IL VOSTRO PROGRESSO, LA NOSTRA COLONIZZAZIONE. NOTE DA SUD, TRA SCILLA E CARIDDI

Da Stretto LibertariA, diffondiamo questo testo in vista del corteo No Ponte del 10 agosto a Messina.

Il mese scorso, le commissioni Giustizia e Affari costituzionali della Camera hanno approvato un emendamento al pacchetto sicurezza che intende inasprire le pene per chi protesta contro le grandi opere infrastrutturali, come il ponte sullo Stretto o la TAV (tra le tante in corso di realizzazione o di progettazione).

L’emendamento, proposto da un deputato leghista e sottoscritto anche dagli altri partiti di maggioranza, intende colpire chi protesta in modo “minaccioso o violento” contro la costruzione di una grande opera pubblica o di un’infrastruttura strategica, rischiando oltre 25 anni di carcere. Si introduce poi una nuova aggravante del reato di resistenza a pubblico ufficiale: le pene aumentano “se la violenza o la minaccia è commessa nel corso di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero con armi; o da persona travisata; o da più persone riunite; o con scritto anonimo o in modo simbolico”.

Come se non bastasse, lo Stato potrà anticipare le spese legali agli “ufficiali o agenti di pubblica sicurezza indagati o imputati per fatti inerenti al servizio”, dunque accusati di violenza nei confronti dei manifestanti; addirittura raddoppiano il budget che passa da 5000 a 10000 euro per ciascuna fase del procedimento processuale. In totale, per la difesa degli sbirri violenti vengono stanziati 860mila euro l’anno, a partire dal 2024.

In una spirale di forsennato giustizialismo e legalismo nel nome del “progresso”, la scure della repressione si abbatte sulle individualità in lotta per sottrarre alle sporche mani di Stato e capitale tutti quei territori, come anche quello ‘libidico’, presi costantemente di mira da interessi di speculazione e mero guadagno economico.

Mentre la Sicilia è in piena emergenza idrica e interi quartieri della città di Messina si ritrovano senza più acqua nelle case – è notizia recente che in questo contesto, come sempre avviene nei momenti emergenziali, la rete idrica di Messina e provincia è stata privatizzata – continuano spietati i piani di dominio e distruzione del vivente, che intendono sacrificare corpi, comunità e territori sull’altare del progresso. Così in nome di questo presunto sviluppo si giustificano enormi appropriazioni indebite delle nostre esistenze tutte: il loro progresso è solo un ricatto, la loro visione di “migliore”, intrisa di un ‘do ut des’ spietato ed unicamente a nostre spese, non propina mai sviluppo se non in cambio del nostro esistere, dell’essere al mondo. Così che il fetido avanzare delle frontiere del capitale necessita dell’innervatura linfatica affinché questo corpo, formato da diversi organi, possa crescere e crescere, senza mai badare alla distruzione del suo passare.

Di certo non si considera la costruzione delle infrastrutture del capitale mai priva di compromessi e devastazione, ma i contorni si fanno ancora più cupi quando un mega progetto infrastrutturale, come quello del ponte sullo Stretto, finisce con il diventare il ‘pivot’ di ogni altro progetto, assorbendo in sé ogni piano pregresso e futuro circa quel determinato territorio. In poche parole, un ricatto bello e buono. Così che mentre si aspetta l’ufficiale iniziare di trivellazioni, espropri e furti vari, insomma della cantierizzazione totale, i detrattori del nostro presente e futuro hanno gia portato qui tutte le loro macchine di morte, che si infiltrano nel nostro humus vitale come talpe.

Ci chiediamo allora quale progresso possa essere quello che ha trasformato la Sicilia in una terra di petrolichimici, basi e poligoni militari, raffinerie, galere ed emigrazione forzata. Un “progresso” che vende posti di lavoro in cambio di veleni e malattie, radiazioni elettromagnetiche e militari per le strade. Supposti sviluppi arrivati in Sicilia promettendo futuri radianti e dignità a colpi di lavoro: lo abbiamo già visto, ad esempio, con il polo petrolchimico nel siracusano, una zona ormai compromessa da esalazioni e corrosione degli spazi. Case vennero abattute per fare largo a questi mostri, lavoro venne promesso; ed infine, crescita economica a dismisura per tutti e tutte. Quello che si è ottenuto è povertà, monopolio dell’indotto lavorativo della zona, malattia ed aria cancerogena. Dov’è finito il futuro radioso? Quale riscontro con la realtà avevano le promesse vuote di signori della politica e del business? Quelle torri che esalano fumo nero simboleggiano, tronfie e prepotenti, l’inganno del progresso e della delega che ha trasformato in mera gestione amministrativa lo stesso processo vitale. Rappresentano le grinfie del luminoso oblio entro la quale ci vorrebbero costringere. Rappresentano anche quello stesso inganno che si sta profilando per le persone dello Stretto.

Il progetto del ponte sullo Stretto, nella retorica dei detrattori della vita, sarebbe funzionale ad accelerare i processi di turistificazione, fonte a loro volta di lavoro precario e sottopagato per chi in questi territori ci vive e non viene in vacanza. La solita storiella che eguaglia turismo e ricchezza diffusa per gli abitanti di un luogo non è altro che l’ennesima menzogna malcelante un futuro (immediato) di estrazione forzata e devastazione diffusa, in cambio di sole briciole (come se poi un qualunque supposto guadagno potesse essere bastevole per la posta in gioco).
Se dunque da una parte la Sicilia viene venduta come una vetrina per turisti, una sorta di paradiso terrestre dove trascorrere le ferie, andare al mare e degustare il buon cibo locale; dall’altra parte si concretizza come una tra le frontiere che continua a uccidere quotidianamente, trasformando il Mediterraneo in un cimitero per chi non ha avuto il privilegio dei “requisiti” giusti per attraversarlo. Ricco, bianco e occidentale?! Allora benvenuto; se sei povero, migrante e non bianco, invece, la deportazione verso il CPR o carcere più vicino diventa come un percorso naturale, una sorte quasi scontata.

Strumenti, quelli detentivi, di messa a profitto di quei corpi “altri” da cui immunizzarsi! Solo su quest’isola ci sono ventitre istituiti detentivicinque hotspotsdue CPR (più il CPRI di Pozzallo), che rendono la Sicilia una vera e propria colonia penale. Quindici tra basi e installazioni militari USA, due (quelle ufficiali) basi NATO, tre raffinerie.
Uno scenario devastante, un territorio violato e violentato nel nome del profitto e dell’estrazione di risorse. Terre evidentemente da rendere inabitabili, da spopolare e mettere a servizio di loschi affari; come la costituzione di poligoni di tiro, dove fare il “giochetto” della guerra, stesso giochetto che garantisce morte e conquista altrove (e neanche troppo altrove); estrazione di energia rinnovabile, nuove strutture del capitale, al servizio sempre della sola produzione e, dunque, della schiavitù umana; costituzione di hub logistici, stesso piano entro cui si inscrive la costruzione del ponte sullo Stretto; e a rischio di ripetizione, il proliferare dei luoghi di detenzione, della localizzazione forzata delle persone, muri che sono argini per la gioia umana.

Ed arriviamo alla Calabria, costellata di cattedrali nel deserto e opere incompiute.

Mentre la nostra sfera del desiderio, ricca dello Stretto indispensabile, va letteralmente in fumo insieme ai nostri boschi secolari, le nostre sorgenti sono secche e le falde ormai prosciugate, le cattedrali nel deserto continuano a configurarsi come l’unica possibilità per i nostri territori, monumenti a scempio delle nostre vite sacrificate sull’altare di un presunto sviluppo di cui non sentiamo alcun bisogno, approccio coloniale dello stato italiano garantito dall’avallo colluso della classe politica regionale e locale e dal malaffare ‘ndranghetista. Opere pubbliche se completate lasciate marcire nel degrado, oppure a malapena cominciate e poi abortite, benché finanziate con grande sperpero di pubblico denaro. Uno sfacciato spreco di risorse economiche che avrebbero dovuto essere impiegate altrove. E così non smettiamo di essere terra di incessante emigrazione e di mancata accoglienza, di servizi e trasporti pubblici assenti.

Ma non siamo più negli anni in cui, in nome del progresso e dello sviluppo di questo stato nazione, che continua a trattarci come colonia da sfruttare e da cui estrarre valore fino alla nuda vita, dobbiamo continuare a barattare il pane con la morte, una Calabria terra di lavoro avvelenato come nell’ex polo chimico Montedison della Pertusola a Crotone, città edificata con i rifiuti tossici e i veleni industriali impastati nei materiali di costruzione di case e strade. Terra di promesse e pacchetti fantasma: il V Centro Siderurgico nella Piana di Gioia Tauro, la Liquichimica di Saline Jonica, impianti morti prima di essere nati, terra di espropri e scempi ambientali, di bonifiche mai effettuate, di discariche private più o meno autorizzate ma sempre supertossiche, di torrenti che straripano e interi territori che franano, di utilizzo delle ‘ndrine per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi, interrati in grotte e fiumi o nelle “navi dei veleni”, carrette del mare stipate di fusti di scorie nucleari, affondate a decine lungo le nostre coste, di dighe costate centinaia di miliardi, come la diga sul Metramo mai collegata alla rete di distribuzione né per uso potabile né per uso irriguo a servizio della Piana di Gioia Tauro,  mentre città e campagne bruciano di sete o bruciano letteralmente negli incendi annualmente programmati all’arrivo del solleone e il deserto continua ad avanzare.

Si esortano le famiglie all’uso consapevole dell’acqua per evitare gli sprechi, ma non si mette in atto alcun intervento per evitare le enormi perdite di acquedotti vecchi ridotti a colabrodo. Così si invoca a gran voce l’arrivo di piogge in piena estate, le uniche che possono salvarci dal morire disidratati. Anzi Sorical ci consiglia di utilizzare per tanti usi l’acqua già usata. Si grida alla siccità ed al pericolo della desertificazione, ma si continuano a tagliare boschi per piantare pale eoliche e costruire le strade solo per il transito dei megatir necessari ai cantieri. Sull’altare della transizione verde lo stato italiano e le grandi multinazionali dell’energia stanno facendo grossi affari e chiunque proverà ad opporsi verrà duramente perseguitato grazie all’ultimo decreto sicurezza. E così su montagne e colline ancora incontaminate e al largo delle nostre coste ioniche svetteranno gigantesche pale eoliche e  i campi agricoli si stanno riempendo di pannelli fotovoltaici. Il Marchesato crotonese, le Preserre catanzaresi e vibonesi, la Locride sono i territori in cui avanza l’aggressione incontrollata dei nuovi megaimpianti eolici: 440 impianti attivi e 157 progetti in corso.

Ma la stessa nuova sfrenata corsa alla produzione di energia green non riesce a staccarsi dalla modalità di lasciarsi dietro delle cattedrali nel deserto. Gli impianti green divorano il nostro territorio, ma troppo spesso sono impianti fantasma: pale eoliche pronte all’uso mai messe in funzione, come le mostruose torri eoliche del crotonese, a centinaia sparpagliate per chilometri ma ne girano pochissime; o interi tetti di scuole ricoperti di pannelli fotovoltaici mai collegati alla rete di distribuzione. Ad Antonimina alle porte dell’Aspromonte, la torre eolica di 150 metri nella magnifica località del monte Trepizzi non ha mai preso a funzionare. In questo assalto ammantato di green si inserisce anche il progetto del rigassificatore alle spalle del porto di Gioia Tauro e proliferano impianti proposti come assolutamente innovativi, come la criminale idea di una centrale idroelettrica di pompaggio dell’acqua del mare che la multinazionale Edison chiede di piazzare poco distante da Scilla in piena zona di protezione speciale della Costa Viola. Appalti milionari per progetti ambiziosi e di interesse nazionale, grazie alle facilitazioni procedurali garantite dal pacchetto energia del Governo Meloni, che pensa alla nostra regione come un hub energetico tutto proiettato all’esportazione dell’energia elettrica prodotta (ne esportiamo già i 2 terzi di quella che produciamo grazie anche alle 4 centrali a turbogas già in funzione). Si continuano a progettare opere prima di aver fatto gli studi adeguati; così poi si trova cobalto radioattivo scavando gallerie, come è stato per l’arteria stradale Sibari- Sila o per l’aviosuperficie di Scalea, costruita sul letto di un fiume ad elevata pericolosità e limitrofa ad una zona di protezione speciale, per di più interessata a fenomeni di erosione.

Come puoi tu, calabrese o siciliano, credere che il Ponte sullo Stretto non rientri in questa logica illogica di (non)costruzione e pura devastazione? Come puoi tu credere più alle parole di un nessuno proveniente da altrove, che ai tuoi occhi e ai disagi che vive la tua gente? E non è lampante dunque che quest’ultima trovata dello spacchettamento del progetto definitivo in fasi costruttive non produrrebbe altro che una nuova annunciata devastante incompiuta di uno sviluppo di cui non abbiamo alcun bisogno?

Sappiamo bene verso dove volgere questi sguardi, sappiamo bene chi e quali strutture ci costringono in queste catene. Sappiamo bene che firma porta la militarizzazione sfrenata ed il profitto sul sangue, sappiamo bene anche chi sono i complici, colpevoli tanto quanto gli ideatori di questi foschi intenti. Leonardo S.p.a. capolista delle fabbriche di morte, paziente zero dell’economia targata bombe e bombardamenti, droni e software di spionaggio utili alla repressione di popolazioni in rivolta. RFI, complice del monopolio armato di capitalisti e statisti firma accordi di precedenza a tutto campo della mobilità militare, immaginando sempre di più la propria infrastruttura a misura bellica. WeBuild, incaricata del riadattamento del manto autostradale per renderlo idoneo al passaggio di mezzi, anche pesanti, militari. Stretto S.p.a., della serie “duri a morire”, ripresenta il tombale volto di Ciucci a rassicurare tutte e tutti circa la cura del territorio di cui è capace una società che, sotto il nome Salini-Impregilio, si è macchiata di crimini orribili durante la realizzazione di mega infrastrutture idro-elettriche in paesi dell’Africa e del Sud-America. Medihospes, società gestrice del hotspot di Messina, vince gli appalti per la gestione dei futuri CPR italiani nei confini albanesi, a braccia aperte brama e produce profitto sull’accoglienza e la CARCERAZIONE dei migranti.

Tutti tentacoli del capitalismo che dirigono ogni loro sforzo e azione verso l’aridificazione della Terra e degli spiriti di chi la abita con la sfacciata connivenza di Stati e governi, con la spietata tutela di sbirri, eserciti e procure che sempre meno lesinano nel premere grilletti, far scoccare manganellate, saturare l’aria di gas lacrimogeni ed infliggere condanne liberticide che si configurano come vere e proprie torture.

Lo Stato italiano tortura, lo fa attraverso il braccio armato dei suoi sgherri; lo fa finanziando lager in LibiaCPR in Albania, con ogni esternalizzazione delle frontiere e la complicità di Frontex o altre cooperative intrallazzate nella c.d. “accoglienza”. La morsa repressiva non smette di stringersi, si adopera con nuovi strumenti legislativi ed esecutivi, innervando le città di occhi elettronici e dotando di sempre più strumenti offensivi gli operatori di polizia. Quanto più aumenta il potenziale di conflitto determinato dalla pressione oppresoria dello Stato, tanto più aumenta il pericolo per il loro monopolio della violenza, tanto più per noi è un segno che le gambe del Leviatano adesso tremano. Più la bestia affila gli artigli più significa che si sente sotto attacco; tanto più si avvicinano le ‘notti bellissime’ tanto più si inasprirà il conflitto interno ad opera delle istituzioni contro i vagabondi di pensieri erranti, di logiche e pensieri ‘altri’, completamente stranieri, completamente indefinibili e, dunque, liberi.

Un pensiero non può che essere allora rivolto a chiunque lotta contro le galere; a chiunque continui a bruciare quei centri di detenzione e rimpatrio; a tutte quelle persone che quotidianamente sfidano la fissità dei confini; a chiunque resista e combatta questa macchina fagocitante e distruttiva. Ad ogni compagna e compagno con lo sguardo incendiario che non permetterà mai a nessuno di occultarlo ne tantomeno di spegnerlo. Ad ogni insurrezione, personale o collettiva che sia; ad ogni diserzione, e che queste si moltiplichino infrangendosi contro il loro regno del cieco asservimento.

Col cuore in gola diciamo che a questa menzogna del progresso e dello sviluppo non ci crediamo; e che, all’ennesimo progetto coloniale, continueremo ad opporci con ogni mezzo necessario.

SABATO 10 AGOSTO CORTEO NO PONTE, MESSINA, ORE 18:30 P.ZZA CAIROLI.

GIOCHI OLIMPICI. LA PAROLA ALLA «DELEGAZIONE INATTESA»

Diffondiamo la traduzione della rivendicazione integrale (uscita sul blog «Reporterre») dei sabotaggi all’Alta Velocità in occasione dell’inaugurazione dei Giochi Olimpici a Parigi. Nel giorno dell’inaugurazione dell’evento, infatti, diversi attacchi coordinati hanno mandato completamente in tilt la circolazione dell’Alta Velocità (TGV), mentre tra domenica e lunedì scorso sono state registrate azioni di sabotaggio ai cavi della fibra ottica.

La chiamano festa? Noi ci vediamo una celebrazione del nazionalismo, una gigantesca messa in scena dell’assoggettamento delle popolazioni da parte degli Stati. Dietro un’atmosfera giocosa e conviviale, i Giochi Olimpici offrono un campo di sperimentazione per la gestione poliziesca delle folle e il controllo generalizzato dei nostri movimenti.

Come ogni grande evento sportivo, le Olimpiadi sono ogni volta anche l’occasione per venerare i valori che fondano il mondo del potere e del denaro, della competizione generalizzata, del rendimento a tutti i costi, del sacrificio per l’interesse e la gloria nazionale.

L’ingiunzione di identificarsi con una comunità immaginaria e di sostenere il proprio presunto campo di appartenenza non è meno nefasta dell’incentivo permanente a vedere la propria salvezza nella buona salute della propria economia nazionale e nel potere del proprio esercito nazionale.

Oggi c’è bisogno di dosi sempre maggiori di malafede e di negazione per non riuscire a vedere tutto l’orrore che la società dei consumi e la ricerca del cosiddetto “benessere occidentale” generano. La Francia vorrebbe fare di questa grande messa la vetrina delle sue eccellenze. Essa potrà cullare d’illusioni sul suo ruolo virtuoso solo chi ha deciso di mettersi i paraocchi, e che vi si adatta. Madiamo loro il nostro più profondo disprezzo. L’influenza della Francia passa attraverso la produzione di armi, il cui volume di vendite la colloca come il secondo esportatore al mondo. Lo Stato è orgoglioso del suo complesso militare industriale e del suo arsenale “made in France”. Diffondere i mezzi del terrore, della morte e della devastazione in tutto il mondo per garantire la prosperità? Cocoricooo!

Senza offesa per gli ingenui che ancora credono alle favole democratiche, lo Stato francese usa la sua panoplia repressiva anche per affrontare la propria popolazione. Per sedare le rivolte dopo l’omicidio di Nahel da parte della polizia nel giugno 2023 o di recente per cercare di fermare la rivolta anticoloniale a Kanaky. Finché esisterà, lo Stato non smetterà mai di usarla per combattere coloro che sfidano la sua autorità.

Le attività delle imprese francesi nel mondo rendono sempre più manifeste le devastazioni sociali e ambientali che il sistema capitalista produce. Quelle necessarie a riprodurre l’attuale organizzazione sociale, e quelle inerenti al progresso scientifico e tecnologico. Progresso che percepisce la catena di catastrofi passate, presenti e future solo come un’opportunità per un balzo in avanti.

Total continua a saccheggiare e a spogliare nuove terre in cerca di petrolio e di gas di scisto (Africa orientale, Argentina, ecc.). Sotto la copertura della sua nuova etichetta verde, l’industria nucleare e l’esportazione delle conoscenze francesi in questo settore ci garantiscono, a più o meno breve termine, un pianeta irradiato, quindi letteralmente inabitabile. Nient’altro che un’altra crisi da gestire per i promotori dell’atomo. Loro che non possono fare a meno della cooperazione con lo Stato russo attraverso il colosso Rosatom e del sostegno del suo esercito per reprimere la rivolta nel 2022 in Kazakistan, importante paese fornitori di uranio. Questo materiale che alimenta i cinquantotto reattori francesi.

E allora qual è il costo umano, sociale e ambientale che garantisce a qualche privilegiato di spostarsi velocemente e lontano in TGV? Infinitamente troppo alto. La ferrovia non è d’altronde un’infrastruttura banale. È sempre stato un mezzo per la colonizzazione di nuovi territori, un passo preliminare per la loro devastazione e un percorso ben tracciato per l’estensione del capitalismo e del controllo statale. Il cantiere della linea denominata Tren Maya in Messico, al quale collaborano Alstom e NGE, ne è un buon esempio.

E le batterie elettriche indispensabili alla pretesa “transizione energetica”? Parlatene, ad esempio, con i lavoratori della miniera di Bou-azeer e con gli abitanti delle oasi di questa regione marocchina che stanno subendo le conseguenze della corsa all’ora del XXI secolo. Renault vi estrae i minerali necessari a fornire una coscienza pulita agli ecologisti delle metropoli a scapito delle vite sacrificate. Parlatene con i “popoli delle foreste” dell’isola di Halmahera, nel nord-est dell’Indonesia, con gli Hongana Manyawa che disperano di veder distrutta la foresta in cui vivono sull’altare della “transizione ecologica”. Lo Stato francese, attraverso la società Ermet, partecipa alla devastazione delle terre finora risparmiate. Allo stesso modo, non molla la Nuova Caledonia per continuare a strapparle il prezioso nichel.

Ci fermeremo qui nell’impossibile inventario delle attività mortali e predatorie proprie di ogni Stato e di ogni economia capitalista. Del resto, ciò non aiuterebbe a rompere con una vita insipida e deprimente, con una vita di sfruttamento, e a fronteggiare la violenza di Stati e leader religiosi, capifamiglia e pattuglie di polizia, patrioti e milizie padronali, così come quella di azionisti, imprenditori, ingegneri, progettisti e architetti della devastazione in corso. Per gran fortuna, l’arroganza del potere continua a scontrarsi con la rabbia degli oppressi/e ribelli. Di sommosse in insurrezione, durante le manifestazioni offensive, attraverso le lotte quotidiane e le resistenze sotterranee.

Che dunque oggi risuonino, attraverso il sabotaggio delle linee TGV che collegano Parigi ai quattro angoli della Francia, il grido “donna, vita, libertà” dall’Iran, le lotte degli amazzonici, i “fotti la Francia” che provengono dall’Oceania, il desiderio di libertà che giunge dal Levante e dal Sudan, le battaglie che continuano dietro i muri delle prigioni e l’insubordinazione dei disertori del mondo intero.

A coloro che rimproverano a questi atti di rovinare il soggiorno dei turisti e di perturbare le partenze per le vacanze, rispondiamo che è ancora così poco. Così poco se paragonato a quell’evento al quale desideriamo partecipare e che auspichiamo con tutto il cuore: il crollo di un mondo basato sullo sfruttamento e sul dominio. Allora sì che avremo qualcosa da festeggiare.

Una delegazione inattesa

MESSINA: INIZIATIVE IN VISTA DEL CORTEO NO PONTE

Diffondiamo da Stretto LibertariA :

Ci vediamo giovedì 8 agosto alla passeggiata a mare dalle 18.30 per un pomeriggio di socialità no ponte! Musica, birrette, chiacchiere e preparazione di materiali in vista del corteo no ponte del 10 agosto.

«Mentre la Sicilia è in piena emergenza idrica e interi quartieri della città di Messina si ritrovano senza più acqua nelle case – è notizia recente che in questo contesto, come sempre avviene nei momenti emergenziali, la rete idrica di Messina e provincia è stata privatizzata – continuano spietati i piani di dominio e distruzione del vivente, che intendono sacrificare corpi, comunità e territori sull’altare del progresso.

Di certo non si considera la costruzione delle infrastrutture del capitale mai priva di compromessi e devastazione, ma i contorni si fanno ancora più cupi quando un mega progetto infrastrutturale, come quello del ponte sullo Stretto, finisce con il diventare il ‘pivot’ di ogni altro progetto, assorbendo in sè ogni piano pregresso e futuro circa quel determinato territorio. In poche parole, un ricatto bello e buono. Così che mentre si aspetta l’ufficiale iniziare di trivellazioni, espropri e furti vari, insomma della cantierizzazione totale, i detrattori del nostro presente e futuro hanno già portato qui tutte le loro macchine di morte, che si infiltrano nel nostro humus vitale come talpe.

Ci chiediamo allora quale progresso possa essere quello che ha trasformato la Sicilia in una terra di petrolichimici, basi e poligoni militari, raffinerie, galere ed emigrazione forzata. Un “progresso” che vende posti di lavoro in cambio di veleni e malattie, radiazioni elettromagnetiche e militari per le strade.

Uno scenario devastante, un territorio violato e violentato nel nome del profitto e dell’estrazione di risorse. Terre evidentemente da rendere inabitabili, da spopolare e mettere a servizio di loschi affari, come la costituzione di poligoni di tiro dove fare il ‘giochetto’ della guerra, stesso giochetto che garantisce morte e conquista altrove (e neanche troppo altrove); estrazione di energia rinnovabile, nuove strutture del capitale al servizio sempre della sola produzione e, dunque, della schiavitù umana; costituzione di hub logistici, stesso piano entro cui si inscrive la costruzione del ponte sullo Stretto; il proliferare dei luoghi di detenzione, della ‘localizzazione forzata’ delle persone, muri che sono argini per la gioia umana.

Col cuore in gola diciamo che a questa menzogna del progresso e dello sviluppo non ci crediamo; e che, all’ennesimo progetto coloniale, continueremo ad opporci con ogni mezzo necessario.»

SABATO 10 AGOSTO CORTEO NO PONTE, MESSINA, ORE 18:30 P.ZZA CAIROLI

Chi c’è c’è e chi non c’è dovrebbe esserci!

CONTINUIAMO A SCRIVERE AD ALFREDO!

Ad un anno di distanza dalla mobilitazione che ha accompagnato lo
sciopero della fame, è importantissimo continuare a scrivere al compagno
Alfredo Cospito, tuttora in 41bis nel carcere di Bancali (Sassari).
Il lavoro certosino (e spesso francamente incomprensibile e
contraddittorio) dell’ufficio censura, insieme al pressapochismo tipico
delle patrie galere e all’inaffidabilità delle poste italiane (strumento
sempre più spesso appannaggio esclusivo delle comunicazioni galeotte),
rende fortemente consigliato l’invio della corrispondenza attraverso
sistemi tracciabili quali le raccomandate (anche senza ricevuta di
ritorno). Il tagliando e il codice di tracciabilità permettono di
conoscere lo stato della spedizione e intraprendere poi l’iter
burocratico per lo sblocco della corrispondenza, dato che gli agenti non
sempre rendono noti i trattenimenti e la posta spesse volte
semplicemente scompare.
Invitiamo quindi tutti i solidali a scrivere e ad inviare scansione o
foto dei tagliandi (o comunque dei codici di tracciabilità) alla Cassa
Antirep delle Alpi Occidentali, che si incaricherà di raccoglierli e
inviarli all’avvocato di Alfredo per fare i dovuti ricorsi e recuperare
quante più lettere possibile.

La solidarietà è un atto concreto, non lasceremo mai Alfredo da solo
nelle mani dei boia di Stato: sommergiamolo di affetto attraverso
lettere e cartoline!

L’indirizzo per scrivergli è:
Alfredo Cospito – C/O C.C. “G.Bacchiddu” – Strada Provinciale 56, n°4 –
Località Bancali – 07100 Sassari

mentre per inviare le vostre ricevute:
cassantirepalpi@autistici.org

PS: il compagno può acquistare libri attraverso la direzione del
carcere; si può dunque inviargli suggerimenti di lettura, accompagnando
il titolo e l’autore con i dati relativi alla casa editrice e, se
possibile, il codice ISBN.

Contro tutte le galere!
Cassa AntiRep delle Alpi occidentali

GALLICO (RC): CONCERTO NO PONTE!

Diffondiamo:

Ci vediamo sabato 17 Agosto per un’intensa serata in cui trasmigreremo attraverso l’arte i nostri sentimenti verso un’opera di cui non abbiamo certo bisogno.

Dalle 19:00 ci divertiremo con Jam Graffiti, DJ Set, Incursioni Teatrali ed un triplo live tuttigusti più uno: il rap militante di @cyborganafem, le bizzarre fantasie di piacere di @antonio_freno_ in Duo Sfrenato e l’EBM/Industrial dei @yournoisyneighbors che ci farà scatenare 🥵

🛺 𝐒𝐄𝐑𝐕𝐈𝐙𝐈𝐎 𝐍𝐀𝐕𝐄𝐓𝐓𝐀 𝐏𝐄𝐑 𝐂𝐇𝐈 𝐏𝐑𝐎𝐕𝐈𝐄𝐍𝐄 𝐃𝐀𝐋𝐋𝐀 𝐒𝐈𝐂𝐈𝐋𝐈𝐀 per ribadire che la Fata Morgana preferisce ponti di persone (no, non vi stiamo suggerendo quello che state pensando!) a quelli di cemento e acciaio.

📌 CSOA CARTELLA | Via Quarnaro, I (RC)
Sab 17 Agosto | Open 19:00 – Concerti 21:30

MA QUALE RIVOLTA? (OVVERO VIETATO CALPESTARE L’AIUOLA)

Riceviamo da Bologna e diffondiamo:

Premesse

Vorremmo indirizzare queste parole non solo alla rete di Rivolta Pride, con cui già ci siamo confrontat3 in diverse occasioni sia interne al percorso di costruzione del Pride sia esterne (come l’assemblea chiamata dalla CAT), ma anche a tutte le altre realtà e soggettività queer che sono parte del movimento ma fuori da questo specifico contesto o che ancora non hanno cercato e/o trovato un posto al suo interno. Vorremo quindi provare a spostare il piano della discussione al di fuori del semplice noi-contro-loro, cercando di avviare una riflessione più ampia e di coinvolgere tutte quelle persone che non si sentono rappresentate da questa “rivolta”, o che attivamente cercano di navigare e comprendere un movimento che forzatamente vuole riconoscersi in quei moti rivoltosi, invece di ammettere di essere stanco, stagnante, autoreferenziale e inadeguato rispetto ai bisogni di molt3.

La critiche che muoviamo oggi non sono rivolte a specifiche realtà e/o persone: nomi e cognomi sono stati già trattati in altre sedi e non ci teniamo a dare nuovamente la possibilità di sviare la discussione su ciò. Ribadiamo infatti che la responsabilità ricade su tutte le associazioni, collettivi e singol3 che di quella rete fanno parte, che, conniventi, non sono stat3 in grado di allontanare e/o difendersi da concezioni e comportamenti che in quel luogo non dovrebbero trovare il minimo spazio. Parliamo di connivenza perché, come abbiamo già detto altrove, i fatti sono stati denunciati in presenza di quella stessa rete; e se ci si vuol attribuire il reato di non aver partecipato interamente al percorso politico (l’obbligo di firma non ci era stato comunicato), rispondiamo che lo abbiamo fatto perché, alla luce di frizioni su tematiche politiche per noi dirimenti e immobilità organizzativa, non ritenevamo possibile un cambiamento sostanziale che partisse dall’interno di quella stessa assemblea. Al contrario, come in tant3 in questi anni abbiamo visto e vissuto sulla nostra pelle, c’è una sistematica invisibilizzazione di istanze e pratiche alternative a quelle egemoniche. Abbiamo quindi deciso di sottrarci a quel gioco politico imbrigliante e di decidere noi e per noi, dove possiamo avere davvero spazio decisionale.

La lentezza e inadeguatezza nel rispondere a quella che è la situazione materiale attuale degli spazi che attraversiamo ha nuovamente visto, come conclusione, il manifestarsi di un’ondata di violenze che hanno attraversato il corteo dal pomeriggio fino ad arrivare ai party sponsorizzati della sera. Ci interroghiamo quindi nuovamente su quel tentativo di responsabilizzarci, mentre siamo di fronte a un’assemblea che non solo rallenta i tentativi di attivazione reale di pratiche di gestione delle molestie e presa in carico collettiva di cura e autodifesa, ma tace sulle suddette violenze. Riteniamo anche che i discorsi sulla “politica dal basso” e sull’autogestione delle persone all’interno del corteo siano in questo caso vuoti e nocivi; delegare l’autodifesa, di qualsiasi tipo, senza convididere collettivamente prima degli strumenti è sintomo di una visione che non riesce ad andare oltre al proprio privilegio.

Chi siamo

La nostra rete – la Crisalide – è nata spontaneamente in seguito all’assemblea pubblica chiamata dalla CAT per il 24 giugno (“QUESTA NON E’ RIVOLTA”). Quella data ha fatto sì che un gruppo sciolto e sparso di compagn3 TFQ si mettesse in contatto, cospirasse insieme e agisse direttamente.

Siamo crisalidi perché aspiriamo e tendiamo a sfarfallare in un mondo libero da Stato, capitalismo e patriarcato.

Siamo crisalidi perché autodifes3 da strati autoprodotti e resistenti; perché autogestit3.

Siamo crisalidi perché mimetich3; la nostra sopravvivenza è garantita dall’informalità in cui operiamo e dalla multiformità dei nostri involucri, che si adattano in base al contesto.

Sui fatti del 6 luglio 2024 e la nostra incompatibilità

Come Crisalide, abbiamo cercato di trovare uno spazio per le nostre voci, all’interno della dimensione del Pride, con modalità antagoniste, conflittuali e di critica aperta, ma che non mettessero in pericolo né noi né le persone che nel corteo si muovevano. Abbiamo deciso quindi di aprire uno striscione per ogni porta attraversata, con messaggi diretti alle politiche di gentrificazione e cementificazione della città, alla speculazione sui corpi trans*, alle violenze insabbiate e allo sgombero di spazi queer autogestiti. Per ogni striscione aperto qualcunx volantinava e poco prima dell’arrivo del corteo ai Giardini Margherita abbiamo piazzato un gazebo al piazzale Jacchia, con altri volantini e un banchetto di Riduzione dei Rischi in compagnia del Lab57. Eravamo tutt3 consc3 della portata dei messaggi e di quella che sarebbe stata la loro posizione, a livello logistico. Eravamo anche preparat3 a eventuali contestazioni, ma non ci saremmo mai aspettat3 un attacco violento partito dalla testa del corteo, e di questo ci sentiamo in dovere di parlare.

All’apertura dell’ultimo striscione, che recitava “Ma quale rivolta…con chi sgombera spazi queer autogestiti”, posizionato davanti alla storica sede di Atlantide, un gruppo di persone si stacca dalla testa del corteo per raggiungere l3 due compagn3, sol3, che reggevano lo striscione. La discussione è stata inizialmente intrisa di paternalismo e nonnismo, con domande quali “Voi c’eravate quando noi eravamo dentro/quando è stata sgomberata?”. Alla fermezza dell3 compagn3, che hanno cercato di portare la discussione sul piano politico, sono seguiti, con modalità molto più aggressive, insulti personali, strattoni (volti anche a togliere lo striscione dalla presa dell3 compagn3) e riprese col cellulare ai volti. Tutto questo ha anche attirato l’attenzione di una manciata di sbirri; francamente fatichiamo a non pensare che, in seguito a un’ipotetica escalation, avrebbero fermato l3 due compagn3 dal momento che in quell’istante erano loro “l3 intrus3” e ci stupiamo, ma neanche troppo, che nessunx tra l3 aggressor3 si sia preoccupatx di ciò.

Ci domandiamo come uno striscione che denuncia la legittimazione di sindaco e sbirri all’interno del Pride possa causare un’aggressione simile verso due compagn3. Se è vero che lo striscione è stato aperto in Porta Santo Stefano anche, come detto prima, per un fattore simbolico, è altrettanto vero che Atlantide è solo uno dei tanti spazi che negli ultimi anni hanno vissuto sgomberi per mano di giunte sempre più repressive.

Rigettiamo le logiche proprietarie e autoreferenziali rispetto alle pratiche di autogestione. Le occupazioni sociali sono spazi in cui creare campi di possibilità nuovi e di rottura con l’esistente, non luoghi atti a riprodurre sbilanciamenti di potere tra chi ha avuto la possibilità di vivere determinate stagioni politiche e chi no. Negli anni, il progressivo assorbimento dell’autogestione nei perimetri legislativi ha determinato l’impoverimento generale delle esperienze politiche in città. Noi tante esperienze non abbiamo avuto la possibilità di viverle proprio per le scelte che altr3 prima di noi hanno fatto, determinando la desolazione dai tratti “partecipativi” a cui assistiamo oggi.

Ci piacerebbe anche riflettere su una domanda che ci è stata posta durante l’aggressione: “Sapete cosa vuol dire trigger?”. Sappiamo bene cosa significa. Lo sapevamo, e lo sapevate, quando abbiamo raccontato le nostre esperienze in privato all3 compagn3 e alle assemblee. Lo abbiamo vissuto durante il corteo, vedendo sfilare allegramente quelle stesse realtà e persone di cui vi avevamo parlato. Lo abbiamo vissuto quando ci avete ignorat3, quando avete auspicato un confronto ma poi avete accettato a braccia aperte la loro presenza appena la nostra è svanita. Lo abbiamo vissuto quando le compagne transfem hanno subito attacchi transmisogini e nessunx ha detto niente. Lo abbiamo vissuto quando abbiamo visto sfilare molesti e violenti nonostante li avessimo segnalati più volte, difesi strenuamente perché “fatti così” o perché (fintamente) “decostruiti”. Lo abbiamo vissuto quando abbiamo assistito all’ennesima passerella di un sindaco legittimato a partecipare dopo aver sguinzagliato sbirri contro ogni tipo di dissenso. È sempre comodo nascondersi dietro allo slogan “cura transfemminista” quando riguarda solo voi, no?

Se già prima criticavamo il Rivolta Pride a causa delle dinamiche e degli elementi interni, oggi non possiamo che notare e sottolineare l’incompatibilità dei nostri percorsi. L’aggressione e la posizione di difesa che l’assemblea ha assunto verso la stessa sono solo l’ennesimo anello nella catena delle pratiche prevaricanti ed escludenti che fermentano indiscusse al suo interno. E dato che, per quanto i fiori e l’erba siano cambiati, è ancora vietato calpestare quell’aiuola, allora ne andremo a costruire una nuova, un po’ più in là.



Di seguito il testo di un volantino diffuso durante il Rivolta Pride:

Forse sono passati troppi anni dai Moti di Stonewall.

Forse è passato troppo tempo da quando la polizia picchiava e arrestava trans* e frocie, lesbiche e drag queen, perché ritenute dalle istituzioni pericolose e offensive. C’è stato un momento in cui la nostra comunità è insorta e con rabbia ha rivendicato il suo diritto ad esistere, in maniera strana e non conforme, in maniera caotica e spaventosa.

Oggi questa storia sembra essere stata dimenticata.

Certo, la prima volta fu rivolta, ma questo capitalismo estrattivista e patriarcale ci ha messo poco a capire la pericolosità sovversiva dei nostri corpi non normati e si è mosso velocemente per blandirli e spegnerli, per raggiungere un compromesso che garantisse la sopravvivenza di entrambi.

Oggi anche i corpi diversi diventano normali.

Puoi essere gay, lesbica, trans* o quello che vuoi, il potere patriarcale ti ha concesso degli spazi in cui poter esistere senza nasconderti: in quasi ogni città italiana sorgono locali, vie e a volte perfino quartieri dedicati alle persone queer, in cui la stranezza che ci portiamo addosso può essere tranquillamente ingaggiata in un lavoro o può essere spesa per aiutare a far girare l’economia. Finalmente essere frocie è normale e in ogni dove il Pride che fu rivolta si trasforma in una grande festa. Rigorosamente a giugno (o al massimo una settimana prima/dopo) carri su carri sfilano nelle grandi città esibendo al mondo tutti i modi per essere diverse… o forse tutti i modi normali per essere diverse.

In Italia il Pride è diventato un’istituzione sponsorizzata dalle grandi multinazionali e dai palazzi del potere: a Milano vedi cantare Elodie con Elly Schlein sul carro, a Roma incontri perfino Giuseppe Conte, al Toscana Pride la polizia manganella gruppi di persone queer radicali su richiesta degli organizzatori e a Bologna… a Bologna va in scena la più ipocrita delle carnevalate.

Il Rivolta Pride si presenta come auto-organizzato dal basso, come portatore di istanze radicali e come rappresentante dell’intera comunità queer, ma chiunque abbia provato a partecipare al suo pecorso di costruzione sa che queste sono solo belle parole. Nelle assemblee sono evidenti delle gerarchie precise che decidono cosa si può dire e cosa si può fare, sono presenti associazioni che spesso usano una pretesa apoliticità per nascondere posizioni liberali e apertamente a sostegno delle forze dell’ordine, sono presenti locali che non hanno nessun interesse al di fuori della spendibilità dei nostri corpi, sono presenti persone notoriamente violente e moleste protette dai loro collettivi. Manca l’autogestione, manca l’orizzontalità, mancano l’inclusività e la trasparenza delle scelte che si prendono. Manca lo spazio per un qualsiasi confronto che metta in discussione lo status quo che si è formato in città.

Dopotutto all’interno della bolla di questa comunità sembra che a Bologna essere queer sia facile, che il sindaco sia amico, che la polizia ci protegga, che le associazioni facciano tutto il necessario e che dopotutto abbiamo guadagnato abbastanza privilegi da poterci accontentare.

Al di fuori di questa bolla però i nostri corpi continuano ad essere abusati, a non trovare casa, a perdere il lavoro. Continuano a doversi nascondere per paura, rinunciano ai momenti di socialità perchè gli unici posti in cui è okay essere/essere vestite in un certo modo ti chiedono 20/30 euro per entrare. C’è chi interrompe il percorso di affermazione di genere perchè gli ormoni costano troppo, perché sono troppo difficili da trovare o perchè la patologizzazione che i centri di transizione – chiamati anche non a caso “transifici” – portano sistematicamente avanti è umiliante e a tratti direttamente transicida.

Fuori dalla bolla di questa comunità restano abbandonate a loro stesse le persone povere, le persone arrabbiate, le persone abusate e quelle politicamente schierate contro il sistema capitalistico. Restano fuori da questa comunità perchè chi ha potere al suo interno non le vuole. Restano abbandonate a loro stesse perchè sembra che mettano in pericolo i privilegi guadagnati con anni e anni di compromessi al ribasso.

Noi non ci stiamo.

Condanniamo i compromessi accettati da altri che ci vengono imposti come inevitabili.

Sputiamo su chi, protetto da accordi istituzionali, continua a prendere parola e spazio nelle piazze marginalizzando per l’ennesima volta i corpi non conformi che già vivono il disagio della povertà e della discriminazione.

Ci dissociamo dalle retoriche svilenti di chi godendo del suo privilegio bianco e borghese rifiuta di supportare chi ha bisogno di spazio e visibilità.

Sappiamo che non c’è orgoglio in un Pride e in una bolla che protegge stupratori e molesti senza alcun tipo di autocritica, responsabilizzazione o giustizia trasformativa.

Oggi ci prendiamo il nostro spazio all’interno di un corteo che troviamo misero in quanto a contenuti e coerenza e pericoloso nel modo in cui continua a depotenziare pratiche che nascono e si sviluppano nella sovversione dello status quo.

Faremo sentire le nostri voci furiose e coltiveremo le nostre relazioni avendo cura di rispettare i nostri tempi e i nostri bisogni.

Non abbiamo fretta perchè sappiamo di star combattendo contro dinamiche secolari e ben radicate.

La comunità gay che si fonda su pratiche predatorie, le varie associazioni mitemente liberali disposte a svendere qualsiasi coerenza in cambio di uno spazio, i vari locali che lucrano sui nostri momenti di socialità privatizzandoli e rinchiudendoli in 4 mura sorvegliate da qualche guardia, tutto questo è nel nostro mirino. Si godano quest’ultima festa perchè non tollereremo ancora per molto la strumentalizzazione svilente e violenta che agiscono su di noi.

Oggi ripartiamo dal nostro territorio, il nostro corpo, per risanarlo e dargli la forza e la possibilità di essere coltivato nei prossimi giorni e nei prossimi mesi. All’inizio dell’autunno raccoglieremo i frutti del nostro lavoro e ci riprenderemo le strade e le piazze di Bologna per essere apertamente orgogliose in tutti i modi che il Rivolta Pride ha cercato di boicottare.

Guardiamoci in faccia, parliamo tra di noi e continuiamo a cospirare.

Non c’è lotta senza lotta di classe, non c’è speranza senza un’ecologia pratica dei territori e delle relazioni, non c’è movimento senza gli strumenti di cura transfemminista. Non c’è liberazione sessuale se non si contrasta la normalizzazione/assimilazione avanzante.
Contro ogni norma e ogni stereotipo rivendichiamo il nostro essere mostruos3 e ci poniamo nella tradizione di Pandora: tremate perchè siamo pront3 a scoperchiare ogni vostro vaso.

Link canale Telegram: https://t.me/Crisalidetfq 

BOLOGNA: SUGLI STUPRI IN VIA CARRACCI 63

Riceviamo e diffondiamo:

Qualche settimana fa ci siamo svegliatx con l’ennesima notizia terrificante: una donna ha subito degli stupri all’interno di un’occupazione abitativa a Bologna. Immediatamente è stata tolta centralità al vissuto della donna ed è iniziato un susseguirsi di ulteriori violenze: strumentalizzazioni, narrazioni stigmatizzanti, invisibilizzazione, negazione dello stupro, colpevolizzazione della vittima.

Contro la retorica giornalistica, non temiamo di dire che ci posizioniamo nettamente al fianco di chi sceglie di occupare sottraendo stabili abbandonati dallo stato o dai privati a un inevitabile decadimento e ci opponiamo all’inasprimento delle pene (come il decreto sicurezza approvato nel novembre 2023 che impone fino a 7 anni di carcere per le occupazioni abitative). Per questo lo vogliamo gridare chiaramente: RIFIUTIAMO L’USO STRUMENTALE DELLA VIOLENZA DI GENERE PER ATTACCARE LE PERSONE CHE VIVONO IN CONDIZIONI DI POVERTÀ E CHE SCELGONO DI AUTODETERMINARSI ATTRAVERSO LA PRATICA DELL’OCCUPAZIONE.

Lo scenario che si è aperto è il seguente.

Da una parte i giornali hanno riportato il fatto con toni razzisti e stigmatizzanti sia rispetto alle pratiche dell’occupazione sia rispetto alla precarietà che gli occupanti vivono a causa di un sistema capitalistico e classista. Hanno negato l’autodeterminazione delle persone razzializzate non servili che esprimono la propria rabbia in modalità che sfuggono al controllo e per questo ritenute pericolose.

Dall’altra parte, la Destra non ha esitato a manipolare ancora una volta la violenza di genere: lo stupro diventa un cavallo di troia perfetto per la politica razzista e classista che non ci pensa due volte a rendere mostro chi non ha una casa e, davanti alla negazione del diritto all’abitare che il progressismo finge di concedere, decide di prendersi ciò che gli spetta.

In una logica perversa, se la donna che subisce violenza è anche una donna che subisce razzializzazione, ciò che avviene è un attacco diretto alla comunità di riferimento. Una narrazione che ben conosciamo, profondamente coloniale e fascista, in cui la donna risulta essere nulla più che uno strumento utile alla riproduzione dello stato nazione. Il nemico è sempre fuori di noi, che sia una persona povera, nera, che viva in occupazione.

La nostra lotta solidale per il diritto all’abitare – anche e soprattutto quando questa decide di oltrepassare le forme legaliste – non può però farci tacere di fronte all’ennesimo caso in cui , ancora una volta, chi costruisce politica basandola sempre sulla cultura degli uomini non è solidale con noi, donne, trans e froc3 che subiscono quotidianamente sulla loro pelle una rete complessa di violenze. Perché se si parla di diritto all’abitare, vogliamo che venga presa in considerazione la complessità che viviamo nelle nostre vite e le violenze che possiamo subire all’interno delle nostre case perché, come ben sappiamo, spesso lo stupratore ha le chiavi di casa.

Quanto successo ci pone di fronte alla contraddittorietà dei tempi in cui viviamo – anche se non vogliamo –  e a come le riproduciamo profondamente, a quanto siano vive in noi.

Ciò che risulta più sconcertante e non può in alcun modo essere taciuto è che la dichiarazione che i giornali rilasciano da parte dell’avvocata di riferimento di PLAT – mai smentite – è che le violenze sono false, una vendetta per l’allontanamento della donna da parte dellx compagnx dall’occupazione per il suo uso di sostanze. Una donna di cui si ricorda solo la dipendenza da sostanze e la maternità, fattori che, se congiunti, immediatamente diventano deterrenti per creare l’immagine di una donna inattendibile e con lei le sue parole.

Allora ci chiediamo: com’è possibile che l’assunzione di sostanze basti per non credere alla donna che ha subito violenza e anzi, al posto di darle sostegno, viene colpevolizzata, ulteriormente stigmatizzata e lasciata sola? Com’è possibile che se è l’uomo violento ad averle assunte, le sostanze diventano la perfetta giustificazione?  Non ci siamo ripetutx per anni nelle piazze che l’uomo violento non è malato ma è il figlio sano del patriarcato? E invece, in questa interrelazione tra violenza di genere e proibizionismo, la colpa è ancora una volta della donna.

Com’è possibile che dopo anni di lotta transfemminista venga ancora portata avanti la retorica che una donna è valida solo se è una brava madre, mentre se fa uso di sostanze viene improvvisamente meno la sua credibilità?

Per questo riteniamo l’atteggiamento del movimento coinvolto proibizionista, sessista ed estramamente violento. Ancora una volta, non solo dalla Stato e dai Giornali, ma anche dai “compagni”, vediamo agire vittimizzazione secondaria contro le nostre sorelle solo perché non sono le vittime perfette, perché rompono i piani, reagiscono a ciò che subiscono, perché non si arrendono al potere maschile e alla normalizzazione della società.

Abbiamo atteso per settimane una smentita di tali orrende dichiarazioni, un passo indietro su ogni singola parola pronunciata, ma al suo posto c’è stato solo un sordido silenzio. Al contrario, siamo state costrette a leggere un testo di lancio all’iniziativa di oggi, 18 luglio, di PLAT, un comunicato strabordante di paroloni e vuota retorica in cui, ancora una volta, non si prende parola sullo stupro e sulle dichiarazioni che negano e sminuiscono la voce della donna che ha subito gli stupri, agendo ulteriore violenza, questa volta da parte della comunità.

Quel testo è per noi solo una vetrina in cui si è voluto mostrare la propria bravura e dedizione alla causa e che, in barba a ogni analisi e pratica transfemminsita, osa appropriarsi dello slogan “Sorella io ti credo”. Ma settimane fa non ci era stato invece detto che non solo non le si credeva, ma che il suo era un tentativo di ritorsione?

Si crede alle sorelle solo quando queste risultano utili per proteggere interessi altri – che non contemplano la cura delle soggettività femminilizzate – ma che vogliono solo tutelare i “compagni” e le loro lotte.

Per questo siamo chiamat3 a dirlo di nuovo, forte e chiaro: LA RESPONSABILITÀ POLITICA DI QUESTA DINAMICA È ANCORA UNA VOLTA COLLETTIVA. Uno stupro che avviene all’interno di una comunità è qualcosa di profondamente drammatico e doloroso, non solo per la donna che ha subito le violenze, ma anche per il suo contesto di prossimità. Non banalizziamo il dolore e la fatica: anche noi abbiamo avuto vicino persone violente e sappiamo quanto sia straziante stare a contatto con ciò che lo stupro porta con sé. Ma il punto è la presa in carico collettiva che si fa davanti alle violenze.

In un gruppo politico che dovrebbe rappresentare un luogo trasformativo rispetto a certi processi si fischietta l’antico motivetto che fa da colonna sonora allo Stato: bisogna difendere la società.

Davanti a un trauma enorme che ha prodotto una frattura così significativa, con buona pace del nostro sentire rivoluzionario, si riproduce in una perenne continuità quotidiana la brutalità patriarcale.

Le narrazioni portate avanti e le azioni agite mettono in evidenza la problematicità delle strutture organizzative chiuse che millantano l’intersezionalità delle lotte, ma che in realtà settorializzano la collettività nelle loro pratiche e quando serve a salvarsi la faccia la strumentalizzano, stigmatizzando in maniera proibizionista le individualità che attraversano i loro spazi…null’altro di diverso dai metodi narrativi di Stato e media.

Salvarsi la faccia e negare le proprie responsabilità vuol dire anche considerarsi esenti dalle dinamiche del sistema patriarcale, negarne la pervasività, negare la possibilità di poterle facilmente riprodurre.

Risulta chiaro ad oggi che la violenza di genere è qualcosa di profondamente divisivo, anche all’interno dei contesti che dichiarano di contrastarla quotidianamente.

Intenti e politiche si mostrano anche nel riconoscere la possibilità che avvenga una violenza, prenderne atto e non invisibilizzarla. Dichiararsi transfemministi e rivendicarne i principi non basta! Cavalcare slogan e date non ci rende impermeabili al patriarcato. Portare avanti due campagne di mobilitazione all’anno non rimedia alle violenze agite ogni giorno. Non basta supportare alcune soggettività o vissuti, solo quando sono vicini a noi o ci sono utili, mentre in questo caso la tutela e il sostegno della persona sopravvissuta passa in secondo piano rispetto alla causa dei “compagni”.

Si sovrappongono dunque più piani di stigma che si incarnano nel genere, nel razzismo, nel classismo e nel proibizionismo.

Se da una parte sono i giornali a mettere tra parentesi l’esistenza di una donna facendo della violenza avvenuta uno strumento per colpire l’occupazione abitativa; dall’altra parte,  i compagni, preoccupati nel salvarsi la faccia, negano e invisibilizzano la violenza cercando di colpire direttamente la donna, colpevolizzandola e screditandola. Si alimenta così una visione distorta della donna, la cui identità e storia vengono sballottate tra giudizi screditanti e poi buttate in strada come strumento per il comodo di tutti fuorché per sostenerla. Di nuovo, una donna che ha subito violenza e il fatto che si sappia, diventano un ostacolo per chi la vuole sotto controllo. Di nuovo, denunciare la violenza rivela la possibilità quasi certa di subirne altre.

Lo diciamo a gran voce: sorella, che tu venga definita drogata, madre snaturata, ragazza difficile o ingrata, noi ti crediamo.

Alla donna che ha subito tutto questo va la nostra più sincera vicinanza.

Cagnacce rabbiose complici e solidali

TRIESTE: MORTO UN DETENUTO

Apprendiamo della morte di un detenuto nel carcere Ernesto Mari di Trieste, dove qualche giorno fa è scoppiata una rivolta: le persone recluse hanno protestato contro le scarsissime condizioni igieniche e sanitarie della struttura, il caldo insopportabile e il sovraffollamento. Quattro detenuti sono poi stati portati in ospedale, di cui uno con un’intossicazione dovuta al fumo dei lacrimogeni.

Pochi giorni fa, un detenuto è stato trovato morto nella sua cella. I media mainstream parlano di un’ “overdose di metadone” a seguito del saccheggio dell’infermeria durante la protesta: come per le rivolte che infiammarono le carceri di tutta Italia nel 2020 durante la pandemia di COVID-19, assistiamo al solito teatrino volto ad imputare ai detenuti stessi la causa della loro morte, e finalizzato a deresponsabilizzare guardie e dirigenti, perché al carcere è evidentemente riconosciuto il diritto di uccidere!

Sempre al fianco di chi lotta

IN CARCERE NON SI MUORE, SI VIENE UCCISI!