ARGENTINA: SUL MASSACRO DI BARRACAS

Riceviamo e diffondiamo. Da scaricare, distribuire e stampare.

**QUESTO TESTO CONTIENE VIOLENZA FISICA ESPLICITA E LESBODIO\FOBIA*

Fonte: https://lazarzamora.cl/?p=12429

È stato lo scorso 5 Maggio alle 23:30 a Barracas ( Argentina ) l’assassino lesbicida e aggressore, Justo Fernando Barrientos di 67 anni, compie un esecuzione lesbo odiante contro le sue vicine:
Pamela Cobbas e Mercedes Roxana Figueroa, coppia che condivideva la stanza con Andrea Amarante y Sofía Castro Riglos altra coppia di lesbiche che stava vivendo temporaneamente con loro nel hotel/dormitorio di Barracas. Quella notte l’aggressore, apre la porta della stanza, butta combustibile, e lancia dentro un esplosivo artigianale mentre dormivano, dando fuoco e provocando un grande incendio.

Dopo l’attacco le donne sono state ospitalizzate. Pamela e Mercedes sono morte nelle ore successive all’attacco. Andrea è morta domenica. Sofía è fuori pericolo di vita -resta ospedalizzata con bruciature sul viso e le mani. Secondo i medici risponde bene alle cure.

UCCISE PERCHÈ LESBICHE

Secondo le dichiarazioni dei vicini: Pamela 52 anni, vendeva cosmetici e dolci, viveva apertamente il suo lesbismo, visibilizzando sui social  la lotta le lotte delle dissidenze sessuali. Viveva con Roxana Mercedes anche lei 52 anni, e entrambe “se la cavavano come potevano vendendo cosette”.

Andrea, la terza a morire aveva 43 anni, era sopravvissuta al massacro nel locale República di Cromañón ( concerto del gruppo Callejeros nel quale un incendio aveva ucciso 194 persone e fatto 1400 feriti nel 2004). La “Coordinadora Cromañón” ha denunciato che Andrea non aveva mai potuto beneficiare del “Programma per le vittime di Cromañón” ne di nessun aiuto dopo il massacro. Evidenziano anche che Andrea aveva vissuto in strada una parte della sua vita, vivendo povertà e precarizzazione, cosa che inevitabilmente l’asposta alla violenza.

Il femminicida, secondo i vicini, esprimeva apertamente la sua rabbia ” perchè erano lesbiche”. Altre volte, aveva già agito violenza su un uomo in quanto gay, che aveva finito per andarsene del dormitorio. Nella stessa maniera il lesbicida le aveva già aggredite verbalmente in precedenza, con isulti lesbodianti, grassodianti\fobici, e minacce di morte.

(…)

Sofía, oggi è l’unica sopravvissuta al massacro brutale e lesbodiante in Barracas e ha bisogno del massimo aiuto possibile per poter guarire, ricostruirsi e trovare un nuovo posto dove vivere. Se volete supportare infondo trovate i dati per i bonifici.

Le organizzazioni e\o attiviste della diversità sessuale e di genere di Puelmapu sostengono che ci sono varie angoli e intersezioni in questo orribile e brutale crimine e triplo lesbicidio. Per nominarne qualcuna, la classe, la povertà, la precarizzazione  nel quale si trovano i corpi esclusi dal sistema e dai loro familiari. Il silenzio e la banalizzazione di questo tema nei mezzi di comunicazione ( questo caso come quello del massacro in Palestina dovrebbero essere un putiferio ed uno scandalo mondiale) oltre che essere la conseguenza del rinforzarsi dei discorsi di odio grazie al governo di Javier Milei, conservatore, ultraneoliberale e odiatore delle diversità. Nel corso della sua presidenza è salito del 10% il numero di crimini di odio contro le donne, dissidenti sessuali e di genere, rispetto all’anno precedente.

Lo stato ha storicamente denigrato e scartato i corpi che non riproducono l’eterosessualità, sia progressiste o fascista come è il caso del governo argentino, che concentra i suoi obbiettivi nel rinfozare il capitalismo esterno, l’eterosessualità obbligatoria e l’eteronorma, mettendo a rischio le donne e tutte le persone lgbtiqa+.

A prima vista si nota come il conservatori e il fondamentalismi religiosi tornano ad apparire, dopo anni di lotta e resistenza dei gruppi marginalizzati, come nel caso dei corpi lesbici, delle donne e della dissidenza sessuale. In questo caso il corpo lesbico resta completamente invisibilizzato e categorizzato nella scala più bassa della società per via dei discorsi patriarcali macisti e retrogradi, qualificando come “inrazionali”, malatx,(…).

Collettività, individalità e organizzazioni argentine hanno manifestato in differenti territori per dare visibilità al massacro, denunciando la complicità dello stato con la violenza patriarcale. In altre parti del mondo come: Bolivia e $ile stanno organizzando incontri e manifestazioni per denunciare l’orrendo attacco. Chiamiamo ad agire in tutti i territori e con differenti forme.

Abbiamo bisogno di dire che le lesbiche e lesbichx esistono, che dietro ogni vita ci sono dei sogni, figlx, progetti, amori, tristezza. È necessario mantenerci organizzate, organizzare la nostra autodifesa, esprimersi, appoggiarsi, incontrarci e ritualizzare tanto la morte come la vita, condividere possibilità di sussistenza, coordinandoci contro la precarizzazione delle nostre vite senza mendicare allo sato.

E continuare a prendere parola per quelle, quellx e quelli che non ci sono più.

Per solidarizzare economicamente con Sofía.
Alias transferencia: ACIVIL.NIUNA.MENOS
Asunto: lesbianas.
CBU: 1910027855002701341732
Numero de CC 191027013417/3
Da fuori dal paese:  paypal pcortesntref.edu.ar.
PER ULTERIORI INFORMAZIONI @presenteslatam instagram

Ascolta anche l’approfondimento radio: https://www.ondarossa.info/redazionali/2024/06/triplo-lesbicidio-e-sopravvissuta

BOLOGNA: SU RESISTENZA E REPRESSIONE AL PARCO DON BOSCO

Con un po’ di ritardo ma ancora attuali, riceviamo e diffondiamo queste riflessioni su resistenza e repressione al Parco Don Bosco.

Commento acido al video https://kolektiva.media/w/wYBrSUUKwcG7Fiod7rc5xa

La messa in sicurezza dei cantieri secondo le giunte di sinistra attraverso l’intervento di squadroni di speciali “sostituti tecnici” i quali strizzando le palle e tirando per le tette lavorano strenuamente quali difensori dell’ordine pubblico nonostante le fastidiose interruzioni del servizio da parte dell’inaudita violenza di pericolose frange antagoniste, la stessa “melassa” (o come viene identificata la galassia anarcoide) che pur girando disarmata ancora osa abitare / vivere / ripensare i quartieri dal basso, intromettendosi così in questioni lobbistiche, e ciò addirittura spaziando, come si faceva per le grandi opere, dalla stesura minuziosa di controperizie fino a ingiuriose minacce vandaliche. Per ovviare a questo senso di solidarietà tra generazioni non arrese ed al travalicare della precarietà dell’autogestione tanto da minare la tranquilla mafia degli appalti “metropolitanizzati”, va da sé che a chi protesta contro l’estensione di simili cantieri inutili e non voluti si dovranno accollare esarcerbanti minchiate penali che fungano da deterrente, non tanto delle sollevazioni ecologiste e lotte affini e storicamente intrecciate, ma, in primis, per continuare a disinnescare la coscienza critica dei lettori/elettori, o di quel che resterebbe della cosiddetta “massa popolare” secondo spazi e tempi di pianificazione economica che la vorrebbe silente, passiva, ..conforme. Invece, la comunità di quartiere – e non solo – che si è spontaneamente ritrovata a presidiare il Parco Don Bosco da gennaio, giorno e notte, lasciando qualche traccia più definita dei propri intenti come Comitato Besta, ha da offrire molto di più degli investitori stessi:

e proprio perché va dritta ai nostri cuori – oltre che abbracciando gli ultimi polmoni verdi rimasti – diviene l’ennesima esperienza non vendibile da abbattere senza badare a spese, onde evitare che riesca ad espandere la propria radicalità.

Non cambierà forse la percezione ormai normativizzata dunque, quella alla quale pur quando si riesca ad informarsi sul proprio contesto di vita e sulle prospettive rimaste, non rimangono appigli interpretativi ..se non il finire a recepire le vicende soltanto per il capovolgimento infame che ne fanno le pagine di giornale. Tuttavia, qualche ripresa degli accadimenti in certe situazioni di “scontro” secondo una prospettiva non mediata dagli interessi locali, la si ha da diffondere pure noi..! In questo caso, dall’estrapolato non retribuito si può osservare lo strattonamento di compagnx per tirarlx giù dagli alberi senza mezzi termini, appena arrivati gli esperti del manganello con gli operai, nonché lo sfilamento in altezza delle loro corde tramite motoseghe, il resto del tempo azionate tutti’intorno e nondimeno sotto i punti di imbragatura e appoggio dex compagnx…

[warning, disclaimer, wtf : la professionalità delle truppe da cantiere è tutta merito dell’attenta supervisione nei pestaggi di Marotta e delle promesse di un sindaco che quando ancora fingeva di volere essere conciliante con gli ultimi scorci di lotte ancora aperte già lavorava per conservare la linea del superamento a destra, la decennale politica delle ruspe in salsa bolognese. Ecco perché ci scappa della triste ironia: solo una supercazzola su simili muffe amministrative potrebbe rendere retta(l)mente la descrizione storica di cotanto impegno consiliare]. Ci si augura che certe scene possano smuovere qualcosa dentro.. eppure non dovrebbe essere così necessario documentare, tantomeno dover comprovare le distorsioni operate delle autorità nei confronti della nostra realtà quotidiana, per capire come si svolgono determinati processi urbanistici.

Ma per quanto servi e mandanti cerchino di trasformare molteplici approcci alla resistenza in “tentati delitti” pur di togliere presa all’autodeterminazione collettiva.. si può ancora scegliere da che parte stare.

#lovepeacefuckpolice (cit)

BOLOGNA: VIOLENZA POLIZIESCA IN QUESTURA

A seguito di un fermo di polizia, una giovane di Extinction Rebellion è stata tradotta in questura, e lì è stata fatta spogliare e costretta a fare dei piegamenti, completamente nuda, in un bagno fetido col pavimento ricoperto di sporcizia. Inoltre, sarebbe stato messo a verbale il suo rifiuto di farsi assistere da un avvocato durante la perquisizione, ma secondo la giovane tale domanda non le sarebbe mai stata rivolta. Gli altri attivisti, fermati dopo aver appeso su palazzo d’accursio uno striscione contro il G7, sono rimasti in stato di fermo per 7 ore senza cibo né acqua, infine sono stati rilasciati all’una di notte con denunce come “delitto tentato” o “violenza privata”.

Secondo gli sbirri “è prassi”, “una prassi che avrebbero dovuto applicare a tutti ma che, per gentilezza, sarebbe stata applicata a una sola persona”.

La conosciamo bene la loro prassi fatta di abusi, torture e umiliazioni nelle questure, nelle caserme, nelle celle delle carceri, per le strade. Quella prassi che fa morire persone a forza di botte e colpi di manganello.

Oggi come sempre
Sappiamo chi è STATO

BOLOGNA: LA SOLIDARIETÀ È LA NOSTRA ARMA

Riceviamo e diffondiamo:

A seguito delle misure cautelari per 3 compagne/i, indagate/i per i fatti verificatisi a Bologna lo scorso inverno all’interno della campagna in solidarietà ad Alfredo contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo, il 26 maggio abbiamo chiamato un momento di confronto.
A partire dalla presentazione della rivista Lahar, abbiamo cercato di coinvolgere quanti, negli ultimi tempi in questa città, si sono spesi in percorsi di lotta e resistenza, convinte/i che la repressione che colpisce le/gli anarchiche/i debba essere letta, ora più che mai, nel contesto di guerra e ristrutturazione generale che caratterizza il nostro presente.
Quello che segue è il contributo al dibattito di una nostra compagna che abbiamo voluto condividere perchè nella sua semplicità ci è sembrato puntuale e prezioso.

Ciao a tutte e tutti,
colgo l’occasione di questa interessante e spero partecipata iniziativa per portare due riflessioni. Ve le faccio arrivare in forma scritta non potendo esserci fisicamente.
Credo che momenti di discussione e confronto come questi siano preziosi: nella società del tutto-subito, tutto-virtuale le occasioni di dibattito faccia a faccia sono importanti baluardi da preservare e curare. Nessuna prospettiva di lotta e resistenza può prescindere dal ragionamento, dal confronto. Probabilmente le persone che oggi si trovano a discutere sono molto diverse tra loro e hanno percorso strade di lotta differenti nei metodi e nei contenuti. Ci sarà chi l’anno scorso ha partecipato attivamente alla mobilitazione a fianco di Alfredo contro 41 bis ed ergastolo ostativo, ci saranno le vecchie cariatidi anarchiche del Tribolo, le compagne di Napoli, chi porta avanti la lotta in difesa del Parco Don Bosco, i giovani palestinesi e chissà chi altro. E in effetti l’interrogativo puntuale racchiuso nella chiamata di questa iniziativa è: cosa c’entrano l’una con l’altra tutte queste esperienze? Questi vissuti di lotta anche distanti tra loro per certi aspetti spazio-temporali?
Io vedo due risposte a questa domanda, come due facce della stessa medaglia. La repressione, da un lato; la solidarietà dall’altro. A furia di usarli i termini perdono il loro significato, proviamo a ridarglielo. Repressione non è un sinonimo di depressione, non vuol dire che unx compagnx ha perso la motivazione nella lotta che portava avanti e ha mollato il colpo: è tanto la violenza concreta di chi porta una divisa (botte, taser e cariche) quanto il frutto di un’accurata scelta da parte di organi di polizia e magistratura di mettere fuorigioco –spesso preventivamente- individui o gruppi che portano avanti delle lotte; l’aspetto preventivo è assolutamente centrale, soprattutto quando a livello sociale ribollono malcontento e consapevolezza in mezzo a fiumi di indifferenza ed egoismo. È lì che lo Stato ha paura e interviene per confinare la libertà di coloro che potrebbero creare dei collanti sociali tra frustrazione-indignazione-lotta, mettere in evidenza con la teoria e la pratica dei nessi causali e la potenza dell’azione dal basso collettiva o individuale come strategia di resistenza e attacco. E lo fa quando si verificano delle condizioni sociali che potrebbero risvegliare le coscienze delle masse dal loro torpore (epidemie, guerre, gisto per citare due esempi). Non a caso è ciò che in questi mesi sta avvenendo in modo subdolo ma lampante, ora che gli stati occidentali si stanno adoperando nel genocidio del popolo palestinese: consentire che a Gaza avvenga lo sterminio di una popolazione passa anche attraverso la messa a tacere delle voci dissenzienti e delle azioni di lotta a fianco della resistenza palestinese nei paesi occidentali, dalle strade, ai porti alle università. Passa tanto dalle collaborazioni di aziende e università occidentali con lo stato sionista, tanto quanto dalla messa fuorigioco delle componenti sociali non irrigimentabili, chi per coscienza politica, chi per condizioni socio-economiche, chi per per provenienza (come è stato per Ali, Anan e Mansour). La guerra non è un episodio, ma una fase storica e in questa fase ci siamo immersi fino alla gola, anche se gli spari e le bombe non cadono sulle nostre teste. L’anno scorso in tanti e tante abbiamo portato avanti una lunga e determinata mobilitazione a fianco del compagno anarchico Alfredo Cospito, detenuto in regime di 41bis. Alfredo e il regime in cui l’hanno voluto seppellire sono l’esempio lampante della volontà e della possibilità dello Stato di usare la repressione come bavaglio. Ciò che ha sempre spaventato sbirri, magistrati e giudici di Alfredo è la forza delle sue idee. Meglio tombarlo vivo affinché esse restino tra quattro spesse mura, soprattutto ora che potrebbero trovare tante orecchie in ascolto e tanti cuori capaci di comprenderne la forza rivoluzionaria, a fronte del massacro di migliaia di civili per mano degli stati in guerra.
Ecco cosa c’entrano le nostre esperienze.
Ed ecco perché la solidarietà è l’altra faccia della medaglia, l’altro aspetto che ci unisce, anche se non ci conosciamo o frequentiamo strade di lotta apparentemente distanti. Lottare è avere una nobilissima ragione di vita. È rifiutare la rassegnazione di una vita che ci vorrebbe grigi dentro e fuori, frustrati e stanchi, arrabbiati e incapaci di amare profondamente la vita. Invece lottare per una ragione, per un’idea pur utopica che sia, è qualcosa di impagabile. E non essendo la lotta un’opinione, ma un fatto, spesso molto concreto, porta con sé delle conseguenze che talvolta ci allontanano dai nostri affetti, dai nostri compagni e compagne. Se è vero che la lotta paga, è anche vero che ogni tanto te la fanno pagare! E la solidarietà è quel motore che ci tiene insieme. E che fa sì che anche se non conosciamo Alì, Mansour e Anan, possiamo sentirne il cuore battere, così come quello di Alfredo, Anna, Juan, Stecco, Nasci e di tutte le nostre compagne e compagni privati della libertà.
Chiudo riprendendo una frase lapidaria con cui Luigi, un ragazzo di Palermo in carcere con l’accusa di aver lanciato una molotov contro la sede di Leonardo (fabbrica di morte), ha chiuso una sua lettera: non facciamoci distrarre dalla repressione. E aggiungo: se ora non lottiamo contro questo sistema mondiale di guerra ne andrà della libertà di tutti e tutte.
La solidarietà è la nostra arma, suonerà un po’ retrò, ma d’altronde faccio parte delle vecchie cariatidi anarchiche bolognesi!
Un abbraccio e buona discussione. Elena

BOLOGNA: CHI SI ARMA POI FA LA GUERRA

Diffondiamo:

Le guerre partono anche da qua, ragioniamo assieme su come contrastarle!
Esistono aziende e complicità sul territorio con chi finanzia stermini e genocidi, confrontiamoci per organizzare assieme una biciclettata contro chi arma la guerra, martedì 4 giugno alle 20 al Tribolo, in via Donato Creti 69/2 a Bologna.

“L’unica catena giusta è quella della bici”

ROMA: SULLO SGOMBERO DI TORRE MAURA OCCUPATA

Diffondiamo:

de SUPPOSTE e de MATTONI

Martedì 7 maggio 2O24 lo spazio occupato in via delle Averle nel quartiere Torre Maura, da più di 32 anni autogestito,è stato sgomberato con un blitz poliziesco alle 6 del mattino.
Mobilitati un centinaio di agenti di polizia di stato, affiancati da vigili del fuoco e municipale, hanno proceduto allo scasso del cancello d’entrata, dopo aver prima rimosso i cassonetti e poi le auto nei parcheggi adiacenti, per fare spazio a blindati e mezzi dell’impresa edile che successivamente ha murato ogni possibile accesso.
La casa è stata quindi invasa minacciando e trascinando fuori due persone che al momento si trovavano all’interno.
Durante tutta la giornata, grande è stata la vicinanza dei solidali che spontaneamente sono arrivati numerosi sul posto mossi dal comune sentimento per la difesa degli spazi di libertà’.
Torre Maura Occupata è sempre stata punto di riferimento senza gerarchie né confini: da Centro Sociale ad Ateneo Libertario a Casa Collettiva. Uno spazio di confronto e condivisione di conoscenze e attività senza finalità di profitto: palestra, sala prove, erboristeria, serigrafia, biblioteca e gran bazar der raccatto/dono, a disposizione di chiunque secondo i propri bisogni, contro spreco e consumismo.
Quindi un luogo di resistenza all’avanzare di un sistema omologante e intollerante verso chi risulti inadattabile ai suoi criteri.
Una storia di lotta ad ogni tipo di sopraffazione senza compromessi, per la Liberazione Animale e della Terra, contro nucleare ed ogni nocività, per la distruzione di ogni forma di dominio, controllo e coercizione: dal carcere alla psichiatria ai centri di detenzione per migranti.
La Narrazione di potere intenzionalmente occulta e mistifica la complessità di esperienze come questa, significativamente e veracemente anomale nella società dello spettacolo, esultando per la restaurata legalità e il trionfo dello Stato!
Questa operazione mascherata da pubblico interesse con supposte finalità sanitarie, oltre ad essere una vendetta del mini(sindaco) fascista nei confronti dello spazio da sempre
antiautoritario, e già in passato sotto attacco da sinistri rappresentanti locali, corrisponde alla solita strategia speculativa per la quale la miseria non può che dilagare, creando nuovi nemici per distogliere lo sguardo dai reali responsabili di povertà, guerre e discriminazioni di ogni tipo.

MA KE DAVERO
ci si lascia ancora abbindolare da questa trita propaganda mediatica e dalle promesse elettorali?

MADDECHÉ !!!

NÉ SUPPOSTA NÉ MATTONE,
SENZA SERVI NESSUN PADRONE!
SEMPRE PADRONI di NULLA PEDONI di NESSUNO
PER L’AUTOGESTIONE OVUNQUE … VERSO L’ANARCHIA!

TORREMAURA SGOMBERATA MA MAI DOMA !

BOLOGNA:  CONTRO GALERE E CPR, JONATHAN LIBERO, TUTTX LIBERX

Bologna 40127 – Ponte di San Donnino
Fuoco ai CPR

Riceviamo e diffondiamo:

Negli scorsi giorni, in San Donato, è avvenuto un fatto gravissimo, l’ennesimo atto di repressione e abuso da parte della polizia e degli apparati di potere: forme di violenza in divisa che negli ultimi mesi si stanno moltiplicando nel quartiere.
A dicembre ci manganellavano davanti alla sede della RAI, proprio sotto i palazzi della Regione Emilia-Romagna, mentre si protestava contro la complicità dello stato e dei mezzi di comunicazione governativi con il genocidio in corso a Gaza. Ad aprile invece provavano a sgomberare il presidio resistente del parco Don Bosco: quel giorno siamo riusciti ad allontanare le divise, ma al prezzo di decine e decine di feritx, 7 alberi del parco e un arresto violentissimo due giorni più tardi, proprio dentro al parco, che oltretutto ha visto l’utilizzo di taser, per la prima volta usato in Italia contro qualcunx del movimento.
Oggi invece hanno deciso di colpire Jonny, un ragazzo che è cresciuto in San Donato, dove vive, e che ha attraversato il quartiere fin da bambino. Lì si trova la sua famiglia, lx amicx, la casa.
Dopo essere stato fermato in via Andreini per un controllo di routine, Jonny è stato portato con l’inganno in questura per “accertamenti”. Qui è stato trattenuto due giorni in una cella senza cibo e acqua, fino a sabato, giorno in cui è stato trasferito in fretta e furia nel CPR di Via Corelli a Milano in attesa della decisione sul suo espatrio, udienza prevista per martedì 28. Un ragazzo che ha costruito a Bologna tutta la sua vita, i suoi affetti e i suoi ricordi, è stato preso a forza dai Carabinieri e dal mattino alla sera rischia di essere espatriato a Cuba, senza possibilità di vedere la sua famiglia, lx sux amicx, anche solo prendere i suoi oggetti personali.
Tutto questo in vista delle elezioni europee dove il governo Meloni vuole portare la sua politica razzista, omofoba e militarista in un’Europa che sembra sentirsi sempre più vicina a questi ideali.
Ribadiamo che un pezzo di carta non può determinare le nostre vite, che è inaccettabile che per mancanza di quest’ultimo la vita di un ragazzo possa essere stravolta per la decisione arbitraria di uno stato che determina come e dove dobbiamo esistere. Se questo è quanto, allora Noi non riconosciamo questo stato.

Al fianco di un amico che ha attraversato e che vuole continuare ad attraversare le strade del suo quartiere.

Fuoco a Frontiere e CPR.
Tuttx Liberx.⁩

BOLOGNA: LA LIBERTÀ NON SI MISURA

Aggiornamenti:

Lunedì 20 maggio a Bologna si sono tenute presso il Tribunale delle Libertà sia l’udienza di riesame per chiedere la revoca/attenuazione delle misure sia l’udienza d’appello con cui la PM chiedeva il riconoscimento dell’aggravante per 270bis per i reati contestati e il conseguente aggravamento (arresti domiciliari) delle misure cautelari a cui attualmente sono sottopostx 3 compagnx a seguito delle indagini aperte relative ad episodi avvenuti in territorio bolognese durante la mobilitazione in solidarietà ad Alfredo Cospito in sciopero della fame contro il 41bis e l’ergastolo ostativo.

Né il riesame né l’appello sono stati accolti, confermando le misure ax 3 compagnx: per 2 compagnx obbligo di firma, per una compagna obbligo di dimora con rientro notturno e obbligo di firma.

TUTTA LA NOSTRA SOLIDARIETÀ E COMPLICITÀ AX COMPAGNX COLPITX.

ALFREDO LIBERO!
41BIS È TORTURA!
CHE DELLE GALERE RIMANGANO SOLO MACERIE.

TORINO: ALLA REPRESSIONE SI RISPONDE CON LA LOTTA [CORTEO 2 GIUGNO]

Dall’assemblea torinese contro il carcere e il 41 bis alcune riflessioni  a seguito dell’operazione city, per rilanciare il corteo del 2 giugno:

Il corteo del 2 giugno prossimo è una prima risposta all’operazione repressiva denominata “City” che ha colpito alcunx compagnx in merito ai fatti del 4 marzo 2023 a Torino. Pochi giorni prima di quella data, una sentenza di Cassazione che aveva stabilito la permanenza in 41bis del nostro compagno Alfredo Cospito pareva sancire la sua condanna a morte, dopo sei mesi di sciopero della fame. In quella giornata le strade della città sono state percorse dalla nostra rabbia e dalla nostra determinazione.

L’operazione della procura di Torino aspira in modo evidente a estendere il reato di devastazione e saccheggio a tutte le persone presenti, con l’implicito “Se eri lì, sei complice!”. L’intenzione è ovviamente quella di dividere e scoraggiare la partecipazione a future iniziative di piazza che prevedano di mettere in campo quelle pratiche conflittuali che da sempre sono patrimonio del movimento, nel tentativo di annullare i momenti in cui rabbia, lotta e istanze sociali si mischiano e rafforzano reciprocamente. Del resto, è risaputo che la repressione agisce anche cercando di spezzare i legami solidali tra le diverse sensibilità, con la chiara volontà di disincentivare la partecipazione e isolare per meglio colpire. Rendere inoffensivi gli attivisti, scoraggiare gli indecisi, criminalizzare idee e pratiche di scontro con lo Stato e il Capitale: ecco la ricetta per disinnescare il potenziale conflitto sociale in un momento in cui le contraddizioni generate – crisi, guerre e devastazione ambientale – pongono il sistema in una palese condizione di precarietà.

Cucendo l’abito del nemico pubblico addosso a chi si oppone con determinazione e criminalizzando chi non tace, anche con questa azione repressiva si tenta di evitare la contaminazione tra le varie modalità e istanze di lotta. Se infatti tra le cause dell’estendersi delle condizioni di oppressione c’è anche la nostra attuale incapacità di mettere in campo rapporti di forza favorevoli, è vitale per l’apparato poliziesco e repressivo inasprire l’attacco generalizzato alle classi approfittando delle loro separazioni e antagonismi, al fine del mantenimento dell’attuale sistema di sfruttamento e disciplinamento totale.

L’intenzione di questa chiamata per una piazza nazionale a Torino proprio il giorno della “Festa della Repubblica” è quella di rilanciare un momento di strada che materializzi il senso del corteo di un anno fa, e della repressione che lo ha seguito, nel contesto dove quello si è dato e questa si sta dando. Vogliamo inquadrarlo nella complessità di una società stretta nella morsa di una retorica bellica che, mentre normalizza un genocidio algoritmico mandandolo in mondovisione, produce un discorso martellante sul nemico interno identificato non solo in chi lotta, disobbedisce e diserta, ma anche in coloro che abitano le oppressioni strutturali del capitalismo odierno, dove la detenzione amministrativa e penale si inserisce come tassello disciplinante diventando l’unico orizzonte di chi non può, o non vuole, sottostare a imposizioni sempre più stringenti.
Il sistema punitivo statale italiano vede la sua massima espressione nel regime di 41bis e nell’ergastolo ostativo, ma la macchina repressiva e detentiva si articola in forme molteplici, più o meno subdole, con l’identico fine persecutorio; e anche recentemente si è visto come ad esempio i CPR si pongano alla confluenza di molte tipologie di oppressione: usati come monito per i liberi, minaccia nei contesti lavorativi e ricatto in quelli di lotta, questi luoghi di invisibilizzazione per eccellenza ci mostrano continuamente quante forme possa assumere la brutalità dello Stato. Quando questa viene sconfitta non lo si deve certo ai commissariamenti della magistratura o alle preghiere riformiste (a volte avanzate perfino da chi quei luoghi li ha istituiti), bensì, sempre, alla rivolta e al fuoco dei ribelli.
Con questo spirito siamo scesi più volte in strada, e lo abbiamo fatto anche il 4 marzo.

E se quelle giornate sono riuscite a rompere il muro del silenzio riguardo a un circuito di tortura “bianca” in Italia e a mettere in evidenza come e quanto i tribunali applichino la vendetta dello Stato contro i suoi nemici interni, al di là di ogni fantasticheria sul diritto, lo sappiamo, la partita è ancora aperta. Non solo perché questo regime carcerario di tortura si sta palesando come strumento nelle mani della DNAA (Direzione Nazionale Antimafia-Antiterrorismo) come modello di repressione a monito di tutti i rivoltosi, ma anche perché questo regime è un dispositivo di guerra, e sarà ancora molto utile, contro il nemico interno, in questi tempi di guerra.

Negli ultimi due anni la guerra guerreggiata è alle porte. Dalle periferie del mondo occidentale, è dilagata avvicinandosi sempre di più alla fortezza Europa. Il controllo sui territori diventa serrato, militari e sbirri pattugliano ogni angolo, chi vive e attraversa i quartieri interessati da questa incessante militarizzazione rischia quotidianamente di finire dentro una galera o un CPR.

Ma quando inizia la guerra? Chi decide quando questa comincia? Inizia veramente, nel caso europeo, fuori dai confini dell’Unione? O è la stessa organizzazione sociale, anche in tempi che vengono descritti come tempi di pace, a incarnarla, alternando momenti più o meno feroci? L’Italia e l’UE si trovano di fatto in guerra. Da un lato sostengono il settore militare israeliano, come dimostrano i dati relativi all’invio di armi e munizioni verso Israele dell’ultimo trimestre del 2023, per un valore pari a 2,1 milioni di euro. Dall’altro, fin dai primi giorni del genocidio in Palestina, l’Italia ha trasformato la stazione aeronavale di Sigonella in Sicilia in una base di appoggio per gli aerei spia e per quelli che trasportano armi, e ha trasferito diverse unità navali nel mare di fronte a Gaza. Inoltre, dal 5 marzo 2024 ha ufficialmente preso parte alla missione “Aspides” nel Mar Rosso, a difesa del commercio internazionale, contro i ribelli Houthi e le azioni di sabotaggio da loro messe in campo contro le navi israeliane a sostegno della
resistenza a Gaza.

I media nostrani hanno invece costruito l’idea di questo possibile inizio, questo emergere della prossimità bellica, datandolo all’azione russa del febbraio 2022 e il suo allargamento a partire dalla responsabilità di Hamas (e indirettamente dell’Iran) del 7 ottobre 2023. Questa visione non è solo faziosa e non si limita a scaricare la responsabilità bellica sulla controparte, retorica più che scontata da parte di ogni Stato, ma soprattutto è inaccettabile perché mette in campo l’idea che tutto si giochi sul piano geopolitico. Se invece dobbiamo ravvisare un periodo in cui alcune istanze della società-guerra si sono violentemente palesate e possono essere considerate gli antefatti di questo ultimo biennio, dovremmo tornare agli attentati parigini del 13 novembre 2015 che hanno portato in Francia, e in tutta l’Europa occidentale, un susseguirsi di normative sull’ordine pubblico che hanno segnato un punto di svolta della militarizzazione interna e
delle politiche di controllo sociale. Ci pare evidente che non esiste un’anormalità da una lato, la guerra come eccezione, e una normalità, la politica, dall’altro. Non è facile capire cosa sia realmente la guerra oggi, visto il proliferare nel nuovo millennio di nomenclature come “guerra ibrida”, “guerra infinita”, “guerra mondiale a pezzi”, ma quello che possiamo affermare con certezza è che siamo entrati in un periodo in cui si è ben oltre la militarizzazione degli spazi pubblici, fisici o simbolici che siano. L’economia di guerra e il richiamo alle esigenze di arruolamento paventati senza mezzi termini dai governanti, il potenziamento del riarmo industriale, la stretta su qualunque tipo di opposizione, la censura attraverso i mezzi di comunicazione tradizionali e social, evidenziano il processo di mobilitazione delle società verso la guerra che gli stati europei hanno innescato come ormai unico mezzo per dirimere il ginepraio delle politiche neoliberali, la corsa all’accaparramento delle risorse naturali e la gestione degli esseri umani considerati come mera eccedenza, anche all’interno del territorio UE.

Se questo è quanto sta succedendo in Europa, quello che sta succedendo nell’altrove guerreggiato ci parla di centinaia di migliaia di morti, di persone mandate al macello sull’altare del profitto e dell’accaparramento. La guerra là è più feroce, senza limiti, ma ha gli stessi scopi di quella non guerreggiata qua. La guerra asimmetrica che lo stato di Israele sta conducendo dal 7 ottobre contro Gaza ne è summa ed esempio: la migliore democrazia in tempi bellici, un modello per gli altri stati. In un connubio fra high tech e sterminio, rimozione della memoria e costruzione di una sempre nuova narrazione della storia, laboratorio a cielo aperto di meccanismi sociali. Lo stato di Israele rappresenta sicuramente la migliore risposta alle necessità di una società in guerra.

Ma proprio partendo dal modello perfetto di Israele e dalla resistenza palestinese possiamo iniziare a pensare che questo sistema possa essere
disarticolato. Israele per continuare a mantenersi in vita ha bisogno di spietate complicità e collaborazioni che attraversano il capitale in ogni sua
forma: i luoghi di lavoro, della cultura e della formazione. Le atrocità che stanno avvenendo a Gaza sono possibili grazie al contesto geopolitico strutturato dall’Occidente fin dall’avvento degli stati-nazione: secoli di colonialismo di insediamento, accordi e collaborazioni occidentali che hanno permesso il massacro di chi in quei territori ha sempre vissuto. Un esempio per tutti sono le università, che rappresentano uno strumento di normalizzazione, legittimazione e complicità rispetto al genocidio in corso a Gaza, oltre che del colonialismo di insediamento e della pulizia etnica perpetrata da Israele ai danni del popolo palestinese da più di 75 anni. Attraverso accordi e partnership, vengono sviluppate tecnologie belliche e securocratiche che prima vengono testate sulla pelle del popolo palestinese e poi riversate nel mercato globale, per essere usate contro il nemico interno ed esterno. Attraverso accordi e collaborazioni con l’università, aziende belliche come Leonardo, Thales-Alenia o Elbit, si stanno espandendo, generando nuovo profitto garantito dall’utilizzo di infrastrutture pubbliche e conoscenze del mondo universitario: ostacolare il loro ingresso e la loro normalizzazione contrattuale significa evidentemente opporsi alla militarizzazione sempre più pervasiva della nostra società e può proporsi come una delle modalità effettive di resistenza alla guerra totale che questo sistema genera e alimenta.

Ma per mettere in atto questa resistenza, e perché sia possibile condurla ancora a lungo, per affrontare la lotta contro la generale oppressione di classe e razza, di cui la repressione rappresenta un aspetto, dobbiamo costruire la solidarietà più larga e duratura possibile intorno a chi viene colpito.

Le forme di ribellione e lotta che si danno dentro le prigioni a cielo aperto e in quelle chiuse delle mura sono una testimonianza importante che non solo disvela le efferatezze dello Stato e la brutalità della sua violenza, ma rilancia il coraggio di chi, stretto nella morsa più asfissiante e totalizzante del potere coercitivo, ricorda ai liberi il coraggio della rivolta.

Per la creazione di complicità tra chi viene colpito dalla violenza di Stato e Capitale. Per rivendicare la presenza auto-organizzata in strada. Per ribadire che la risposta alla repressione è continuare la lotta!⁩