Dalla Francia all’Italia, da Napoli a Firenze, da Torino a Palermo, contaminiamo le strade a ritmo di BPM martellanti contro il decreto anti-rave!
SMASH REPRESSION
Cresciamo nei terreni incolti, nelle zone asciutte e sassose, ai bordi dei viottoli
Dalla Francia all’Italia, da Napoli a Firenze, da Torino a Palermo, contaminiamo le strade a ritmo di BPM martellanti contro il decreto anti-rave!
SMASH REPRESSION
E’ un privilegio morir d’Amor.
Ericailcane + Infinite sui muri dell’occupazione di via Stalingrado 31 a Bologna
“non esiste vera gioia se non sperimentando
mettendo al bando ogni velleità di comandare
sperimentare libertà per liberarsi
perché siamo fatti per marciare sulle teste dei potenti
non per marcire di miseria
per soffiare sulle braci dei tizzoni ardenti
per illuminare col fuoco questi tempi spenti”
Foto da: https://infestazioni.noblogs.org/le-idee-non-si-sgomberano-foto/
LETTURE CONTRO IL 41-BIS
Attraverso le voci di chi questo regime di tortura se lo è vissuto e se lo vive sulla propria pelle.
ALFREDO LIBERO! TUTTX LIBERX!
Mercoledì 30 novembre alle 18:30 al nuovo spazio occupato in via Stalingrado 31 a Bologna.
Letture contro il 41-bis attraverso le voci di chi
questo regime di tortura se lo è vissuto e se lo vive sulla propria pelle.
Lunedì 21 novembre ore 17:30 in Piazza Verdi
In solidarietà ad Alfredo e con Anna, Juan e Ivan in sciopero della fame, finché di ogni galera non rimangano solo macerie!
LIBEX TUTTX!!
Diffondiamo questa nuova autoproduzione editoriale femminista.
Queste pagine raccolgono testimonianze di donne da diverse parti del mondo che hanno partecipato a movimenti di guerriglia o organizzazioni di lotta armata. Una testimonianza diretta come stimolo per continuare a lavorare sul recupero della nostra memoria femminista rivoluzionaria. Con la proposta di aprire spazi di riflessione e confronto non misti fra compagne/x per incontrarsi, creare e rafforzare legami.
Traduzione dal castigliano del primo numero della rivista “Mujeres mas alla des las armas” (2020) che raccoglie gli atti degli omonimi convegni organizzati annualmente a Barcellona dal collettivo Azadi Jin. Si tratta di incontri separati (non aperti a uomini cis) dove le compagne catalane invitano le donne e le dissidenze sessuali e di genere a raccontare le loro esperienze rivoluzionarie.
Dall’introduzione all’edizione italiana:
“Quando si legge di rivoluzioni, guerriglia e lotta armata, i protagonisti sono sempre uomini, unici soggetti all’altezza di compiere tali gesti. Alle donne, così come alle dissidenze di genere, sembra essere preclusa la possibilità di rivendicare per sé la violenza come strumento di lotta e di liberazione contro un sistema in cui il paradigma del legale istituzionalizza genocidi, sancendo quali sono i corpi da sacrificare in nome della sicurezza e quali quelli da difendere. L’unica violenza legittima sembra allora essere quella di chi opprime e distrugge. Per noi queste pagine sono uno slancio per rompere la logica della narrazione unica. Siamo consapevoli del fatto che il meccanismo che ci spinge a non considerare altre forme di lotta come possibili è lo stesso che ci impone di normalizzare la brutalità degli stati come legittima e normale. Lo stato e il patriarcato si autolegittimano attraverso le stesse logiche, e sono l’uno lo strumento necessario all’altro per perpetrarsi. Questi racconti rendono evidente la fallacia della logica patriarcale, che vuole l’oppressore come legittimo detentore della forza e l’oppressa\x come soggetto inferiore, la cui forza è repressa e ostracizzata. Sulla base di questa doppia morale, le donne che hanno preso le armi per la rivoluzione sono state condannate e perseguitate, stigmatizzate perché non hanno voluto sottostare alla posizione in cui il patriarcato voleva relegarle.”
Distribuzioni e presentazioni
100 pag. Il prezzo è 5 euri, per le distribuzioni 4. Il ricavato dalla vendità sarà utilizzato per finanziare progetti simili. Il libro è disponibile per essere distribuito unicamente in distro femministe e transfemministe.
Le presentazioni del libro sono pensate per essere fatte in contesti separati (senza uomini cis). La logica dietro a queste decisioni è di rimanere coerenti alla scelta delle donne – le cui voci sono raccolte nel libro – di condividere le loro storie in un contesto separato. Ciò ci permette di fare di questa pubblicazione uno strumento di rafforzamento della rete femminista e transfemminista.
Per ricevere copie del libro e/o organizzare insieme delle presentazioni (a partire da gennaio 2023), potete scriverci a: memoriacomeresistenza@riseup.net
Link alla distribuzione dell’edizione catalana: <https://latiendacomprometida.com/feminismo/2257-mujeres-mas-alla-de-las-armas-vol1.html>
Diffondiamo un contributo del Collettivo antipsichiatrico Strappi, all’iniziativa “MOVIMENTI TRANSFEMMINISTI E SOVVERSIONE DELLO SPAZIO URBANO”
[Polizia e psichiatria: conosciamo le loro cure e i loro trattamenti]
Il proliferare di pratiche psichiatriche va di pari passo ai processi che vedono le città configurarsi sempre più come industrie di sfruttamento e controllo. Metropoli mediate da aziende private, interconnesse e digitalmente sorvegliate, disciplinate sempre più in senso autoritario e iper-razionale, centri di profitto burocratizzati, scientificamente normati e igienizzati, tra telecamere “intelligenti”, “innovazione” urbana, sofisticate architetture e panchine antidegrado. Speculazione edilizia e militarizzazione dei territori aprono la strada ad affitti impossibili, sfratti e sgomberi, oltre che a progetti di ipocrisia sociale all’insegna del greenwashing, del socialwashing, della menzogna tecnologica [la smart city] e della falsa coscienza. A colpi di riqualificazione, decoro e repressione, si esaspera l’inesorabile processo di espulsione – legittimato da culture securitarie – di tutte quelle soggettività considerate problematiche al discorso del potere e non utili al profitto. Lungo le strade in ogni città rastrellamenti quotidiani si abbattono sulle fasce più marginalizzate della società. Una “sicurezza” sempre più “preventiva” , volta ad asfaltare tutti gli spazi di fiducia, libertà, relazione, intersezione, prossimità e solidarietà dal basso.
In nome delle bandiere del decoro e del degrado, controllo e repressione identificano costantemente nuovi “mostri” su cui scaricare insicurezza e timori per fomentare tutte quelle paure che possono essere strumentalizzate in funzione di consenso: l’obbiettivo é spezzare qualsiasi possibilità di solidarietà e impedire qualsivoglia forma di messa in discussione del presente. La retorica del “decoro” e del “degrado”, la gestione violenta e iper-razionale dello spazio urbano, la pulizia di quanto imprevisto e non-normato, non sono altro che l’esito di un potere che si appella in modo sempre maggiore a paradigmi psichiatrici e a dicotomie di stampo binario e patriarcale. Questi paradigmi si consolidano nell’articolazione del potere di pari passo all’irreggimentazione delle strutture che lo regolano, e che regolano le relazioni all’interno dei territori e tra le persone.
Assistiamo all’uso sempre più frequente e capillare del daspo urbano per allontanare persone “sgradite”, e della manipolabilissima categoria di “pericolosità sociale” di derivazione psichiatrica e fascista per reprimere il conflitto e contenere/sedare diseguaglianze e oppressioni. Vediamo continuamente puntare il dito contro la “malamovida”, neologismo che si vuole contrapposto a “buona movida”, cioè a quella socialità che rientra perfettamente negli spazi e nei tempi del consumo. Anche l’infanzia è nel mirino: attraverso la costruzione mediatica del “bullo” e della “baby gang”, giovani e adolescenti sono continuamente trattati e rappresentati come un problema di ordine pubblico da reprimere mentre rimangono intatti quei modelli che il sistema stesso riproduce ed esalta, pesci grandi che mangiano pesci piccoli all’interno di realtà dove solo chi ha soldi e potere è preso in considerazione, e chi non accetta di essere un cavallino da corsa non è nessuno. Nel frattempo imprese e attività commerciali sono incentivate a tappezzare i marciapiedi di telecamere con la promessa di detrazioni fiscali, gli individui sono incoraggiati a sorvegliare le strade a loro volta, forti di una crescente accessibilità dell’intervento delle forze dell’ordine, cementificandone il ruolo di controllo e repressione anche all’interno dei singoli, costantemente spinti alla delazione piuttosto che alla relazione.
Lo spazio pubblico irrimediabilmente costruito a immagine dell’uomo bianco, eterosessuale e borghese richiede prestazioni sempre più abiliste e performative che seguono norme ideali di neurotipicità o aspettative sociali calate dall’alto piuttosto che concrete e reali esigenze provenienti dalle soggettività oppresse che vivono desideri e bisogni altri.
L’organizzazione algoritmica dello sfruttamento, la mercificazione esasperata di ogni aspetto della vita, sta depoliticizzando l’incontro con noi stessi, con l’altro e con l’ambiente e incoraggiando una sempre più ampia disumanizzazione delle relazioni sociali. La psichiatria è pronta a raccogliere i cortocircuiti di queste oppressioni e a colonizzare con nuovo slancio il quotidiano e l’individuo: la platea di “difetti” e “tare” da “curare” è destinata ad aumentare proporzionalmente allo sfruttamento e all’oggettivazione che attraversano sempre più infanzia ed età adulta. Lo sfruttamento, l’isolamento e il disciplinamento esasperato di ogni aspetto della vita, l’insicurezza legata al presente e al futuro, la vede infatti in prima fila nell’individuazione di nuovi “disturbi” e “terapie” per “contenere” con nuove diagnosi e nomenclature le “ansie”, legate a rabbia, paura e frustrazione in crescente aumento, da addomesticare e spiegare con specializzazioni create ad hoc.
Ma la solitudine a fronte di un contesto comunitario deprivato si riferisce anche ad una vita sociale impossibile nei “loculi” domestici cittadini.
La famiglia nucleare patriarcale come modello dominante continua a svolgere il suo ruolo di piccola istituzione totale, laboratorio quotidiano di abusi, isolamento e oppressioni sistemiche: lo spazio domestico e familiare spesso infatti esaspera dinamiche oppressive con la tendenza mattofobica a isolare una vittima, che diventa tante volte capro espiatorio di situazioni nocive, da punire proprio quando manifesta in maniera eterodossa atti di libertà ed espressione di sè che non vengono capiti o accettati. Non dimentichiamo che, così come le violenze, anche il ricorso alla psichiatria, quando avvengono i TSO, proviene sovente da persone conviventi e spesso parenti della persona interessata, vuoi per mancanza di conoscenza, vuoi per mancata elaborazione di alternative, che il più delle volte nei nuclei famigliari sono assenti o non ricercate per l’accumularsi e incancrenirsi di processi tendenti a circoli viziosi che si richiudono al loro interno.
Tutto questo, come soggettività con un posizionamento antiautoritario e antipsichiatrico non solo ci riguarda, ma ci chiama in causa. Le strade che vorremmo percorrere sono in direzione altra rispetto alla famiglia intesa come nucleo ciseteronormativo, nella direzione di legami e parentele inedite dove l’aspetto di interdipendenza e cura reciproca si alimentano in un circolo virtuoso.
E’ evidente quanto la fatica ad organizzare una resistenza derivi in primo luogo dall’inesorabile sottrazione di reali spazi di autodeterminazione, soggettivazione e messa in comune delle esperienze, in favore della competizione fra individualità deprivate, impegnate a sopravvivere e concorrere come monadi per rimanere a galla.
CONOSCIAMO LA FALSA SICUREZZA CHE VENDONO PSICHIATRIA E POLIZIA, CONOSCIAMO LE LORO CURE E I LORO TRATTAMENTI!
A fronte di un’oppressione che vede coinvolte sempre più soggettività, crediamo sia urgente e necessario individuare spazi dove liberare complicità, legami nuovi e solidarietà impreviste!
Collettivo antipsichiatrico STRAPPI
Link: https://antipsi.noblogs.org/post/2022/11/10/spazio-urbano-e-psichiatrizzazione-della-dissidenza/
PDF PSICHIATRIZZAZIONE DISSIDENZA
Estratti dalla puntata di Lunedì 7 novembre 2022 di Bello Come Una Prigione Che Brucia su Radio Blackout
Due compagni siciliani, Claudio e Dario, sono stati “candidati” alla sorveglianza speciale per la loro partecipazione alle lotte sul territorio contro carcere, grandi opere e varie nocività sociali. In questa diretta, grazie al contributo di Claudio, più che soffermarci sul dispositivo della sorveglianza speciale, tenteremo soprattutto di osservare il ruolo della Procura Antimafia-Antiterrorismo e del Ros dei Carabinieri nella repressione della conflittualità politica, con un’evidente dimensione di sperimentazione sul territorio siciliano.
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Cerchiamo di dare notizia di un altro sciopero della fame di cui si parla pochissimo e che riguarda prigioniere e prigionieri turchi nelle carceri greche. Arresti scaturiti dall’operazione antiterrorismo contro l’organizzazione DHKP-C e l’attacco al sito di controinformazione anti-imperialistfront.org; una storia attraversata dagli scambi istituzionali tra due stati reciprocamente ostili, come Grecia e Turchia, che trovano un piano di cooperazione sul versante repressivo. Ne parliamo in compagnia di Gabrio.
Il 2 novembre 2022 si è tenuta a Messina l’udienza per la richiesta di sorveglianza speciale nei confronti di Claudio e Dario. Per tutta la mattina davanti al tribunale si è riunito un presidio di solidali, che ha visto una variegata partecipazione di compagne, amici, singoli e collettivi che hanno attraversato le lotte sociali degli ultimi anni e che nell’ambito delle indagini e delle intercettazioni sono finiti anch’essi sotto la lente repressiva dello stato. Durante la mattinata si sono alternati diversi interventi che, oltre a Claudio e Dario, hanno espresso solidarietà anche ai compagni anarchici in carcere, in particolare Alfredo, Anna e Juan. Il giudice, avallando il parere avverso della pm, ha rigettato la richiesta di svolgere l’udienza a porte aperte, adducendo come motivazione ragioni d’ordine pubblico. L’udienza si è aperta con il deposito da parte della procura di una informativa integrativa dell’indagine a carico di Claudio e Dario, che andrebbe ad infittire le accuse a loro carico. Alla richiesta di rinvio ad altra data presentata dall’avvocato difensore, e che avrebbe permesso di visionare il nuovo incartamento, il giudice ha però risposto che il dibattimento si sarebbe dovuto tenere comunque in giornata, concedendo soltanto un rinvio ad horas. Prima della requisitoria della pm, Claudio, presente in aula, ha tentato di leggere una sua dichiarazione, di cui però ha potuto riportare esclusivamente la parte finale, dove esprime solidarietà ai compagni anarchici in carcere. La sentenza sarà notificata entro 90 giorni. Terminata l’udienza Claudio, raggiunti i suoi compagni e le sue compagne in piazza, ha potuto dare lettura integrale della sua dichiarazione.
RIFLESSIONI
Cosa succede quando al tentativo dello Stato di isolare, distorcere, criminalizzare un’etica che sostiene e guida un agire chiaro, gli individui destinatari dell’azione repressiva (e in senso allargato le relazioni che si portano appresso) schivano la paura indotta, portando in luce ciò che nei giorni del quotidiano delle nostre vite costrette rimane al buio dell’alienazione – ma è lì, ancora vivo? Succede quello che abbiamo vissuto ieri, nella piazza di fronte il tribunale di Messina: non una routine, non una presenza al minimo, ma il massimo possibile nel momento della generosità e del sentirsi parte che si sono espressi e hanno parlato al di là della contingenza della richiesta di sorveglianza speciale; sotto accusa non erano solo Dario e Claudio, ma insieme e attraverso loro, come sempre accade (in questo momento lo viviamo con una gravità e un senso di urgenza cui sappiamo di dover rispondere) tutta una storia, lunga, di esperienze di lotta di un territorio. Della ricchezza di quel contesto si è stati partecipi: e nello stringerci intorno ai nostri compagni, nell’esprimere solidarietà ad Alfredo, Anna, Juan, ai detenuti tutti, nel parlare in piazza di 41bis iniziando a riappropriarci delle parole e di una storia taciute, lasciate troppo a lungo nelle mani del potere, abbiamo per qualche ora dato un senso altro a un luogo nemico; ché la solidarietà ha il peso, tutta la materialità della presenza, tanto da accorciare distanze e riavvicinare percorsi che negli anni si sono separati. Era un condensato di umanità in relazione eccentrico, ricco, plurale, a manifestarsi, il senso di un ergersi della fierezza quando sotto attacco è il procedere – con fatica e modi diversi – in direzione ostinata e contraria, col pensiero e nelle azioni. Questa consapevolezza, la sensibilità e il calore umani, la convinzione in se stessi di ciò che si è, si vuole essere, il tentativo di somigliarvi e di costruire una vita che più ci somigli, e che riusciamo a vivere a sprazzi, per brevi momenti anche in un presidio, sono il precipitato di percorsi singolari e comuni che si intrecciano, che suonano di armonie e dissonanze. E che hanno al contempo la voce di sussurro delle parole d’affetto dei propri cari e l’urlo a squarciagola dei compagni nell’ora della lotta.
DICHIARAZIONE DI CLAUDIO CONTRO LA SORVEGLIANZA SPECIALE
Il provvedimento di richiesta della sorveglianza speciale nei miei confronti era pronto – con tutti gli incartamenti prodotti da questore, ros e pubblico ministero – dal mese di luglio. Mi è stato però consegnato di tutta fretta l’ultimo giorno utile prima che venisse invalidato. Aspettavo una notifica per un processo, quindi quando ho realizzato di cosa si trattasse ho avuto un momento di spiazzamento. Protrattosi – nonostante la nitidezza con cui mi si chiarificava interiormente ciò che per me è più importante, più urgente, più vitale – fino a qualche giorno fa, dal momento che il giorno della consegna mi era stata data solo la prima pagina del verbale che mi riguardava. (Dalla quale avevo potuto appurare che sono stati di recente archiviati due procedimenti nei miei confronti «in ordine al reato di cui all’art. 270bis c.p.», per la «non idoneità del materiale investigativo raccolto a sostenere l’accusa in giudizio». E poi che «le indagini svolte hanno in primo luogo ricostruito l’esistenza e l’operatività sul territorio provinciale di una compagine ispirata, quantomeno nei suoi esponenti principali, a modelli e concetti dell’anarchismo federativista»). La restante parte del dossier ho potuto consultarla soltanto diversi giorni dopo, quando il mio avvocato è riuscito a ritirarlo. Dopo un riepilogo dei miei carichi pendenti e del mio casellario giudiziario, su cui tornerò in seguito, vi si può leggere la relazione con cui il PM, «visto il D. Lgs n.159 del 6.09.2011, chiede che il tribunale voglia applicare a Risitano Claudio la misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, per una durata di anni due». Il codice a cui si fa riferimento è il codice antimafia – la natura della mia “pericolosità” essendo stata appurata dal ROS (lo stesso reparto al vertice del quale, per limitarmi a uno solo degli innumerevoli esempi possibili, si è trovato il generale Subranni, colui che escluse la pista mafiosa all’epoca dell’omicidio di Peppino Impastato) nel corso di indagini durante le quali sono state spiate le mie telefonate e pedinati i miei movimenti per “scoprire” ciò che sarei stato e sono disposto a riconoscere in qualunque momento e in qualunque condizione (dalla veglia raziocinante agli stati non ordinari di coscienza): «gli elementi informativi acquisiti e le conversazioni registrate nell’ambito del procedimento consentivano di documentare che il proposto frequenti gli ambienti dell’anarchismo, palesando reiteratamente (vds. vicende giudiziarie) condotte idiosincratiche nei confronti di qualsiasi forma di autorità e di espressione del potere statale». Visto che le inchieste specifiche si sono rivelate dei buchi nell’acqua clamorosi, si chiede vengano considerate le mie vicissitudini penali e le mie condotte complessive.
Su questo vorrei essere il più chiaro possibile: nessuno potrà mai estorcermi professioni di fede nei confronti della legalità. (È stato legale, nel paese in cui vivo e sono nato, deportare gli ebrei e illegale offrire loro ospitalità; se oggi si sostituisce ‘clandestino’ ad ebreo, ci si rende conto che c’è ben poco da esultare per la “costituzione più bella del mondo”.)
Nessuno, a maggior ragione mentre i venti di guerra infuriano ferendo a morte la parte più vulnerabile dell’umanità e i manager di Leonardo- Finmeccanica diventano multimiliardari grazie alla produzione e alla vendita di armi letali, potrà mai convincermi della legittimità etica del monopolio della violenza in mano allo Stato;
nessuno potrà convincermi, qualora decidessero di distruggere ulteriormente la città in cui abito dando inizio ai cantieri per la costruzione del ponte sullo stretto e inviando l’esercito a presidiarli come si fa con le opere strategiche, che è giusto dissentire, sì, ma solo nell’alveo delle procedure consentite dall’ordinamento. Non firmerò petizioni con le quali mi impegno in nome della democrazia a capitolare di fronte al prevalere nella realtà materiale degli interessi più oligarchici.
Nessuno, se non annichilendomi, potrà far smettere di risuonare nella mia interiorità, nei miei sogni e in mezzo agli scogli del (non) vissuto quotidiano, l’eco delle lotte dei contadini insorti agli albori della modernità. Il grido profetico di Thomas Müntzer, omnia sunt communia, ha avuto bisogno per essere sconfitto di tutta la violenza delle enclosures, del rogo delle streghe, dello sterminio degli indios; ma la sua eco ha attraversato i secoli, animato i momenti insurrezionali, e ora – tanto più sconfitto quanto più urgente – prorompe evocando per la specie umana un irrimandabile cambio di rotta.
Il capitale rinnova permanentemente l’accumulazione originaria e l’estrazione di plusvalore colonizzando l’immaginario e imponendo la sua legge fin dentro i corpi: ma una febbre di rigetto scuote tutto ciò che nell’umano eccede la dimensione della macchina, irriducibile alla misura di un algoritmo.
Dentro questo scenario, nessuno – neppure servendosi in modo strumentale e distorto della nozione di terrorismo – potrà mai inchiodare con le spalle al muro la mia coscienza di quanto profondamente diverse siano le pratiche, le tensioni e le idee di cui sono accusato da quelle portate avanti nell’ultimo secolo dalla mafia, con l’appoggio costante di vertici istituzionali operanti in parlamento, all’interno delle procure, a capo dei servizi segreti, dell’arma dei carabinieri e della polizia di stato. (Se si guarda alla strage di Portella della Ginestra e agli attentati del 1992, se si pensa ai morti lasciati sul selciato dalla polizia agli ordini di Scelba nel corso di scioperi e manifestazioni, o ai contadini e sindacalisti stroncati dalla lupara della mafia su mandato dei latifondisti per avere occupato le terre e per aver osato alzare la testa, è possibile ricostruire – dati accertati in sede storica alla mano – una sequenza impressionante di depistaggi orditi dall’alto e una sostanziale fattiva collaborazione tra sicari esperti d’armi, boss dell’economia e vertici dell’apparato statale).
Se è la mia condotta complessiva ad essere pericolosa (ma per chi? Davvero chi è stritolato dal caro-vita, o rifletta sulle condizioni in cui lavora e abita, può sentirsi – se non al culmine di una manipolazione stregonesca – minacciato dalle azioni e dagli ideali degli anarchici?), risponderò su un terreno complessivo.
E vorrei cominciare riportando le parole pronunciate in corte d’assise da Alfredo Maria Bonanno, nel corso di un’udienza processuale tenutasi nel 1999: «Ora perché – prima di chiudere lasciatemi dire due cose – mi sono chiesto perché gli anarchici, perché il 12 dicembre la bomba a Piazza Fontana, perché l’assassinio di Pinelli, che significa?
In fondo io non sono tanto stupido da non rendermi conto che gli anarchici nella realtà sociale italiana e internazionale oggi che cosa costituiscono? Meno che il nulla, forse più un fantasma che una realtà, un’idea che non è capace di svilupparsi in uno sviluppo quantitativo, un’utopia – sembrerebbe…
Invece io penso che gli anarchici siano molto pericolosi, signor presidente, perché rappresentano a livello di coscienza il desiderio che ognuno di noi ha di una vita diversa, di una vita libera, senza la tristezza che quotidianamente ognuno di noi sperimenta, una vita più bella – appassionatamente più bella. E per questo non hanno paura di dire che sono nemici dello Stato: gli anarchici sono nemici dello Stato. Certo, da soli non possono avere quella pericolosità che la scelta di tanto nemico meriterebbe, però ci sono degli alleati incredibilmente potenti degli anarchici, e si nascondono fra la gente, fra la gente comune, fra la gente che ha bisogno di trasformare la propria vita, la propria situazione. E basta un piccolo cenno, una piccola cosa imprevedibile che potrebbe succedere…
Non sono i partiti, non sono le grandi ideologie repressive, non sono i grandi progetti di conquista del potere che significano per la gente qualcosa nel momento in cui si gioca la propria vita. Ecco gli anarchici, in quel contesto, significano qualcosa. […]
non occorre leggere i libri scritti dagli anarchici, non occorre sapere cosa vuol dire la differenza fra nucleo di base o gruppo di affinità – queste sono faccende da specialisti.. […] è questo che fa paura, il fatto che l’anarchico potrebbe essere il compagno di strada di milioni di persone, che un certo momento al di là delle barriere ideologiche e della stessa situazione di classe – per quello che oggi può significare ancora ‘sta parola – potrebbero scendere in piazza… e allora sì che lo Stato potrebbe avere paura.»
Tornando a me, per quante ambasce mi dia il pensiero dell’impatto pratico di un simile provvedimento sulla mia quotidianità, dall’impossibilità di lasciare il mio comune di residenza all’obbligo di rientro entro le nove di sera, più altre piccole e grandi vessazioni che non c’è bisogno di nominare perché mi preme di più un altro ordine di considerazioni, so di non trovarmi nell’epicentro della violenza repressiva. Mi basta pensare solo per un istante a chi sta cercando di valicare una frontiera e si sente, perché lo è, braccato dalle polizie di due paesi; a tutte le detenute e i detenuti; a chi ad una pena già schifosa ed afflittiva si vede aggiungere il supplemento di condizioni detentive che implicano una quotidiana ulteriore tortura fisica e psicologica. Per questo motivo sia la mia intelligenza che il mio istinto mi suggeriscono di attraversare ciò che mi sta capitando con lo sguardo rivolto non tanto alla spada di Damocle che pende sulla mia testa quanto al paesaggio sociale in cui questo avviene e alle valutazioni complessive che è possibile trarne. I valori occidentali sono evidentemente compatibilissimi con provvedimenti rivolti alla penalizzazione delle idee e giustificati dall’intento di prevenire il rischio che quelle idee diventino reati. Ma se si pensa che questo riguardi poche isolate teste calde, si rischia di non apprendere le dure lezioni degli ultimi anni. Se l’accusa rivolta ad anarchici e antagonisti è di «impedire all’autorità di svolgere le proprie funzioni», che cosa si dirà di qualsiasi lotta che non sia puramente testimoniale? Se gli abitanti di Piombino, o della valle del Mela, si mobiliteranno contro ri-gassificatori ed inceneritori provando a impedirne davvero la realizzazione, potrebbero incorrere anche loro in sanzioni del genere. Per questo scrivo, sentendo l’esigenza di condividere le mie riflessioni. Forse serve solo a non arrendersi alla corrente: ma non è poco.
Scorro i fogli che ricostruiscono dal punto di vista delle autorità la mia biografia, e mi viene da chiedermi a quali corsi vengano sottoposti gli ufficiali dell’arma per disimparare a scrivere e a leggere in questo modo. «La di lui fidanzata» mi ha ricordato che la sorveglianza speciale è nelle sue ultime riformulazioni una misura figlia di provvedimenti molto simili adottati contro «oziosi, vagabondi» e sovversivi sia dal governo Crispi che dal governo Mussolini – facendomi respirare l’atmosfera e la prosa di un verbale redatto verso la fine del diciannovesimo secolo; un intero testo di Giorgio Cesarano scambiato – distorcendone per intero il senso – per un mio personale invito a dare avvio alla «lotta armata» contro «il c.d. potere negativo» rivela in un colpo solo i limiti ermeneutici di chi deve far corrispondere il materiale riscontrato con la tesi precostituita. Per il resto, gli elementi a mio carico sono un saluto al carcere di Siracusa e la disponibilità espressa per telefono ad ospitare a casa mia un compagno che sarebbe venuto a Messina per un colloquio con Anna, in quel momento detenuta a Gazzi. Nonché un generico collegamento con individui e realtà collettive presenti sia in Sicilia che nel resto d’Italia. Per il resto, si tratta per l’appunto di attingere al serbatoio dei procedimenti giudiziari passati e pendenti. È la somma che fa il totale. Vediamo dunque di che si tratta.
Nel 2009 «veniva denunciato per resistenza a pubblico ufficiale e per invasione di terreni o edifici, per fatti risalenti» all’anno precedente «in cui lo stesso, in concorso con altri, a conclusione di un corteo studentesco di protesta, occupava parte del locale ateneo, forzando il cordone formato dalle forze dell’ordine». Quel giorno ho fatto esperienza di ciò che da tempo, confusamente, sentivo: e cioè che ribellarsi è possibile ed è giusto, nonostante tutto ciò che ci si erge innanzi per scoraggiarci dal tentare. (Che si tratti di un cordone, per quanto in quel caso veramente esiguo e privo dei mezzi della Celere, o di una denuncia – per quanto in quel caso priva di conseguenze penali.) Non baratterei l’intensità di quella scoperta se in cambio mi venisse offerta una fedina penale immacolata.
Nel 2010, «veniva denunciato in stato di libertà dalla Digos di Messina per interruzione di un ufficio o servizio pubblico o di un servizio di pubblica necessità, blocco ferroviario, per fatti risalenti al 12.09.2010, in cui lo stesso, in concorso con altri, nel corso della manifestazione dei precari della scuola poneva in essere un blocco, di alcune ore, della circolazione ferroviaria all’interno della locale stazione centrale delle ff.ss». Quel giorno, secondo cgil, cisl e uil le docenti e i docenti provenienti da mezza Sicilia avrebbero dovuto «rappresentare la crisi» restando confinati a Piazza Cairoli ad ascoltare gli interventi dei sindacalisti. Ed invece..
Nel 2011, «veniva segnalato da personale della locale Compagnia della Guardia di Finanza, quale assuntore di sostanze stupefacenti»; perché sì, è capitato, capita e capiterà che io fumi marijuana o assuma sostanze enteogene e psichedeliche. E non sarà la paura del recupero da parte del riformismo istituzionale (peraltro sempre meno probabile intorno a questi temi, almeno in Italia) a farmi seppellire la bussola dell’antiproibizionismo. «Uccide di più lo stigma che le sostanze». Io su questo terreno erigo le mie barricate di consapevolezza, fragili ed esposte alle intemperie come tutto ciò che è vivo, eppure ben salde – radicate e ravvivate nel contatto con la mia intimità più profonda. Ma quanti danni atroci ha fatto e continua a fare ogni giorno, sulla carne viva del dolore e dell’inquietudine regnanti lì dove il capitale si fa dominio totale, la legislazione che dalla Craxi-Jervolino alla Fini-Giovanardi ha dichiarato guerra ai “drogati”? Una persona su quattro utilizza psicofarmaci – moltissime volutamente; altre – riottose alla visione del mondo dominante nei reparti psichiatrici (e fuori di essi: nella società che li produce) – su forzatura medico-poliziesca. Semplicemente, è lo Stato a decidere quali sostanze possano, o addirittura debbano, essere assunte e quali no. Ed io non voglio adeguarmi a questo andazzo. Legislatori ed esecutori hanno il coltello dalla parte del manico: ma mi ferirei mortalmente da solo, se per non risultare una “persona pericolosa” relegassi queste mie idee, che piuttosto vorrei gridare dappertutto, da tutti i tetti, nella clandestinità.
Nel 2012, sono stato denunciato per una manifestazione non autorizzata culminata in un breve blocco della circolazione ferroviaria, nel giorno in cui dalla val Susa era arrivato l’appello a «bloccare tutto, dappertutto».
Nel 2013, sono stato denunciato per l’occupazione del teatro in fiera. Nessuna distanza intercorrente tra il me di adesso e il me di allora potrebbe mai indurmi un minimo di pentimento intorno a quell’azione. Da cui sono seguiti giorni, e poi mesi e anni, che hanno rivoluzionato la mia esistenza. Fino a farmi scorgere nell’etica anarchica (che non incarno affatto ma verso cui mi protendo con tutta la mia passione e con tutti i suoi inciampi) la prosecuzione quotidiana di quei bagliori che in modo intermittente avevano illuminato le situazioni e i contesti di lotta vissuti fino a quel momento. Il rifiuto della delega, l’opposizione con ogni mezzo necessario a chi spadroneggia nel regno degli eserciti e delle merci, l’appello con i gesti e le parole alla «solidarietà cosciente e voluta» piuttosto che alla presa del potere per modificare i rapporti sociali, sono state per me un’esortazione costante, uno sprone a non cercare scorciatoie e neppure strade comode. Ne sono venute altre denunce, una sfilza delle quali tra il 2013 e il 2016 a Niscemi per aver invaso la base Nato in cui è stato impiantato il Muos, per aver danneggiato le recinzioni di filo spinato, per violenza e resistenza a pubblico ufficiale, per aver ritardato di qualche ora l’arresto di una persona nei pressi del presidio. Anche sul corteo al Brennero, sulla ‘radunata sediziosa’ contro un banchetto di casapound, sull’interruzione della messa nella cattedrale il giorno della domenica delle palme mentre nell’indifferenza generalizzata il governo turco bombardava la città curda di Afrin: non ho autocritiche da fare che intacchino la sostanza di ciò che sentivo mentre mi trovavo in quei contesti. Innanzitutto, che volevo fortemente trovarmi lì. Un mondo nel quale non si può che obbedire alla logica della sopraffazione, e soccombere a tutto ciò che questo comporta, è per me inabitabile. Un mondo nel quale uno sparuto gruppo di persone, alcune conoscendosi solo da qualche giorno, attraversa in piena zona rossa la Sicilia per andare a fare un rumoroso saluto a un compagno in carcere nel giorno del suo compleanno, lo è un po’ meno. Se la posta in gioco è la criminalizzazione della solidarietà, non cercherò di schivarla stando schivo: si tratta invece di difenderla con tutto me stesso. Il tempo è ora. Ed è il tempo di dire forte e chiaro ciò che non si può più tacere. Nel paese della strage di Piazza Fontana (indagini depistate dal generale Maletti e dal capitano Labruna), di piazza della Loggia (uno dei cui esecutori si è scoperto dopo quarantanni essere un informatore dei servizi segreti), della stazione di Bologna (indagini depistate dal generale Musumeci, dal colonnello dei carabinieri Belmonte e dall’agente segreto Pazienza – per tacere del ruolo svolto dal maestro venerabile della P2, Licio Gelli); nel paese degli attentati di Capaci e Via D’Amelio (basterà nominare l’agenda rossa di Borsellino, l’ordigno all’Addaura contro Falcone, la fabbricazione del falso pentito Scarantino e le conseguenti condanne al 41 bis di persone che solo dopo 18 anni di torture quotidiane sono state riconosciute del tutto estranee ai fatti per vedere arrossire chi in vita sua si è sempre schierato dalla parte dei sepolcri imbiancati e dei colletti bianchi?); nel paese in cui mafia, fascisti, massoneria e servizi segreti hanno agito in combutta per stroncare ogni istanza di rivoluzionamento dei rapporti sociali e per “difendere la società” istituita: in questo paese in cui la rimozione di ciò che è accaduto si accompagna all’occultamento e alla distorsione di ciò che continua a succedere, ci sono in questo momento una compagna e due compagni anarchici (Anna Beniamino, Alfredo Cospito e Juan) condannati all’ergastolo o a 28 anni per il reato di tentata strage. Nonostante gli ordigni collocati davanti a una sede della lega nord e davanti alla scuola Allievi dei Carabinieri non abbiano determinato né morti né feriti. Alfredo Cospito è sottoposto al 41 bis, ed ha per questo iniziato uno sciopero della fame «a oltranza». Sciopero a cui si è unito anche Juan. Di fronte a questa consapevolezza, ognuno tragga le sue conclusioni.
«Chiunque si sente nel quotidiano come in un deserto, è a un passo soltanto dal cuore di tutti, poiché è ad un passo soltanto dal proprio cuore. Non si tratta di arrestarsi, non si tratta di sedersi a piangere, di costruirsi un’oasi. Si tratta, al contrario, di accennare con tutta la forza rimasta quel passo di avvicinamento, quell’abbraccio d’amore e di lotta, che tanto più sembra assurdo quanto più il quotidiano appare deserto. È in questo movimento che ognuno potrà, nel perdurare del desiderio resistente all’annientamento oggettuale, scoprire in sé la presenza di quel programma storico che è la passione, e sentirsi pronto».
Io non mi sento pronto affatto, ma qualche minimo appiglio ce l’ho e me lo tengo stretto: il mio abbraccio d’amore e di lotta, la mia più profonda solidarietà, vanno a Juan Alfredo e Anna. Ciò che mi annienterebbe, più della convalida di voi giudici alla richiesta del questore, sarebbe la collusione – in nome di una possibilità di quiete – con questo ordine delle cose. Tutti i miei momenti di felicità più piena sono sgorgati da quelle volte nelle quali, in mezzo a mille viltà quotidiane, ho trovato nel contatto con la mia dimensione più profonda lo slancio e il coraggio della rivolta: e il più grave delitto che potrei commettere contro la mia sensibilità sarebbe quello di acconsentire al prosciugamento di quella fonte.
Dichiarazione di Claudio contro la sorveglianza speciale PDF