un impianto accusatorio tutto basato sulla diffusione di un video tramite il portale di informazione antudo.info. Ci chiediamo, allora, quanto la libertà di informazione sia davvero tale. Fare luce sulle complicità di aziende come la Leonardo Spa con le guerre in corso, significa istigare a delinquere? O lo è rendere evidente chi sono i responsabili del genocidio in corso?

Lunedì mattina al tribunale di Palermo si discuterà della possibilità di confermare le misure o attenuarle. Un momento importante per ribadire che continueremo a esplicitare la nostra contrarietà alla complicità del governo nelle guerre che infiammano il Mediterraneo e dire basta ai profitti sporchi di sangue che lo Stato italiano continua a realizzare tramite la Leonardo SPA.

Invitiamo tutti e tutte coloro abbiano a cuore la libertà di stampa e di espressione, e che vogliano mostrare vicinanza a chi si trova in questo momento privato della propria libertà, a ritrovarci davanti al tribunale di Palermo alle 9.30 lunedì mattina per aspettare l’esito dell’udienza.

PALERMO: ARRESTI E MISURE CAUTELARI PER UN’AZIONE CONTRO LEONARDO SPA

Diffondiamo:

Questa mattina la Questura di Palermo ha eseguito tre misure cautelari, due obblighi di firma e una custodia cautelare in carcere per tre militanti di Antudo. Le accuse del PM, poi ridimensionate dal GIP, sono quelle di atto terroristico, detenzione di materiale esplosivo, diffusione di materiale informatico, per un sanzionamento ai danni di una sede di Leonardo SPA in via Villagrazia a Palermo. Le immagini del sanzionamento erano state ricevute e divulgate sul portale di informazione antudo.info.

A seguito della pubblicazione del video, i componenti palermitani della redazione erano stati già raggiunti da perquisizioni e sequestro di dispositivi informatici.

Un impianto accusatorio assurdo tutto basato sulla diffusione di un video. Ci chiediamo, allora, quanto la libertà di informazione sia davvero tale. Se per il solo motivo di evidenziare la complicità di Leonardo alla guerra si possano attivare tali misure repressive.

É ormai ben noto come l’azienda Leonardo, partecipata statale, sia pedina bellica ed economica fondamentale in questo momento sullo scacchiere mondiale. Infatti mentre il P.M. continua a battere sull’accusa di terrorismo, il GIP afferma l’ inconcludenza delle accuse, ridimensionandole.

Ma non sembra casuale che queste misure arrivino all’alba di stamattina, proprio in un periodo in cui a causa delle proteste contro la guerra e il genocidio in atto a Gaza, la Leonardo è divenuta obiettivo di manifestazioni, presidi, petizioni per denunciarne i profitti miliardari sulle tecnologie militari. Ci sembra un ulteriore segnale di quanto le proteste contro la guerra e le sue industrie sporche di sangue vadano represse anche tramite la privazione della libertà di chi si oppone alle scelte guerrafondaie dello stato italiano e della Nato.

Sono, in effetti, questi mesi, in cui il gruppo Leonardo SPA ha visto esponenzialmente crescere profitti, assunzioni, investimenti e un’ implementazione della produzione di armamenti e tecnologie militari.

Mentre dall’altro lato del Mediterraneo con i droni prodotti da questa azienda, vergogna made in Italy, Israele bombarda la popolazione civile della striscia di Gaza, chi fa luce sulle responsabilità viene raggiunto da misure repressive. Chiediamo con forza la chiusura delle fabbriche di morte e la libertà per tutti coloro che lottano e si oppongono alla guerra.

BOLOGNA: CONTRO LA VIOLENZA MASCHILE E DI STATO

Diffondiamo un testo scritto a Bologna da alcune compagne eretiche, transfemministe e antiautoritarie:

CONTRO LA VIOLENZA MASCHILE E DI STATO. Ci proteggono le nostre compagne non il pacchetto sicurezza 

Abbiamo appreso con rabbia e dolore che Giulia Cecchettin è la 105esima vittima di femminicidio di quest’anno. Vorremmo dirci stupite, ma lo sapevamo già tutte. È la storia che si ripete da secoli, a ciclo continuo, che stronca le vite di compagne e sorelle per il desiderio maschile di dominarle, assoggettarle, annichilirle.

Negli ultimi mesi abbiamo assistito ad una crescente spettacolarizzazione dei casi di violenza di genere che hanno ricevuto attenzione mediatica, la dinamica è sempre la stessa, mentre si racconta morbosamente la violenza nei minimi dettagli, costringendo la persona coinvolta a ripercorrere costantemente l’accaduto, si cerca di fissare una distanza tra chi commette violenza e la società civile. Lo abbiamo visto succedere a Palermo e lo stiamo rivedendo accadere in questi giorni: chi ci stupra o uccide diventa il “mostro”, il “pazzo”, l'”animale”, troppo difficile ammettere che invece si tratta di una persona “inserita”, conosciuta, un compagno, un amico, un familiare, un conoscente, “quello che non farebbe male a una mosca”, è lo stesso motivo per cui in tante circostanze non siamo credute. È questa normalità che riproduce relazioni di potere e assoggettamento che combattiamo, in famiglia, nelle case, sul lavoro, per le strade.

Si è parlato in questi giorni con indignazione del risentimento che l’assassino mostrava nei confronti della laurea imminente di Giulia, incapace di accettarne l’autonomia, i traguardi, ma se scaviamo, l’odio covato da quest’uomo non ci stupisce e ritorna ben presto familiare. Lorenzo Fontana, attuale Presidente della Camera ed ex ministro della famiglia e della disabilità, figura cardine del Congresso Mondiale delle Famiglie di Verona del 2019, nel suo testo “La culla vuota della civiltà: all’origine della crisi” senza tanti giri di parole accusa della crisi in corso proprio le donne. Donne che studiano, pensano, si laureano, non si dedicano alla famiglia e non fanno figli. Secondo l’ex ministro attuale Presidente della Camera sono le donne che si sottraggono al loro ruolo di riproduttrici e ancelle del focolare che creano la crisi della nostra società, non chi sfrutta e si arricchisce sulla pelle di comunità e territori, annientandoli. Fontana del resto non fa altro che inserirsi in una lunga genealogia di attacco ai nostri corpi: non dimentichiamo che l’aborto, oggi più che mai minacciato – anche a causa di una normativa che spesso impedisce fattivamente di abortire – era, secondo il codice Rocco, un reato contro «l’integrità e la sanità della stirpe». Una donna non può scegliere se essere madre o se non esserlo: deve riprodurre la società che le uccide, altrimenti è una donna snaturata. Mentre sui giornali si parla di emergenza femminicidi e di uomini impazziti che cedono a raptus, ci si dimentica della continuità storica tra la violenza istituzionale nei confronti delle donne e ciò che si riproduce nelle case e per le strade. Una lunga tradizione di oppressione se si pensa che oltre alla negazione del diritto all’aborto, in Italia il delitto d’onore e il matrimonio riparatore sono rimasti in vigore in Italia fino al 1981.

Omicidi e violenze non sono casi isolati, non sono emergenze improvvise dove lupi venuti dal nulla fanno sembrare la nostra rassicurante quotidianità una serie di true crime. La violenza di genere non è un “problema di ordine pubblico” ma qualcosa di strutturale e sistemico che pervade ogni ambito della nostra normalità. Le lacrime di coccodrillo di una società ipocrita a pochi giorni dal 25 novembre non ci interessano.

Amaramente possiamo pensare che, sì, i nostri corpi valgono, amaramente… perchè nella società capitalista e coloniale i nostri corpi valgono solo quando la loro messa a valore è funzionale a riprodurre lo stato nazione bianco, quando reggiamo le famiglie sulle nostre spalle, quando scandiamo la nostra esistenza tra il lavoro salariato sfruttato e gli istanti di un lavoro domestico invisibilizzato. I nostri corpi valgono se siamo dispensatrici univoche di cura, dedite all’uomo, al padre, al capo, sempre disponibili al ruolo di accudimento. I nostri corpi valgono nella misura in cui sono utili alla propaganda dell’emergenza del politicante di turno che vuole assicurarsi qualche voto in più promettendo “sicurezza contro le barbarie”. Una sicurezza che si pretende arrivi senza che sia messo in discussione l’assetto sociale, e che si traduce nel razzismo sulle persone migranti, nella classificazione di “zone della paura”, nell’aumento di militari e polizia per le strade, in retate nei quartieri, arresti e carcere.

Secondo i dati istat, i crimini violenti si sono sistematicamente ridotti dal 1980 a oggi. L’unico dato in lieve aumento sono appunto i femminicidi. Quella che è cambiata radicalmente, in questi anni, è la percezione di un’assenza di sicurezza. Addomesticatx da anni di retoriche dell’emergenza, ci siamo piegatx alla paura, sempre più alienatx. E così ritorna il vecchio motivetto colonialista e fascista: bisogna proteggere le nostre donne dal pericolo nero. Si legifera sui nostri corpi per assoggettare altri corpi, generalizzando risposte punitive e repressive su parti di popolazione proveniente da specifici contesti sociali e territoriali. Il nome di un luogo che ha visto coinvolti ragazzi minorenni in gravi atti di violenza di genere, diventa il nome di una legge in cui la violenza di genere non è assolutamente il focus dell’intervento ma soltanto il pretesto per prendere provvedimenti di natura autoritaria verso fasce di popolazione già marginalizzate come i minorenni delle periferie.

A Bologna in questi giorni un giornale locale riportava che “sono stati soprattutto giovanissimi nordafricani gli autori di violenze sessuali in luoghi pubblici a Bologna.” Giovane, nordafricano, stupratore. Questa l’equazione di chi vuole parlare alle pance per raccogliere consenso.

Non ci rende sicure una società che si autoassolve e che delega a esercito e militari un problema sul quale essa stessa si basa. La divisa che ci bastona per le strade e ci incarcera quando ci difendiamo o lottiamo per una vita radicalmente diversa fa parte del problema, non è la soluzione. Di questa sicurezza che istituzionalizza e riproduce l’uso patriarcale della forza e della prevaricazione non ce ne facciamo nulla. Non sarà armare di più le forze dell’ordine a renderci sicure. Non sarà un inasprimento delle punibilità su chi usa violenza, che fermerà la violenza.

Desideriamo ripensare a tutto un altro genere di sicurezza, a tutto un altro genere di famiglia, a tutto un altro genere di comunità e di vita, che metta in discussione alla radice la violenza maschile e lo sfruttamento predatorio che si abbatte anche sugli altri corpi, che rimetta al centro la sorellanza, la solidarietà tra oppressx, la lotta per un mondo di libere e uguali, la cura reciproca e l’autodeterminazione.

Bologna, novembre 2023

Alcune compagne eretiche, transfemministe, antiautoritarie