PERCHÈ CI SCUSIAMO CONTINUAMENTE PARLANDO DI AZIONI E PRATICHE “NONVIOLENTE”, QUANDO È LO STATO CHE ESERCITA LA VIOLENZA IN FORMA SISTEMATICA SU DI NOI?

Traduciamo e diffondiamo (da Bella Praxis)

Perché ci scusiamo continuamente parlando di azioni e pratiche “non-violente”, quando è lo Stato che esercita la violenza in forma sistematica su di noi?

Da qualche tempo a questa parte, la ripetizione da parte dei mass-media di termini come “terrorismo” o “violenti” è riuscita a farci mettere al centro del dibattito l’uso della (non)violenza. Come se dovessimo dissociarci da qualcosa che praticamente non esiste, e quando si manifesta, lo fa a livelli bassissimi e in forma quasi aneddotica.

In questo modo, contribuiamo a generare un discorso contro l’autodifesa, dando per scontata l’idea secondo cui tutte le violenze sono uguali e cadendo in semplicismi del tipo “se rispondi, sei come loro” o “se rispondi, passi dalla parte del torto”, senza analizzare da dove viene quella violenza né verso dove è diretta.

Perché, cos’è la violenza? Senza dubbio, è un concetto difficile da definire. Potremmo dire che è ciò che non rientra dentro il socialmente accettato o dentro il “senso comune” (il quale cambia secondo i luoghi e i tempi). Gettare vernice lavabile su un vetro è violenza? Che il diritto alla casa sia una mera illusione per la maggior parte della popolazione è violenza?

Il controllo e la pacificazione della società crescono ogni giorno di più. Ci trasforma in persone incapaci di agire da sole di fronte a qualsiasi tipo di conflitto, lasciando in mani altrui le nostre vite.

Per questo, crediamo che quando la violenza viene esercitata sistematicamente dall’alto verso il basso, l’autodifesa non solo è legittima, ma è anche una responsabilità collettiva, perché non rispondere alle loro violenze significa permetterle, ignorarle e perpetuare l’oppressione sui più deboli.

Così, potremmo dire che, molte volte, decidere di rispondere o meno è una questione legata al privilegio che dipende dal livello di violenza che si subisce. Siamo consapevoli, d’altra parte, che il livello di coinvolgimento e di risposta, così come la situazione e le condizioni di ogni persona, sono diversi e non devono essere sottovalutati.

Un’altra questione sarebbe il dibattito su quando l’autodifesa può esserci utile o meno a livello strategico, tenendo conto di tutte le sue conseguenze. Ma quello che qui vogliamo affrontare è l’opzione di poter proporre l’autodifesa come strumento legittimo, nonostante non sia una cosa bella o facile da fare per nessuno e comporti giocare d’azzardo con la repressione, o possa non essere vista di buon occhio dalla maggior parte della società.

Sembra che il mantra del “non serve a niente” vada di moda. Sarebbe assurdo ignorare come la risposta attiva sia stata decisiva nel corso della storia in termini di cambiamenti e conquiste sociali. I potenti cedono solo quando vedono vacillare i loro privilegi; senza una vera pressione, il potere rimane statico. Perlomeno, forse è giunto il momento di essere solidali con coloro che “stanno al gioco” e di smettere di puntare il dito e criminalizzare lx nostrx compagnx.

Yesenia Zamudio ha riassunto bene queste idee: “Chi vuole rompere, che rompa, chi vuole bruciare, che bruci, e chi non vuole, deve stare fuori dai piedi”. In un mondo ingiusto e diseguale, dove la pace non esiste, saranno sempre le stesse persone a subire questa violenza?